(Pilastri dell’Islām)
L’Islām poggia su cinque pilastri: la testimonianza che non c’è altro dio all’infuori di Iddio e che Muḥammad è l’Inviato di Dio, il compimento della preghiera rituale, il versamento dell’elemosina rituale, il pellegrinaggio alla Mecca il digiuno nel mese di Ramaḍān.
In questo ḥadīth, riferito da Ibn ‘Umar, il Profeta Muḥammad con una definizione centrata in primo luogo sull’atto di edificare26, ha chiarito la basilare essenza della dottrina islamica.
L’Islām è dunque fondato simbolicamente su cinque pilastri (arkān; pl. di rukn): la shahāda, o testimonianza di fede, (ashhādu an lā ilāha illā Allāh wa ashhādu anna Muḥammadan Rasul Allāh – “Attesto che on vi è dio se non Iddio e attesto che Muḥammad è l’Inviato di Dio”); la ṣalāt, la preghiera rituale; la zakāt, la carità verso i più bisognosi; il digiuno (ṣawm) durante il mese di Ramaḍān; lo ḥajj, il pellegrinaggio rituale da compiere almeno una volta nella vita presso La Mecca.
Esaminando meglio la pratica del culto, riusciamo, come si può vedere, a cogliere numerose altre sfumature della ritualità quotidiana islamica.
La shahāda è, tra i pilastri, l’unico che non debba essere preceduto dalla niyya, ossia l’intenzione, destinata a caratterizzare qualsiasi altro gesto o detto giornaliero. Quale che sia il grado di elevatezza spirituale del credente, infatti, il suo atto non varrà che rispetto alla purezza e alla dirittura delle sue intenzioni, perché secondo la parola profetica “le azioni non valgono che per le intenzioni”27.
Ciò ha un’importanza fondamentale perché testimonia della verità intrinsecamente profonda che caratterizza la testimonianza di fede. Nel caso degli individui nati in seno alla comunità islamica, è il padre che, nel momento della nascita, pronuncia, la shahāda, sussurrandola all’orecchio del neonato, durante la recitazione rituale dell’adhān e dell’iqāma (appello alla preghiera).
Se la shahāda possiede un carattere interiore di manifestazione della fede, la preghiera (ṣalāt) ne rappresenta il corrispettivo esteriore, che connota, in modo inequivocabilmente esplicito, l’assiduità del ricordo quotidiano di Dio: wala dhikru Llāh akbar – “e il ricordo di Dio è quanto ci sia di più grande” (Corano, XXIX, al-‘Ankabūt, 45). Un’abluzione rituale precede la preghiera poiché soltanto in stato di purità (ṭahāra) il fedele può presentarsi all’intimo convegno col proprio Signore.
L’abluzione minore (wuḍū’), diviene necessaria successivamente all’adempimento delle funzioni fisiologiche, della perdita di sangue, dello stato di temporanea incoscienza dovuta al sonno. Nel caso invece dei rapporti sessuali, e per alcune scuole giuridiche anche in occasione della perdita di sangue, si rende necessario il ghusl, cioè l’abluzione maggiore. L’atto dell’abluzione rituale viene compiuto con l’acqua che, nel caso del wuḍūʾ, bagna le mani, il volto, gli avambracci, il capo, le orecchie e i piedi, mentre nel caso del ghusl il corpo nella sua interezza. La mancanza eventuale di acqua pura, o l’impossibilità di usarla dovuta al pericolo di contrarre malattie o di aggravare la propria condizione già precaria di salute, motiva l’esecuzione del tayammum, ossia l’abluzione compiuta con la terra sulla quale sono state strofinate preventivamente le mani:
O voi che credete! Quando vi levate per la preghiera, lavatevi il volto, le mani e gli avambracci fino ai gomiti, passate le mani bagnate sulla testa e lavate i piedi fino alle caviglie. Se siete in stato d’impurità, purificatevi. Se siete malati o in viaggio o dopo aver adempiuto alle funzioni fisiologiche, o dopo aver avuto rapporti sessuali, non trovate acqua, fate la lustrazione con terra pulita, passandola sul volto e sugli avambracci. (Corano, V, al-Ma’ida, 6).
La ṣalāt viene ripetuta cinque volte al giorno (all’alba: ṣubḥ; al mezzogiorno: ẓuhr; al pomeriggio: ʿaṣr; al tramonto: maghrib; la notte: ‘ishā’) e si esegue nella prospettiva direzionale (qibla)28 della Ka‘ba. Il fatto di orientarsi pregando verso un punto unico, inafferrabile in quanto tale ma situato sulla terra e analogo, nella sua unicità, al centro di tutti gli altri mondi, esprime compiutamente l’integrazione della volontà umana nella Volontà universale (“A Dio appartiene tutto quello che è nei cieli e sulla terra ed è verso Iddio che tutto sarà ricondotto”, Corano III, Āl Imrān, 109).
La ṣalāt è, inoltre, preceduta dal grande appello (adhān) effettuato dal mu’adhdhin nel caso della preghiera comunitaria e dal piccolo appello (iqāma) effettuato ancora dal mu’adhdhin o dal singolo fedele, qualora, dopo che abbia espresso l’intenzione di compiere il rito, vi si accinga da solo. La preghiera consta di una serie di movimenti (raka‘āt) che si ripetono due, tre, quattro volte a seconda del momento dell’esecuzione. Il Profeta Muḥammad ha insistito particolarmente sulla peculiare benedizione discesa sulla preghiera comunitaria: “La ṣalāt fatta in comunità è più meritoria di quella fatta individualmente di ventisette gradi”29. In ogni caso la preghiera ha una ricorrenza comunitaria d’obbligo nel giorno di venerdì (yawm al-jum‘a), quando l’Imām, che in quel momento guida la preghiera rivolge, sul modello del Profeta, un discorso (khuṭba) ai fedeli riuniti nelle moschee, prima di guidare la ṣalāt al-jum‘a che consta di due raka‘āt.
Al di là del fatto squisitamente precettistico, come si evince dai versetti coranici, la preghiera è, per il musulmano, garanzia di purezza, poiché scandisce la sua giornata nella memoria costante e vigile del Dio Unico:
In verità io sono Iddio: non c’è dio all’infuori di Me. AdoraMi ed esegui l’orazione per ricordarti di Me. (Corano, XX, Ṭā-Hā, 14).
La parola zakāt viene solitamente tradotta con “elemosina rituale”, ma c’è già nella radice araba il senso di una purificazione destinata ad investire chi compiendo questo gesto, si priva di ciò che gli è superfluo e lo dona a chi ne abbia necessità. Infatti il Corano prescrive:
Le elemosine sono per i bisognosi, per i poveri, per quelli incaricati di raccoglierle, per quelli di cui bisogna conquistarsi i cuori, per il riscatto degli schiavi, per quelli pesantemente indebitati, per lo sforzo sul sentiero di Dio e per il viandante. Decreto di Dio! Iddio è Il Saggio, Il Sapiente. (Corano IX, al-Tawba, 60).
La dimensione simbolica della zakāt ha una portata che va ben al di là dell’aspetto quantitativo e materiale e si traduce, al di là della cadenza annuale di questo pilastro, nella pratica più generalizzata della ṣadaqa, ovvero di un’elemosina legale fortemente incoraggiata dall’esempio profetico
Si tramanda da Abū Mūsā che il Profeta disse: “Ogni musulmano è tenuto all’elargizione (‘alā kulli muslimin ṣadaqatun)”. Qualcuno gli chiese: “Hai considerato il caso che non trovi nulla da dare”? Lui rispose: “Che lavori con le sue mani: gli sarà di vantaggio, e avrà di che elargire”. Quello chiese ancora: “Hai considerato il caso che non sia in grado”? “Allora che ordini ciò che è riconosciuto [come Bene dalla Religione e dall’intelletto]”, rispose il Profeta o forse disse [più semplicemente] “allora che ordini il bene”. Quell’uomo domandò infine: “Hai considerato il caso che non lo faccia”? Lui rispose: “Si trattenga dal male: questa è elargizione”. È un ḥadīth sul quale v’è pieno accordo.30
La natura del digiuno del mese di Ramaḍān è puramente interiore poiché non vi è nulla che la manifesti, per questo molti Maestri sostengono che il Ramaḍān è un segreto tra il servo e il suo Signore. L’astensione dal cibo, dall’acqua e dai rapporti sessuali dall’alba al tramonto prevede, al pari di tutte le altre azioni del musulmano, una retta intenzione:
O credenti! Vi è prescritto il digiuno come era stato prescritto a coloro che vi hanno preceduto. Forse diverrete sottomessi a Dio. Digiunate nei giorni prestabiliti. Chi però è malato o è in viaggio, digiuni in seguito altrettanti giorni. Quanto a coloro che potrebbero digiunare e se ne dispensano, lo riscatteranno col nutrire un povero. Ma chi fa spontaneamente del bene, meglio sarà per lui. Il digiuno è un’opera buona per voi, se lo sapeste! È nel mese di Ramadan che abbiamo fatto scendere il Corano come direzione, prova chiara di retta guida e discriminazione tra il bene e il male; non appena vedete la luna nuova digiunate per tutto quel mese, e chi è malato o in viaggio digiuni in seguito per altrettanti giorni. Iddio vi vuole facilitare, non procurarvi disagio, affinché completiate il numero dei giorni e proclamiate la grandezza di Dio per avervi guidato. Forse sarete riconoscenti (Corano, II, al-Baqara, 183-185).
I fedeli digiunano seguendo l’esempio del Profeta Muḥammad che, all’età di quarant’anni, durante una notte del mese di Ramaḍān dell’anno 612, dall’Angelo Gabriele ricevette i primi versetti della Rivelazione Coranica: “Leggi, nel nome del tuo Signore che ha creato”! A partire da allora per i successivi ventitré anni la Parola di Dio scese sul Profeta nella forma del testo sacro che, tramandato all’inizio oralmente, fu, dopo la morte di Muḥammad, trascritto dai suoi compagni. La notte della rivelazione, detta “Notte della Predestinazione” (laylat al-qadr), collocata tra il ventiseiesimo e il ventisettesimo giorno di Ramaḍān, è tradizionalmente dedicata dai musulmani ad una veglia di preghiera. Trascorso il mese di Ramaḍān, nel primo giorno del successivo mese di shawwāl, si celebra la festa di ‘īd al-fiṭr, chiamata anche piccola festa (al-‘id al-ṣaghīr), una cerimonia nella quale, dopo aver versato la zakāt al-fiṭr e, successivamente a una preghiera comunitaria di due raka‘āt, l’Imām rivolge un breve discorso ai fedeli.
Il digiuno ha una qualità insondabile, almeno per chi non si limiti ad una mera privazione di genere materiale (“Quanti non ricavano dal digiuno che fame e sete”, ha affermato il Profeta Muḥammad), ma, al contrario, orienta il proprio impegno esclusivamente verso Iddio, tralasciando il resto. Pertanto se, come ha asserito Ibn ‘Arabī, “il digiuno non è un atto, ma l’abbandono di un atto”31, va considerato quale sia lo scopo reale del ṣawm:
Non vi è nulla che valga la pena d’essere ambito, nessun fine, nessun oggetto d’amore in questo mondo o nell’altro, tranne Allāh. Se un atomo di qualcosa che non sia l’amore per Lui entra nel cuore, il digiuno della Verità, il vero digiuno è rotto. Allora l’uomo deve rifarlo, vivificando quell’aspirazione ed intenzione sublimi, ritornando all’amore di Lui, qui e nell’Aldilà, poiché l’Altissimo ha detto: “Il digiuno è Mio, e sono Io che ne do la ricompensa”32.
Questo mese, infatti, si traduce principalmente, non in una penitenza (“Iddio vi vuole facilitare, non procurarvi disagio”), ma in uno sforzo verso il superamento di ciò che è più materiale e contingente, verso un’autentica comprensione della propria totale dipendenza dal Creatore33. L’illusorietà delle cause seconde34 deve essere oltrepassata nel tentativo di trovare nel proprio cuore il segno della presenza divina pacificante (sakīna), secondo la parola di Dio, che dice: “Né i miei cieli, né la mia terra possono contenerMi, ma il cuore del Mio servo fedele può contenerMi”.
Al-ḥajj è il pellegrinaggio, da compiersi almeno una volta nella vita, qualora se ne abbiano le possibilità economiche e le capacità fisiche. Secondo la tradizione islamica, il Profeta Muḥammad ha riportato il pellegrinaggio alla Ka‘ba alla sua purezza originale, cioè a come esso fu istituito da Adamo, successivamente alla sua discesa sulla terra, sul modello del pellegrinaggio compiuto presso il Trono dell’Altissimo dagli angeli del Paradiso. Iddio fece discendere per Adamo nel luogo della Ka‘ba, prima che questa esistesse, una tenda tra le tende del Paradiso. Dopo la morte di Adamo, Iddio la elevò in cielo. I discendenti di Adamo costruirono nello stesso luogo una casa con fango e pietre e continuarono a farvi visita. Dopo il diluvio dei tempi di Noè, che spazzò via la Casa e celò il luogo dove si trovava, Abramo e il suo primo figlio Ismaele la riedificarono su indicazione dell’Altissimo. All’interno della Grande Moschea della Mecca vi è infatti un luogo chiamato Maqām Ibrāhīm (la stazione di Abramo), presso il quale i fedeli compiono due raka‘āt, secondo la tradizione del Profeta Muḥammad:
In verità la prima Casa che è stata eretta per gli uomini è certamente quella di Bakka, benedetta, guida del creato. In essa vi sono i segni evidenti come luogo in cui ristette Abramo: chi vi entra è al sicuro. Spetta agli uomini che ne hanno la possibilità di andare, per Dio, in pellegrinaggio alla Casa. Quanto a colui che nega la fede sappia che Dio è Indipendente dai mondi. (Corano, III, al-Imrān, 96-97).
I pellegrini, dopo aver espresso adeguata intenzione (niyya), abbandonato gli abiti comuni e aver indossato due panni senza cuciture, entrano nello stato di sacralizzazione (iḥrām) che contempla il divieto di radersi, usare profumi, avere rapporti sessuali e praticare la caccia, pronunciano, avvicinandosi al luogo santo della Ka‘ba, la talbiya ovvero la formula: Labbayka Allahumma labbayka! (Eccomi a Te o mio Signore, eccomi a Te)35. Il territorio della Mecca e degli altri luoghi santi della penisola arabica viene definito ḥarām, che, nel duplice significato di proibito e di sacro può indicare tutto ciò che è delimitato o custodito dal divieto:
E quando facemmo della Casa un luogo di riunione e un rifugio per gli uomini. Prendete come luogo di culto quello in cui Abramo si fermò per pregare! E stabilimmo un patto con Abramo e Ismaele: “Purificate la Mia Casa per coloro che vi gireranno attorno, vi si ritireranno, si inchineranno e si prosterneranno”. E quando Abramo disse: “Fanne una contrada sicura e provvedi di frutti la sua gente, quelli di loro che avranno creduto in Dio e nell’Ultimo Giorno”, disse il Signore: “E a chi sarà stato miscredente concederò un godimento illusorio e poi lo destinerò al castigo del fuoco. Che triste avvenire!”. E quando Abramo e Ismaele posero le fondamenta della Casa, dissero: “O Signor nostro, accettala da noi! Tu sei Colui che tutto ascolta e conosce! O Signor nostro, rendici sottomessi interamente a Te e della nostra discendenza fai una comunità a Te sottomessa. Mostraci i riti e volgiTi verso di noi con la Tua Misericordia. In verità Tu sei Il Perdonatore, Il Misericordioso! O Signor nostro, suscita tra loro un Inviato che reciti i Tuoi versetti e insegni il Libro e la saggezza, e accresca la loro purezza. Tu sei Il Saggio, Il Possente”. (Corano, II, al-Baqara, 125-129)
Mentre la semplice visita (‘umra) alla Casa si può compiere in qualsiasi momento dell’anno, è in uno specifico momento, cioè durante il mese di Dhū l-Ḥijja, che si può adempiere il rito del pellegrinaggio (ḥajj).
L’arrivo al Santuario della Mecca introduce i pellegrini al ṭawāf, “un rito di circumambulazione nel quale si devono percorrere sette giri, o spire, attorno alla Ka‘ba. L’inizio e la fine di ciascuna spira sono segnate da un passaggio davanti alla Pietra Nera, che il pellegrino in linea di principio deve baciare ogni volta che non ne è impedito dalla folla. I sette giri devono essere percorsi in maniera continua e senza interruzione, di modo che il pellegrino, se non può avvicinarsi alla pietra, si accontenterà di indicarla con la mano, senza tuttavia fermare la sua marcia. Il ṭawāf deve essere obbligatoriamente seguito da una preghiera rituale di due raka‘at che si effettua dietro la Stazione d’Abramo (Maqām Ibrāhīm), situata oggigiorno ad alcuni metri di distanza dalla facciata della Ka‘ba. Nel caso del ṭawāf al-qudūm, e cioè dei giri inaugurali compiuti dal pellegrino quando arriva alla Mecca, conviene effettuare se possibile di corsa (in arabo raml) i primi tre giri”36. È particolarmente raccomandato, dopo il ṭawāf, come in ogni altra occasione, di bere l’acqua di Zamzam, al punto tale da esserne sazi. È Sunna bere l’acqua di Zamzam in piedi, col viso rivolto alla Ka‘ba e di rivolgere un du‘ā a Dio. Il Profeta Muḥammad ha infatti detto: “La migliore acqua sulla terra è quella di Zamzam. Essa è un nutrimento che sazia e un rimedio contro la malattia” (Tabarānī). La fonte benedetta di Zamzam fu fatta sgorgare per Agar, affinché potesse placare la sete di Ismaele abbandonato con sua madre in quel luogo da Abramo37. È a questo episodio che si riferisce il rito successivo compiuto dai pellegrini: il sa‘y, ovvero la “settuplice corsa” tra le colline di Ṣafā e Marwa situate in prossimità della Ka‘ba, eseguito in ricordo della corsa disperata di Agar alla ricerca di acqua per il piccolo Ismaele. È un tragitto che viene percorso, tranne che per un breve tratto, a passo normale. Una volta giunti sui due pendii, i pellegrini recitano un versetto della sūra al-Baqara: “In verità Ṣafā e Marwa fanno parte dei sacri segni di Allāh: dunque per chi si reca alla santa Casa nel Pellegrinaggio maggiore (Ḥajj) o nella Visita (‘Umra) non c’è nulla di male nel girare ritualmente fra i due monticelli: chi poi nel bene fa volontariamente qualcosa in più di ciò che è prescritto, ebbene Allāh è Colui che accorda la Sua Gratitudine e Colui che tutto sa”38. Dopo il soggiorno a Mecca e una prima sosta a Minā, i pellegrini procedono verso la sosta di ‘Arafa (wuqūf ‘Arafa), una vallata situata a circa venti chilometri da Mecca, dove si soggiorna sin dopo il tramonto. Ad ‘Arafa, in cui non è previsto nessun rito particolare, la ma‘rifa, la Conoscenza si manifesta secondo un disegno totalizzante di Allāh che riguarda sia la Sua Maestà (Jalāl) che la Sua Bellezza (Jamāl).
Così è impossibile, mentre si è schiacciati da un peso insostenibile per qualsiasi cuore, non sentire il conforto di una gratitudine ben accetta.
Se il Signore non intervenisse ad ‘Arafa anche con i Suoi attributi di Bellezza, il servo sarebbe letteralmente travolto, sino a perdere del tutto la ragione. Si apprende così, a proprie spese, per Grazia di Allāh che il luogo della Vera Presenza è il luogo della più totale assenza di punti di riferimento per l’umana ragione. È ad ‘Arafa e dopo questa giornata che, secondo il Profeta Muḥammad, “Allāh scende verso il Cielo di questo mondo e si vanta di voi dinanzi agli Angeli dicendo: “I Miei servitori sono venuti da Me, scapigliati, per vie difficili, nella speranza del Mio Paradiso”. [poi, aggiunse, rivolgendosi ai pellegrini]: “Se i vostri peccati fossero tanto numerosi quanto i granelli di sabbia, le gocce di pioggia e la schiuma del mare, Io li perdonerei. Rifluite in massa, o Miei servi ai quali Io ho perdonato, così come a coloro per cui avete interceduto’” (Tabarānī).
Dopo il tramonto, i fedeli muovono verso Muzdalifa dove, dopo aver eseguito le preghiere del tramonto e della sera, trascorrono la notte. Rientrando a Minā, il giorno dopo, i fedeli, prima di eseguire il sacrificio e rasarsi i capelli, eseguono il ramī, ovvero la lapidazione della grande stele (jamrat al-‘aqaba) rappresentante Satana, effettuata tramite il lancio di sette sassolini mentre si pronunciano le parole Allāhu akbar. Questo rito viene eseguito nei tre giorni successivi, colpendo anche le altre due steli presenti a Minā, in riferimento ad Abramo: “Quando Ibrāhīm venne per compiere i riti del Ḥajj, Satana gli si presentò nel luogo dove sorge la grande stele e Ibrāhīm lo lapidò con sette pietre, al punto tale da farlo sprofondare nella terra. Si presentò di nuovo a Ibrāhīm nel posto in cui sorge la seconda stele e Ibrāhīm lo lapidò con sette pietre, al punto tale da farlo sprofondare nella terra. Gli si presentò ancora nel luogo dove c’è oggi la terza stele e Ibrāhīm lo lapidò di nuovo con sette pietre, al punto tale da farlo sprofondare nella terra” (Ibn Khuzayma).
Nel decimo giorno di Dhū l-Ḥijja si celebra soprattutto la festa del sacrificio (‘īd al-aḍḥā), detta anche festa grande (al-‘īd al-kabīr). Anche questa ricorrenza si riferisce ad un episodio riguardante la storia di Abramo, a cui Dio chiese il sacrificio più grande, quello, cioè, di suo figlio.
Dopo aver messo alla prova Abramo, Dio salvò suo figlio sostituendolo con un agnello, mantenendo però intatto il senso simbolico del sacrificio che, tuttora, viene commemorato.
Il luogo che ha ospitato il sacrificio, è indicato tradizionalmente presso la Moschea di ‘Umar, detta anche Moschea della Roccia, costruita sulla spianata che sorge al di là del Muro del pianto a Gerusalemme, terza città santa dell’Islām e anch’essa meta di pellegrinaggio. Vi è senz’altro un collegamento simbolico che unisce i luoghi santi d’Arabia a Gerusalemme, direzione della qibla fino al 624 quando Dio rivelò in modo definitivo al Profeta la centralità spirituale del luogo meccano. È un collegamento che ha una specifica funzione in riferimento agli avvenimenti escatologici.
Il pellegrinaggio viene concluso dal ṭawāf al-wadā’, il ṭawāf dell’addio, con cui ci si congeda dai luoghi santi, restituiti dal Profeta Muḥammad all’originaria ritualità abramica.
Quando il Profeta Muḥammad conquistò La Mecca si recò innanzitutto nell’area sacra e compì, sul suo cammello, il ṭawāf. Gli Arabi, decaduti dall’originario monoteismo di Abramo e Ismaele al politeismo, avevano circondato il sagrato con 360 idoli, numero che corrisponde ai giorni dell’anno lunare. Il Profeta infranse questi idoli, recitando, mentre li abbatteva, il versetto coranico: “È giunta la Verità; svanisce la falsità; certo la falsità è destinata a scomparire” (Corano XVII, al-Isrā’, 81).
26 Non è infrequente nei discorsi del Profeta il ricorso a immagini analoghe che diano, in riferimento alla grazia misericorde insita nella Rivelazione e nella missione profetica, il senso della protezione e della custodia perfetta rappresentata da un edificio o un’abitazione in genere. Si veda esemplarmente ciò che riporta un altro ḥadīth: “Jābir ibn ‘Abd Allāh – sia soddisfatto Iddio di ambedue – narrò che l’Inviato di Dio – Iddio lo benedica e gli dia eterna salute – aveva detto: “La differenza fra me e gli altri profeti è quella di un uomo che costruisce una casa, la perfeziona e l’abbellisce, senonché è vuoto il posto di un mattone angolare. La gente entra, circola, ammira e dice: se non mancasse quel mattone…’”, in La sapienza del Profeta Maometto, Guanda, Parma, 1996, p. 56.
27 Ḥadīth trasmesso, attraverso Al Bukhārī e Muslim, da ‘Umar Ibn al-Khaṭṭāb, in An-Nawawî, I Giardini dei devoti, p. 10.
28 “La radice QBL, in ebraico e in arabo, esprime essenzialmente il rapporto di due cose poste l’una di fronte all’altra […] e si sa che la stessa parola qiblah, nell’Islam, designa anche l’orientamento rituale, ed è, in ogni caso, la direzione che si ha davanti”, R. Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici, pp. 50 e 53.
29 Da Ibn ‘Umar, trasmesso da Al-Bukhārī e Muslim in An-Nawawî, I Giardini dei devoti p. 312.
30 An-Nawawî, I Giardini dei devoti, p. 101.
31 Ibn ‘Arabī, Futūḥāt al Makkiyya, cap. 71, in C. A. Gilis, Textes sur le jeune, Maison des livres, Alger, 1990, p. 45.
32 ‘Abd al-Qadir al-Jīlānī, Il segreto dei segreti, L’Ottava, Giarre, 1994, p. 166.
33 Naturalmente, al di là del momento obbligato del Ramaḍān, esiste, nella Sunna, una raccomandazione complessiva circa i benefici spirituali del digiuno, per esempio per quel che pertiene le date topiche della giornata di ‘Arafa, per tutti coloro che durante il mese di Dhū l-Ḥijja non stiano compiendo il Pellegrinaggio: “Si tramanda da Abū Qatāda: “Domandarono all’Inviato di Allāh del digiuno del giorno di ‘Arafa, e lui disse: “Esso è espiazione per l’anno che sta finendo e per quello che viene”. Lo riporta Muslim” (Al-Nawawî, I Giardini dei devoti, p. 582); o per il decimo giorno del mese sacro di Muḥarram, in cui ricorre la definitiva salvezza del popolo di Mosè dall’Egitto: “Si tramanda da Abū Qatāda: “Domandarono all’Inviato di Allāh del fatto di digiunare il giorno di ‘Āshūrā, e lui disse: “Esso è espiazione per l’anno passato”. Lo riporta Muslim” (Ibid.); o nella giornata cruciale di lunedì e i tre giorni mediani di ogni mese: “Si tramanda da Abū Qatāda: Chiesero all’Inviato di Allāh a proposito del digiuno del lunedì, ed egli rispose: “Questo è il giorno nel quale sono nato, ed è il giorno nel quale sono stato inviato [come Profeta]! o forse disse “nel quale è stata fatta discendere su di me [l’ispirazione]”. Lo riporta Muslim” (Ivi, p. ٥٨٣); “Si tramanda da Abū Dharr che l’Inviato di Allāh disse: “Quando digiuni tre giorni del mese, digiuna il tredicesimo, il quattordicesimo e il quindicesimo giorno”. Lo riporta al-Tirmidhī” (Ivi, p. 585).
34 Sulla questione delicatissima delle cause seconde, i Maestri hanno dato risposte differenti, ma le apparenti divergenze devono essere ricondotte all’eterogeneità delle situazioni verificatesi e alla peculiare condizione spirituale dei discepoli destinatari della rispettiva indicazione magistrale. Le due possibili posizioni fondamentali riguardo all’“appoggio sulle cause seconde” (al-i‘timād ‘alā l-asbāb) sono state formulate da Ibn ‘Arabī nelle Futūḥāt al-Makkiyya, e, sulla sua scorta, dall’emiro ‘Abd al-Qādir al-Jazā’irī: “L’affidarsi completamente alle cause seconde comporta infatti il negare l’Onnipotenza divina, mentre uno dei nomi di Allāh è l’“Onnipotente” (al-Qādir); l’abbandonarle totalmente comporta il negare la Saggezza divina, mentre Egli si chiama anche “il Saggio” (al-Ḥākim); e se Egli ha scelto di istituire delle cause seconde e di nascondere dietro a esse la Sua Onnipotenza, ciò non è stato senza motivo” (Abdel Kader, Il libro delle soste, Bompiani, Milano, 2001, pp. 178-179).
35 “La talbiya è una formula rituale di eredità profetica che il pellegrino pronuncia durante il periodo in cui esegue i riti del pellegrinaggio. Si tratta secondo lo Shaykh al-Akbar di un rito essenziale (rukn) che accompagna lo stato di sacralizzazione. La formula deve essere detta “almeno una volta” e a voce alta; in pratica, il pellegrino la pronuncia subito dopo essersi sacralizzato”: ‘Abdu r-Razzâq Yahyâ (Charles-André Gilis), La dottrina iniziatica del pellegrinaggio, Edizioni di Orientamento, Caprara di Campegine, 2007, p. 138.
36 Ivi, p. 153.
37 “O Signor nostro, ho stabilito una parte della mia progenie in una valle sterile, nei pressi della Tua Sacra Casa, affinché, o Signor nostro, assolvano all’orazione. Fai che i cuori di una parte dell’umanità tendano a loro; concedi loro [ogni specie] di frutti. Forse ti saranno riconoscenti” (Corano, XIV, Ibrāhīm, 37).
38 Corano, II, al-Baqara, 158.