Sharī‘a

(Legge)

Religione e diritto, spiritualità e ordine sociale, ‘ibādāt e mu‘āmalāt (gli atti di devozione e i rapporti sociali), dal punto di vista tradizionale non sono considerate come prospettive differenti, per quanto in rapporto tra loro, ma come diverse angolazioni sotto le quali osservare un’unica realtà, la Legge di Dio: la sharī‘a. Alcuni grammatici riportano che la radice del verbo da cui deriva sharī‘a, indica “l’abbeverarsi” e, per estensione, “la via che conduce alla fonte”:

A ciascuna comunità Noi abbiamo indicato una Legge (Corano, V, al-Mā’ida, 48).

Ti abbiamo messo su di una via (sharī‘a) che procede dall’Ordine, seguila! E non seguire le passioni di coloro che non sanno (Corano, XLV, al-Jāthiyah 18).

Da un punto di vista teologico, la sharī‘a indica le regole specifiche di una rivelazione, diversamente da dīn (tradizione/religione), che ha il senso più universale di riconoscimento dell’Unico Dio e, quindi, di un’unica tradizione immutabile, al-dīn al-qayyim. Secondo al-Ṭabarī, il primo dei passi coranici riportati sopra deve essere infatti inteso nel senso che fa corrispondere una sharī‘a specifica a ciascuna rivelazione: alla Torāh, ai Vangeli e al Corano, ma la Tradizione, Dīn, è la medesima ed è stata riferita fedelmente da tutti i Profeti.

Da un punto di vista giuridico, la sharī‘a indica l’insieme delle norme positive, ricavate dall’esercizio del diritto (fiqh), attraverso le quali gli atti rituali e sociali possono essere compiuti in conformità all’ordine divino, illustrandone, a seconddei casi, la natura e lo statuto giuridico. Il rispetto della Legge è quindi un dovere la cui violazione comporta contemporaneamente un reato nell’ordine civile e un peccato in quello religioso. Scopo della Legge è soprattutto quello di fornire all’uomo le possibilità di realizzare le sue qualità più elevate, poiché nel superamento dei limiti inferiori della sua natura l’uomo può realizzare la sua dimensione propriamente spirituale342. Tale dimensione non va però intesa come alienazione dalla realtà, ma, al contrario, come una vera e propria realizzazione che comincia già in questo mondo e consente di anticipare in questa vita quella dell’Altro mondo. Per quanto possa essere severa la punizione, prevista dalla sharī‘a, che spetta a chi ha ricusato la propria responsabilità dinanzi a Dio, non sapendo più riconoscerNe l’autorità e attaccando coloro che si sono impegnati a riconoscerla, incommensurabilmente più dura sarà la pena impartita da Dio. Egli infatti “vanificherà le loro opere” mettendo a nudo in tal modo l’illusorietà di quanto sia realizzato in nome di se stessi e, al contrario, verificherà le opere di coloro che avranno creduto, mostrando come sia vero soltanto ciò che è fatto, con retta intenzione, in nome di Dio (bismi Llāh):

Ma Dio vanificherà la vanità e verificherà la Verità con la Sua Parola; poiché Egli conosce il segreto dei cuori (Corano, XLII, al-Shūrā, 24).

Questo perché coloro che rifiutano la Fede seguono la vanità, mentre coloro che credono seguono la Verità del Signore: così Iddio propone esempi agli uomini (Corano, XLVII, Muḥammad, 3).

Non andrà mai dimenticato quindi, in una precisa prospettiva escatologica la maggiore gravità della punizione divina a fronte della punizione prevista per i rei in questo mondo. In tal senso, nel Corano si fa riferimento alla legge del sangue per cui, come nel taglione biblico343, il risarcimento della vendetta (intiqām) è contemplato dalla giurisprudenza islamica a patto però che il torto restituito sia pari al torto subito.

Osservando la sequenza dei brani coranici dedicati all’argomento si capirà per di più come la sollecitudine misericordiosa di Dio sia orientata al perdono, concepito come atto di carità che l’uomo deve al suo prossimo:

O voi che credete! In materia d’omicidio v’è prescritta la legge del taglione: libero per libero, schiavo per schiavo, donna per donna; quanto a colui cui venga condonata la pena del suo fratello si proceda verso di lui con gentilezza e paghi un indennizzo. Con questo il vostro Signore ha voluto misericordiosamente alleggerire le precedenti sanzioni; ma chi dopo di ciò trasgredisca la legge avrà castigo cocente. Il contrappasso è garanzia di vita, o voi dagli intelletti sani, a che forse acquistiate timore di Dio (Corano, II, al-Baqara, 178-179)

Coloro che obbediscono al loro Signore, e compiono le preghiere, e delle loro faccende decidono consultandosi fra loro, e di quel che ha donato loro la Provvidenza elargiscono, coloro che quando li colga ingiustizia si difendono, ma in modo che la pena del male sia un male a esso equivalente. Chi poi perdona e fa pace fra sé e l’avversario, gliene darà mercede Iddio, perché Dio non ama gli iniqui (Corano, XLII, al-Shūrā, 39-42).

Fanno parte della sharī‘a in primo luogo gli atti di culto (‘ibādāt), che sono da ricondurre in definitiva ai “cinque pilastri” rituali, così come vi sono presenti anche aspetti che, pur non rientrando nella dimensione strettamente rituale, sono tuttavia correlati all’orientamento interiore che deve accompagnare la condotta del musulmano in ogni momento della vita, come per esempio le regole che riguardano più generalmente l’educazione tradizionale.

Dell’ambito della sharī‘a che si riferisce ai rapporti sociali, al mu‘āmalāt, fanno parte invece quei negozi corrispondenti a parte del diritto civile e commerciale, in particolare il diritto penale (jināyāt), la capacità delle persone (ahliyya), la proprietà, le obbligazioni e i contratti, la successione e le fondazioni pie (Waqf).

È bene precisare a questo punto che, a dispetto di quanto si possa genericamente affermare, in nessuno dei cosiddetti paesi musulmani344, oggi è applicata la sharī‘a.

Di conseguenza diviene per lo meno capzioso domandarsi come possano vivere dei musulmani in realtà socio-politiche in cui la sharī‘a non sia vigente. Tanto più che questo problema giuridico era già stato brillantemente risolto nel medioevo345, epoca in cui esistendo il califfato (garante designato della giurisprudenza shariatica) la questione effettivamente si poneva con serietà.

Con particolare riferimento agli ultimi tempi, e nell’eventualità che i musulmani si fossero trovati a vivere come minoranza in un territorio in cui non fosse applicata la Sharī‘a, il Profeta inoltre ha detto:

“Saranno stabiliti sopra di voi dei Principi. C’è chi li riconoscerà e chi li disapproverà; e chi li aborrirà sarà innocente, e chi li disapproverà sarà salvo, mentre chi ne sarà soddisfatto, ne seguirà la sorte”. Chiesero: “Inviato di Dio, non li combatteremo?”. Rispose: “No, fintanto che vi permetteranno di pregare”.346

342 Lo Shaykh Aḥmad Ibn ‘Ajība si è espresso con delicata efficacia a riguardo: “La “Legge” [religiosa] (al-sharī‘a) è la responsabilità (taklīf) che incombe agli organi esterni [dell’uomo]; – la “Via” [spirituale] (al-ṭarīqa) è la purificazione dei cuori (ḍamā’ir); la “Verità” (ḥaqīqa) è il fatto di vedere Allāh (al-Ḥaqq) nelle [Sue] irradiazioni epifaniche (fi tajalliyāt al-maẓāhir). La Legge consiste nel servire Allāh; La Via consiste nell’andare verso Allāh; La Verità consiste nel contemplare Allāh” (J.-L. Michon, Le Soufi Marocain Ahmad Ibn ‘Ajiba et son Mi’ràj. Glossaire de la mystique musulmane, Librarie Philosophique J. Vrin, Parigi, 1973, pp. 251-252).

343 Deut. 17, 21: “Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”. Nel Corano si fa preciso riferimento a questi versetti, laddove viene indicato, nell’importante riconoscimento della dignità autonoma di ogni comunità di credenti, il diritto e il dovere per le genti del libro (ahl al kitāb) ossia cristiani ed ebrei, di esercitare la giurisprudenza secondo la specifica formula da Dio conferita ad ogni Rivelazione: “E nella Torâh, prescrivemmo a voi anima per anima, occhio per occhio, naso per naso, orecchio per orecchio, dente per dente, e per le ferite la legge del taglione. Ma chi dà un’elemosina, ciò sarà per lui di purificazione. E coloro che non giudicano con la Rivelazione di Dio, sono gli iniqui” (Corano, V, al-Mā’ida, 45).

344 Una definizione sempre equivoca e vieppiù ideologizzante che tende a radunare in una unica cifra una realtà complessa e stratificata. Di fatto essa risponde a una visione stereotipata e forse mai veramente valida che voleva ascrivere ad una parte del mondo l’Islam conferendogli un carattere squisitamente etnico.

345 “La liceità per dei musulmani di risiedere stabilmente in un territorio decaduto dal titolo di dār al-Islām e divenuto dār al-kufr (territorio della miscredenza) – come fu il caso delle comunità siciliane dopo la conquista normanna e, più tardi, degli abitanti di al-Andalus –, divenne materia di dibattito presso alcuni sapienti di sharī‘a e fiqh. Nel XV secolo dell’era cristiana, il muftī marocchino Aḥmad ibn Yaḥya al-Wansharīsī (morto a Fās nel 1508), formulò delle fatāwā in merito ai musulmani che protraevano la loro residenza in territori conquistati da una potenza nemica cristiana, pervenendo a conclusioni severe: in forza dell’esempio della hijra del Profeta da Mecca a Medina (622), egli caldeggiava infatti di attenervisi fermamente, sollecitando la trasmigrazione verso un dominio di legge e governo islamici. Nella prima metà del XII secolo, tuttavia, la questione era già stata impugnata dai musulmani di Sicilia, che interpellarono un rinomato maestro di fiqh del madhhab malikita, l’imām al-Māzarī (nativo di Sicilia ma emigrato in Tunisia, dove morì nel 1142), sulla legalità del loro soggiorno e del valore da attribuire a decisioni giudiziali da parte di quḍāt (giudici) musulmani nominati da un monarca cristiano (all’epoca Ruggero II). Come rileva Udovitch, il parere dell’abile giurista fu “moderato, pragmatico e sfumato”; pur non contestando il biasimo del soggiorno entro una giurisdizione dār al-harb, al-Māzarī individuò delle eccezioni a tale regola, giustificando la presenza a lungo termine di musulmani in Sicilia ed ammettendo, in forza di tale stato di fatto, la liceità dell’operato dei giudici incaricati” (F. Barone, Islam in Sicilia nel XII e XIII secolo: ortoprassi, scienze religiose e taçawwuf, in AA. VV., L’Islam in Europa, a cura di S. Di Bella e D. Tomasello, Pellegrini, Cosenza, 2003, p.107).

346 Si tratta di un ḥadīth trasmesso da Umm Salama Hind bint Abī Umayya Hudayfa e riportato da Muslim. Si trova in An-Nawawî, l Giardini dei devoti p. 77.