Isrā’ e l-Mi‘rāj

(Viaggio notturno e Ascensione)

È precisamente il luogo della Moschea detta la Remota (Masjid al-Aqṣā) a Gerusalemme, quello dal quale il Profeta Muḥammad, trasportato sin dalla Mecca dalla cavalcatura celeste al-Burāq e guidato da Gabriele, fece la propria Ascensione in cielo fino a giungere al loto del limite (sidrat al-muntahā):200

Gloria a Colui che di notte trasportò il Suo servo dalla Santa Moschea alla Moschea Remota di cui benedicemmo i dintorni, per mostrargli qualcuno dei Nostri segni. Egli è Colui che tutto ascolta e tutto osserva (Corano, XVII, al-Isrā’, 1).

Suffragate dalla stessa Parola di Dio contenuta nel Corano, le fonti tradizionali islamiche riportano che una notte il Profeta Muḥammad, svegliato dall’Arcangelo Gabriele e fatto salire su una creatura alata chiamata al-Burāq, fu condotto a Gerusalemme dove guidò la preghiera alla presenza dei Profeti precedentemente inviati da Dio.

Questo atto rituale sancisce simbolicamente il fatto che Muḥammad è davvero l’ultimo Profeta e il Sigillo degli Inviati (Khātam al-Rusul). Da Gerusalemme, dopo avere avuto visione dei supplizi riservati alle anime dannate dell’inferno, egli comincia la sua Ascensione ai sette cieli. In ciascuno di essi, Muḥammad incontra nuovamente, nella loro dimensione celeste, i Profeti Adamo, Gesù, Giovanni, Giuseppe, Idris (Enoch), Aronne, Mosè e Abramo. L’ottavo grado dell’ascensione è rappresentato dall’Albero del Loto o Loto del termine (sidrat al-muntahā), in altre parole il limite estremo degli stati dell’essere, oltre al quale non è consentito l’accesso ad alcun essere creato. Nel nono grado il Profeta riceve la visione della dimora dei beati e, infine, nel decimo e ultimo grado accede alla Luce del Volto di Dio (Wajh Allāh).

Dopo la visione del Trono, della Tavola e del Calamo, attributi celesti dell’Altissimo frequentemente nominati nel Sacro Corano, inizia la discesa e la via del ritorno del viaggio profetico.

Anche il viaggio di ritorno verso Gerusalemme segue delle tappe in cui Dio mostra al Profeta altri segni della Sua creazione relativi alle realtà ultramondane, quali la visione dei giardini paradisiaci e la descrizione degli stati infernali.

Il valore simbolico di questo viaggio orizzontale dalla sacra città della Mecca alla città santa di Gerusalemme e del successivo viaggio verticale fino al cospetto della presenza di Dio, oltre a ricordare i due assi spazio-temporali della figura della croce, rappresentano, per una serie di caratteristiche, proprio il modello di ogni percorso o itinerario spirituale. Con le dovute differenze tra il ruolo del Profeta e quello di ogni comune mortale, possiamo notare come sia sempre Dio stesso a fare il primo passo nella via verso il ritorno di tutte le Sue creature a Lui, esattamente come è solo Lui a determinare l’inizio e la fine di ogni cammino, con la nostra nascita e con la nostra morte.

Riferito immediatamente in pubblico dal Profeta, il racconto dell’isrā’ e del mi‘rāj incontrò lo scetticismo e anche l’aperta ostilità dei meccani. Persino molti musulmani, increduli dinanzi a quella narrazione, abiurarono la loro timida fede, ma tra i più convinti difensori del racconto muḥammadiano vi fu Abū Bakr, capace di sostenere con la propria sincera adesione ciò che molti credevano follia, e per questo venne poi insignito del titolo di ṣiddīq (il veridico, colui che conferma la verità). Nel Corano, Dio conferma l’assunzione del Suo Profeta fino al più alto grado paradisiaco:

Rivelò al Suo servo quel che rivelò, il cuore non mentì su quel che vide. Vorreste dunque polemizzare su quel che vide? E invero lo vide in un’altra discesa vicino al Loto del limite, presso il quale c’è il giardino di Ma‘wa, nel momento in cui il Loto era coperto da quel che lo copriva non distolse lo sguardo e non andò oltre. Vide davvero i segni più grandi del suo Signore (Corano LIII, al-Najm, 10-18).

Nel ritorno dall’Ascensione (mi‘rāj), il Profeta Muḥammad, dopo aver incontrato nei Cieli in cui si configura il Paradiso gli Inviati precedenti (da Adamo ad Abramo) riceve la disciplina delle cinque preghiere quotidiane come obbligo rituale per ogni musulmano e ogni musulmana:

Si tramanda da Abū Dharr che l’Inviato di Dio (su di lui la preghiera e la pace divine) disse: […] Allāh impose allora alla mia comunità cinquanta preghiere. Tornai con quelle sino a passare da Musā, il quale mi chiese: Cosa ti ha imposto Allāh per la tua comunità”? “Cinquanta preghiere. Torna dal tuo Signore, perché la tua comunità non può sopportare questo. Egli allora ne tolse una parte. Tornai da Mūsā e gli dissi: Ne ha tolto una parte. Torna dal tuo Signore, disse, perché la tua comunità non può sopportare questo. Tornai, e ne tolse una parte. Passai ancora da Mūsā, che disse: Torna dal tuo Signore, perché la tua comunità non può sopportare questo. Così andai da Lui, che disse: Sono cinque, e sono cinquanta: e presso di Me la Parola non cambia”.201

Il dialogo tra Mosè e Muḥammad riportato nel ḥadīth, oltre ad offrire a chi lo legga con attenzione il sapido gusto sapienziale di uno scambio nell’ambito della fraternità che caratterizza gli Inviati di Dio202, riassume nel dono benedetto della preghiera il principio della remunerazione abbondante del bene agito dalle creature: “Secondo un’interpretazione riportata da Al-‘Asqalānī, intenzione di Mūsā non era solo quella di aiutare la comunità muḥammadiana con i suoi consigli, ma era anche quella di rimanere più tempo possibile con sayydunā Muḥammad (su di lui la preghiera e la pace divine): Siccome Mūsā aveva chiesto la Visione, ma gli era stata impedita, e siccome sapeva che la cosa aveva invece avuto luogo per Muḥammad –nel senso della pienezza della Realizzazione metafisica, quale si mostra appunto nell’Obiettivo supremo colto proprio durante l’Ascensione – ecco che si propose di farlo tornare più volte, così da poterlo vedere ripetutamente. In tal modo egli avrebbe potuto almeno “vedere chi aveva visto”. A tal proposito, e cioè a proposito della benedizione e del piacere della frequentazione di quanti hanno il privilegio della Visione e della Realizzazione metafisica, è detto: “Forse li potrei vedere, oppure potrei almeno vedere chi li ha visti”. “Sono cinque, e sono cinquanta”, secondo il principio della “decuplicazione” delle buone azioni. In una versione dell’Ascensione riportata da Ibn Rajab, il Profeta dice: “Continuai ad andare dal mio Signore a Mūsā, sino a che Allāh mi disse: ‘Oh Muḥammad, sono cinque preghiere da fare tra il giorno e la notte, e per ogni preghiera [ne vengono ascritte] dieci, così che equivalgono a cinquanta preghiere. E dunque, a chi intende fare una buona azione ma poi non la mette in atto viene ascritta quella buona azione, mentre se la compie gliene vengono ascritte dieci. A chi invece si prefigge di fare una cattiva azione ma poi non la mette in atto non viene ascritto nulla, mentre se la compie gli viene prescritta quella sola cattiva azione’”203.

Il viaggio muḥammadiano, destinato a rappresentare l’eterno modello dell’itinerario di perfezionamento spirituale del fedele, si pone ancora come sfida alla capacità umana di comprensione. In esso viene posto in evidenza il compito e la responsabilità che la trasmissione del deposito tradizionale comportano. Il racconto infatti celebra il viaggio del Profeta che, attraverso la paziente ascesa per le simboliche stazioni dei sette cieli, raggiunge ed acquisisce col permesso di Dio una sapienza celeste, una conoscenza superiore. Soltanto tramite la vera conoscenza di se stessi e con il superamento della stazione della conoscenza acquisita ci si può aprire ad una stazione più elevata da cui si riesce veramente a riconoscere il limite e la relatività della stazione precedente.

Le affinità tra la narrazione del viaggio di Muḥammad e l’itinerario ultramondano descritto nella Commedia dantesca sono piuttosto evidenti. Esse hanno trovato un esemplare esegeta nel sacerdote spagnolo Don Miguel Asín Palacios che, nel 1919, ha pubblicato l’opera L’escatologia musulmana nella Divina Commedia, solo recentemente tradotta in Italia204. È impressionante la serie di corrispondenze che Asín Palacios ha rilevato tra testi appartenenti alla tradizione islamica e l’opera dantesca.

Tuttavia è mancato al dantista spagnolo il reperimento di quell’anello mancante”, cioè il testo originale della narrazione del mi‘rāj; né si può appurare con certezza in quale modo Dante potesse conoscere i testi che nella tradizione islamica reiteravano, sul modello del viaggio di Muḥammad, il topos dell’itinerario ultramondano come il Viaggio dei servi nel Regno del Ritorno di Sanāī (m. 1141) o L’alchimia della felicità (tratta dalle Futūḥāt al-Makkiyya) di Ibn ‘Arabī (m.1265). Ma nel 1949, quasi contemporaneamente, lo studioso italiano Enrico Cerulli e lo spagnolo Muñoz Sendino, trovarono l’anello mancante”: si trattava di due codici, conservati rispettivamente alla Bodleiana di Oxford e alla Nazionale di Parigi e recanti la stesura (uno in francese medievale e l’altro in latino) del racconto del mi‘rāj205. Come si narra nel primo foglio di entrambi i manoscritti, Alfonso X di Castiglia detto il Savio aveva commissionato una versione spagnola dell’originale testo arabo a un medico ebreo, Abraham Alfaquim, che la portò a termine nel 1264, e da quest’ultima il notaio Bonaventura da Siena trasse poi la versione latina e quella francese. Della versione spagnola, oggi perduta, ci resta un quasi coevo sunto, inserito dal veneziano Pedro Pascual nel suo trattatello polemico Sobre la seta mahometana. Le due versioni derivate avevano cominciato a diffondersi dopo il 1264, ed erano probabilmente arrivate in Italia tra il XIII e il XIV secolo. È anche plausibile pensare che Brunetto Latini, maestro di Dante e ambasciatore per alcuni mesi in Spagna nel 1260, abbia potuto visionare dei brani di quella traduzione mentre veniva redatta206.

200 Cfr. Il viaggio notturno e l’ascensione nel racconto di Ibn ‘Abbas, intr. trad. e note a cura di Ida Zilio Grandi, Einaudi, Torino 2010.

201 Muḥammad Ibn Ismā’īl Al-Bukhārī, Il Ṣaḥīḥ, pp. 16-17.

202 In un ḥadīth riferito da Abū Hurayra, il Profeta Muḥammad ha detto: “I Profeti sono fratelli, figli di madri diverse. Le loro madri sono svariate e la loro religione è unica, e fra me è Gesù non c’è nessun altro Profeta”.

203 Lodovico Zamboni, in Muḥammad Ibn Ismā’īl Al-Bukhārī, Il Ṣaḥīḥ, pp. 21-22; “Come dice Michel Vâlsan nella sua traduzione commentata del Kitāb al-jalāla wa huwa kalimat Allāh di Ibn ‘Arabī, nella determinazione del numero delle preghiere, il 5 “esprime la parte necessaria, irriducibile e irrevocabile del numero che si esige per il rito quotidiano della preghiera”. Inoltre, si può pensare che tale determinazione delle “cinque” preghiere costituisca il “punto di equilibrio al di sotto del quale il rito non ha più una sufficiente efficacia riguardo delle possibilità che esso deve attualizzare nell’insieme della vita tradizionale, e al di sopra del quale esso non potrà essere compiuto in modo valido da tutti coloro ai quali è destinato, avendo per di più quest’ultima eventualità l’inconveniente di rendere inevitabile un gran numero di ‘trasgressioni’ o di ‘abbandoni’, e quindi di compromettere anche ciò che può essere compiuto facilmente”. D’altra parte, come dice Ibn ‘Arabī nelle Futūḥāt (III, 340, 156), dalla modificazione progressiva dell’ordine divino da 50 a 5 si deduce che “nella Parola divina v’è ciò che comporta il cambiamento”, il che si richiama alla dottrina dell’“abrogazione” successiva delle norme divine, anche all’interno di una stessa forma tradizionale, “come v’è ciò che non lo comporta”, come nell’espressione “presso di Me la Parola non cambia”, quando cioè la Parola è perfettamente attualizzata (ḥaqqa l-qawl) da parte Sua”, Ibidem.

204 M. Asín Palacios, L’escatologia islamica nella divina commedia, Pratiche, Parma, 1994.

205 Una versione italiana dal testo francese, confrontato con quello latino, è stata pubblicata per la prima volta nel 1991: Il libro della scala di Maometto, traduzione di R. R. Testa e postfazione di C. Saccone, Mondadori, Milano, 1999.

206 Sulla delicata questione della diffusione del racconto del mi’raj di Muhammad in Europa cfr. F. Gabrieli, Una Divina Commedia musulmana, in Storia e civiltà musulmana, Napoli, 1947; E. Cerulli, Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano, 1949; U. Bosco, Contatti della cultura occidentale e di Dante con la letteratura non dotta arabo-spagnuola in Dante vicino, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1966; F. Gabrieli, Nuova luce su Dante e l’Islam in Dal mondo dell’Islam. Nuovi saggi di storia e civiltà musulmana, Milano-Napoli, 1954; G. Levi Della Vida, Dante e l’Islam secondo nuovi documenti, in Aneddoti e svaghi arabi e non arabi, Milano-Napoli, 1959; C. Saccone, Il viaggio dell’anima nell’Islam in AA.VV., Tradizione letteraria, iniziazione, genealogia, Luni, Milano,1998; A. Bausani, Sana’i precursore di Dante? Osservazioni sul Seir al-‘Ibad, in Id., Il “pazzo sacro” nell’Islam, Luni, Milano, 2000.