Adab

(Educazione)

È un termine che rimanda alla natura del corretto comportamento. Può intendersi, in un’accezione estremamente circoscritta, come norma che regola le opportunità rituali e religiose: ciò rappresenta in effetti il versante esteriore di una cortesia spirituale interiore che mira, prima di tutto, al mantenimento della sincerità nei rapporti tra il servo e il suo Signore.

Questa sincerità deve necessariamente tradursi in una convenienza di modi e termini di cui il Profeta Muḥammad ha così chiarito la sostanza in un ḥadīth:

Si tramanda da ‘Ā’isha che l’Inviato di Allāh disse: Allāh è Gentile e ama la gentilezza (Allāh al-Laṭīfu wa yuhibbu al-laṭīfa) in ogni cosa. È un ḥadīth sul quale v’è pieno accordo.12

Poiché Iddio si specchia nelle creature attraverso le Sue qualità che “non sono Lui né altro da Lui”, soltanto spogliandosi degli attributi illusori e individuali il servo può nella sua palese debolezza far sì che Iddio lo ricopra con i Suoi attributi (al-takhalluq bi-akhlāq Allāh).

Si comprende allora quanto sia arduo il cammino verso l’autentico adab, dal momento che esso non passa attraverso l’apprendimento pedissequo di regole ma, al contrario, pretende uno sforzo interiore di purificazione.

Ha detto al riguardo lo Shaykh Ibn ‘Arabī che con il termine adab:

[…] a volte si intende il comportamento appropriato alla Legge Sacra, a volte il comportamento appropriato al servizio, ed a volte il comportamento appropriato al Reale (al-Ḥaqq). Il comportamento appropriato alla Legge sacra consiste nel rimanere entro le sue forme [attenersi solo alle sue prescrizioni formali al-wuqūf ‘inda marsūmihā]. Il comportamento appropriato al servizio consiste nel cessare di vederla, e allo stesso tempo profondervi il massimo sforzo. Il comportamento appropriato al Reale è di conoscere ciò che è tuo e ciò che è Suo. Chi possiede l’Adab appartiene alle Genti della Vitalità, i lavoratori volenterosi (Ahl al-nishat).13

La stessa etimologia del termine laṭīfa (gentilezza), ricordato nel ḥadīth profetico che si riferisce appunto all’eminente qualità dell’adab, rimanda al più problematico significato di sottigliezza, a quella dote, cioè, significativamente divina di penetrare tutte le cose comprendendole nel Suo sguardo.

“Comprendere ciò che è tuo e ciò che Suo”, come afferma lo stesso Ibn ‘Arabī, significa allora comprendere in una dimensione relativa alla servitù.

Il servo conosce i propri doveri e il Signore conosce i Suoi, ma solo se si restasse nel dominio della manifestazione formale (ālam al-mulk), si potrebbe ritenere valida questa prospettiva. Se il servo sapesse considerare sotto tutti i suoi aspetti la natura del rapporto con il Signore, non potrebbe che essere costantemente adornato della gentilezza dell’adab14. Poiché lo Sguardo Gentile di Dio è costantemente rivolto verso le Sue creature e, in definitiva, ciò che adesso è celato non potrà che apparire in tutta evidenza nel Giorno del giudizio:

Tutto quello che è sulla terra sparirà e solo rimarrà il Volto del tuo Signore pieno di Maestà e di Generosità (Corano, LV, al-Raḥmān, 26-27).

Pertanto, la gentilezza non andrà attribuita tanto al gesto, quale atto di cortesia esteriore, quanto a ciò cui essa rimanda: una purezza e un’intenzione corretta. Ecco perché, ci si riferisce in un ḥadīth al carattere inarrivabile del Profeta Muḥammad, capace di tradursi persino in un linguaggio al di sopra della portata di chi lo circondava:

‘Alī Ibn Abī Ṭālib, sentendo il Profeta Muḥammad parlare alla delegazione dei Banū Nahd, gridò: Oh Inviato di Dio siamo figli di uno stesso padre, però ti vediamo parlare con i delegati degli Arabi in un modo tale che non comprendiamo la maggior parte di quanto dici. Il Profeta rispose: Il mio Signore m’ha formato (addabanī) poi ha reso perfetta la mia formazione (ta’dībī) e sono stato elevato fra i Banū Sa‘d”.15

Se, d’altra parte, l’eloquenza è sintomatica di una formazione perfetta, ciò si dimostrerà grazie a un tono adeguato e alla gentilezza piena di umiltà che deve necessariamente contraddistinguerla: “Sii modesto nel camminare e abbassa la tua voce: in verità, la più sgradevole delle voci è quella dell’asino”16. La parola buona, cioè gentile e radicata nella Tradizione, garantisce un nutrimento duraturo, come il frutto formatosi dal buon seme.

A tal proposito, il Corano è di un’estrema, nonché sintetica, chiarezza:

La buona parola è simile a un albero buono, la cui radice è ben fissa nel suolo, e i cui rami arrivano in cielo. Esso dà i suoi frutti in ogni tempo, col permesso del suo Signore. Iddio propone le sue similitudini (amthāl) agli uomini affinché essi ricordino (Corano, XIV, Ibrāhīm, 24-25).

L’uso del termine amthāl (similitudini, sing. mithl) appare denso di significato e di conseguenze. Poiché esso allude appunto al carattere esemplare della parabola e del modello che conserva in sé, al contempo, i due sensi di rappresentazione e di punto di riferimento, spirituale prima ancora che formale.

Ecco che, proprio a proposito di una delle immagini più vivide del repertorio coranico, si comprende come una delle possibili traduzioni di adab sia scienza letteraria o anche, in una modalità più circoscritta, racconto letterario17.

Infatti il significato di “letteratura” non è parallelo e alternativo al senso della pura cortesia spirituale, bensì è contenuto nella medesima radice etimologica che la esprime pienamente.

L’attività letteraria non è riducibile, cioè, a uno sterile esercizio mentale e sentimentale, piuttosto deve ricondurre l’uomo alla scoperta profonda dei principi intellettuali che vivificano la sua esistenza. Essa inoltre può, secondo la concezione che attiene alle altre arti in una prospettiva tradizionale, costituire un ausilio e un mezzo di elevazione al fine del raggiungimento della realizzazione spirituale. Chi pratica l’adab, nella sua valenza semantica di “letteratura”, sperimenta quella cortesia che non è così distante dallo stesso concetto formulato nell’ambito della poesia medievale occidentale (per esempio da Dante e dallo Stilnovo), quella “dottrina che s’asconde sotto il velame de li versi strani” (Inf. IX, 63). La realizzazione spirituale indica la comprensione corretta del velo dell’illusorietà e la presa di coscienza della Realtà.

Le lingue sacre esprimono con maggiore chiarezza questa prospettiva: in arabo ad esempio il nome di Dio al-Ḥaqq indica contemporaneamente “la Verità” e “la Realtà”.

La realizzazione, taḥqīq, è effettivamente una “verificazione”, nel senso della conoscenza della Verità della Realtà.

12 An-Nawawî, I Giardini dei devoti, p. 357.

13 Cfr. R.T. Harris, Sufi terminology – Ibn ‘Arabi’s al-istilah al-sufiyyah, “Journal of the Muhyiddin Ibn ‘Arabi Society”, Oxford, vol. III, 1984, 27-54.

14 Lo ‘ālam al-mulk chiama in causa il comportamento che conviene osservare in esso. All’adab al-mulk inteso anche come lessico della regalità (Adab al-mulūk) è stato recentemente dedicato uno studio calibrato: “La Qaṣīda al-Rāʾiyya d’Abū Madyan al-Shuʿayb (m. 594/1198), poème consacré aux ādāb al-ṣūfiyya, commence de façon significative par le passage suivant: “Il n’y a pas de plaisir dans la vie en dehors de la compagnie des soufis/ Ils sont les sultans, les seigneurs et les princes” Ibn ʿArabī (m. 638/1240), dans son propre développement doctrinal sur l’adab, définit l’adab al-khidma, “adab du service” en spécifiant explicitement qu’il tire son origine de l’étiquette royale. Puis il ajoute: “Enfin, le roi des hommes de Dieu, c’est Dieu Lui-même, qui a institué pour nous les différents types d’adab pour Son service”. C’est dans une filiation avec Ibn ʿArabī que ʿAbd al-Wahhāb al-Shaʿrānī (m. 973/1565) explicite également cette analogie dans son œuvre: “Quand Dieu a décrété la sainteté pour une créature, ainsi, comme les rois de la terre décrètent les fonctions de leurs subordonnés, Il lui accorde alors l’invocation (dhikr) comme une espèce d’ornement, de manière qu’il rende manifeste sa sainteté’”, Luca Patrizi, Adab al-mulūk: l’utilisation de la terminologie du pouvoir dans le soufisme médiéval, in Ethics and Spirituality in Islam Sufi adab, Edited by Francesco Chiabotti, Eve Feuillebois-Pierunek, Catherine Mayeur-Jaouen, Luca Patrizi, Brill, Leiden-Boston, 2016, pp. 208-208.

15 “Non si può, a nostro avviso, comprendere il senso di questo termine e l’importanza che ha assunto nell’Islam se non si accetta l’etimologia proposta dai dizionari arabi nonché da tutti gli autori che avremo a citare nel corso di questo lavoro. Tutti, in effetti, insistono sul rapporto adabma’dūba. La ma’dūba è il pasto al quale si è invitati e che riunisce un certo numero di cibi; similmente, l’adab invita gli uomini alla riunione dentro di sé dei caratteri nobili e di tutti gli aspetti del Bene; presuppone, dunque, nel contempo, conoscenza e pratica, formazione di sé stessi e degli altri. L’idea del pasto in comune suggerisce, d’altronde, le buone relazioni fra le persone, quanto un’attitudine conveniente. Vedremo questo doppio aspetto di ‘convenienza’ e di ‘riunione di tutti gli aspetti del Bene’, quindi di sintesi, che appare come la caratteristica maggiore dell’adab (D. Gril, Documenti sulla nozione d’Adab nell’Islam, al-Qâhira, s.d., p. 8).

16 Corano, XXXI, Luqmān, 19.

17 Cfr. C. A. Gilis, Le Coran et la fonction d’Hermès, Les editions de l’Oeuvre, Paris, 1984.