(Servo)
Il termine fa riferimento alla radice trilittera ‘-b-d e si riferisce alla qualificazione essenzialmente servile della creatura che, in quanto tale, trova la sua ragion d’essere nell’adorazione e nel riconoscimento del suo Creatore e Signore.
La natura del servizio (‘ubūdiyya) dell’uomo nei confronti di Dio è tale che in esso si nasconde il segreto di tutta la sua esistenza (sirr al-wujūd). È per questo motivo che, nel Corano, si dice con chiarezza nella sūra al-Dhāriyyāt (LI, 56): “Non ho creato i jinn e gli uomini se non perché Mi adorassero”. Il fatto che i jinn precedano gli uomini nel versetto può ascriversi al fatto che l’adorazione di questi è invisibile agli occhi, appartenendo alla dimensione sottile della manifestazione, e dunque, contrariamente a quella degli uomini, non è macchiata da ipocrisia. Una deriva che sempre si insinua persino nel pilastro dell’adorazione per eccellenza, ovvero nella preghiera (Corano, CVII, al-Mā‘ūn, 4-6): “Guai a coloro che pregano e sono distratti nelle loro preghiere e a coloro che pregano solo per ostentazione”4.
È ad Ibn ‘Abbās5 che si può fare risalire l’interpretazione di questo versetto secondo la quale l’atto di adorazione può essere inteso come atto di conoscenza del proprio Signore (li-ya‘budūnī ya‘nī li-ya‘rufūnī)6. Se l’adorazione è una forma di conoscenza, anzi la forma di conoscenza per eccellenza (ovvero quella ma‘rifa che rappresenta l’accesso immediato, non mediato, alla Verità), essa rivela, nell’assoluta inanità del servo, la Gloria e la Grazia immensa del suo Signore. È esattamente a questo che fa riferimento il detto: man ‘arafa nafsahu ‘arafa Rabbahu (“Chi conosce se stesso, conosce il suo Signore”)7.
La conoscenza dei propri attributi rivela all’uomo la sua insussistenza e la sua insufficienza, così come rivela, al contrario, la perenne autosufficienza del Signore: “O uomini, voi siete privi di tutto rispetto ad Allāh e Allāh è Colui che non ha bisogno di nulla, il degno di lode” (Corano, XXXV, al-Fāṭir,15).
Lo Shaykh Sīdī Muḥammad al-Muṣṭafā Baṣṣīr ha indicato in questa dinamica il momento culminante di una sapienza divina profonda, che rivela se stessa proprio in ciò che manca alla creatura la quale si conosce (quando si conosce) in un grado di reciprocità apparente destinato a manifestare, nel gioco dei contrari, Colui che realmente è rispetto a colui che meramente esiste. Così, la notte (laylā) conosce il giorno (nahār) e il giorno conosce la notte; la salute (ṣiḥḥa) conosce la malattia (marḍ) e la malattia conosce la salute; il sonno (nawm) conosce la veglia (yaqẓa) e la veglia conosce il sonno; la fame (masghaba) conosce la sazietà (shab‘) e la sazietà conosce la fame; il dissetare (riyy) conosce la sete (‘aṭash) e la sete conosce il dissetarsi.
Chi conosce se stesso così com’è [limitato], conosce il suo Signore così com’è [senza limiti]: Allāh l’Altissimo non è colto dalle cose vane ed Egli non può essere in nulla limitato da esse. Egli è il Sottile, il Compenetrante (al-Laṭīf) e Il Beneinformato (al-Khabīr)8.
Il segreto di ciò sta nel fatto che Dio si è manifestato sapendo che questo avvenimento non avrebbe potuto aggiungere o togliere nulla a Se stesso: “Non chiedo loro nessun sostentamento e non chiedo che Mi nutrano. In verità Allāh è il Sostentatore, il Detentore della forza, l’Irremovibile”. (Corano, LI, al-Dhāriyāt, 57-58).
Allora, ciò è avvenuto solo per Misericordia e per Amore, come indica un ḥadīth qudsī molto noto, citato, tra gli altri, dal più “grande dei Maestri” (al-shaykh al-akbar, come lo definisce il suo celebre laqab, insieme all’altro: muḥyī l-dīn, ovvero il “vivificatore della religione”), Ibn ‘Arabī (m. 1265): Kuntu kanzan makhfiyyan fa-aḥbabtuhu an u‘rafa fa khalaqtu l-khalq (“Ero un tesoro nascosto e ho amato essere conosciuto e così ho creato la creazione”)9.
Questo movimento d’amore che è alla base del ḥadīth sfugge alla possibilità di una scansione verificabile cronologicamente10, ed è forse percepibile esclusivamente nella misura della gratuità che regola l’amore di Allāh nei confronti delle Sue creature e, ancor di più, dovrebbe regolare la gratuità del servizio della creatura nei confronti del suo Creatore:
Chi Lo serve per ciò che spera da Lui o per evitare, con la sua ubbidienza, il sopraggiungere del castigo che viene da Lui, non rende giustizia ai Suoi attributi.11
Lo statuto della servitù nei confronti di Dio, riveste una funzione apicale per il grado di realizzazione cui l’uomo può aspirare. È per tale ragione che è in uso presso la Umma, l’abitudine di assegnare ai nascituri un nome che sia composto dal lemma che indica la servitù creaturale (‘abd) e uno dei novantanove bellissimi nomi di Allāh: ‘Abd al-Raḥmān, ‘Abd al-Raḥīm, ‘Abd al-Malik ecc.
È altresì evidente come, nel rievocare l’ascensione notturna, nel Corano si faccia riferimento a Muḥammad con un termine riferito non già alla sua missione di Profeta (nabī) o di Inviato (rasūl), né il suo grado di elezione (muṣṭafā), ma il suo essere per l’appunto, eminentemente, un servo perfetto:
Gloria a Colui che di notte trasportò il Suo servo (bi ‘abdi-Hi) dalla Santa Moschea alla Moschea remota (Corano, XVII, al-Isrā’, 1)
… finché fu alla distanza di due archi o anche meno; rivelò allora al Suo servo quel che rivelò (Corano LIII, al-Najm, 9-10).
La Luce di Muḥammad (Nūr Muḥammadī) ha manifestato dunque la condizione della pura servitù. Realizzare che si è ontologicamente servi (‘ibād) equivale a realizzare chi è il Signore. La creazione della creatura non viene ad aggiungere o a togliere nulla alla Realtà divina. Non vi è un servo che debba unirsi a Dio dopo esserne stato separato, poiché non vi è nient’altro nell’ordine dell’Essere che Dio stesso. La conformità all’esempio muḥammadiano implica l’accettazione della pura servitù (‘ubūdiyya) e il riconoscimento della servitù radicale della creatura, e, infine, la conoscenza di tutto quello che possiamo conoscere di Dio. Comprendendo che la nostra essenza (‘ayn) trae esistenza dall’Essere unico, si testimonia che solo Dio è veramente e tutte le cose sussistono in Lui.
4 Per quanto riguarda il Libro sacro, esistono ormai diverse traduzioni in italiano. Abbiamo ritenuto di suggerire, con tutta l’umiltà del caso, una nostra traduzione, confrontandoci in particolare, tra le altre edizioni italofone, con Il Corano, a cura di Alberto Ventura, traduzione di Ida Zilio-Grandi, commenti di Alberto Ventura, Mohyddin Yahia, Ida Zilio-Grandi e Mohammad Ali Amir-Moezzi, Mondadori, Milano, 2010.
5 ‘Abd Allāh Ibn ‘Abbās (Medina, 618 o 619 – Ṭā’if, 687 o 688), cugino paterno del Profeta Muḥammad, riconosciuto da quest’ultimo come tarjumān al-Qur’ān, interprete per eccellenza del Corano.
6 Francesco Chiabotti, risalendo alla medesima fonte di Ibn ‘Abbās, mette in evidenza il passaggio attraverso la testimonianza di Ja‘far al-Ṣādiq: “Qurṭubī (m. 671/1272) attribuisce questa interpretazione a Mujāhid (m. attorno al 100/718-104/722), discepolo di Ibn ‘Abbās (m. 68/687-8), primo esegeta dell’Islam (Al-Qurṭubī, Al-Jāmi‘ li aḥkām al-Qur’ān, vol. 17, Cairo, 1965, p. 55)”: F. Chiabotti, Dottrina, pratica e realizzazione dei nomi divini nell’opera di ‘Abd al-Karîm al-Qushayrî (376-465/986-1072) in AA. VV., La preghiera come tecnica. Una prospettiva orientale, Divus Thomas, 58, Bologna 2009, p. 69 n.
7 “Se [l’uomo] giunge a penetrare fino al centro del suo essere, raggiunge perciò stesso la conoscenza totale, con tutto quello che essa implica […] e conosce allora tutte le cose nella suprema unità del Principio, fuori del quale non vi è nulla che possa avere il minimo grado di realtà” (R. Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici, Edizioni Mediterranee, Roma, 1987, p. 105).
8 Si tratta di una modalità di intellezione della realtà tipica dell’insegnamento dello Shaykh Moulay al-‘Arabī al-Darqāwī (1760-1823), che in una sua lettera così si esprime: “Le cose sono indubitabilmente nascoste nei loro contrari, il profitto nella perdita, il dono nel rifiuto, l’onore nell’umiliazione, la ricchezza nell’indigenza, la forza nella debolezza, l’ampiezza nella strettezza, l’elevazione nell’abbassamento, la vita nella morte, la vittoria nella sconfitta, la potenza nell’impotenza, e così via. Se qualcuno vuole dunque trovare, si rallegri di perdere, se vuole il dono, si rallegri del rifiuto; chi desidera l’onore accetti l’umiliazione; e chi desidera la ricchezza, sia pago della povertà; chi vuol essere forte si contenti della debolezza, e chi vuole l’ampiezza si rassegni alla strettezza; chi vuol essere elevato si lasci abbassare, e chi desidera la vita accetti la morte; chi vuol vincere sia lieto di perdere, e chi desidera la potenza benedica l’impotenza. E chi desidera la libertà si rallegri della servitù, come se ne rallegrava il suo Profeta, amico e signore – lo benedica Iddio e gli doni la pace -; la scelga come lui la scelse, e non sia né orgoglioso né ribelle contro la sua condizione, giacché il servo è servo e il Signore è Signore” (Lettere di un maestro sufi, Se, Milano, 1997, p. 48).
9 Citato da Ibn ‘Arabī nelle Futūḥāt al-Makkiyya, II, p. 399. Ci si può però riferire utilmente a un autorevolissimo commentatore del Corano, Shihāb al-Dīn al-Ālūsī, il quale nel suo tafsīr (dal titolo Rūḥ al-ma‘ānī fī tafsīr al-Qur’ān al-‘aẓīm wa l-sab‘ al-mathānī), commentando il versetto LI, 56, cita diverse versioni del ḥadīth, riportandole da vari autori di testi di tradizioni profetiche (ad es. al-Sakhāwī), quindi lo commenta ampiamente, riportando anche quanto dice Ibn ‘Arabī nel cap. 358 delle Futūḥāt al-Makkiyya, in cui tra l’altro egli afferma che “un tesoro non può che essere occultato in qualcosa: e il Vero non ha nascosto Se Stesso se non nella Forma dell’Uomo Perfetto (al-insān al-kāmil)”.
10 È ciò che ha messo sapientemente in chiaro Alberto Ventura affrontando la delicata interpretazione del ḥadīth in questione: “Questa frase descrive il susseguirsi di tre momenti diversi, da intendersi evidentemente nel senso di una successione logica e non cronologica, e questi momenti rappresentano la progressiva esteriorizzazione dell’Essenza dal suo stato di pura indeterminatezza fino alla sua manifestazione più apparente, che è l’universo” (A. Ventura, L’esoterismo islamico, Adelphi, Milano, 2017, p. 72).
11 Ibn ‘Aṭā’ Allāh, Sentenze e Colloquio mistico, Adelphi, Milano, 1981, p. 54. Sulla funzione cruciale dello Shaykh Ibn ‘Aṭā’ Allāh al-Iskandarī si veda, nella generale scarsità di riferimenti bibliografici, le osservazioni a volte discutibili di Caterina Valdrè contenute nella sua Introduzione alla succitata edizione Adelphi. Quasi per intero, così come la stessa curatrice correttamente segnala, l’edizione adelphiana è debitrice di P. Nwya, Ibn ‘Ata’ Allāh (m. 709 / 1309) et la naissance de la confrérie shādilite, Dār al-Machreq, Beyrouth, 1972.