III.
Dalle ‘clausole’ ai ‘principii’:
a proposito della interpretazione
nel tempo pos-moderno

1. Le ‘clausole generali’ in un consapevole messaggio del 1966; 2. Il tempo giuridico pos-moderno tra ‘clausole generali’ e ‘principii’; 3. Il tempo dei ‘principii’ e il ruolo dell’interpretazione; 4. In particolare, sui principii costituzionali e sulla loro carica assiologica; 5. Sulla odierna giudizialità del diritto e sul rischio di un estremo soggettivismo.

1. Sembra appartenere a un tempo remoto quel 18 dicembre del 1966, quando io, già da alcuni mesi incardinato a Firenze ma ancora spiritualmente legato al caro Ateneo di Macerata, ascoltai – decisamente ammirato – il discorso inaugurale dell’anno accademico maceratese, che il Rettore, con gesto assai provveduto, aveva affidato a un giovane ‘professore straordinario di Diritto civile’, Stefano Rodotà91.

A molti quel discorso parve una voce volutamente provocatoria, a taluno – addirittura – una dissacrazione. A me, legatissimo già allora a Stefano da vincoli di sincera stima, parve quel che effettivamente era e volle essere: un atto di grosso coraggio culturale. Facendo tesoro degli spunti contenuti nelle voci Codice Civile e Diritto Civile scritte appena qualche anno prima, con un piglio tutto nuovo, da Rosario Nicolò92, vi si parlava di storicità del diritto, di un nuovo ruolo delle ‘clausole generali’, di una ‘legislazione per principii’ e del connesso problema – ormai ritenuto stringente – «dell’apporto del giudice alla elaborazione ed alla applicazione del diritto»; vi si parlava soprattutto della improrogabile necessità per ogni giurista (e, in primis, del privatista) di fare i conti in Italia con quel forziere di valori e, al tempo stesso, breviario di vita giuridica concretizzato nella ‘Carta’ del 1948.

Il vecchio castello legale del diritto civile veniva a incrinarsi nelle fondamenta: la Costituzione, infatti, era ancora ritenuta dai più un fastidioso ingombro, che era generalmente rimosso da un gregge di civilisti ancora beati di navigare nel mare tranquillo dell’eredità giusnaturalistica93 e ancora convintissimi del bene supremo di una indefettibile astrattezza delle forme giuridiche, immuni in tal modo dalla fangosità dei fatti quotidiani. E un testo persisteva nel suo primato fra i libri di iniziazione giuridica, quelle Dottrine generali redatte venti anni prima da Santoro Passarelli e che continuavano a proporsi per la maggioranza silenziosa quale modello degno di imitazione, se non di venerazione.

Alle spalle del discorso maceratese del ’66, l’atteggiamento generale comune a tutti i civilisti sanamente legalisti era fortemente riduttivo verso le ‘clausole generali’: queste, frutto specifico della civiltà dei Codici, non potevano che avere il carattere di maledette eccezioni all’interno di un tessuto potenzialmente completo e percorso da una formidabile coerenza interiore quale è, nella visione legolatrica moderna, ogni Codice. Eccezioni che non si poteva non tollerare, perché consentivano al chiuso sistema cartaceo di non separarsi interamente dalla dinamica dell’esperienza, ma che dovevano mantenere il carattere della assoluta eccezionalità a causa del loro carattere massicciamente intrusivo. Però, sempre e comunque maledette dalla coinè ufficiale, giacché – essendo troppo spesso inserimenti di corpi estranei di indole fattuale – turbavano la compattezza di un messaggio legislativo rigidamente unitario.

2. Rodotà, lungi dal mettersi al seguito del corteggio ufficiale, si guardò bene dal cogliere in esse delle eccezioni a stento tollerate. Per lui assumevano, piuttosto, la funzione di un grimaldello per ottenere un non eversivo rinnovamento dell’ordine giuridico. Nel ’66, il giovane civilista assai attento al divenire socio-economico parlava, infatti, espressamente di un nuovo e più efficace ruolo che il nuovo contesto storico stava assegnando alle clausole generali: «rappresentano gli strumenti più adeguati a regolare una realtà dal dinamismo crescente e quindi irriducibile alla tipizzazione di ipotesi già definite». Percezione precisa inserita all’interno di una percezione non meno precisa ma assai più ampia, e cioè entro «il problema degli strumenti da mettere a disposizione del giudice per esaltare al massimo la sua responsabilità».

E qui risalta con chiarezza quanto poco innocuo fosse il progetto dell’allievo romano di Nicolò, almeno per quanto concerneva il rispetto delle decrepite mitologie giuridiche della modernità.

Ma c’è da chiarire un punto: io ho, all’inizio, esordito enfaticamente cogliendo nel discorso inaugurale maceratese un qualcosa che ci appare oggi assai remoto. Intendevo sottolineare come quel discorso, coraggioso per il momento in cui fu pronunciato e ben proiettato verso un tempo futuro percorso da mutamenti squassanti, laddove faceva leva sulle clausole generali si sarebbe visto superare dagli eventi degli ultimi decennii del secolo scorso, ormai nettamente incamminati verso nuovi orizzonti.

Il tempo delle clausole generali – per riprendere il titolo di certe successive riflessioni di Rodotà (anno 1987) – avrebbe ceduto a un tempo sempre più dominato dalla primazia dei principii94. Infatti, oltre il problema specifico delle ‘clausole’, il recente tempo pos-moderno ha fatto affiorare disagii, esigenze, soluzioni così innovativi, sul piano radicale delle fonti del diritto in Italia, da disegnare un paesaggio giuridico diametralmente innovato rispetto al mondo dei Codici e delle valvole respiratorie aperte nel loro seno95.

3. Sembra di essere di fronte a una inversione di valori: certezza, chiarezza, determinatezza sembravano essere i pregii imperituri della Norma, che – grazie ad essi – poteva assurgere al rango di pietra portante di un intiero edificio; pregii imperituri, perché si era creduto di costruire per un periodo lunghissimo, se non per sempre. È che il movimento e mutamento, rapidissimi e sconvolgenti, hanno eroso architetture ritenute robustissime, spazzando via alla base verità stabilite da una generale credenza come dogmi.

La Costituzione, evocata da Nicolò nelle sue ‘voci’ enciclopediche e da Rodotà nel suo discorso, non è una variazione sul tema delle fonti, ma – piuttosto – una carica assiologica munita di tale intensità da pretendere nuove orientazioni e nuove bussole per il novello navigatore. Il costituzionalismo pos-moderno, quello pos-weimariano per intenderci, che ha assai poco a vedere con le vecchie ‘carte dei diritti’ di impronta giusnaturalistica, proprio per radicarsi in un autentico pluralismo sociale e giuridico96, ha mostrato che è fallace (e, pertanto, falsante) arrestarsi a una dimensione giuridica identificata in una epifania di comandi; che, ben al di là dello Stato e della legge, v’è una realtà radicale collocata negli strati più riposti di una civiltà, dove il diritto ha la sua gènesi e dove trova i suoi essenziali tratti distintivi, impressionando di sé ogni manifestazione riscontrabile alla superficie.

La carica rivoluzionaria, che il costituzionalismo pluralistico del Novecento nutre in sé, sta precisamente nel richiamo pressante a cercare e trovare il diritto nel sostrato valoriale di una civiltà storica; ed è quello che hanno, per esempio, fatto, nel biennio straordinariamente fertile tra il 1946 e il ’48, i nostri Padri Costituenti: seppero leggere nel profondo d’una società finalmente libera e responsabile, finalmente in grado di costruire consapevolmente la propria storia. In quel profondo lessero con sguardo acuto i valori circolanti (oh, quel verbo riconoscere così frequente e così eloquente sulla bocca dei Patres!), ne trassero una consolidazione di principii, che, ricchi di contenuti assiologici, risultano innervati da una vivace carica espansiva (rilevata scrupolosamente dai giuristi più vigili) e possono egregiamente fungere da matrici dello specifico e dettagliato articolarsi in norme97.

Più volte, nel corso di questi ultimi anni98, mi è capitato di esprimere con piena persuasione che il diritto costituzionale è, in sostanza, il risultato di una invenzione, ribadendo l’accenno di prima a un invenire, un cercare e trovare in riposte realtà radicali; persuasione che vorrei estendere ora anche al terreno del diritto civile. E a un mio libro ho dato risolutamente un titolo dal timbro icastico: «L’invenzione del diritto».

Quanto è accaduto (e sta tuttora accadendo in questa nostra maturità pos-moderna) segnala grosse vistosissime modificazioni del paesaggio giuridico: quale conseguenza del moltiplicarsi e anche del de-tipicizzarsi delle fonti, è – tra l’altro – sminuita quella dimensione potestativa che aveva contrassegnato pesantemente il diritto – diritto legale – per tutta l’età moderna, supportàndolo ma anche condizionàndolo e alteràndolo; al contrario, si è indubbiamente ingigantito il ruolo dell’interprete, di ogni interprete, il quale non potrà non identificarsi nelle competenze specifiche dei giuristi, teorici e pratici99. L’asse portante, in un mondo giuridico investito da mutamenti troppo rapidi e incisivi, si sposta sulla interpretazione, e la linea di svolgimento è disegnata nettamente: dalla centralità della produzione del diritto come atto creativo dello Stato alla centralità del momento interpretativo.

Non può che essere così: i principii vanno interpretati, spettando solo all’interprete di definirli, ordinarli, categorizzarli. L’affidamento ai principii è l’insegna del nostro tempo e ha irradiazioni molteplici in Italia come in Europa100, in numerose manifestazioni sia private sia ufficiali. Segno di una convinzione diffusa, di cui si è sempre più consapevoli: convinta sfiducia nelle capacità dei legislatori a ordinare la complessità giuridica; convinta sfiducia nella stessa ‘legge’, inadeguata per la sua intrinseca rigidità di fronte a una dinamica socio-economica troppo rapida. Si ha, insomma, coscienza che non servono strumenti rigidi, anche se certi nella loro determinatezza. Se i principii soffrono di generalità e di indeterminatezza, garantiscono quel grado elevato di elasticità di cui la dimensione giuridica ha bisogno, tanto più in un tempo di transizione, se vuole essere effettivamente ordinamento del sociale.

In Italia, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, è stato un atteggiamento di cui si è fatto portatore perfino lo stesso legislatore positivo, spesso decisamente teso a offrire principii più che dettagliatissime regole. L’esempio più cospicuo appare il cosiddetto ‘Codice del processo amministrativo’ del 2010, modello indiscusso di questo nuovo legiferar per principii, più consolidazione che codificazione vera e propria, indubbio gesto di responsabilità del nomoteta che intende salvaguardare il risultato della propria operosità affrancàndola dalla vecchia sicumera (diventata ormai oltremodo rischiosa) di voler tutto prevedere e disporre dall’alto101.

4. I principii – lo abbiam detto – hanno un costo (l’indeterminatezza) ampiamente compensato da quella elasticità che sembra particolarmente idonea a ordinare un momento di transizione. Sia però chiaro: l’opacità, che l’indeterminatezza conferisce ai principii, si vanifica quando si tratta di principii costituzionali. Il loro essere radicati con immediatezza nello humus dei valori ne fa qualcosa che ha una indiscutibile forza intrinseca e che permette loro di campeggiare con stabilità sul mare movimentato delle semplici accidentalità.

È il nodo centrale messo a fuoco in un recente Congresso avente a oggetto la problematica di cui qui si discorre102 e concerne precisamente il tema/problema della applicazione diretta dei principii costituzionali. Capisco le perplessità che può generare una simile ammissione, ma credo che oggi – anno di grazia 2017, ovverosia a settanta anni dalla entrata in vigore della nostra Costituzione – si debba da parte nostra un atto di lealtà verso il messaggio che da essa proviene e che risulta assolutamente franco e sonoro nel dettato dei primi tre articoli.

Dobbiamo, insomma, prendere alfine quella coscienza che abbiamo faticosamente e stentatamente trascinato incompiuta fino ad oggi a causa della nostra pigrizia culturale. Negare, per esempio, la intrinseca – cioè nativa, originaria – giuridicità del principio di solidarietà enunciato nitidamente nell’articolo 2 avrebbe il deplorevole risultato di dimostrarci ancora irretiti da quelle mitologie giuridiche della modernità, che sono scese tanto suadentemente nella statua interiore del giurista italiano fino a conformarne una sorta di pseudo-ossatura103.

Chi scrive queste poche righe apparteneva, nel 2013, al Collegio che varò due memorabili ordinanze della Corte costituzionale proprio su questo delicato ma significativissimo punto. Solo per comodità del lettore distratto ne rammemoro i tratti distintivi: nel contrasto fra clausola contrattuale che prevede una caparra eccessiva e il principio di solidarietà previsto dall’articolo 2, quale la soluzione costituzionalmente corretta? Non posso celare che io fui tra quei giudici che – accolta la soluzione proposta dal relatore, il giudice Mario Morelli, di inammissibilità per difetto di motivazione in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza – ne condivisero pienamente la affermazione che il giudice rimettente avrebbe dovuto risolvere il problema facendo applicazione diretta del principio di solidarietà consacrato nell’articolo 2104.

È ovvio che è in gioco il vólto essenziale di un ordinamento giuridico e che «il rischio è quello di affiancare – senza che ciò trovi supporto in una modificazione formale del sistema delle fonti – al diritto ‘scritto’ (fondato sulla legge) un diritto di fonte ‘giurisprudenziale’ (fondato sull’equità), considerato idoneo a derogare al primo ogni qualvolta le caratteristiche del caso concreto segnalino come ‘ingiusto’ l’esito che in base ad esso dovrebbe essere sancito»105. Né è da tralasciare che un altro rischio può incombere, ossia un margine elevato di soggettivismo.

Sono perplessità seriamente meditate, ma che, forse, almeno ai miei occhi, indulgono troppo a cogliere l’ordinamento in una sua statica immobile. E, mentre indulgono ugualmente troppo sulle virtù taumaturgiche del legislatore, sono incomprensibilmente restìe a utilizzare le enormi risorse disponibili nel ricco forziere valoriale della Costituzione, un forziere sulla cui appartenenza al patrimonio giuridico della Repubblica non è lecito ad alcuno dubitare. Quel che, forse, il giurista di diritto positivo non fa abbastanza è di aprire le finestre del proprio studio e dare uno sguardo attento fuori, fuori dove la società è preda di un continuo auto-ordinarsi, tacito, fattuale, senza brusche forzature ma sicuro nel tentativo di consolidare qualcosa di effettivo.

Sarà che l’avere insegnato per tanti anni la storia del diritto e l’essermi dedicato per tanti anni a cogliere le relazioni fra i più diversi contesti storici e la dimensione giuridica hanno inserito nelle mie vene delle salvanti dosi di realismo, ma la verifica che io mi sentirei di affrontare come liminale e indispensabile chiarimento è di registrare, con uno sguardo disponibile, l’attuale svolgimento della dinamica giuridica della Repubblica. Dove lo spettacolo, sconcertante, è il seguente: lo Stato sociale costituzionale stenta a realizzarsi soprattutto nelle sue concretizzazioni pluralistiche, e resta invece, anche se abbastanza antinomico, lo scheletro del vecchio Stato di diritto di impronta liberal-borghese con tutta la sua rigidezza monistica; e perdura l’assolutismo giuridico fissato nelle ‘Preleggi’ del 1942, che parlano ormai un linguaggio antistorico e sono soltanto la figurazione emblematica della nostra pigrizia culturale. E noi continuiamo a parlare di legalità dando tuttora a questa nozione il contenuto che ad essa avrebbero dato Donato Donati e Oreste Ranelletti.

C’è, in Italia, come sopra si accennava, un grande processo in atto, che non è frutto di un dèspota, o di una classe politica, o di una riflessione scientifica, ma è piuttosto una dinamica spontanea che la prassi giurisprudenziale, per il suo inevitabile collocarsi sulle trincee estreme dell’esperienza quotidiana, non ha potuto fare a meno di affrontare; che, piuttosto, il potere politico, pur investito di precise funzioni rappresentative in una democrazia parlamentare, non ha avuto né la forza né la volontà di assecondare, lasciando al ceto dei giuristi la responsabilità di formare una nuova coscienza giuridica e di avviare la trama di un nuovo diritto di marchio prevalentemente giudiziario. E ai legislatori non è restato che scendere dal vecchio trono monarchico constatando che la monocrazia legislativa apparteneva ad un passato irrimediabilmente passato.

Lo storico del diritto ha solo un modesto messaggio da offrire, ed è l’unico di fronte alla effettività di un rivolgimento storico: diffidiamo dell’improvvisarci cantori e laudatori di un tempo trascorso, diffidiamo di inutili esorcismi; la storia li rifiuta soprattutto quando si fanno consistere nella riesumazione di improponibili mitologie.

5. Su un’altra perplessità conviene che si rifletta, riprendendo il semplice accenno fatto poco sopra: il soggettivismo estremo nel quale si piomberebbe in un ordinamento dalla forte impronta giudiziale. E lo spettro evocato è proprio la discrezionalità nelle mani dei giudici.

Respingo, innanzi tutto, il primo presupposto di un tale assunto, il quale non può che consistere nella persistenza ingiustificata della credenza mitologica la più fondativa della modernità giuridica: la visione ottimistica di ogni legislatore, con la riproduzione nel presente anno di grazia 2017 delle pseudoverità propinàteci nel secolo XVIII da fisiocrati, illuministi, giacobini, tesi tutti a ingigantire (idealizzàndola) la figura del Principe nomoteta.

Oggi, questo Principe è stato ‘scoronato’106 dalla storia, perché, misuràndosi coi grandi eventi storici del Novecento, la corona gli è clamorosamente caduta dalla testa. Pertanto, credo proprio che il primo lavacro culturale da compiere da parte del giurista di civil law sia di detergere il fondo del suo animo dai residui post-illuministici che vi si sono sedimentati e che hanno alterato la criticità delle sue capacità cognitive. La nozione di discrezionalità del giudice non può ricevere oggi una reazione pari a quelle di Muratori, di Beccaria, dei fratelli Verri, invecchiate dal trascorrere impetuoso di ben duecentocinquanta anni107. Peccheremmo macroscopicamente di antistoricità.

Condividerei, invece, totalmente quello che si è detto con franchezza da talune voci in seno al Convegno poco sopra menzionato: «quando si discorre di discrezionalità del giudice in tema di clausole generali, dovrebbe sempre puntualizzarsi che questa discrezionalità, da intendersi come discrezionalità interpretativa, non si spinge mai fino al punto della creazione della regola da parte del giudice»108. L’attività giudiziale non ha, né potrebbe mai avere, quella impronta di arbitrarietà con cui la tradizione moderna si è premurata di contrassegnarla, perché sempre la connoterà una attività di ricerca e di lettura all’interno di un sentire diffuso e condiviso109. L’attività del giudice di individuazione di regole non sarà inventiva «se non nel senso etimologico di trovare, scoprire cercando»110.

È ovvio, poi, che il discorso in tema di clausole generali a maggior ragione potrà essere confermato nell’impatto del giudice con quella realtà più ampia che sono i principii. Nulla di creativo, ma sempre un’attività inventiva che, questa volta, attinge direttamente agli strati più riposti di una civiltà giuridica dove allignano i valori.

91 Si tratta del notissimo Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in «Rivista del diritto commerciale», LXV, 1967.

92 Per la Enciclopedia del diritto, rispettivamente nel 1960 e nel 1964.

93 Di un ‘vizio giusnaturalistico’ della scienza civilistica italiana moderna ho parlato espressamente in La cultura del civilista italiano, Giuffrè, Milano 2002, pp. 1 sgg., e più recentemente, in Fattualità del diritto pos-moderno: l’emersione di un diritto ‘agrario’ in Italia, in «Diritto Agroalimentare», I, 2016, dove il primo paragrafo è intitolato Sul vizio giusnaturalistico del diritto civile moderno: individuo e cose nell’irrealtà dell’astrattezza.

94 Ci ho riflettuto sopra in Sulla odierna incertezza del diritto (2014), ora in Ritorno al diritto, Laterza, Roma-Bari 2015.

95 Su questo innovato paesaggio giuridico sono incentrati i saggi contenuti nel mio Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari 2012.

96 L’essere specchio di una società autenticamente plurale è il contrassegno fondamentale della nostra Costituzione; questo ho ritenuto di puntualizzare nella recente lectio inaugurale dell’anno accademico 2016-17 della Sapienza Università di Roma, tenuta nella Aula Magna di quell’Ateneo il 19 gennaio 2017 (cfr. P. Grossi, La Costituzione italiana quale espressione di una società plurale, lectio pubblicata in www.uniroma1.it e in «Nuova Antologia», CLI, 1, 2017, fasc. 2280, pp. 5-10).

97 Rinvio a quanto ne ho detto in una lezione maceratese di qualche anno fa, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno, poi in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», LXIII, 2013, pp. 607 sgg., ora in L’invenzione del diritto, Laterza, Bari-Roma 2017, pp. 39 sgg.

98 Già in una lezione napoletana del 2011: Ordine, compattezza, complessità. La funzione inventiva del giurista, ieri ed oggi, ora in P. Grossi, Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari 2012. Percezione pienamente ripresa in La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno, cit.; in L’invenzione dell’ordine costituzionale: a proposito del ruolo della Corte, in «Giustizia civile», 2, 2016; in L’invenzione della Costituzione: l’esperienza italiana, in «Diritto pubblico», 3, 2016; in Il giudice civile. Un interprete?, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 4, 2016. Saggi tutti ricompresi nel sopracitato volume L’invenzione del diritto.

99 Di grosso rilievo culturale è, oggi, il volume di Nicolò Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, Giuffrè, Milano 2017.

100 Una documentazione in P. Grossi, Il messaggio giuridico dell’Europa e la sua vitalità: ieri, oggi, domani, in «Contratto e impresa/Europa», XVIII, 2, 2013, pp. 681-695 (in lingua inglese: Europe’s Message about Law and its Vitality: Past, Current and Future Perspectives, in «European Business Law Review», 25, 2014, pp. 349-360; in lingua tedesca: Die Botschaft des europäischen Rechts und ihre Vitalität gestern, heute, morgen, in «Rechtsgeschichte. Legal History», 22, 2014, pp. 257-267).

101 Grossi, Sulla odierna incertezza del diritto, cit., pp. 93-95.

102 Gli Atti del Congresso sono ora raccolti in Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, a cura di G. D’Amico, Giuffrè, Milano 2017.

103 Non mi resta che rinviare a quanto ne ho scritto in Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2007 (terza ed. accresciuta).

104 Nelle due ordinanze (la n. 248 del 2013 e la n. 77 del 2014) la Corte non aveva mancato di rilevare che il Tribunale rimettente «non aveva tenuto conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come da sua prospettazione) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità ex officio della nullità (totale o parziale) ex art. 1418 cod. civ. della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’art. 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa».

105 G. D’Amico, Principi costituzionali e clausole generali: problemi (e limiti) nella loro applicazione nel diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), in Principi e clausole generali, cit., p. 99.

106 Prendo a prestito da Capograssi questo aggettivo, da lui efficacemente adottato in un suo saggio del 1918, per qualificare lo Stato novecentesco (G. Capograssi, Saggio sullo Stato [1918], ora in Opere, Giuffrè, Milano 1959, vol. I, p. 5).

107 Tutte tese a dipingerci un giudice immerso nelle sue passioni e, quindi, pressoché incapace di decisioni serenamente critiche.

108 F. Di Marzio, Ringiovanire il diritto? Spunti su concetti indeterminati e clausole generali, in Principi e clausole generali, cit., p. 139.

109 Ivi, p. 141.

110 Ivi, p. 139.