Domenica, 13 luglio

Ieri sono sbarcato ad Amsterdam, dopo sei settimane di viaggio. Andar per mare m’è riuscito quanto mai penoso: la calura era soffocante; il vitto, pessimo; l’acqua, salata; e come se non bastasse, si son contati diversi morti a bordo, di malattia. Negli ultimi giorni a questi flagelli si è aggiunta la minaccia delle fregate inglesi, che corrono la Manica e sequestrano imparzialmente le navi di qualsiasi nazionalità, purché sospettate di commerciare con la Francia o con la Prussia. Il nostro capitano, Mr. Pemberton, dell’Alabama, mi aveva avvertito che se un bastimento inglese ci avesse abbordati, e gli ufficiali avessero preteso di arruolare a forza qualcuno dei nostri marinai, secondo la loro usanza, egli avrebbe fatto tirare freddamente su di loro; né avevo potuto in alcun modo dissuaderlo da quei propositi bellicosi, benché mi affannassi a spiegargli la mia situazione; ma la buona sorte ci ha permesso di toccar terra senza cattivi incontri. I doganieri olandesi, saliti a bordo con una barca, hanno frugato senza fretta i miei bagagli, e ho dovuto lasciarli fare, riflettendo in cuor mio sulla durezza dei tempi: poiché prima della Rivoluzione, a quanto ricordo, l’ingresso in Olanda era del tutto libero, e si paragonava favorevolmente con le mille noie delle dogane inglesi.

All’arrivo, dopo aver trovato alloggio il più possibile lontano dal traffico del porto, sono entrato in un caffè e ho mandato a cercare i giornali. La serva, cui mi ero rivolto nella mia lingua, è subito ritornata con una pipa, la prima cosa cui un olandese pensa entrando in una taverna; è risultato che essa non parlava neppure una parola d’inglese, e ho durato non poca fatica per farle comprendere che cosa desideravo, ma mi è parsa comunque assai sorpresa che avessi rifiutato la pipa. Ad Amsterdam si vendono soltanto gazzette francesi, senza contare quelle olandesi: i giornali inglesi non passano da quando Bonaparte ha proibito qualsiasi commercio con l’Inghilterra e il nuovo re d’Olanda, suo fratello, si è visto costretto a seguirne l’esempio, fingendo di ignorare il malcontento del suo popolo. Da questa lettura ho appreso che Pinkney, partito da Baltimora una settimana dopo di me, è già sbarcato a Liverpool; che il desiderio di pace è universale in Europa, e che il ritorno in patria dell’armata francese è questione di poche settimane. Il tono dei giornali non permette di comprendere se Bonaparte sia davvero sazio delle sue conquiste o non stia semplicemente tentando di abbagliare il mondo con belle parole, come credo più probabile. La stampa francese osserva la più grande cautela nel menzionare le azioni o i disegni del governo; ciò offre un piacevole contrasto con l’eccessiva libertà di stampa prevalente in America, dove ogni provvedimento governativo e ogni personaggio pubblico sono attaccati nei giornali con indiscriminata acrimonia. In ogni caso il “Moniteur” non mente quando afferma che il desiderio di pace è universale, anche se, come spesso accade, la gente tende a scambiare i propri desideri per la realtà: due commercianti francesi, seduti al tavolo vicino al mio, giudicavano che la Russia e l’Inghilterra concluderanno al più presto un accordo con la Francia, assicurando finalmente la tranquillità dell’Europa. Quanto alla guerra della Prussia contro l’Inghilterra, non se ne parla affatto, e sebbene non sia stato firmato un trattato di pace, tutto lascia pensare che nessuna delle due parti abbia alcuna intenzione di prenderla sul serio: non il re di Prussia, che ha perduto nei primi giorni di guerra tutte le sue navi e il suo commercio, e neppure il gabinetto inglese, che preferirebbe senza dubbio tornare in possesso dell’Hannover in modo più pacifico. Ma ecco un esempio del credito che conviene dare alle indiscrezioni dei giornali: i fogli francesi pretendono di sapere per certo che Mr. Fox non è affatto in via di guarigione, come ripete la stampa inglese, ma al contrario peggiora di giorno in giorno, tanto che i suoi medici hanno rinunciato alla speranza di salvarlo; gli ultimi giornali inglesi che ho avuto occasione di vedere in America prima di imbarcarmi sostenevano, non meno sicuri di sé, che al contrario è Bonaparte a trovarsi in punto di morte, per effetto degli stravizi cui si è abbandonato nel fasto della sua nuova corte. Per quanto mi riguarda dovrà passare ancora molto tempo prima che possa permettermi qualche piacevole eccesso: stasera per la prima volta ho potuto prendere un po’ di brodo, ma il mio stomaco non si è ancora del tutto rimesso dai patimenti del viaggio.

Lunedì, 14 luglio

Amsterdam è ancor sempre la grande città che ricordavo, ma il porto è in disarmo; sui canali si affolla una moltitudine di piccole imbarcazioni, ma la vista di un bastimento a tre o quattro alberi che passa a vele spiegate in mezzo alle case è diventata rara. Il paese è impoverito dalle enormi esazioni che gravano sugli abitanti per il mantenimento dell’armata francese; mentre a causa del bando imposto al commercio inglese i traffici non sono mai stati così scarsi. L’antica intraprendenza degli olandesi ha lasciato il posto a un torpore cui contribuisce, a mio giudizio, l’abuso del tabacco: ogni bocca è provvista di una pipa, e persino il facchino che ha trasportato i miei bauli in un carretto non poteva mettersi in cammino prima di accenderla. Mynheer,1 considerato che il tè, il cotone e le spezie non profittano più come una volta, investe il suo capitale in sovrane d’oro, le nasconde nella stufa e se ne sta placidamente a fumare contemplando il suo canale preferito, le cui acque ristagnano al pari dei suoi pensieri. Il re Luigi nomina ogni giorno generali, accademici e ciambellani, i cui nomi sono doverosamente riportati dalle gazzette ufficiali, e sono quasi tutti nomi francesi. Per il resto, si assicura ch’egli vorrebbe guadagnare il favore del popolo, e a questo scopo ha fatto istituire nel suo palazzo dell’Aja un gabinetto da fumo, dove si ritira per ore a fumare la pipa, nella speranza di assomigliare ai suoi sudditi; costoro, tuttavia, non sembrano disposti a dimenticare che il re è pur sempre uno straniero, imposto dalle baionette di suo fratello. Molte merci importate dall’Inghilterra cominciano a essere difficili da trovare; tuttavia nei caffè si beve una cioccolata eccellente, che sta lentamente rimettendo in sesto il mio stomaco.

Grazie ai buoni uffici del nostro console generale in Olanda, Wyeth, che sono andato a trovare stamane, ho acquistato una vettura quasi nuova, una carrozza da viaggio a quattro cavalli, che mi è costata cinquecento fiorini, pari se ho fatto bene i conti a centonovantacinque dollari; molto meno, cioè, di quanto mi sarei aspettato. Partirò dunque domattina alla volta di Berlino, per Münster, Hannover e Brunswick, invidiato da Wyeth, che trova detestabile la birra olandese e sta meditando da tempo di rassegnare le dimissioni e ritirarsi a vita privata nella natìa Virginia. Nel pomeriggio avrei voluto andare a spasso, ma il cattivo tempo me l’ha impedito; in un medesimo giorno abbiamo avuto il caldo, il freddo, l’acqua, il sole e la tempesta, e Will, che ho spedito a fare diversi acquisti indispensabili per il viaggio, è tornato all’albergo fradicio come un ranocchio. Benché gli abitanti siano avvezzi a questo bel clima e naturalmente robusti, i reumi, i catarri, le podagre e i mali di petto debbono essere le malattie più alla moda da queste parti.

Solo verso sera, quando la pioggia ha smesso di cadere e il sole si è mostrato per un istante fra le nubi, ho arrischiato una breve passeggiata, mentre i miei bagagli venivano caricati in carrozza. Non oserei raccomandare Amsterdam a chi viaggia in cerca di bellezze architettoniche; e tuttavia non manca di luoghi dove prendere il fresco. Gli edifici sono di mattoni, alti tre o quattro piani, e per lo più d’apparenza insignificante, ma gli alberi che costeggiano i canali coprono col loro verde il cattivo gusto dell’architettura; le ombre che proiettano sulle facciate e i riflessi delle loro foglie nell’acqua ingannano l’occhio e il giudizio dello spettatore, offrendo un piacevole contrasto con la monotonia delle costruzioni. La pulizia immacolata che regna dappertutto, nelle strade come nelle case, supera qualunque immaginazione e non finisce di sorprendere considerando il carattere degli abitanti; gli olandesi infatti sono assai sudici nella persona, sicché ha forse ragione Wyeth quando afferma che il lindore delle loro case non deriva affatto da un gusto proprio della nazione, ma solamente dalla necessità. «L’umidità esalata dai canali» sostiene «è tale che se questa gente trascurasse di lavare le mura delle case, in pochi giorni il salnitro le ricoprirebbe di muffa.» È vero che l’ossessione della pulizia si è talmente radicata nel carattere della nazione da perdurare, per generazioni, anche dopo il trapianto in un paese e un clima completamente differenti, come abbiamo modo di sperimentare ogni giorno fra gli olandesi d’America. In ogni caso si tratta di un’abitudine assai scomoda: più di una volta ho rischiato di essere inzuppato da donne di servizio impegnate a lavare e rilavare finestre su cui non si scorgeva la più piccola traccia di polvere.

Benché fosse ancora giorno, la città pareva addormentata e pochi negozi erano aperti; solo davanti alla Borsa alcuni commercianti ritardatari animavano col loro brusio il silenzio delle strade circostanti. Nella bottega di un ebreo, rivenditore di libri usati, ho trovato un’operina curiosa: si tratta, o almeno così pretende l’editore, delle memorie della margravia di Bayreuth, sorella del gran Federico, contenenti i più straordinari pettegolezzi sulla vita privata della corte di Berlino. Il volume non porta né la data d’impressione né il nome dello stampatore; l’ebreo mi ha assicurato che la bottega che ha stampato l’opera è fallita dopo averne tirate pochissime copie, e che il manoscritto si trova ora a Parigi, dove Bonaparte intende procurarne quanto prima la stampa e la diffusione, al fine di gettare il discredito sulla casa di Prussia. Osservando il mio interesse per queste materie, il libraio ha aperto un cassetto chiuso a chiave, e ne ha estratto un opuscolo scandaloso sugli amori del defunto re di Prussia Federico Guglielmo II, uscito ad Amsterdam dieci anni fa, e intitolato graziosamente Saul II, detto il Re Grasso di Kanonenland, e le sue amanti; benché mi assicurasse che il libro era proibito, e che egli correva un rischio personale a tenerlo in negozio, gli ho detto che due fiorini mi parevano troppi, e me l’ha lasciato per uno. Frugando negli scaffali ho inoltre scovato una traduzione francese dei viaggi di Sir John Moore, stampata a Ginevra nel 1781, e il primo volume della Descrizione statistico-topografica di tutta la Marca di Brandeburgo del Bratring, uscito a Berlino nel 1804; insieme all’Itinéraire des routes les plus frequentées2 del Dutens, che ho acquistato a New York prima d’imbarcarmi, questi volumi costituiranno un viatico adeguato per la mia spedizione.

Con i miei acquisti sotto il braccio sono andato alla ricerca del teatro olandese, della cui esistenza ero stato reso edotto da Wyeth. Già pregustavo il divertimento che avrei provato vedendo qualche grasso attore olandese, con la pipa in bocca, recitare l’amante perduto nel sentimento, o spirare nobilmente in tutto il pathos della tragedia; disgraziatamente, invece, il teatro era chiuso. In compenso, oggi per la prima volta ho cenato in modo passabile, anche se l’albergatore si è messo a ridere quando gli ho chiesto un beef-steak o almeno un roast-beef, poiché questi piatti sono ormai divenuti introvabili in Olanda. Niente vino per ora, finché le conseguenze del maledetto viaggio per mare non saranno scomparse. Si dice che gli olandesi siano grandi mangiatori, ma i tempi sono tristi: all’albergo, che del resto è quasi vuoto, ero l’unico a cenare, gli altri si sono accontentati di un caffelatte.

Martedì, 15 luglio

Il passaporto, che mi era stato promesso per ieri sera, e che ho mandato a prendere fin dall’alba, non è stato rilasciato che in tarda mattinata, sicché quando sono partito batteva già il mezzogiorno. Su Amsterdam regnava un caldo afoso, che è poi durato per tutta la giornata, appena alleviato, verso sera, da qualche spruzzata di pioggia; a causa dell’umidità non ho mai visto il sole, ma soltanto un cielo plumbeo che impediva il respiro, tanto da farmi quasi rimpiangere l’aria del mare. La carrozza non è delle più comode, e l’imperiale è eccessivamente carico di scatole e bauli, che minacciano di rovinar giù alla prima curva un po’ stretta. Forse dovevo prendere una berlina; ma in quel caso non avrei potuto viaggiare con meno di sei cavalli, e poi una vettura più leggera mi servirà meglio a Berlino, giacché di solito nelle città del continente non si trovano se non miserabili carrozze da nolo. Will viaggia a cassetta a fianco del postiglione, con cui non può scambiare neppure una parola, con suo grande malumore, perché nessuno dei due intende la lingua dell’altro. La posta olandese è orribilmente cara; non si paga a tratte, ma a ore, e ogni cavallo costa tre fiorini all’ora. Le strade in compenso sono comode, poco polverose, e per lunghi tratti corrono sopraelevate sulle dighe, ciò che offrirebbe un bel colpo d’occhio sulla pianura se l’afa non soffocasse la vista. In tutti i villaggi sono accantonate truppe francesi, che la fanno da padrone e che gli abitanti sono obbligati ad alloggiare e nutrire a proprie spese; in tutta la giornata non ho veduto neppure un soldato olandese, sebbene mi abbiano assicurato che il re d’Olanda sta arruolando senza pietà, per non scontentare suo fratello. Nel pomeriggio abbiamo perso tempo al cambio dei cavalli, sicché siamo arrivati alla locanda troppo tardi per cenare, e ho dovuto ridurmi anch’io al caffelatte. L’albergo, per fortuna, era assai decente e pulito; il pavimento ricoperto di sabbia fresca, i cristalli e le porcellane allineati sulla credenza, e soprattutto l’immancabile scopa di saggina appesa sulla parete al posto d’onore, mi hanno ricordato certe locande di campagna, tenute da olandesi, dello stato di New York. Non posso purtroppo lodarmi altrettanto dell’oste, il quale come tutti i suoi compatrioti non esita a fumare la pipa anche al chiuso e in faccia ai forestieri, ignorando tranquillamente le loro smorfie; sicché l’Olanda è forse il solo paese al mondo in cui non si affumicano soltanto l’aringa e il porco, ma anche il pane, il latte e in genere tutti i commestibili serviti ai viaggiatori.

Mercoledì, 16 luglio

Ho viaggiato per tutto il giorno in una pianura monotona e scarsamente popolata. Ogni tanto la strada costeggia una comoda casa di campagna, circondata da siepi e fossati che testimoniano la natura nient’affatto ospitale dei proprietari; e sono quasi gli unici segni della presenza umana in questo paese sterile e desolato. Anche oggi il cambio dei cavalli, grazie alla flemma degli stallieri olandesi, ha portato via più tempo del previsto; al calar del sole eravamo ancora in strada, e non siamo arrivati all’albergo molto prima delle dieci. Il mastro di posta mi ha consigliato di viaggiare di notte, ma la vettura è troppo scomoda perché sia possibile fare a meno di un letto dopo quindici o sedici ore di viaggio. L’albergo è in realtà una minuscola locanda col tetto di paglia, dove ho occupato l’unica stanza disponibile, mentre Will ha dormito nel granaio; peraltro le lenzuola sapevano di spigo, e non ho trovato pulci. All’arrivo ero ben deciso a mettere a sacco la cucina fino a farne saltar fuori, nonostante l’ora, almeno un piatto di carne fredda, ma ogni insistenza è stata vana; e anziché l’inevitabile caffelatte, ho preferito cenare con un po’ di pane e formaggio. In compenso stasera ho bevuto vino, per la prima volta dalla partenza, e senza conseguenze negative; però il vino in Olanda è carissimo, anche se i vignaioli francesi, come si può immaginare, non riservano certo il loro prodotto migliore per il palato di Mynheer.

Fino ad oggi non avevo registrato alcun incontro capace di scuotere il mio inveterato pregiudizio in favore delle ragazze americane; allontanandomi dal mare, tuttavia, ho osservato che la natura si dimostra più benigna col bel sesso, e comincia a dotarlo di quelle attrattive di cui le donne olandesi, parlo naturalmente di quelle di condizione volgare, sono raramente beneficate. Non s’incontrano più tante figure contraffatte fra le serve delle locande, né quell’inutile eccesso di sottane e corsetti con cui esse finiscono di sfigurarsi fino a non aver più forma né attrattiva, come tante modelle di Rubens. Stasera ho scherzato con la ragazza venuta a prepararmi il letto, che per via del caldo portava la camicia slacciata sul petto, e lavorando si alzava volentieri il lembo della gonna per fare aria, “scortillum”, come avrebbe detto il buon Catullo, “non sane inlepidum neque invenustum”:3 era, a dire il vero, più grassa di quel che avrei desiderato, ed era impossibile guardarla senza pensare a tutto il latte, il burro e il lardo che doveva aver consumato quella macchina in diciotto o diciannove anni di vita e di lavoro; tuttavia mi accorgevo di non provare affatto, in sua presenza, quella ripugnanza che altre volte mi ispirano le femmine troppo grasse, e avrei volentieri proseguito l’assedio fino a far cadere la fortezza, se la stanchezza non mi avesse sopraffatto. Quando mi sono accorto che il sonno rischiava di raffreddare le mie artiglierie, e il vino mi aveva bagnato le polveri, ho preferito rinunciare all’operazione; e ho chiamato dentro Will a cavarmi gli stivali, per poi buttarmi a dormire in solitudine.

Giovedì, 17 luglio

A mezzogiorno ho passato la frontiera fra il regno d’Olanda e la provincia di Westfalia, di cui il re di Prussia si è impadronito pochi anni or sono, come si sa, con qualche pretesto che ora mi sfugge. Il posto di confine era servito da doganieri olandesi, ma a pochi passi da lì uno squadrone di cavalleria francese faceva l’esercizio, ciò che senza dubbio permetteva all’ufficiale di tener d’occhio senza parere quel che avveniva alla frontiera; i cavalleggeri, nelle loro sgargianti divise, formavano un curioso contrasto col verde smorto del paesaggio, in cui non si scorgevano, a perdita d’occhio, se non armenti di vacche e contadini in zoccoli intenti a falciare il fieno. Superata la sbarra di confine, un soldato prussiano col moschetto in spalla mi ha accompagnato dal suo comandante, che ha sfogliato le mie credenziali con visibile diffidenza. Mi avevano ben avvertito che in Prussia avrei avuto facilmente delle noie grazie allo zelo eccessivo della polizia, e che occorre aver sempre alla mano le proprie carte e parlare speditamente la lingua del paese se si vogliono evitare inconvenienti; ma nulla mi aveva preparato a una conversazione come quella che è seguita. «Stati Uniti d’America? Mai sentiti nominare» dichiarò sospettosamente l’ufficiale, alzando gli occhi dal passaporto. «Può darsi» ribattei, cercando di mantenere il buonumore, «che la nostra posizione nel concerto degli stati sia piuttosto oscura, tuttavia le assicuro che gli Stati Uniti d’America esistono, e io indegnamente li rappresento.» L’uomo mi soppesò con lo sguardo, e quel che vide non dovette piacergli, perché tornò a sfogliare le mie carte senza perdermi d’occhio; sembrava temere che mi sarei dato alla fuga da un momento all’altro. Per fortuna il suo sergente, che stava rispettosamente in piedi dietro di lui, intervenne in mia difesa. «Se il signor tenente permette» disse, «mi pare di aver sentito dire che effettivamente di là dal mare c’è un paese simile.» «Sicuro che c’è» ribatté il tenente «ma non è forse una colonia inglese?» «Col permesso del signor tenente» lo corresse il suo subordinato, «mi pare che sia un paese indipendente.» L’ufficiale, che doveva essere abituato a fidarsi del sergente in questioni così spinose, sospirò e scarabocchiò un visto sul passaporto, dopodiché mi trattò con modi un po’ più educati; credo tuttavia che non me la sarei egualmente cavata a buon mercato, senza la previdenza di cui ho dato prova prima di partire. Ad Amsterdam, infatti, ho mandato una lettera al governatore della Westfalia, generale von Blücher, preavvisandolo del mio arrivo; e mentre sedevo nella baracca del posto di guardia, compilando il modulo interminabile che per ordine del ministro di polizia si fa sottoscrivere a chiunque attraversi la frontiera del regno, ho avuto la soddisfazione di veder arrivare una squadra di ussari mandati dal governatore a scortarmi, e ho potuto partire senz’altro indugio.

La posta in Germania è meno cara che in Olanda: viaggiando a quattro cavalli si pagano quattro fiorini a tratta, ovvero due talleri e sedici soldi, in moneta prussiana; sicché facendo cinque poste al giorno verrò a spendere sedici talleri e un fiorino, pari a circa tredici dollari. Viaggiare non è davvero un divertimento a buon mercato, e quasi mi pento di aver voluto arrivare a Berlino con una carrozza di proprietà, anziché accontentarmi della posta; è vero che qui avrei dovuto pagare per me, per il domestico e per i bagagli, senza contare il tempo perduto. Anche così, le lungaggini della frontiera mi hanno impedito di raggiungere stasera Münster, come mi ero ripromesso; sicché ho dovuto acconciarmi a pernottare alla stazione di posta precedente. L’oste era appena salito in camera mia, col berretto in mano, a chiedermi che cosa doveva preparare per cena, quando il luogotenente che aveva comandato la scorta è venuto a invitarmi a cenare con gli ufficiali del suo squadrone, che era acquartierato proprio in quel villaggio. Mi sono affrettato ad accettare, poiché quel che avevo veduto della cucina, entrando nell’albergo, mi aveva fatto passare l’appetito; ma dalla faccia soddisfatta dell’oste ho capito che non avevo motivo di rallegrarmi, poiché quella era l’unica locanda del paese, e gli ufficiali non potevano fare a meno di approfittare della sua tavola.

Quando sono sceso, ho trovato ad aspettarmi cinque o sei di quei signori, in magnifiche giubbe scarlatte, ornate di alamari dorati, e tutti quanti muniti di lunghi baffi neri; un ornamento più adatto a Tamerlano che a un europeo di questo secolo civilizzato. Era la prima volta che incontravo degli ufficiali prussiani, e ho trovato in loro un aspetto più brigantesco e uno spirito più grossolano rispetto agli ufficiali inglesi che ho conosciuto in passato; direi anzi che in Germania la differenza fra gli ufficiali e i semplici soldati non è così profonda come in Inghilterra, ciò che non può sorprendere se si pensa che quasi sempre essi non hanno ricevuto altra educazione se non quella militare. Uno dei commensali era così giovane che i suoi baffi dovevano essere sicuramente posticci; del resto erano neri, spalmati credo col lucido da scarpe, mentre il loro proprietario era biondo. Ma gli altri erano uomini già avanti negli anni, grandi e grossi, col viso congestionato e lo sguardo vuoto, in conseguenza della troppa birra tracannata prima di cena; credo che se in quel momento fosse arrivato l’ordine di partire per la guerra, avrebbero durato fatica a salire a cavallo. L’oste ci ha servito un cosciotto di vitello ben annaffiato di vino locale, non in grado di competere, purtroppo, con i vini ungheresi su cui il comandante dello squadrone, capitano von Krockow, mi ha erudito per quasi tutta la serata. Per quanto ho potuto giudicare, costui è un grande intenditore di Tokay, e con un forestiero una simile sapienza permette di brillare almeno per mezz’ora, soprattutto a cena; ma ogni tentativo di condurre la conversazione verso altri argomenti è riuscito fallimentare ed è, per così dire, affogato nel vino. Se lo avessi incontrato a New York o a Baltimora, avrei potuto giudicare almeno i suoi baffi come una bizzarria e, forse, il segno d’una personalità fuor del comune; ma qui era fin troppo evidente che il capitano se li era fatti crescere in ossequio al regolamento, che infatti, com’essi mi hanno confermato, li impone a tutti coloro che prestano servizio nei reggimenti di ussari, senza distinzione di qualità. La conversazione degli altri ufficiali non era più stimolante e, in questi tempi calamitosi, dimostrava una straordinaria indifferenza per tutto ciò che non riguarda i dettagli più immediati del servizio. Ho chiesto a quei signori perché mai i francesi abbiano fatto entrare tante truppe in Olanda; non lo sapevano. Ho domandato se ritenevano che il re di Prussia sia disposto a restituire l’Hannover all’Inghilterra pur di riavere la pace; non ne avevano idea. Mi sono informato di quante forze disponga in Westfalia il generale von Blücher, non hanno saputo dirmelo. Se tutti i tedeschi con cui avrò occasione di conversare si dimostreranno altrettanto flemmatici, temo che i miei dispacci a Londra saranno ben poveri di novità.

È vero che questo genere di apatia si ritrova facilmente tra i militari, soprattutto quando sono di guarnigione in provincia; la vita che conducono è troppo tediosa perché il loro spirito possa ancora interessarsi a simili problemi. La città più vicina, Münster, è pur sempre a parecchie ore di distanza; e poi, quali teatri e quali balli possono mai esserci a Münster? Perciò gli ufficiali trascorrono il mattino a insegnar l’esercizio alle reclute, il pomeriggio andando a cavallo nella campagna più polverosa e monotona del mondo, e la serata con le carte in mano, o bevendo fino a ubriacarsi. Il servizio li obbliga a occuparsi personalmente di una tal quantità di dettagli, che a nessuno resta il tempo o la voglia di pensare a grandi questioni. Un capitano sa come campa il suo squadrone, quanti uomini lo compongono, quanti cavalli gli mancano per raggiungere l’organico, quanta avena consuma ogni mese, quante paia di stivali ha in magazzino; ed è tutto. Ho chiesto loro una carta per poter riconoscere gli accantonamenti dell’armata francese in Germania, e non ne avevano; infine Krockow ha mandato a cercarne una nel suo quartiere. Spiegandola sul tavolo, fra gli avanzi della cena che i camerieri non avevano ancora finito di portar via, ho trovato con stupore che era una carta di cinquant’anni fa, senza nessuna traccia dei nuovi confini, e su scala meno dettagliata della mia: quella, dico, che ho acquistato da Semmes a New York, e di cui pensavo di servirmi al più per correggere l’itinerario del viaggio, non certo per studiarvi la strategia. Non c’è da stupirsi che il “Moniteur” denunci tutti i giorni sconfinamenti e altri incidenti di frontiera provocati dai prussiani, anche se ci vuole tutta la malafede dei giornalisti francesi per credere che questa brava gente sconfini a bella posta!

Al momento di lasciarci, il capitano si è dimostrato capace di rendermi almeno un servizio; dopo essersi accertato che domani, a Münster, vedrò il generale von Blücher, mi ha preso da parte e mi ha chiesto se gioco volentieri a carte. Alla mia risposta affermativa, ha abbassato la voce e mi ha avvertito che Sua Eccellenza ama giocare forte, e vince regolarmente somme considerevoli. «Io stesso» ha raccontato «gli ho domandato una volta se, a conti fatti, avesse più guadagnato o perduto in tutta la sua vita. Mi ha risposto: “Se non avessi giocato, come farei a essere ricco?”.» L’ho ringraziato per l’avvertimento, e l’ho assicurato che ne avrei tenuto conto; è parso soddisfatto, e m’immagino che questo tradimento lo abbia in qualche modo indennizzato degli scudi perduti in tutti questi anni al tavolo del generale. Egli ha aggiunto che mi farà scortare anche domani da un plotone di ussari; cortesia che volevo declinare, giacché comporta l’obbligo di offrir da bere a tutti questi giovanotti a ogni cambio di cavalli, ma che a quanto pare è giudicata indispensabile, perché non è escluso che la strada maestra sia battuta dai briganti.

Venerdì, 18 luglio

Sono fermo sul margine della strada da più di un’ora, in attesa che gli ussari inviati al villaggio più vicino tornino con un carpentiere per riparare le due ruote di destra della carrozza, che hanno ceduto contemporaneamente alla prima curva pericolosa. Ad essere sinceri avevo cominciato a temere qualcosa del genere da quando siamo entrati in Westfalia: poiché, sebbene il paese sia una landa piatta e uniforme, la qualità delle strade è miserabile. Stanotte e stamattina, per giunta, è piovuto e la strada si è subito trasformata in un tratturo fangoso, tanto che ad ogni momento tocca smontare e accompagnar la carrozza a piedi. Già a mezzogiorno ho perso molto tempo alla stazione di posta, per la goffaggine del postiglione, finché l’ufficiale degli ussari con qualche buona bastonata non lo ha convinto a spicciarsi; e cominciavo quasi a sperare che sarei davvero arrivato a destinazione prima di sera, quando è successo l’incidente, che per poco non ha scaraventato sulla strada tutti i miei bauli, oltre a Will e al postiglione. Uno dei cavalli zoppica leggermente, ma credo che non sia un danno grave, anche se il vetturale non fa che lagnarsi della sua sfortuna. Certo c’è una bella differenza dal correre la posta tranquillamente in poltrona, e con la carta in mano dire «domani nel tal luogo, dopodomani in quell’altro» facendo cinque poste al giorno. Sedendo accanto al fuoco, da Amsterdam a Berlino si arriva comodamente in otto giorni; in realtà bisognerebbe sacrificare quasi tutte le notti per riuscirvi. È una fortuna che abbia accettato la scorta, poiché gli ussari mi faranno aprire la porta della città anche se, come è ormai certo, la troveremo chiusa.

Sabato, 19 luglio

Gli ussari mi hanno accompagnato ieri sera fino alle porte di Münster, che come prevedevo erano già sbarrate. Ciò che non immaginavo è che il loro comandante sarebbe stato imbarazzato quanto me dall’occorrenza; il brav’uomo non ha saputo far altro che mettersi a bussare e strillare con quanto fiato aveva in gola, finché non abbiamo ottenuto udienza da una sentinella. Costui ha acconsentito a lasciarmi entrare, dietro promessa che gli avrei pagato da bere; e mi ha raccomandato di non muovermi di lì. Partito l’uomo a cercare la chiave, l’ufficiale, che aveva una gran fretta di tornare al suo quartiere, mi ha senz’altro piantato in asso, e credo di esser rimasto un’ora buona ad aspettare, in compagnia di Will e del postiglione, prima che finalmente la sentinella riuscisse a trovare la chiave e spalancare i battenti. Ero così stanco che anziché farmi indicare il miglior albergo ho preso alloggio alla prima locanda incontrata sulla via, al Corno d’oro; del resto conto di ripartire oggi stesso, dopo aver presentato i miei omaggi al governatore, e di viaggiare tutta la notte, per riguadagnare il tempo perduto. All’arrivo non c’era neppure da pensare a cenare, ma l’oste mi ha offerto l’inevitabile caffelatte e un butterbrod: due fette sottilissime di pane nero spalmate di burro. È questo, a quanto ho già potuto constatare, il vero piatto nazionale in Germania. I buoni tedeschi per ingannare il tempo in attesa della cena mangiano quattro o cinque butterbrod, bevono due grandi boccali di birra e poi un bicchierino di acquavite: un regime che renderebbe flemmatico il carattere più sanguigno.

La città, a quanto ho potuto vedere fin da ieri sera, è piccola, sudicia, male illuminata, le strade piene di mendicanti; le ronde della cavalleria prussiana la pattugliano giorno e notte. Dopo l’annessione alla Prussia, il governo della provincia è sempre stato assegnato a un militare: segno che a Berlino sanno di non poter fare troppo affidamento sui sentimenti degli abitanti, i quali non sono mai stati sudditi prussiani prima d’ora e per giunta sono in gran maggioranza cattolici. Qui a Münster pare che l’energia del generale von Blücher abbia reso bene accetto alla popolazione il dominio prussiano; meno invece al principe-vescovo, che sta chiuso nel suo palazzo e mantiene contatti meramente formali con i nuovi padroni. Stamattina, in attesa dell’ora più conveniente per presentarmi al generale, ho ammazzato il tempo visitando la città, che peraltro ha ben poco di interessante da mostrare. Sulla facciata della cattedrale, fabbricata nel gusto gotico, è dipinto l’albero genealogico di Gesù Cristo e dalla torre pendono ancora le gabbie di ferro in cui vennero esposti i cadaveri degli anabattisti, morti sul patibolo mentre il boia del vescovo li pinzava con tenaglie arroventate. Nel municipio un domestico mi ha fatto visitare la sala in cui venne firmata nel 1648 la pace di Westfalia, assicurandomi che i cuscini delle poltrone sono gli stessi su cui sedettero allora i plenipotenziari; cosa di cui non ho dubitato affatto, considerando la polvere che li ricopriva. Nella sala accanto si conservano, per mostrarle con compunzione ai viaggiatori, vecchie armature arrugginite e le tenaglie sullodate.

Sulla piazza davanti al municipio ho veduto per la prima volta un frate; non aveva affatto un aspetto ascetico, anzi mi è parso grasso e lustro, con un naso paonazzo che dimostrava quanto il suo proprietario sapesse apprezzare i più bei doni del Signore. Si dice che una volta questi frati mendicassero dalla pietà dei credenti un tozzo di pane e un piatto di minestra, in onore della povertà di Gesù Cristo e dei suoi primi compagni; ma si vede che i tempi son cambiati, poiché il frate era inseguito da una squadra di accattoni, e per liberarsi di loro ha buttato per terra una monetina di rame con un’espressione di così supremo disgusto da tradire tutta l’ipocrisia della sua religione. Se i nostri cattolici del Maryland potessero vedere questi spettacoli, credo che la loro devozione al papa subirebbe un rude colpo! Poco edificato da questa passeggiata, mi sono infine presentato al generale, il quale ha interrotto, per ricevermi, il lavoro d’ufficio che assorbe gran parte delle sue giornate. Egli porta l’uniforme scarlatta del suo reggimento, ma carica di una quantità inverosimile di lacci e ricami dorati, cui si aggiungono due o tre decorazioni e, al collo, un nastrino da cui pende un minuscolo compasso d’oro; così ho compreso che qui l’appartenenza alla massoneria non è riputata un gran segreto.

L’avvio della conversazione non è stato troppo cordiale. Il generale è un uomo duro, con un paio di folti baffi neri, pochi capelli grigi tirati all’indietro e raccolti in un antiquato codino, anch’esso prescritto d’altronde dal regolamento; ha i modi perentori e impazienti d’un vecchio di sessant’anni, che ha vissuto per tutta la vita fra i cavalli e i soldati, e che non è abituato a essere contraddetto. Fin dalle prime parole ho riconosciuto quello che qui chiamano un mangiafrancesi; certo credeva di aver a che fare con un repubblicano arrabbiato, e non ha smesso di guardarmi con sospetto finché non è stato ben certo che condividevo la sua avversione per il ministro di Stato, conte Haugwitz, e per tutto il gabinetto berlinese, colpevole di aver scongiurato con ogni mezzo la guerra contro la Francia. «Faccia attenzione» mi ha avvertito rudemente; «Berlino è un nido di democratici; hanno fatto perdere la testa al re, e la faranno perdere anche a lei.» Gli ho assicurato che non ho nessuna simpatia per Bonaparte, e che farò quanto sarà in mio potere per guadagnare il re alla buona causa; in Olanda ho veduto troppi soldati francesi per non persuadermi che la pace del continente, oggi, è comunque un’illusione. «Gott»4 ha borbottato il generale, «a che punto siamo arrivati! Il francese si prende gioco di noi, e il re, anziché dare ascolto ai suoi fedeli generali, presta fede a una trista genìa di bestiacce pervertite, che non desiderano se non di condurlo al precipizio! Soltanto la speranza della guerra» ha aggiunto, frugando fra le carte alla ricerca del tabacco «persuade ancora i patrioti a restare in servizio; e veramente, se ci fosse la guerra, se il re venisse qui in mezzo a noi, ascoltando ogni giorno discorsi diversi da quelli che gli fanno a Berlino, lui stesso aprirebbe gli occhi, e comprenderebbe in chi deve aver fiducia. E se quei maledetti gli volessero venir dietro, dico gli Haugwitz, Lombard, Beyme e tutti gli altri giacobini, be’, non ci vorrebbe molto a fargli capire il pericolo che corrono, e che la loro distruzione può giungere e giungerà da un momento all’altro; allora essi stessi penseranno a salvarsi, e pregheranno Sua Maestà di licenziarli, non avendo altro modo per salvare la pelle. Sì, se ci fosse la guerra, tutto sarebbe così semplice… Ma se dura la pace, non c’è che da rimettere la sciabola nel fodero, e chiedere il congedo.»

Nel dir questo, ha finalmente trovato la borsa del tabacco, e ha cominciato a pigiarlo col pollice nel fornello della pipa; ero curioso di vedere se si sarebbe messo a fumare sotto il mio naso. «Vostra Eccellenza è dunque persuasa» gli ho chiesto «che in caso di guerra la Prussia potrebbe tener testa da sola alle forze dei francesi?» Per tutta risposta ha spalancato gli occhi, incredulo che qualcuno potesse anche soltanto dubitarne; quindi ha proceduto a illustrarmi le ragioni del suo disprezzo verso quel popolo degenerato, di cui non può neppure parlare senza che gli fremano i baffi, per la repulsione. «Il francese non possiede più, nella sua natura, le qualità necessarie per fare la guerra con successo» ha spiegato; «i loro filosofi li hanno guastati, e la Rivoluzione ha finito di corromperli: oggi un soldato prussiano ne vale due dei loro. La sua disciplina lo rende invincibile comunque, ma tanto più di fronte a quella marmaglia democratica.» Non sono troppo sicuro che gli eserciti di Bonaparte siano comandati secondo princìpi democratici, e sospetto che l’idea ch’egli si fa dei francesi sia ancora quella degli eserciti dei Sanculotti, che ha combattuto dieci o dodici anni fa; ma non mi è parso il caso di entrare in una disputa a questo proposito. Egli stesso, del resto, dimostra suo malgrado che non si può vivere in Europa senza respirare almeno un po’ del veleno giacobino; infatti è assai compiaciuto che oggi quella famosa disciplina prussiana sia accettata dalla truppa più consapevolmente che in passato, sicché è stato possibile ridurre in misura considerevole l’entità delle punizioni corporali. «Io stesso» si vanta «mi sono personalmente adoperato per ottenere che non si possano somministrare a un uomo più di trenta colpi di bastone.» Ho convenuto con lui che si tratta di una soglia modesta e che eliminare anche quest’ultima forma di coercizione fisica sarebbe prematuro: si è ben visto anche da noi come si comporta la feccia, se dopo averle dato un fucile e un’uniforme non le si insegna a restare al suo posto.

Il generale, in conclusione, è impaziente di battersi, e benché parli a ogni momento di dare le dimissioni e ritirarsi sulle sue terre a fare il gentiluomo di campagna, in cuor suo è persuaso che il re smetterà presto di dare ascolto alle chiacchiere dei ministri traditori, e concederà ai suoi generali di battersi. «Immagino» ho osservato «che in caso di guerra Vostra Eccellenza sarà il primo a venire alle mani coi francesi, giacché sono così vicini.» «Il primo e l’ultimo» ha risposto; «purché quei signori di Berlino mi consentano di far la guerra a modo mio. Lasci pure che vengano i Bonaparte e i Moreau; io scaverò le loro tombe sul Reno!» In attesa di quel giorno, si è informato del mio itinerario e apprendendo che ho intenzione di sostare a Hannover mi ha offerto lettere di presentazione per il comandante di quella piazza, oltre che per varie personalità a Berlino. Non sapevo se quell’offerta preludesse alla comparsa del mazzo di carte, ma ad ogni buon conto ho accettato; allora si è fatto portare carta e calamaio, si è tolto la giubba per stare più comodo, non senza lamentarsi per il caldo e invitarmi a fare altrettanto, e si è accinto all’opera con visibile difficoltà. La sua fatica si è protratta per almeno un’ora, durante la quale non ho potuto impedirmi di consultare più volte l’orologio; mentre infine intascavo le lettere, composte, a quanto ho potuto giudicare alla prima occhiata, con l’ortografia più liberale del mondo, il generale si è acceso la pipa con un sospiro di soddisfazione, si è asciugato la fronte col fazzoletto e finalmente mi ha chiesto se sapevo giocare all’hombre. Per fortuna ero stato avvertito del rischio che correvo, e del resto non conosco questo gioco; perciò ho declinato l’offerta e mi sono congedato, spiegando che era mia intenzione di partire al più presto. Subito dopo questa intervista ho mangiato un boccone, ho dato ordine di attaccare i cavalli e sono partito; scarabocchio queste righe approfittando degli ultimi minuti di luce, dopodiché, se la strada non peggiora, cercherò di dormire.

Domenica, 20 luglio

L’insistenza del governatore per assegnarmi una scorta anche nel tratto da Münster a Hannover testimonia in modo preoccupante le condizioni di queste province, dove l’occupazione prussiana risale a una data così recente da apparire ancora come un’usurpazione; tuttavia per quest’oggi non abbiamo avuto cattivi incontri, fatta eccezione per qualche mendicante isolato. Potrei anzi dire che non abbiamo avuto incontri affatto, tanto il paese è deserto; la strada corre per miglia e miglia attraverso una sterile brughiera, su cui il vento ulula con violenza selvaggia, senza trovare resistenza. A tratti la pianura incolta lascia il posto alla foresta, ma una foresta così inospitale, cupa e inquietante che non mi dispiace sentire gli zoccoli degli ussari sulla sabbia della strada, dietro di me; in certi momenti l’intrico dei rami è così fitto che non si distingue il giorno dalla notte. Si dice che non lontano da qui si trovi la selva di Teutoburgo, dove Arminio massacrò le legioni di Varo; immagino cosa possono aver provato i legionari romani, venuti a morire sotto questo cielo grigio, così diverso da quello d’Italia. I luoghi abitati sono rari, e l’aspetto delle case, come l’abbigliamento dei villani, testimonia la squallida povertà della Westfalia; tre o quattro casupole di fango, coperte di paglia o addirittura di zolle di terra, qui sono già considerate un villaggio, e in queste catapecchie i contadini vivono insieme ai loro maiali, che per molti costituiscono l’unica ricchezza. Il vantaggio è che il prosciutto che se ne ricava è il migliore d’Europa; la sola cosa che non manca, infatti, sono la legna e le ghiande, e così i contadini ingrassano i porci, e bruciano legna senza risparmio per scaldarsi. Poiché le capanne sono senza camino, il fumo vi ristagna in permanenza, impregnando i quarti di maiale salato appesi al soffitto, e conferendo loro quel sapore delicato che noi apprezziamo tanto. A una stazione di posta mi sono informato se non fosse possibile comperarne uno, poiché ho già avuto modo di accorgermi nei giorni scorsi che viaggiando in questo paese è bene poter contare sulle proprie provviste; ma mi hanno risposto che la stagione è troppo avanzata, e i contadini hanno già mangiato o venduto tutto il loro prosciutto, sicché ormai è impossibile trovarne fuori dalle grandi città. Abbiamo passato la notte in una locanda miserabile, dove per cena non ho avuto nient’altro che latte e un po’ di pane nero per farci la zuppa; niente vino, né carne, né burro. Per giaciglio ho dovuto accontentarmi di una tavola ricoperta di paglia, su cui hanno steso una coperta e un lenzuolo; ma il caldo e le cimici mi hanno impedito di dormire. Comincio a credere che, anziché viaggiare di notte per risparmiar tempo, mi fermerò un paio di giorni a Hannover per riposarmi; o arriverò a Berlino più simile a un naufrago morto di fame che a un gentiluomo che viaggia con la sua propria carrozza.

Lunedì, 21 luglio

Siamo entrati oggi nella provincia di Hannover. La pianura polverosa ha lasciato il posto a certe colline boscose, che qui si possono già quasi chiamar montagne; anche il clima è più secco, sempre caldo ma libero dalla soffocante umidità che grava sulle province vicine al mare. A mezzogiorno abbiamo attraversato un grande fiume, la Weser, che scorre in una stretta gola dominata da ripide alture; poiché non c’è ponte, bisogna prendere il battello, ma per fortuna la traversata non ha comportato incidenti. Per il resto niente di nuovo da segnalare, tranne i soliti gruppi di vagabondi, in verità più numerosi di ieri, i contadini al lavoro per mietere l’orzo e la segala nelle radure, sempre più rare, che si aprono in mezzo alla foresta, e spesso squadre di soldati al lavoro con loro, non so se per aiutarli o controllarli. Il viaggio, come già nei giorni scorsi, non è stato dei più comodi; i postiglioni qui usano incoraggiare continuamente i cavalli con un grido che da noi si impiega solo nei momenti di maggior pericolo, e abbandonano a ogni istante la strada, se così si può chiamare, per tagliare attraverso i campi. In compenso il tempo così guadagnato si perde poi alle stazioni di posta, dove non c’è modo di non trascorrere ogni volta due ore, per quanto si possa pregare, picchiare, pagare o regalare. Il mastro di posta ingrassa un po’ la vettura con dell’acqua nera, e si fa pagare in anticipo il prezzo dei cavalli; intanto il postiglione, seduto al banco col suo corno a tracolla, fuma la pipa e si beve uno o due bicchierini d’acquavite, con tanta placidità che viene voglia di bastonarlo. Ma sarebbe tempo perduto, e toccherebbe poi ripagarlo a metà di ogni tratta, quando l’usanza assicura al vetturale il diritto di fermarsi a bere un altro bicchierino alla prima osteria, ancor sempre a spese del viaggiatore.

A sera ci siamo fermati in un villaggio di cui non ho afferrato il nome; mi avevano promesso che vi avrei trovato un albergo, e in verità la sistemazione non è stata così miserabile come ieri, benché il preteso albergo fosse poi ancora una volta una locanda d’infimo ordine. Per cena mi hanno offerto una minestra fatta con la birra e un bollito con contorno di quei cavoli acidi che qui chiamano crauti; vino non ne avevano, se non un sedicente Madera per cui pretendevano un tallero a bottiglia, sicché mi sono adattato a bere la loro insipida birra chiara. Avendo cenato male, ho poi dormito peggio, non tanto a causa del caldo, che di per sé sarebbe ancora sopportabile, quanto a causa dei letti tedeschi, che è giunto il momento di descrivere. S’immagini un materasso di piume in cui si sprofonda fin quasi a scomparire. Una montagna di cuscini, anch’essi di piume, di cui non si sa che fare e che si finisce per gettare, tutti tranne uno, sul pavimento. Il lenzuolo soltanto sotto; sopra, un enorme sacco di piume, sotto il quale si suda come in un girone infernale, e senza lenzuolo, cosicché, negli alberghi, si ha il piacere di entrare in comunione col sudore di tutti i viaggiatori che hanno sudato prima di noi sotto lo stesso peso. La prima notte in cui mi è stato offerto un letto simile, ho fatto portare della paglia e ho dormito sotto il mio mantello; ma oggi per la prima volta non ho voluto farlo, pensando che dovrò pur avvezzarmi a questa comodità, e mi sono rassegnato a sudare. Per tutta la notte i cavalli degli ussari sono stati inquieti; ad ogni momento i loro padroni si alzavano per andare a tranquillizzarli, e passavano bestemmiando sotto la mia finestra spalancata, sicché mi rotolavo nel letto e continuavo a ripetere, come il Delfino: «Non farà mai giorno?».

Martedì, 22 luglio

Oggi sul dopopranzo sono arrivato a Hannover, e ho preso alloggio all’albergo Città di Londra. Ero curioso di vedere questa città per il cui possesso il re di Prussia non ha esitato a tradire i suoi amici e lasciar sequestrare i suoi bastimenti; e in verità l’esser rimasta così a lungo sotto il governo di Sua Maestà Britannica le conferisce un’impronta inconfondibile. La pulizia delle finestre, la pavimentazione regolare delle strade, l’illuminazione pubblica, e perfino qualcosa nel modo di vestire e di comportarsi dei passanti ricordano l’Inghilterra, sicché si potrebbe credere di trovarsi in una cittadina della provincia inglese, magari in una delle contee più remote e meno civilizzate, se il gran numero di soldati che pattugliano le strade e montano la guardia agli edifici pubblici non dissolvesse brutalmente l’illusione. Molti albergatori e bottegai parlano inglese, offrendo un gradito diversivo all’obbligo, così penoso per tutti i viaggiatori, di parlare continuamente in una lingua straniera, senza nessuno se non il proprio domestico con cui scambiare una parola nell’idioma materno. Approfittando di questo vantaggio, ho voluto interrogare l’oste circa i sentimenti dei suoi concittadini nei confronti del nuovo governo; ma sebbene egli parlasse un ottimo inglese, non ho riscontrato in lui alcuna traccia di quella franchezza con cui gli abitanti di un paese libero discorrono dell’interesse nazionale. Al contrario, il brav’uomo mi ha fatto capire che per quanto pochi o punti ufficiali prussiani comprendano l’inglese, non gli garbava affatto discorrere di simili argomenti con uno sconosciuto; perciò ho rinunziato a interrogarlo oltre e mi sono fatto indirizzare alla residenza del governatore, generale conte Schulemburg-Kehnert, per far firmare il mio passaporto.

Fino a poche settimane fa questo signore era ministro delle finanze del re di Prussia, e in tale qualità, poiché le casse del tesoro sono vuote, non ha trovato di meglio che stampare carta moneta, con grande costernazione dei buoni sudditi prussiani, costretti per la prima volta a memoria d’uomo ad accettare biglietti a corso forzoso in luogo di buon metallo coniato. Ricordo anzi di aver visto ad Amsterdam una caricatura in cui il ministro ingozzava di carta un’aquila malata, al modo in cui si rimpinzano di pastone le oche del Périgord, affinché questa carta gli ritornasse attraverso le viscere dell’uccello trasformata in buoni del tesoro. Dubito peraltro che incisioni come questa abbiano avuto larga circolazione in Prussia, poiché il conte Schulemburg-Kehnert è anche capo della polizia segreta! Contrariamente a quanto si potrebbe credere, il suo allontanamento da Berlino è tutt’altro che una disgrazia, anzi credo che egli stesso l’abbia sollecitato, per motivi facilmente comprensibili a chi sia addentro alle segrete cose. Qualche anno fa, incaricato dell’organizzazione della provincia di Westfalia dopo che Federico Guglielmo s’era mangiato i principati ecclesiastici, Sua Eccellenza si è fatto regalare in ricompensa dei suoi servigi un’abbazia; ora sta procedendo a organizzare la provincia di Hannover, e se opera secondo gli stessi princìpi, non dubito che ritornerà a casa più ricco di quando è partito.

Poiché il Castello, bisognoso da molto tempo di riparazioni, è invaso dai muratori, il governatore abita nella casa requisita al consigliere Pfitzner, sulla Georgstrasse. Il consigliere se n’è andato ad abitare da suo fratello, ma una parte della servitù è rimasta; il generale si è portato da casa soltanto il personale di cucina, precauzione non eccessiva visto lo stato d’animo dei locali nei confronti degli occupanti. Davanti alla porta staziona un picchetto di soldati prussiani, per evitare che i ragazzi tirino le pietre contro le finestre. Benché l’ora non fosse la più propizia per sbrigare una faccenda di servizio, ho spiegato al domestico venuto ad aprirmi che si trattava di questione d’importanza, e l’ho mandato dal suo padrone con una delle mie nuove carte da visita, stampate da Granfield a New York, su cui sta impressa a tutto tondo la mia qualifica d’inviato straordinario presso Sua Maestà il re di Prussia. Quando il domestico mi ha introdotto, il governatore stava conferendo con un borghese intorno a un tavolo coperto di carte, su cui poggiavano in precario equilibrio un bricco di porcellana rosa e due tazzine di caffè. Il borghese vestiva una finanziera nera col collo di pelliccia, e tanto dalla sontuosa catena d’oro che gli pendeva dal taschino, quanto dai molti anelli che gli ornavano le dita, quanto infine dai suoi riccioli bruni e dal naso adunco, era facile riconoscerlo per un banchiere ebreo. Alla mia comparsa costui si affrettò a ripiegare le sue carte macchiate di caffè e a congedarsi prima che io potessi buttarvi l’occhio; ma non dubito che i due compari fossero intenti a deliberare qualche fruttuosa speculazione, magari una riforma della banca di stato o una nuova lotteria.

Rimasto solo con me, il governatore esaminò le mie credenziali con un’espressione alquanto sostenuta, che peraltro ritenni di dover attribuire più di ogni altra cosa ai disturbi di fegato; poi mi guardò e mi disse con voce nasale che era lieto di fare la mia conoscenza, e che avrebbe fatto per me tutto ciò che era in suo potere. Risposi che il mio desiderio era di sostare un giorno o due a Hannover per riposarmi dagli strapazzi del viaggio, prima di proseguire per Berlino; «a meno che Vostra Eccellenza non mi consigli di ripartire al più presto, così da giungere alla capitale prima che la guerra renda insicure le strade.» Egli mi guardò con un sorriso insolente, scoprendo i canini gialli e appuntiti. «La guerra che l’Inghilterra ha avuto il cattivo gusto di dichiararci non è da prendere troppo sul serio, e del resto quando si hanno i piedi ben piantati per terra non c’è da temer nulla dalle guerre dell’Inghilterra» sentenziò. «Lo stesso non si può dire, a quanto pare, delle guerre di Bonaparte» ribattei. Il governatore, piccato, alzò le spalle e m’informò che a suo giudizio non c’era alcuna probabilità di una guerra contro la Francia; i dispacci dell’inviato prussiano a Parigi, di cui egli era perfettamente al corrente, non lasciavano dubbi sulla prossima conclusione di un trattato di pace in Europa, con piena soddisfazione di tutte le potenze; «sicché Ella può prendere con tutto il suo comodo la strada di Berlino.» Mentre questa conversazione aveva luogo, non potevo impedirmi di gettare di tanto in tanto uno sguardo alla caffettiera, che diffondeva nel gabinetto il buon odore del caffè appena preparato; a quell’ora ne avrei assaggiata volentieri una tazza, ma egli non ritenne di dovermene offrire. Per provocarlo, gli dissi che a mio giudizio il governo di lord Grenville non avrebbe accettato la pace se l’Hannover non fosse stato restituito a re Giorgio; infatti questo discorso gli dispiacque, e mi rispose, con aria d’importanza, che non sempre la diplomazia batte le vie più prevedibili. Quando vidi che nonostante le sue vanterie quel vecchio bilioso non intendeva comunicarmi informazioni più precise, lo pregai di firmare senz’altro il mio passaporto; mentre provvedeva alla bisogna mi domandò se mi trovavo bene alla Città di Londra, ma a giudicare dal tono non credo che provasse sollecitudine per il mio benessere, e del resto non gli avevo ancora detto d’essere sceso lì. Nell’anticamera incontrai nuovamente l’ebreo, che non attendeva se non la mia partenza per tornare a prendere il caffè, e lo salutai con un cenno del capo, ricambiato da un profondo inchino. Confesso che per un istante rimasi in ascolto, quasi aspettandomi di sentire il suo padrone accoglierlo, come Volpone all’ingresso di Mosca, con un “Buon giorno a te, e al mio oro!”; ma poiché dallo studio non trapelava alcunché mi decisi ad andarmene.

Avendo fatto la conoscenza del governatore, cominciavo a spiegarmi la prudenza dell’oste, né sono rimasto sorpreso apprendendo che molte persone di qualità hanno lasciato Hannover dopo l’occupazione prussiana. I soldati che s’incontrano a ogni angolo di strada non hanno in verità un aspetto terribile; quando non sono in servizio si aggirano con le mani in tasca, infagottati in abiti palesemente non tagliati per loro, e sono convinto che uno dei nostri marinai o scaricatori del porto di New York potrebbe mandarne a gambe all’aria un paio a mani nude; ma dietro di loro si avverte l’onnipotenza di un governo dispotico, che apre le lettere e tiene delle spie in tutte le osterie. Quando sono tornato alla Città di Londra il padrone, temendo evidentemente che gli avrei parlato di nuovo di politica, mi ha offerto un domestico di piazza per accompagnarmi a visitare la città, con tanta insistenza che non ho potuto rifiutare; tuttavia non ho veduto nulla d’interessante, se si eccettua la tomba di Leibniz, dove il sagrestano che introduce i visitatori mi ha spiegato in cinque minuti il sistema filosofico del grand’uomo. Poiché mi lagnavo della calura, mi hanno fatto bere una bevanda di vino freddo profumato con essenza di fiori d’arancio, che chiamano bischoff, ossia vescovo; avendo chiesto ragione di un nome così curioso, mi hanno risposto che quando è fatto con vino rosso si chiama cardinale, e così ho avuto un saggio della famosa logica tedesca. Più tardi il domestico voleva a tutti i costi condurmi a cena in un’osteria, che credo fosse tenuta da suo cognato, ma ho preferito cenare all’aperto nel cortile dell’albergo, ascoltando il concerto dato dai musicanti di un reggimento di fanteria. La musica prussiana, per quanto ho potuto giudicare, non vale quella dei reggimenti inglesi, che si ascoltano al Vauxhall; sicché anche sotto questo profilo non si può dire che i buoni hannoveriani abbiano a lodarsi del mutamento intervenuto nelle loro fortune. È pur vero che del concerto ho profittato meno di quel che avrei potuto, poiché la presenza di una moltitudine biblica di vespe, invano allontanate dai domestici coll’agitar giornali e accendere bracieri fumiganti, mi ha costretto a cenare molto più in fretta di quanto non avrei desiderato e infine a ritirarmi in buon ordine nei miei alloggiamenti.

Mercoledì, 23 luglio

Il corriere di Londra mi ha portato stamattina una lettera di Pinkney, il quale appena sbarcato laggiù ha ricevuto notizie allarmanti di incidenti fra la popolazione di Hannover e i soldati prussiani; come si può immaginare, gli inglesi sono piuttosto sensibili a tutto ciò che accade qui, e a Londra è voce comune che le truppe abbiano sparato e che si siano contati diversi morti. Perciò Pinkney si è affrettato a scrivermi, sapendo che il mio itinerario mi avrebbe condotto a Hannover, nella speranza di raggiungermi prima che ne partissi, come infatti è accaduto; e mi prega di spedirgli un resoconto circostanziato di tutto ciò che potrò apprendere in proposito. Forse Pinkney s’immagina che io sia una spia, e che andrò in giro a interrogare la gente al riparo di qualche cantone poco in vista; come se la reticenza dell’albergatore non mi avesse già persuaso del poco profitto che si può trarre dagli abitanti, per quanto riguarda ogni sorta di informazione! In questo mestiere, una conversazione dall’apparenza innocente con qualche personaggio d’importanza, cui si sia riusciti a tener nascosto ciò che si vuol sapere da lui, è quasi sempre più istruttiva del correre per i caffè a raccogliere pettegolezzi, come un miserabile giornalista; e questo è il partito cui ho deciso di attenermi. Perciò ho comandato l’almanacco cittadino e trovato l’indirizzo sono andato a trovare addirittura il comandante della piazza, generale von Rüchel.

In attesa che gli venga preparato un alloggio al Castello, costui ha preso a pigione un palazzo sulla piazza del Mercato, dove mi ha ricevuto con la più grande bontà. È un omino di piccolissima statura, ma quel che gli manca in prestanza fisica è compensato dal tono marziale e dai discorsi magnanimi che gli salgono naturalmente alle labbra, sicché un cieco che stesse ad ascoltarlo potrebbe credere di aver a che fare con un Ercole. Quando gli ho detto che trovandomi a passare per Hannover non avevo voluto privarmi dell’occasione di fare la conoscenza di un militare così distinto, è parso quanto mai soddisfatto e mi ha invitato senz’altro a rimanere per il pranzo. Fin dalle prime parole ho compreso ch’egli appartiene al medesimo partito del generale von Blücher; nel menzionare il nome dei ministri berlinesi che si ostinano a mendicare il favore di Parigi «quando tutto l’esercito chiede con impazienza una guerra riparatrice» digrigna i denti come se volesse trangugiare in un sol boccone Haugwitz, Lombard e tutto il gabinetto. Gli ho chiesto, prudentemente, se crede che la Prussia potrebbe affrontare la Francia ad armi pari, e se non sarebbe meglio per il re assicurarsi la benevolenza dell’Inghilterra prima di fare la guerra a un nemico così formidabile; per tutta risposta ha esclamato ammiccando: «Signor mio, il re ha dei generali migliori del signor von Bonaparte!». Subito dopo ha cominciato un discorso imbrogliato sull’opportunità di istituire in Prussia una milizia nazionale per affiancare l’armata professionale, argomento su cui sta preparando un memoriale da indirizzare al re. «Il sistema militare della Prussia ha dunque bisogno di riforme?» gli ho chiesto, per far vedere che la questione mi stava a cuore. «Oh, ça n’est rien!» ha ribattuto con leggerezza. «Personne au monde n’est plus satisfait que moi de notre système de gouvernement et de notre organisation militaire!»5 Così dicendo ha cercato in un armadio a vetri un brogliaccio pieno di scarabocchi, che si è rivelato nient’altro che il manoscritto del suo memoriale; e ha insistito perché gli comunicassi all’istante un parere sulla sua fatica. Sotto il suo sguardo curioso e impaziente ho provato a decifrare l’opuscolo, ma la scrittura del generale assomiglia a un geroglifico in cui non ci si può aprire la strada se non con gran pena, e talvolta per nulla affatto. Anche il suo stile non è al riparo dalle critiche, infarcito com’è di locuzioni francesi, pieno di pleonasmi e di errori di grammatica; sicché ho dovuto rinunciare all’impresa, assicurandolo che nonostante la mia incompetenza avevo raramente avuto sotto gli occhi proposizioni così brillanti e ragionamenti così stringenti – mentre fra me e me mi chiedevo che cosa non avrebbe saputo trarre Lavater da un simile manoscritto.

Mentre Rüchel riponeva nell’armadio il suo scartafaccio, un domestico è venuto ad annunciare che il pranzo era servito. Volevo tornare all’albergo per cambiarmi d’abito, ma il generale mi ha assicurato che da lui non si bada a simili forme, e mi ha accompagnato in sala da pranzo; è vero che questi tedeschi pranzano così presto, da rendere superflua e persino ridicola la cerimonia del cambiarsi d’abito, a un’ora in cui molti hanno da poco finito di vestirsi. A tavola abbiamo trovato ad attenderci parecchi altri ospiti, quasi tutti militari, fatta eccezione per un predicatore luterano, che il generale trattava con deferenza. «Sapete che anch’io avrei dovuto diventare predicatore?» ha esclamato, dopo avermi presentato all’uomo di Chiesa. «Dopo che i miei tre fratelli caddero nella guerra dei Sette Anni, mio padre voleva proibirmi a tutti i costi di abbracciare la carriera militare, e costringermi in cambio a quella ecclesiastica; ho dovuto pregarlo in ginocchio per convincerlo a mutar partito!» Il pranzo era servito alla francese, con tutte le portate in tavola l’una accanto all’altra, e riscaldate da speciali fornelletti, come non ho mai visto fare a New York, neppure a casa del governatore; fra tutte quelle delizie ho apprezzato particolarmente il pasticcio di anguilla, che mi è parso superiore a qualsiasi elogio. Il generale è un ospite prodigo e alla sua tavola si beve un ottimo Bordeaux bianco, che vale sei franchi alla bottiglia, come mi ha assicurato privatamente il suo maître d’hôtel; è facile calcolare quanto gli costi tenere tavola imbandita per gli ufficiali della guarnigione, come è solito fare.

La conversazione si è aggirata per lo più intorno alle malefatte del governo, argomento favorito del padron di casa; e ho trovato che costui non era affatto più abbottonato, in quella società numerosa, di quanto si fosse mostrato discorrendo privatamente con me. Egli si raffigura la politica del gabinetto come un’acquaccia limacciosa, in cui s’insozzano e sprofondano l’onore e l’utile della Prussia; la marea infetta s’arresta soltanto ai piedi del re Federico Guglielmo, che un soldato non oserebbe criticare, ma credo che se l’acqua monterà ancora un poco finirà per lambire gli stivali del monarca. Il defunto sovrano, il Re Grasso, è già sul punto d’affogarvi, giacché il generale non esita a rinfacciargli la colpa d’una politica troppo conciliante nei confronti dei mangiarane. «La cosiddetta Rivoluzione doveva essere soffocata nella culla, schiacciata col tacco dello stivale, come un uovo di serpente. Se allora il re di Prussia non si fosse lasciato fuorviare da ministri codardi e giornalisti venduti» ha esclamato, «la piaga sarebbe già sanata da un pezzo, e non avremmo avuto l’Arlecchino finto principe in Francia. Ma non tutto è perduto, e facciamo ancora in tempo a rimettere le cose a posto. Datemi un esercito, e io mi incarico di decarlomagnizzare il grand’uomo, finché non ne resterà nemmeno un’unghia!»

L’eloquenza del generale è così straripante che non accade facilmente, alla sua tavola, di essere sorpresi da quei momenti di silenzio in cui tutti i convitati, fingendosi intenti a sorbire la soupe, si domandano con imbarazzo come riannodare la conversazione; né è facile indirizzare quest’ultima verso argomenti diversi da quelli che in quel momento gli stanno a cuore. Verso la fine del pranzo egli si è persino avventurato in qualche speculazione filosofica, di cui a dire il vero non ricordo esattamente il contenuto, tanto per la mia naturale estraneità a questo genere di meditazioni, quanto per le troppe bottiglie di Bordeaux che si allineavano vuote sul tavolo di servizio. Anche il generale, del resto, aveva bevuto a sufficienza per disperdere quel ritegno che tutti cerchiamo di mantenere in società, sia pure tra uomini; e ha fatto ridere a crepapelle la compagnia raccontando di quando, all’assedio di Magonza, offrì un tallero a un granatiere affinché salisse sulla trincea e mostrasse il posteriore scoperto ai sanculotti. «L’uomo mi rispose piuttosto freddamente: “Il tallero lo guadagnerei volentieri, ma non sta bene trattar così il nemico”. Io però mi rivolsi subito a un altro, che non si faceva tanti scrupoli; si scoprì il sedere, salì sul parapetto e mostrandosi al nemico gridò: “Leccatemi un po’ il culo, patrioti di merda!”»

«È curioso» ho osservato allora «che questo termine di patrioti, con cui in tutta Europa si chiamavano spregiativamente, dieci o quindici anni fa, i rivoluzionari francesi, sia oggi divenuto un titolo d’onore rivendicato anche da molti buoni tedeschi, come ho avuto modo di convincermi in questi giorni. Solamente, non dev’essere facile per loro decidere se il patriottismo debba essere rivolto a uno dei tanti regni e principati, o alla nazione tedesca»; e prima che il generale potesse interloquire, ho fatto l’esempio della città in cui ci trovavamo, chiedendogli quali fossero i veri sentimenti della popolazione locale nei confronti dell’amministrazione prussiana. «Gli hannoveriani» mi ha risposto con una solennità che si addiceva poco alla sua piccola taglia «hanno già dimenticato il governo di Sua Maestà Britannica, benché non si possa negare che ne abbiano ricevuto molti benefici: essi infatti sanno che debbono attendersene di maggiori sotto il governo del re.» Ha poi escluso nel modo più reciso che vi siano stati incidenti fra i soldati e la popolazione, ed ha aggiunto che i moschetti dei prussiani sono fatti per sparare sui francesi, e non sui sudditi di Sua Maestà. «Eppure» ho insistito «dicono che su molti edifici pubblici l’aquila prussiana, dipinta di fresco sopra le iniziali di re Giorgio, venga cancellata nottetempo da ignoti, e sostituita nuovamente dalle insegne hannoveriane.» Il generale era intento a verificare se la pipa, che un domestico gli aveva portato già carica, fosse ben accesa oppure no; e questa manovra, cui pareva dedicare la più grande attenzione, gli ha consentito di guadagnar tempo. Dirò per inciso che anche i tedeschi, quanto e più degli olandesi, fumano continuamente, per strada, al biliardo e perfino a tavola, sicché il loro alito puzza sempre di fumo; può darsi che sia un uso sano per i polmoni, dato che vivono in un clima così umido. «Questo che voi dite» ha borbottato infine il generale «è accaduto qualche volta; ma si tratta della bravata di studenti in cerca di facili emozioni. Giovanotti cosiffatti» ha aggiunto rianimandosi, e anzi mettendosi a ridere sguaiatamente «ce n’è dappertutto; a Berlino, una volta, dipinsero di rosa in una notte la statua di marmo del vecchio generale di Anhalt-Dessau!» Si capiva, dal suo tono, che non gli sarebbe dispiaciuto poi troppo di trovar quegli studenti e mandarli a meditare in fortezza, ma che al tempo stesso non era lontano dall’invidiare la loro giovinezza, e guardava con qualche rimpianto ai propri capelli bianchi. Parlando di ciò, il generale s’era un poco ricomposto, ma subito l’ubriachezza ha ripreso il sopravvento; informandosi della mia prossima tappa e apprendendo che conto di partire domattina per rendere omaggio al duca di Brunswick, generalissimo dell’esercito prussiano, egli si è messo a discutere con i suoi vicini di tavola, per decidere quale bordello consigliarmi in quella città. Non avevo ancora mai veduto dei tedeschi ubriachi, e non mi stupisce ch’essi non vogliano invitare le signore ai loro pranzi, visto l’effetto che fa loro il vino; soltanto il predicatore non partecipava alla discussione, e se ne stava tranquillo a masticare tabacco. Finalmente si sono messi d’accordo, e Rüchel, volgendosi verso di me, mi ha comunicato la decisione dell’assemblea, ch’era di andare a far visita a una certa madame Galland, a Brunswick sul Kohlmarkt; con un’insistenza addirittura molesta, ha voluto a tutti i costi che mi annotassi l’indirizzo, e solo allora ha acconsentito a lasciarmi andare. Al levarsi da tavola ho dato uno scudo al domestico che mi aveva servito, ma mi sono subito accorto d’esser stato inutilmente generoso, poiché gli altri convitati non davano che monetine di rame, e qualcuno niente del tutto; ero rimasto accecato dall’argenteria e dalle livree del generale, ma questo incidente mi ha subito rammentato che una compagnia d’ufficiali, per quanto brillante, è pur sempre composta da gente che mangia il pane del re, e che in qualche caso non saprebbe altrimenti come mangiare.

Giovedì, 24 luglio

A mezzogiorno, dopo aver sigillato il mio dispaccio e averlo affidato al corriere di Londra, sono ripartito da Hannover con un nuovo distaccamento di scorta. Il tempo è assai incostante; la pioggia ha appena provveduto a rinfrescare l’aria, e già il sole si affaccia a disfarne l’opera, sicché l’abitacolo della carrozza assomiglia a un bagno di vapore. Lo stomaco è tornato a posto, dopo l’eccellente pranzo di ieri; lo stesso non vale per Will, che ha mangiato, pare, malissimo all’albergo e soffre di inconvenienti fastidiosi. Alla frontiera del ducato di Brunswick la scorta prussiana mi ha lasciato, e ho trovato un ufficiale del duca venuto a salutarmi da parte del suo padrone e a informarmi che sarò ricevuto a palazzo domani o al più tardi posdomani; l’ufficiale è poi ripartito per i suoi affari assicurandomi che non avrei avuto alcun bisogno di scorta, cosa che fino a questo momento parrebbe confermata. La strada, che merita appena tale nome, corre diritta attraverso una monotona pianura, coltivata a segale a perdita d’occhio, appena interrotta da macchie boscose e isole di sabbia. I postiglioni vestono di giallo, anziché di rosso come nell’Hannover, ma la loro flemma è sfortunatamente la stessa. Nei villaggi le case dei contadini sembrano meno misere di quelle che ho veduto finora; hanno tetti di tegole colorate, e qualcuna porta inciso sull’architrave il nome del marito e della moglie che l’hanno costruita. All’albergo, dove una moltitudine di braccianti si rinfrescava dalle fatiche della mietitura tracannando birra, sono stato servito da una Maritornes grassa e unta, col viso marcato dal vaiolo, che doveva essere stata assunta apposta dalla padrona per tener lontane le tentazioni dal marito e dagli avventori. Mi avevano detto che in Germania le ragazze degli alberghi erano facili, ma devo ancora trovarne una che faccia venir voglia di saggiarne la facilità; e a dire il vero dopo tanti giorni di digiuno non mi dispiacerebbe tentar l’esperimento, se solo vi fosse la candidata. Ho dormito su una tavola nella sala comune, poiché non c’erano camere particolari; il padrone mi ha informato con orgoglio che fino all’anno scorso la sala comunicava direttamente con la stalla, ma ora il passaggio è stato murato, poiché da lui soggiornano persone di qualità, cui non garba troppo la familiarità con vacche e cavalli. Solo qualche gallina si aggira ancora sul pavimento di terra battuta, entrando e uscendo a suo piacimento dalla porta sempre aperta; ma appena l’oste, su mia imposizione, ha spento la candela di sego, che altrimenti rimane sempre accesa la notte per evitare che i viaggiatori si taglino la gola fra loro, anche i polli si sono assopiti, ed io pure non ho tardato a addormentarmi.

Venerdì, 25 luglio

Brunswick è una cupa città gotica, con stradicciole strette affiancate da bassi portici, umidi e oscuri. Le case, come a Hannover, hanno il telaio di legno, riempito con mattoni, calce e pietrisco, e sull’architrave portano spesso incisa la data di costruzione e il nome del primo proprietario; la più antica che ho incontrato era datata 1533. La loro caratteristica più evidente è che il primo piano, che si trova a dieci o dodici piedi dal suolo, sporge di due palmi sulle mura del pianterreno, ciò che accresce l’impressione di angustia delle strade. Ogni casa ha molte piccole finestre chiuse da vetri colorati, senza persiane né gelosie, ma riparate all’interno da tende di mussolina. Ogni tanto nel buio dei portici si apre un largo portone di legno, e attraverso i battenti si intravvedono cortili soleggiati, dove si rincorrono bambini e polli e le donne stendono i panni ad asciugare; oppure, se si tratta di un palazzo, vi sostano la carrozza e i cavalli dei padroni. Anche il mio albergo, Il Calice, ha un cortile del genere, dove ho riparato la vettura, dando ordine ai domestici di ingrassare per bene le ruote, che non sono più state oliate da ieri. Il lacchè di piazza che mi ha accompagnato a visitare la città, accorgendosi che quell’interminabile successione di case di legno, quasi sempre dipinte in un triste verde oliva, mi faceva ben poca impressione, si è rassegnato a condurmi nel quartiere meno decrepito, e qui ho potuto ammirare alcuni palazzi moderni di ottimo gusto, fra cui uno appena costruito, su progetto di Gilly. Edifici cosiffatti, interamente costruiti in pietra, hanno una forza e una solidità che difficilmente si ritroverebbero nelle nostre fragili costruzioni americane; e così ho potuto persuadermi che Brunswick non è soltanto una “grande ville mal bâtie”,6 come recita la guida del Dutens.

Per la strada circola pochissima gente in uniforme, a differenza di tutte le altre città che ho attraversato in Germania; è vero che l’abbigliamento dei civili ha qualcosa di militare: tutti portano gli stivali, molti la cravatta nera e un immenso cappello a bicorno, e la maggior parte veste in blu. Nei caffè si parla della congiuntura politica con distacco filosofico, come se la cosa qui non riguardasse direttamente nessuno. Il partito francese è molto forte ed esprime le sue opinioni a viso aperto, tanto più che il duca stesso, a quanto credono alcuni, non è alieno dal condividerne le posizioni; i più tuttavia ritengono che egli sia piuttosto schierato col partito dei generali e non approvi affatto la politica prudente della corte di Berlino. Non è la prima volta del resto che questo vecchio si trova in una posizione così ambigua: tutti sanno che nel ’92 fu lui a guidare l’esercito prussiano nell’invasione della Francia, ma pochi ricordano che all’inizio di quell’anno il Comitato di Salute Pubblica aveva mandato il marchese di Custine a offrirgli il comando dell’armata francese! E pochissimi ricordano la sua risposta a quell’offerta: egli mandò a dire ai rivoluzionari che “la vostra buona causa ha in sé la forza per superare tutte le difficoltà, senza bisogno del mio aiuto”. Non credo tuttavia che le convinzioni del duca siano rimaste le stesse dopo che Bonaparte ha preso il potere: del resto anche i massoni francesi con cui egli intrattiene le relazioni più intime, come Dumouriez, che lo sconfisse a Valmy, sono oggi schierati contro il tiranno. Senza sapere tutto questo, il pubblico discute molto liberamente delle posizioni del duca e non si trovano due persone che le interpretino allo stesso modo, ciò che prova se non altro che questo principe è buon politico. I suoi sudditi parlano di lui con rispetto e c’è anche chi si preoccupa all’idea che possa partire nuovamente in guerra alla sua età, giacché ha passato i settant’anni.

Poiché nel pomeriggio ha cominciato a piovere, pensavo di tornare in albergo per cenare; ma prima di sera la pioggia è cessata ed è ricomparso il sole, sicché ho preferito fermarmi in un’osteria vicino al fossato, con un pergolato ombroso. Pochi anni or sono il duca ha fatto demolire le mura e sul loro circuito ha fatto piantare un duplice filare di tigli, offrendo così al pubblico una magnifica passeggiata; non ha pensato però a far colmare il fossato, che ospita un’intera popolazione di rane, e così il loro gracidio mi ha fatto compagnia mentre cenavo. La cena tedesca disgraziatamente resta la stessa anche a Brunswick: minestra di patate e cavoli, salsiccia con crauti, manzo lesso, pasticceria, il tutto accompagnato da un vino artefatto, che sa di zucchero e che chiamano Borgogna, vendendolo a non meno di dieci o dodici soldi.

Sabato, 26 luglio

Il duca mi ha ricevuto stamattina nel suo palazzo popolato di statue antiche, acquistate da lui stesso a Pompei. Quando sono giunto nel suo appartamento per farmi annunciare stava lavorando insieme al figlio maggiore, il principe ereditario, che da anni lo aiuta a sbrigare le pratiche correnti, e mi preparavo, benché l’udienza fosse stata fissata già da ieri, a una lunga anticamera; e invece, inaspettatamente, sono stato ricevuto quasi subito. Il duca è un vecchio magro, dal viso giallo e grinzoso e gli occhi acquosi, che dimostra tutti i suoi anni; il figlio è un uomo non più giovane, robusto, dallo sguardo miope e il colorito apoplettico. Entrambi vestivano in borghese, il duca un abito azzurro chiaro, di gusto un po’ antiquato, ma assai elegante, con una piccola parrucca incipriata; il principe all’ultima moda, con una marsina bruna, calzoni color crema e stivali all’inglese, i capelli arricciati à la Titus e senza cipria. Si sa che il duca non è stato fortunato nella vita domestica, poiché il più amato di tutti i suoi figli, il bastardo che ebbe a Roma dalla Branconi, è morto in Francia nel ’92; mentre dei suoi quattro figli legittimi i primi tre soffrono di gravi disturbi alla vista, e anzi il secondo e il terzo sono quasi ciechi, e idioti per soprammercato. A detta dei maligni questo esito infelice è dovuto ai bagni d’acqua gelida cui il duca li ha costretti nell’infanzia, in omaggio alle teorie di Rousseau; a conferma di ciò, si osserva che all’ultimogenito è stato risparmiato questo regime spartano, grazie alle rimostranze del suo medico personale, e che egli è oggi l’unico dei quattro a godere di buona salute. Va detto in ogni caso che il principe ereditario, nonostante un temperamento più flemmatico del normale, è giudicato pienamente in grado di assolvere ai suoi doveri; e tutto il loro contegno lasciava trasparire la più perfetta armonia domestica.

Dopo che mi sono presentato e ho consegnato le mie carte il principe si è congedato stringendomi la mano e lasciandomi solo con il padre. «Monseigneur» gli ho detto, poiché questi principi tedeschi vogliono essere chiamati così, e non gli dispiace sentirsi dare dell’Altezza e del Serenissimo, per quanto siano sincere le loro convinzioni massoniche, e minuscoli i loro principati; e d’altronde, se a uno meno che ad altri mi dispiaceva dar quel titolo e inchinarmi, questi era proprio il gran duca di Brunswick; «Monseigneur» gli ho dunque detto, «je ne suis pas accrédité à la cour de Votre Altesse, mais je ne pouvois pas me passer de rendre hommage, en me rendant à Berlin, au plus illustre des princes allemans».7 Il duca ha espresso la sua soddisfazione di ricevere un rappresentante degli Stati Uniti d’America, che considera, ha detto, “un pays bien sage”.8 Gli ho risposto che ero molto obbligato per la buona opinione che aveva di noi, e mi ha chiesto da che parte dell’America provenivo; dal Maryland, ho risposto. «Vous parlez un excellent français.» «Tolérable, Monseigneur.»9 Ho aggiunto che se egli preferiva avremmo potuto proseguire il colloquio in tedesco; è parso sorpreso, poi si è messo a ridere. «Ce n’est pas que je doute de votre allemand, Monsieur, c’est plutôt du mien que je me méfie.»10 La sua curiosità è assai viva nonostante l’età, ed egli non ama abbandonare un argomento prima di averlo esaurito, con quella pedanteria che è propria dei tedeschi e dei vecchi. Perciò mi ha chiesto se la lingua francese è molto diffusa nel nostro paese; non molto, gli ho risposto, anzi per nulla, fatta eccezione per le città commerciali. «Si sa» ha proseguito «che in Inghilterra il francese non è affatto parlato, e qui in Germania è quanto mai raro fra il popolo. Ma da voi, immagino, c’è gente di tutte le nazioni.» «Di quasi tutte le nazioni europee», ho annuito sorridendo, «ma soprattutto tedeschi e irlandesi; qualche francese, ma meno di quanto non si creda.» Qui il duca ha cavato dal taschino del panciotto una tabacchiera d’oro e mi ha offerto del tabacco, che ho rifiutato; egli stesso ne ha annusato con solennità una presa, ha nettato il tavolo col fazzoletto dalle briciole che vi si erano sparse, come dimentico dell’argomento di cui parlavamo, poi si è riscosso e ha proseguito: «E si amalgamano bene insieme?». «Molto bene, Monseigneur, dopo un po’ di tempo.» «Ma la diversità di linguaggio non produce qualche volta difficoltà alle vostre elezioni?» ha insistito, con un sorriso malizioso. «Nessuna che possa avere conseguenze tangibili» ho risposto, in tono cortese ma asciutto, giacché cominciavo ad averne abbastanza di quell’interrogatorio. Ma il vecchio non era soddisfatto; ed ho avuto l’impressione che finché non avesse chiarito fino in fondo quel punto, cambiare argomento di conversazione sarebbe stato superiore alle sue forze. «E se sono eletti, come si esprimono?» ha voluto ancora sapere. «Qualche volta fanno discorsi in inglese, e spesso lo parlano molto bene; solo la loro pronuncia» ho ammesso «è qualche volta oggetto di scherzi. Ma uno dei nostri ministri, per esempio, era un tedesco, ed è stato per molti anni membro del Congresso, dove teneva discorsi come chiunque altro.»

Saziata la sua curiosità, il duca si è degnato di informarsi delle ragioni del mio viaggio; gli ho spiegato che recandomi a Berlino mi sarebbe parso imperdonabile non rendere omaggio al generalissimo di Sua Maestà Prussiana, al condottiero celebrato in tutto il mondo. Il vecchio ha ascoltato sorridendo questi complimenti; ma quando mi sono permesso di interrogarlo sulla possibilità che il re di Prussia ponga fine alla sua guerra da burla contro l’Inghilterra e faccia la guerra per davvero a Bonaparte, non ha più sorriso. Aggrottando la fronte, ha chiesto se ero interessato al suo parere in qualità di principe dell’impero o di generale prussiano: perché, ha tenuto a osservare con una certa pignoleria, quella che con ogni probabilità si sta per combattere non è una guerra dell’impero, ma una faccenda privata del re di Prussia. «Io sono il comandante dell’esercito prussiano, e sono tenuto a mettere la mia spada a disposizione del re; ma ciò non annulla il mio diritto a non lasciarmi coinvolgere nelle ostilità, in quanto principe indipendente!» Questo linguaggio mi è parso sorprendente, non solo come esempio delle sottigliezze giuridiche consentite dalla costituzione tedesca, ma perché è la prima volta che sento parlare della guerra non come un’eventualità remota per quanto desiderabile, ma come una certezza. «Monseigneur crede dunque che la corte di Berlino abbia già preso le sue decisioni?» gli ho chiesto. La risposta è stata del pari sorprendente: «Io so per certo che la corte di Berlino non ha preso alcuna decisione, e non ha alcuna idea su quale sia la decisione da prendere; ed è proprio in questi frangenti che nascono le guerre.»

La freddezza con cui egli guarda a un simile esito non nasce, beninteso, da una qualsivoglia simpatia per la nuova Francia. «Non posso dimenticare che Bonaparte non è soltanto il maggior nemico della libertà tedesca, ma anche il traditore della Rivoluzione» ha dichiarato gravemente; curioso argomento, in verità, sulle labbra di un principe regnante! Quando ho osservato che il voltafaccia della Prussia lo scorso inverno può considerarsi un vero e proprio tradimento ai danni dei suoi alleati, ha aggrottato la fronte, ma ha finito per darmi ragione. «Allora» ha acconsentito «Sua Maestà avrebbe dovuto fare la guerra. Il morale dell’esercito era alto, e insieme ai due imperatori avremmo potuto schiacciare Bonaparte; ma Ulm ha raffreddato gli animi, e Austerlitz ha compiuto l’opera.» Se tuttavia oggi quella guerra sia ancora così giusta e necessaria come un anno fa, non ha voluto dirlo a nessun costo; tutto ciò che ho potuto accertare è il suo disprezzo per gli uomini che la fanno da padroni nel gabinetto prussiano e nell’animo del re. «La politica prussiana non ha nessun sistema, e non potrà averlo finché sarà al potere l’attuale gabinetto. Non si può immaginare niente di più falso e insensato del comportamento di Sua Eccellenza il conte Haugwitz, a meno che non sia vero ciò che molti mormorano, e cioè ch’egli sia pagato da Parigi» ha concluso con un’alzata di spalle, e cercando filosoficamente conforto in un’altra presa di tabacco.

La conclusione dei suoi calcoli è che il re, prima o poi, dichiarerà la guerra, ma non in seguito a una decisione meditata, bensì piuttosto sotto la spinta di circostanze esterne, e senza che Haugwitz e compari siano licenziati: ciò che renderà la politica prussiana ancora più inaffidabile agli occhi del pubblico, e procurerà poca gloria alla monarchia. «Il re immagina di poter restare tranquillamente alla finestra mentre i popoli d’Europa si fanno la guerra; poiché non c’è dubbio che la faranno. Sarebbe bello, ma è una chimera; e il re deve decidere con chi vuole schierarsi, altrimenti prima o poi sarà costretto con la forza a prendere partito. Non so immaginare un destino più umiliante per un monarca, eppure andrà infallibilmente a finire così» ha concluso in tono aspro. Fin qui il vecchio non aveva voluto scoprire le sue carte, sicché per costringerlo a svelarsi ho creduto di dover mettere in tavola le mie. «Non dubito» dissi «che Monseigneur consiglierà a Sua Maestà di prender partito contro la Francia»; ma mi accorsi subito di aver commesso un errore. Il duca mi guardò pensosamente e tacque per un istante, poi ribatté: «Ma i miei poveri consigli trovano ben poco ascolto! E poi, chi può dirlo; questi signori di Berlino in fondo non sono meglio di Bonaparte, e se finora hanno fatto meno danni, è solo perché sono meno potenti di lui». «È un peccato» mormorai sconfitto «che il re sia circondato da simili ministri. Ma forse Monseigneur, che conosce meglio di me la corte di Berlino, potrà confermare che, come ho sentito dire, la buona influenza esercitata dalla regina bilancia quella dei cattivi consiglieri.» A questa menzione della regina Luisa il vecchio si è illuminato. «Lei ha letto la Nuova Eloisa?» ha esclamato. «Sì, ma sono passati molti anni» ho risposto, chiedendomi il significato di una domanda così bizzarra. «Non importa! Se lei conosce Julie, è come se avesse davanti agli occhi il ritratto di Sua Maestà; e io credo che per quanto essa non comprenda la politica più di quanto sia comunemente dato al suo sesso, il re farebbe bene ad ascoltare qualche volta la sua voce, piuttosto che quella dei ministri e dei segretari.» Non so se davvero Federico Guglielmo sia soggetto all’influenza della regina, ma dopo questo paragone letterario non dubito che sul duca essa agisca potentemente; sospetto anzi che soprattutto per devozione nei suoi confronti non abbia voluto rinunciare al grado di maresciallo prussiano, a costo di rendersi poco credibile quando pretende di condurre una politica da principe indipendente.

Di questo ascendente della regina ho del resto avuto sul momento una prova, perché il duca, rendendosi forse conto di essersi un po’ troppo alterato, si è alzato e si è assentato qualche istante, scusandosi con estrema cortesia. Sono così rimasto solo nello studio. A questo punto ho commesso un’azione moderatamente riprovevole: mi sono alzato dal mio posto e sono andato a curiosare sul suo scrittoio. Vi ho trovato, in mezzo a molte altre carte senza importanza, a) una lettera del conte Haugwitz, piena di sottolineature e di commenti in margine per lo più assai taglienti, da cui ho tratto l’impressione che il duca voglia imitare lo stile del vecchio Federico, e b), infilato in un romanzo di Crébillon fils, un biglietto profumato datato dalle acque di Pyrmont una settimana fa, in cui la regina comunica che l’elettore d’Assia, avendo ballato con lei per un’intera serata, è ora pronto a unire le sue truppe a quelle prussiane, il giorno in cui il re deciderà finalmente di fare la guerra a Bonaparte; «e sotto la guida di Vostra Altezza, non dubito che i nostri valorosi cacceranno via dalla Germania quei malvagi francesi!». Ho appena fatto in tempo a rimettere ogni cosa al suo posto quando il duca è rientrato, visibilmente rinfrescato e più profumato di prima, impeccabile nel suo abito civile, e sempre meno simile a un soldato. Si è seduto e ha ripreso la conversazione, ma orientandola in una direzione affatto impreveduta. Mi ha chiesto se conoscevo l’Italia, e alla mia risposta negativa ha parlato a lungo e con passione di Roma e Napoli, dove ha vissuto in gioventù, e di Winckelmann, che lo introdusse allora allo studio dell’antichità classica. Poi, con un brusco cambiamento di tono, mi ha raccontato per filo e per segno come fu che Winckelmann venne assassinato in una locanda italiana, con un’abilità da consumato narratore, quasi stesse costruendo sotto i miei occhi uno di quei romanzi moderni in cui eccellono gli inglesi, e che giustamente si chiamano gotici. Sperando di ricondurlo verso gli argomenti che mi interessavano, e di ricavare ancora qualche indiscrezione sugli umori della corte di Berlino, gli ho chiesto del re Federico, suo zio, di cui deve conservare tanti ricordi; è sembrato stupito quando ho osservato che sono passati già vent’anni dalla sua morte. Con una punta d’ironia ha ricordato che quando, giovanissimo, combatté la sua prima battaglia, il re gli dedicò un’ode in versi martelliani, pronosticando che sarebbe diventato un eroe; «e adesso eccomi qui, come vede».

Mi pareva già che la conversazione stesse prendendo una piega più promettente, ma da Federico il vecchio è subito passato a raccontarmi di Voltaire; mi ha descritto il giardino di Ferney e le sue passeggiate col padrone di casa, poco prima della sua morte, e mi ha chiesto se conoscevo le montagne svizzere. Poi, senza lasciarmi il tempo di interloquire, è tornato a informarsi del mio paese. L’America, secondo lui, è sulla via dell’ascesa, e l’Europa su quella del declino; «l’Europa» ha aggiunto «ha in sé i semi della decadenza. Pensi alla Russia! La Russia un giorno sarà padrona dell’Europa, e quella non è una potenza civilizzatrice». Tuttavia gli sembrava che l’America sbagliasse a voler troncare ogni rapporto con l’Europa. Mi ha chiesto se credevo che il Dr. Franklin fosse stato sincero quando aveva deplorato la Rivoluzione come una lacerazione non necessaria fra la madrepatria e le colonie; gli ho detto che non credevo che il Dr. Franklin avesse desiderato la Rivoluzione, e neppure Washington. Ha chiesto se qualcuno dei personaggi più in vista l’aveva desiderata; ho detto, forse John Adams, Samuel Adams, e James Otis. Mi è parso ponderare questi nomi, che forse non gli riuscivano così familiari; ma la sua mente stava già errando in un’altra direzione. «E mi dica, avete qualche scrittore popolare in America?» «Nessuno» ho risposto, ed è la verità. «Una buona storia della Rivoluzione?» Ho menzionato Gordon, Ramsay, e la Vita di Washington di Marshall. Osservando il mio stupore per l’interesse che dimostrava nei nostri confronti, ha affermato che queste informazioni sono per lui tanto più preziose, in quanto da tempo lo perseguita il ghiribizzo di andare in America, per sperimentare di persona la nostra democrazia, e soprattutto per vedere i selvaggi e la vita allo stato di natura.

Il destino degli indiani, che ritiene condannati a soccombere presto o tardi sotto la spinta dei bianchi, lo interessa in modo particolare. «Bisognerebbe» dice «istituire un’Accademia per studiare i costumi di queste curiose popolazioni, prima che scompaiano per sempre.» Non è la prima volta che in Europa mi capita di incontrare questa infatuazione per i nostri indiani; è perché questi signori non ne hanno mai visto uno in carne e ossa, né annusato il loro odore. «Non sono sicuro» ho osservato «che sia in nostro potere comprendere i costumi dei selvaggi, e non mi stupirei se un giorno si scoprisse che tutto quanto crediamo di sapere su di loro non è altro che mistificazione e menzogna. Ho cominciato a sospettarlo il giorno in cui George Washington ricevette i capi Creek» ho aggiunto, e poiché il duca ignorava quell’episodio, l’ho raccontato. «L’udienza si svolgeva nell’aula del Congresso. I capi indiani, accompagnati da un interprete, sedevano in cerchio insieme al Presidente; non appena l’ultimo di loro ebbe preso posto cominciò la cerimonia del fumo. Un’enorme pipa indiana fu collocata al centro; il tubo era di cuoio, e credo fosse lungo dodici o quindici piedi. Il Presidente aspirò per primo, e dopo aver tirato due o tre boccate passò la pipa al capo più vicino; questi al successivo, e così via. Quei capi, alcuni dei quali erano poco più che ragazzi, fumavano con tanta compostezza che parevano un consesso di gentiluomini intenti a fumare il sigaro al club, dopo pranzo.» «È un vero peccato» ha mormorato sorridendo il duca «che Rousseau non viva più per ascoltare un racconto come questo!» «Sì, Monseigneur» ho replicato, «ma non sono del tutto sicuro del partito che ne avrebbe tratto; per conto mio, dubito che questa cerimonia sia davvero di origine indiana, come si suppone generalmente. Almeno questi indiani non sembravano avere con essa alcuna familiarità, e avrei giurato che stavano sottomettendosi, per pura cortesia, a un’usanza che credevano prevista dalle nostre consuetudini. Più d’uno sorrideva con un’espressione che denotava al tempo stesso sorpresa e divertimento, come se l’intera cerimonia apparisse loro non soltanto nuova, ma anche ridicola; e tutti i presenti, eccettuato forse il Presidente, si ritirarono con una fastidiosa sensazione di disagio, sospettando di essersi resi zimbello di quei selvaggi.»

Il duca ha taciuto per qualche istante, quasi non sapesse che sugo cavare da questo racconto. «Già» ha mormorato infine; «spesso coloro che noi consideriamo selvaggi potrebbero dar lezione a noialtri uomini civilizzati. Purtroppo avviene più spesso il contrario! Ho letto proprio in questi giorni che presso non so quale tribù è comparso un profeta, dichiarandosi illuminato dal Grande Spirito, e ha cominciato a predicare contro tutti coloro che bevono liquori, assicurando che sono posseduti dal demonio; quei bravi indiani gli hanno creduto, e hanno proceduto senz’altro a bruciar vivi tutti quei loro compatrioti che sapevano dediti al bere, a cominciare dal loro capo, sicché il vostro governo ha dovuto inviare presso di loro un agente, per ricondurli a più miti consigli. Si potrebbe difficilmente, credo, trovare una prova più eloquente del pernicioso influsso che l’incontro con la civiltà sta producendo su questi disgraziati, vissuti finora felicemente nelle braccia della Natura.» «Se è per questo, Monseigneur», ho ribattuto, «l’argomento sopporterebbe d’esser rovesciato, poiché anche l’incontro con i selvaggi esercita sui bianchi un cattivo influsso; qui in Europa non si bruciano più vivi i cristiani, ma a New York un negro che aveva sgozzato il suo padrone è stato bruciato vivo attaccato al palo pochi giorni prima del mio imbarco, e quest’abitudine non ci è stata insegnata da nessun altro che dagli indiani. È pur vero» ho proseguito, dopo un istante di riflessione «che non occorre di meno per tenere a bada i nostri negri.» Il duca avrà forse ereditato, come si dice, lo spirito di suo zio, ma non certo le sue cattive maniere, anzi ha per principio di conservare sempre la più squisita cortesia di modi e di linguaggio; tuttavia non sopporta che si metta in discussione l’autorità di Rousseau. «I vostri negri!» ha esclamato. «Ma anch’essi sono poveri esseri strappati con la forza alle loro foreste, e bastonati dai carcerieri fino a perdere la ragione e il sentimento; non è certo dalla loro condotta sotto la sferza che potrete giudicare il sistema di Jean-Jacques!» Non contento di aver così difeso lo Svizzero, il vecchio ha aggiunto che a suo giudizio il commercio degli schiavi è una macchia incancellabile sul buon nome dell’America; e benché non avessi intenzione di sostenere una disputa su questa peculiare istituzione, non ho potuto fare a meno di replicare. «Non vedo la differenza, Monseigneur, fra il commercio degli schiavi e quello di infelici soldati, venduti per denaro dai loro prìncipi a qualche potenza straniera; anche questo è commercio di carne umana, eppure mi pare che Vostra Altezza non si sia fatta scrupolo, in passato, di praticarlo.» Il duca è arrossito, e ha taciuto a lungo; poi ha mormorato: «È vero, ma non deve credere che lo scrupolo non ci sia stato; e del resto sono ormai undici anni che non vendo più un soldato. L’ultima volta è stato nel 1795, e non a una qualsiasi potenza straniera, ma a mio cognato, re Giorgio: gli vendetti 1900 anime per la guerra contro la Francia. Che farci? Per amministrare lo Stato ci vuol denaro… Del resto, chissà?» ha esclamato rasserenandosi: «può darsi che anche con i vostri negri, alla fine, tutto s’accomodi. Ci ho pensato spesso, e sono giunto a una conclusione. So che nelle vostre province del Sud vi è un gran numero di distretti dove i bianchi non riescono ad acclimatarsi, e i negri invece vivono e prosperano. Io m’immagino che col tempo la popolazione negra del Sud si concentrerà in questa parte del territorio, dalla quale invece la popolazione bianca si allontanerà a poco a poco. In questo modo si formerà un popolo discendente diretto dagli africani, che potrà avere una sua nazionalità e godere di leggi proprie». Sua Altezza pareva perduto in queste fantasie, e immemore del trascorrere del tempo; ma sul più bello ha cavato di tasca l’orologio, e molto amabilmente mi ha congedato, scusandosi per un impegno improrogabile che lo costringeva ad abbreviare la nostra intervista. Allora mi sono accorto che non si era più parlato di quello che mi interessava veramente; e non ho capito se il duca sia un vecchio svanito, o se mi abbia garbatamente preso in giro. Fatto sta che mi ha teso la mano, si è seduto alla scrivania ed è tornato a occuparsi delle sue carte, e non mi è restato altro che inchinarmi profondamente e andarmene. Mentre mi chiudevo la porta alle spalle, il duca aveva aperto il romanzo di Crébillon, e intanto fischiettava un motivo che sul momento non ho riconosciuto. Mi è tornato in mente più tardi, mentre rientravo a piedi all’albergo, e mi sono sorpreso a fischiettarlo anch’io prima di rendermene conto; era la vecchia canzone francese: “Malbrouck s’en va-t-en guerre, Dieu sait s’il reviendra…”11

Domenica, 27 luglio

La casa di madame Galland, sul Kohlmarkt, occupa il pianterreno di un vecchio edificio malandato, con la facciata sudicia per la polvere del carbone; ma all’interno, ieri sera, il salone era ben illuminato, e le fiamme delle candele si riflettevano su un pavimento da ballo di legno lucido come uno specchio. Ai tavoli sedevano parecchi avventori, e in altre circostanze avrei chiesto d’esser condotto in un séparé; ma in questo caso l’esser straniero, in una città dove ciò non suscita alcuna curiosità, e il fingere di non parlar bene la lingua hanno costituito un riparo sufficiente. Il cameriere mi ha servito una bowle, come dicono qui, di punch all’arancia, e subito si sono sedute al mio tavolo tre o quattro ragazze, tutte abbastanza graziose e molto decentemente vestite. Per qualche ragione sono stato sedotto dalla più placida della compagnia, che non cercava neppure di piacermi e fissava avanti a sé con uno sguardo così vuoto da farmi immaginare che fosse sotto l’effetto dell’oppio, o di qualche altra droga. Richiesta del suo nome, mi ha risposto con voce roca di chiamarsi Paulette, quasi fosse nata e vissuta a Parigi, anche se dai modi e dal linguaggio si capiva che doveva essere cresciuta in qualche capanna di contadini a non più di una giornata di viaggio da Brunswick. Era la prima tedesca con cui facessi conoscenza, e mi è parsa un esemplare magnifico della sua razza; continuando a interrogarla mi sono persuaso che la sua flemma non era dovuta all’abuso di medicinali, ma soltanto al sangue troppo denso trasmessole dagli avi, sicché non ho esitato a seguirla in camera sua. Qui tuttavia si è verificato un curioso e imprevisto contrattempo, quando la mia prescelta, slacciandosi le giarrettiere che le fissavano sopra il ginocchio le calze di seta, mi ha chiesto se non m’importava di avere commercio con lei senza condom: poiché, ha spiegato osservando il mio stupore, da qualche tempo, a causa dell’interruzione dei traffici con l’Inghilterra, il rifornimento di questo tipo di merce si è fatto assai precario. Ora, prima della partenza io ho giurato solennemente a me stesso di non prendere mai piacere con una donna sine condom12 fino al mio ritorno in patria, e non ero per nulla disposto a correre un rischio del genere, tanto meno all’inizio del viaggio. Beninteso, i miei bagagli comprendono una scatola con una scorta di questo articolo, ma stupidamente non avevo pensato di provvedermene prima di venire a far visita a madame Galland. La ragazza si è sforzata di convincermi che non avevo nulla da temere e ha perfino cavato da un cassetto un attestato medico, in cui si assicurava che era sana e non affetta da inconvenienti di sorta; ma non mi pareva prudente rompere il mio giuramento sulla parola d’un qualunque medico tedesco. Alla fine Paulette ha proposto a occhi bassi una soluzione, cui ho acconsentito di buon grado; e così ho goduto di lei senza bisogno di intermediari, e in modo più confacente a quel nome francese che s’era data. A cose fatte si affannava ad assicurarsi di avermi soddisfatto, con la più grande umiltà di questo mondo; tuttavia mi sono lamentato con la padrona, la quale ha confermato che in città l’articolo in questione è introvabile da mesi, con grave pregiudizio per la sua professione, e non ha mancato di lagnarsi amaramente di Bonaparte, unico responsabile, a suo giudizio, di questo inconveniente.

Fatto sta che il divertimento, pur essendomi costato soltanto un fiorino, non mi aveva lasciato del tutto soddisfatto; anzi, rientrando all’albergo, mi chiedevo se non avrei fatto meglio a farmi condurre in un’altra casa, quando ho scorto nel retrocucina una sguattera che lavava piatti, china su una tinozza. La ragazza era incinta di sette o otto mesi: il ventre gonfio dondolava pesantemente a ogni suo movimento. Portava, come tutte le domestiche qui, un grembiule di stoffa grossolana, ma tagliato con buon gusto; mi sono attardato a osservare le sue caviglie e i piedi, nudi nelle pianelle sdrucite, che sorreggevano con forza il corpo appesantito da un insolito fardello. In generale avevo già osservato che in questo paese le grisettes13 sono più belle delle signore; a passeggio in carrozza si incontrano spesso certi spaventapasseri rivestiti a nuovo, ma le commesse e le serve hanno braccia, cosce e capelli da statue greche. La carne bianca delle braccia rimboccate fino alle ascelle e tuffate coraggiosamente nell’acqua fredda ha finito di stimolare quei pensieri da cui non mi ero ancora del tutto allontanato. Ho riflettuto che il caso sfuggiva interamente alle sanzioni della mia carta costituzionale, e senza bisogno d’emendamenti; poiché già da molto tempo il dottor Greaves mi ha confidato l’incompatibilità chimica fra lo stato delle donne gravide e quei fastidiosi inconvenienti contro i quali ritengo normalmente di dovermi premunire. Incoraggiato da questa riflessione, mi avvicinai. La sguattera si volse verso di me e vidi che non era una ragazza, ma una donna di forse trent’anni, dal viso sciupato sotto la cuffia, due rughe scavate agli angoli della bocca, gli occhi cerchiati dalla fatica e dalla mancanza di sonno, e una manciata di lentiggini sparse sul naso e sulla fronte, che spiccavano nel pallore del volto. Dapprima parve sorpresa dalle mie carezze, ma non tardammo a metterci d’accordo; non volle però a nessun costo salire in camera mia, per timore d’esser veduta dalla padrona, e mi accompagnò invece in un ripostiglio dietro la cucina, un po’ scomodo, ma con abbastanza spazio per un saccone di paglia, che era evidentemente il suo giaciglio notturno. Sorridendo fece saltar fuori i seni dalla scollatura, rialzò la veste fino alla vita, e appena mi fui calato le brache sdraiandomi sul pagliericcio si arrampicò su di me; giacché quella era l’unica posizione in cui il suo gran ventre non fosse d’impedimento al gioco. Il suo corpo aveva un sentore di abiti non lavati e le sue mani odoravano di cipolla, ma curiosamente questa combinazione non mi parve repellente. Essa diede in smanie con tanta rapidità, e così rumorosamente, da farmi temere che qualcuno ci scoprisse, cosa che tuttavia non fece che accrescere il mio piacere; poi si ripulì col lembo del grembiule e tornò come se niente fosse alle sue casseruole, dopo aver fatto scomparire in una tasca della sottoveste la moneta d’argento che le avevo messo in mano.

Ripartito da Brunswick stamattina a mezzogiorno, dopo aver fatto colazione con un pollo e una bottiglia di Madera, ho viaggiato per tutto il pomeriggio attraverso una landa piatta, uniformemente coltivata a segale e avena. È raro in Germania incontrare quelle chiusure o siepi che presso popoli più amanti della libertà delimitano le proprietà di ciascuno; qui i campi sono aperti e si stendono a perdita d’occhio, senza che nessun ostacolo interrompa la monotonia del paesaggio e rallegri l’occhio del viaggiatore. M’immagino la quantità di processi cui un simile stato di cose darebbe luogo in America! Il clima è caldo, ma instabile; per tutta la mattinata il cielo è stato sereno, ma già mentre salivo in carrozza sono comparse le prime nuvole, e nel corso del pomeriggio si sono susseguiti brevi, violenti acquazzoni, alternati a squarci di sole. Stasera mi sono fermato a cenare nell’ultima stazione di posta del ducato, prima della frontiera con la Prussia. La locanda era proprio come si vedono a teatro; una sala bassa piena di gente che beveva, una gran cucina affumicata, una scala che sembrava perdersi nell’oscurità, ma in realtà portava alle tre o quattro camere del piano di sopra. Uno sguattero mi ha accompagnato in una di queste camere, ammobiliata soltanto con una tavola, una sedia spagliata e un pagliericcio, e ha acceso una candela, assicurandomi che avrei avuto subito la cena. Poiché tuttavia le vivande tardavano, sono sceso di nuovo, e mi sono fatto versare un boccale di birra in attesa che il mio arrosto cuocesse. La sala era affollata di contadini vestiti con gli abiti della festa, che avevano ballato tutto il giorno all’ombra delle piante, e stavano rinfrescandosi con l’ultimo bicchiere prima di riprendere la strada di casa. La fisionomia semplice e onesta, la parola pacata e anzi lenta, il gesto bonario e tranquillo di questi villani son gli stessi che ho riscontrato fin dall’arrivo in tutti i contadini olandesi e tedeschi. Gli uomini portano il cappello a tricorno e un abito di tela foderato di stoffa, senza colletto e senza falde, come si usava cent’anni fa, guarnito di bottoni di metallo larghi come monete da un dollaro. Sono quasi tutti di pelo biondo, o più raramente rosso; e chi non ha i capelli lunghi li porta tagliati a scodella, come si vede nei vecchi arazzi fiamminghi. Quasi tutti hanno calzoni di pelle, calze blu, e scarpe con grosse fibbie d’argento, che nei giorni di lavoro sostituiscono con zoccoli o stivali. Le contadine si erano già quasi tutte ritirate, ma quelle che ho ancora incontrato lungo la strada portavano enormi gonne a quaranta o cinquanta pieghe, piuttosto maleodoranti, soprattutto fra le più anziane, e in testa certi piccoli berretti di velluto viola, ricamati di paillettes dorate; anche le cameriere della posta erano vestite alla stessa maniera, salvo che al berretto avevano aggiunto fiocchi e nastri in quantità tale da farlo quasi scomparire sotto le gale. Finalmente lo sguattero è venuto ad avvisarmi che la cena era pronta, e sono risalito nella mia camera, dove il mastro di posta aveva messo in tavola, per accompagnar l’arrosto, una minestra di vino e orzo e un’insalata, credo, di cavoli bolliti, almeno a giudicare dall’odore, perché non ho avuto il coraggio di assaggiarla; il tutto accompagnato da un cattivo vino della Mosella, mescolato a gelatina di ribes e chiamato, per qualche ragione, champagne rosé. Parlando col mastro mi sono compiaciuto per la prosperità dei paesani, che realmente in questa contrada mi paiono più grassi che nelle altre province; ma non posso fare a meno di deprecare il loro cattivo gusto culinario. Il vino poi, che ho bevuto in fretta per non sentirne il sapore e apprezzarne almeno la freschezza, mi ha provocato un fortissimo mal di testa, sicché sono andato a dormire appena levato da tavola.

Lunedì, 28 luglio

Il sole era apparso da poco quando ho passato la frontiera fra il ducato di Brunswick e il regno di Prussia, non senza un noioso controllo dei miei documenti, che per qualche ragione non soddisfacevano l’ufficiale di picchetto: sicché ho dovuto attendere per un bel po’ l’intervento di un superiore, sudando nella calura già soffocante del posto di guardia, prima di liberarmi dalle attenzioni di quel doganiere pignolo. Non c’è niente di più fastidioso della politica dei passaporti in Europa: non si può andare da nessuna parte senza essere stati descritti in un foglio firmato e sigillato, con tanto di nome, fisionomia e occupazione; questo passaporto bisogna mostrarlo per prendere i cavalli di posta, e perfino, mi dicono, per ottenere un posto in diligenza, e qualunque funzionario è libero di trovarlo insufficiente, e di procurare al viaggiatore ogni sorta di fastidi. Sono questi i momenti in cui rimpiango il mio paese natale: là nessun tirannello investito di una meschina autorità osa insultare impunemente i forestieri, e il viaggiatore non è interpellato ed esaminato a ogni tappa come un nemico, né costretto a subire gli insulti di qualche villano ripulito. Riflettendo sulle ragioni di tanta diffidenza, peraltro, non ho potuto fare a meno di considerare che viaggiando sempre verso oriente ho già passato tre volte la frontiera prussiana: la geografia degli stati europei ricorda piuttosto un rompicapo lasciato incompiuto da un bambino capriccioso che non un prodotto della ragione umana, e non c’è da sorprendersi che la loro politica sia guidata prima di ogni altra cosa dalla paura dei vicini.

Il passaggio della frontiera non ha mutato in nessun modo l’aspetto del paesaggio: la strada continua a correre attraverso una pianura sabbiosa, sotto lo stesso cielo basso e opprimente, il dialetto dei contadini è lo stesso, e soltanto una certa impressione generale di maggior miseria testimonia che sono uscito dalle terre del duca di Brunswick per entrare in quelle del re di Prussia. I contadini al lavoro nei campi vestono soltanto le brache e la camicia; molti di loro, tuttavia, portano la cravatta rossa o nera dei soldati e il cappello a tricorno gallonato della fanteria prussiana, segno che si tratta di militari congedati temporaneamente per la mietitura. Il re è assai liberale con i suoi soldati e consente loro lunghe licenze nei momenti in cui le loro braccia sono più necessarie a casa, sospendendo beninteso il soldo e guadagnandosi la riconoscenza dei suoi nobili, cui i contadini debbono normalmente, in questa stagione, quattro o cinque giornate di lavoro gratuito alla settimana. Essi sono però obbligati a portare sempre su di sé un segno di riconoscimento che dimostri la loro qualità, e la domenica debbono sentir messa in uniforme, pena la denuncia da parte dei parroci e l’immediata accusa di diserzione. Si dice d’altronde che un tempo accadesse di incontrare anche bambini di dieci anni al lavoro nei campi, col cappello ornato dal gallone dell’esercito: erano coloro che i reggimenti, a scanso di raggiri, provvedevano a iscrivere in anticipo sui loro libri mastri, e che erano condannati a partire per il servizio non appena raggiunta l’età prevista dalla legge. Oggi non si giunge più a tanto e gli ufficiali reclutatori si accontentano di portar via i giovani in grado di imbracciare le armi, a condizione che raggiungano la statura contemplata e che non siano in grado di pagarsi un sostituto. Anche la durata della ferma, un tempo illimitata, è stata recentemente abbreviata, per un atto di liberalità del monarca, a soli vent’anni; sicché si può dire che i contadini non abbiano mai goduto in Prussia di condizioni così miti come sotto il presente regno.

Il clima, dopo il fresco dei giorni scorsi, è tornato afoso; il sole batte sulle schiene dei mietitori intenti a falciare la segala e il viaggio è reso faticoso dal caldo e dalla polvere. Nel pomeriggio sono arrivato a Tangermünde sull’Elba, grossa borgata abitata da negozianti e da qualche proprietario terriero, importante per il ponte che insieme a quelli di Magdeburgo costituisce uno dei pochissimi, e ben sorvegliati, accessi al cuore dello stato prussiano. Proprio per questo vi è accantonato un reggimento di corazzieri, i cui picchetti assicurano la guardia alle porte e a tutti gli edifici pubblici; così che i cittadini non possono dimenticare neppure per un istante di trovarsi sotto un governo militare. All’ora in cui ho fatto il mio ingresso in città tutti i civili si erano già ritirati nelle loro case e per la strada non si incontravano che corazzieri sfaccendati, in giubba bianca, mostrine gialle e stivali, con le lunghe sciabole penzoloni nella polvere. Nel caffè della piazza principale, dove alcuni sottufficiali giocavano a biliardo, ho chiesto all’oste di indicarmi un albergo; e poiché è risultato che l’uomo teneva due o tre stanze al primo piano per i viaggiatori di passaggio ho deciso senz’altro di pernottare da lui.

Dopo cena sono andato a bere in un’osteria all’aperto, il cui proprietario ha cura di mantenere una cantina ben fornita per il piacere degli ufficiali di guarnigione. Tre o quattro di costoro stavano appunto bevendo a un tavolo sotto un pergolato, e i loro servitori bevevano a un altro tavolo; vedendomi da solo e accorgendosi all’accento che ero un forestiero, mi hanno invitato a unirmi a loro. L’esperienza fatta con gli ussari in Westfalia non mi consentiva di formulare troppe aspettative sulla compagnia dei corazzieri, ma non ho avuto a pentirmi di aver accettato il loro invito. Apprendendo che ero americano si sono mostrati curiosi e ben disposti, sebbene la loro ignoranza nei confronti del mio paese fosse evidente; uno di loro mi ha chiesto se è vero che in America non abbiamo servitori! L’ho assicurato che ne abbiamo proprio come in Europa; la sola differenza è che da noi i servitori sono più disubbidienti, e che siamo serviti peggio. Quasi tutti avevano avuto occasione di conoscere degl’inglesi, e hanno osservato che americani e inglesi si assomigliano molto, ma che gli americani sono più vivaci e più di buon umore; in generale, a quanto ho già avuto occasione di constatare, sul continente gli inglesi sono considerati freddi, arroganti e melanconici.

Poiché quei signori hanno avuto la cortesia di levare il bicchiere alla prosperità degli Stati Uniti d’America, ho ricambiato bevendo alla salute del re di Prussia, e ne ho approfittato per interrogarli circa la probabilità di una guerra. È risultato che essi non ne hanno la minima idea, ma la desiderano con tutta l’anima; si augurano di marciare contro la Francia, poiché questa è la guerra più popolare oggi fra i loro pari, ma sarebbero pronti a farlo con eguale zelo contro l’Austria, la Svezia o la Russia. La scelta del nemico contro cui battersi è per loro del tutto indifferente, purché infine ci si batta. «Il nostro è un esercito che ha vissuto per troppo tempo in pace» ha sospirato il tenente von Lettow. «Mi riesce difficile considerarla una disgrazia» ho sorriso, «anche se convengo che agli occhi di lor signori può ben apparire tale.» «Non fraintenda, la prego, le mie parole» ha replicato il giovane. «La pace è una condizione assai felice per il paese; ma il mestiere dei soldati è di fare la guerra. Certo, in tempo di pace gli uomini divengono più brillanti, più socievoli, e, se così si può dire, più umani, tutte qualità che in apparenza fanno di loro dei cittadini più utili allo Stato: ma con ciò si snatura l’essenza stessa della vita militare, poiché i costumi della società borghese contaminano quelli dell’armata.» «Proprio così, è detto bene!» ha soggiunto il capitano von Borstell. «Quando la pace dura troppo a lungo, l’esercito si imborghesisce. Chi oggi, nel nostro paese, vanta i frutti della lunga pace non s’avvede della contraddizione con quella che è sempre stata, e sempre sarà la natura della Prussia: se si vuol essere una nazione guerriera, bisogna anche fare la guerra. La guerra è un’arte, e ogni arte dev’essere praticata, altrimenti si rischia di dimenticarne i princìpi.» I miei occasionali compagni, come si vede, non erano affatto dei brutali spadaccini, anzi si dimostravano perfino capaci di considerazioni filosofiche, cui del resto tutti i tedeschi istruiti sono portati per temperamento; e tuttavia, ascoltando quei discorsi, non finivo di ringraziare d’esser nato cittadino di un paese dove i militari non hanno alcuna autorità, poiché mi accorgevo dell’influenza perniciosa che questi signori possono avere sulla cosa pubblica, anche quando si tratti, singolarmente, di ottime persone.

Il desiderio di guerra manifestato da quei giovanotti, del resto, nasce in buona parte dalle medesime ragioni che rendono così apatici i loro camerati in Westfalia; e cioè dalla smania di sfuggire al tedio della vita di guarnigione, col suo incessante susseguirsi di doveri senza fine, prescritti nei minimi particolari dal regolamento militare. «Sa lei che vuol dire far l’ufficiale in tempo di pace?» ha domandato il capitano. «Vuol dire, prestare una viva attenzione alla strigliatura dei cavalli, e badare che la striglia, la spazzola e la paglia si adoperino secondo i buoni princìpi; per ore e ore, aver l’occhio a che i soldati non passino la striglia sulle criniere, e lavino per bene le narici e gli occhi delle loro bestie; e assistere al pranzo dei cavalli, per accertarsi che la biada serva esattamente all’uso voluto dal ministero della guerra; e mentre si è tutti immersi in queste occupazioni, sentirsi a un tratto balenare nel cervello quest’idea: “E così si può durare dieci, venti, trent’anni!”.» Si aggiunga che lo scarso stipendio pagato dal re agli ufficiali subalterni li costringe a dipendere, per vivere, dalla buona volontà dei loro genitori; e benché essi sian ricchi di famiglia, come tutti gli ufficiali di cavalleria, non possono non attendere con impazienza il giorno in cui saranno proprietari di uno squadrone, ciò che comporta un reddito di parecchie migliaia di talleri l’anno. Poiché mi stupivo di una così ingiusta disparità di trattamento, essi mi hanno spiegato pazientemente, compatendo la mia ignoranza di borghese e di forestiero, che solo una minima parte di questa rendita è sborsata dal re; il resto proviene da molteplici profitti che la legge o l’uso autorizzano, come il risparmio di due o tre pollici di panno su ogni uniforme, e più di tutto le paghe dei soldati in congedo, che i comandanti di squadrone sono soliti trattenere in gran parte per sé. Una conseguenza indesiderata di questo sistema consiste naturalmente in questo, che gli ufficiali superiori hanno tutto da guadagnare in tempo di pace, e molto da perdere in caso di guerra; al contrario dei loro subordinati, che aspirano, per dirla in termini crudi, a vederli ammazzare in battaglia per poter prendere il loro posto. «Quando mio padre morirà» ha esclamato il capitano von Borstell «avrò diecimila talleri all’anno, ma per ora debbo accontentarmi di mille, e ne spendo il doppio; quando sarò proprietario di uno squadrone, ne avrò altri tre o quattromila: lei capisce che in queste condizioni farei la guerra anche al Padreterno!»

«Se anziché ascoltare questi discorsi in circostanze così piacevoli» ho replicato accennando al pergolato che ci riparava con la sua frescura e alla buia porta della cantina, da cui l’oste risaliva proprio allora con le braccia cariche di bottiglie di champagne «li avessi letti in un articolo del giornale, mi sarei persuaso di aver a che fare con qualche Orlando assetato di sangue; eppure non credo di sbagliare se affermo che nessuno di lor signori deve aver conosciuto di persona che cosa sia la guerra.» «Sbaglia» ha ribattuto il capitano, che del resto a ben guardare appariva un po’ meno giovane degli altri. «Noialtri diventiamo soldati presto, soprattutto se si è figli di soldati, e mio padre è generale. Al tempo dell’assedio di Magonza avevo vent’anni, ed ero al reggimento già da cinque. Ora ho trentatré anni, e so bene di doverne attendere forse dieci o quindici prima di poter salire un altro gradino; sicché lei mi perdonerà se non considero con ripugnanza la possibilità di passare di grado in tempi più brevi grazie alla guerra.» I suoi compagni non la pensavano diversamente, benché non mi fossi sbagliato giudicando che nessuno di loro doveva aver ancora sentito l’odore della polvere. «Certo» ha osservato sorridendo il tenente von Belling «in guerra si corre il rischio di farsi ammazzare o storpiare, ma che cosa vuole, noialtri ci siamo abituati. Su ventitré maschi della mia famiglia che vivevano cinquant’anni fa, zii, fratelli e cugini, venti sono stati uccisi durante la guerra dei Sette Anni, eppure non ci siamo trovati peggio per questo; anzi se un giorno sarò ricco lo debbo proprio a questa circostanza, poiché tutta la fortuna della famiglia è passata in eredità ai sopravvissuti, fra i quali mio padre. Ora, non mi parrebbe giusto privare i nostri discendenti di una simile opportunità!»

Nonostante la confidenza con cui si preparano a impugnare la sciabola, essi sono però scontenti dello stato di preparazione dell’esercito. I magazzini militari, che secondo il regolamento dovrebbero essere sempre pieni, non sono più stati completati fin dalla pace di Basilea, a causa degli alti prezzi del grano; e quando, dopo il cattivo raccolto dell’anno scorso, il re ordinò di aprirli per soccorrere la spaventosa miseria dei poveri, si scoprì che contenevano a mala pena il necessario a quello scopo. Anche la cifra di duecentocinquantamila uomini sotto le armi, che si spaccia correntemente per la forza effettiva dell’armata, ha più dell’illusione che della realtà, per quanto possa risultare difficile rendersene conto a chi non conosca i misteri dell’amministrazione prussiana. Il loro reggimento, ad esempio, conta molti meno uomini di quanti non ne abbia sulla carta, come mi ha dimostrato con pignoleria, la sera stessa, il capitano von Borstell, esibendomi addirittura i libri paga; un atto, credo, piuttosto illegale in questo paese, e che andrà addebitato anch’esso allo champagne. Stanno ancora peggio a cavalli: lo squadrone del capitano non giunge a tre quarti di quelli necessari. Gli uomini mancanti potranno essere rimpiazzati all’atto della mobilitazione, poiché il reggimento ha sui suoi registri qualche centinaio di riservisti, anche se essi dubitano che possano essere tutti richiamati in tempo, soprattutto in questa stagione in cui i lavori agricoli assorbono perfino una parte dei soldati in servizio; quanto ai cavalli, è impossibile trovarne in breve tempo un così gran numero e, soprattutto, addestrarli in tempo utile.

Questi discorsi avvenivano a mezzanotte nell’ufficio del colonnello, dove eravamo tranquillamente penetrati, poiché nulla era chiuso a chiave; una mancanza di segretezza che mi ha favorevolmente impressionato, soprattutto se paragonata alla pedanteria con cui i funzionari di polizia hanno esaminato le mie carte alla frontiera, senza nascondere che paventavano gravi pericoli per lo stato dalla mia penetrazione attraverso i suoi confini. Ma è pur vero che la proverbiale segretezza prussiana ha sempre il suo rovescio, e che i piani delle fortezze prussiane, classificati al primo posto fra i segreti di Stato, vennero mostrati a Guibert da non so più quale generale, come egli stesso racconta nelle sue memorie! Nonostante ciò, preferivo non essere sorpreso in quel luogo da qualche ufficiale superiore, e ho avvertito i miei conoscenti che non intendevo coricarmi troppo tardi, giacché l’indomani avrei dovuto partire all’alba. I tre mi hanno accompagnato all’albergo, e ho trovato l’oste che mi attendeva ancora alzato per condurmi alla mia camera, dove Will russava già della grossa; sicché ho durato non poca fatica per svegliarlo e farmi togliere gli stivali, prima di crollare a mia volta sul letto.

Martedì, 29 luglio

Sto attraversando il cuore più antico della Prussia, quella che chiamano la Marca: una terra molto diversa dalla monotona pianura coltivata attraverso cui ho viaggiato finora. Il paesaggio comincia a mutare al transito dell’Elba: davanti allo sguardo si apre un’immensa brughiera di sabbia rossa, interrotta solo a tratti da radi campi di segala, orzo e avena, faticosamente strappati al suolo ostile dal lavoro di contadini affamati. All’orizzonte un susseguirsi interminabile di foreste di pini, nere sotto il sole cocente dell’estate, fa da cupo contrasto all’azzurro del cielo, che oggi è limpido come mai l’avevo veduto nei giorni scorsi. Le strade sono polverose e non sempre praticabili, e il viaggio procede molto più faticosamente di quanto non avessi preventivato; a ogni passo c’è da attraversare un corso d’acqua, un fiume o più spesso un canale, e a volte occorre scendere dalla carrozza per evitare che il peso eccessivo la faccia sprofondare nel terreno acquitrinoso. La presenza di tanti corsi d’acqua, che sfociano spesso nello specchio scintillante di un lago, offre un curioso contrasto con la natura del suolo, sabbioso e arido, dove ogni raffica di vento solleva nuvole di polvere. Fiumi e canali sono costeggiati da estese paludi, dove prosperano indisturbate generazioni di zanzare; il sole a picco per ore e ore non lascia scampo, e i fitti boschi di pini all’orizzonte non danno al paesaggio un aspetto allegro.

Ogni sosta è la benvenuta soprattutto per la possibilità di godere un po’ d’ombra e magari di tracannare un bicchiere di birra nel cortile di un’osteria, mentre il mastro di posta cambia i cavalli con la flemma consueta. Tuttavia anche questo momentaneo refrigerio è subito dissipato dalla comparsa di un funzionario di polizia venuto a indagare sulla qualità e la destinazione del viaggiatore e a verificarne il passaporto. In simili occasioni le lettere di presentazione che porto con me da Münster e da Hannover si sono rivelate d’inaspettata utilità, risparmiandomi un’infinità di fastidi; la naturale propensione dei tedeschi al rispetto per l’autorità li induce a scattare sull’attenti non appena decifrate le firme e i sigilli dei generali, e a lasciarmi andare senza ulteriori formalità. Altrimenti passerei gran parte del mio tempo a compilare registri e a riempire formulari col mio nome, età, qualità, nazionalità, e condizione, e intenzioni, «ché tutte queste cose in ogni villaggiuzzo ti sono domandate da un sergente all’entrare, al trapassare, allo stare, e all’uscire», come diceva quell’italiano gottoso e pazzo per i cavalli che conobbi a Londra qualche anno fa, e che sempre faceva ridere la compagnia col racconto dei suoi viaggi in Prussia.

Mercoledì, 30 luglio

Nel primo pomeriggio sono arrivato a Berlino. Alloggio al Re di Portogallo, nella città vecchia; dalle mie finestre vedo la piazza del Castello, il ponte e la passeggiata lungo la Sprea. Fa un caldo soffocante e sto scrivendo queste righe seduto allo scrittoio in camicia, mentre i servi mi preparano un bagno; poiché dopo aver preso possesso del mio appartamento ho fatto una lunga passeggiata a piedi, da cui sono tornato coperto di sudore e di polvere. Le prime impressioni suscitate dalla città sono contrastanti. Il visitatore più distratto non potrebbe ignorare di essere disceso in una grande capitale, vuoi per la larghezza delle strade, vuoi per la magnificenza degli edifici. Inutile cercare qui le viuzze fetide, dove il sole non batte neppure a mezzogiorno, i portici tenebrosi, le case corrose dai secoli che racchiudono l’anima oscura delle altre città tedesche. Qui tutto è nuovo, costruito in pochi anni dagli stessi architetti per compiacere a mecenati dai medesimi gusti, ciò che potrebbe indurre il viaggiatore appena giunto, nella vertigine del mezzogiorno, a credersi trasportato in una città senz’anima e forse di un altro mondo. Tuttavia la geometria delle vie e il candore marmoreo dei palazzi hanno un’altra faccia, non poco sorprendente. Le strade non hanno marciapiedi, e sono sudicie oltre ogni dire; i temporali dei giorni scorsi hanno lasciato un fondo di appiccicoso fango nero che le ruote delle carrozze schizzano per ogni dove. Le statue che ornano in gran copia le facciate degli edifici sono per la maggior parte vandalizzate; s’indovinano sui loro volti smembrati le sassate di monelli che nessuno si è curato di tenere a bada. Palazzi che si crederebbero nuovissimi appaiono già in cattive condizioni e qua e là l’intonaco scrostato rivela mura di mattoni dall’aspetto quanto mai ordinario. Non saprei dire se la fretta del costruire, la smania di apparire al di là dei propri mezzi, l’incultura di un popolo ammassato troppo in fretta in una capitale che cresce ogni anno senza misura siano maggiormente responsabili di questo stato di cose. Certo le condizioni di vita della popolazione non sono le più favorevoli e il viaggiatore può toccare con mano, nelle strade di Berlino, gli effetti disastrosi della guerra di Bonaparte su una nazione che pure sta facendo l’impossibile per tenersene fuori. Il numero dei mendicanti è indescrivibile. Da tutto il paese i contadini incalzati dalla miseria affluiscono nella capitale, nell’illusione che la vita della grande città consenta loro di sbarcare in qualche modo il lunario. Intere famiglie, con frotte di bambini laceri, si affollano intorno alle carrozze tendendo la mano. Agli angoli delle strade più miserabili ragazze scalze sollecitano i clienti, con gli occhi incattiviti per la fame. Esistono, naturalmente, regole severissime contro la mendicità e la prostituzione, ma il capo della polizia, a giudicare dalle lagnanze che ho dovuto ascoltare in tutte le botteghe in cui sono entrato, non ha a disposizione le forze necessarie per farle rispettare; in effetti per quasi tutta la mia passeggiata non ho incontrato neppure un gendarme. Circola bensì una moltitudine di soldati, ma il loro aspetto in generale non è troppo rassicurante e talvolta sono proprio loro a chiedere l’elemosina con maggiore insistenza.

A questo proposito non posso tacere una delle impressioni più curiose che si presentano a chi giunga per la prima volta a Berlino. Non c’è quasi finestra cui non siano appesi ad asciugare brache e cinturoni, e altri accessori indispensabili dell’equipaggiamento militare, tanto da lasciar credere che nella più gran parte degli alloggi non abitino se non soldati. Il servitore di piazza, che ho affittato appena giunto e che mi costa tre soldi al giorno, mi ha spiegato che gli abitanti delle città sono esonerati dalla coscrizione, ma ogni capofamiglia è obbligato ad alloggiare due soldati, e spesso anche di più. Soltanto pochi fortunati ottengono il privilegio di pagare una grossa somma per essere dispensati da quest’obbligo, e costoro si affrettano a scrivere sulla porta di casa la parola Frei,14 a significare la libertà acquistata a così caro prezzo: un’insegna che infatti avevo notato, senza riuscire a rendermene ragione. Va da sé che i borghesi non mettono i loro saloni a disposizione di questi ospiti piuttosto sgradevoli, sicché i poveri diavoli sono costretti ad arrampicarsi, con donne e bambini, al terzo o al quarto piano, dove vivono ammassati in tuguri senza nome. Per evitare che possano far perdere le loro tracce, i soldati sono obbligati a rientrare in casa all’ora della ritirata; e ogni sera un sottufficiale fa il giro degli alloggi, sgolandosi a chiamarli per nome dalla strada, finché una voce non risponde: «Presente». Per questa ragione le stanze loro assegnate debbono sempre affacciarsi sulla via, col risultato di moltiplicare agli occhi dei passanti la vista di quelle tali brache appese ad asciugare. Chi non risponde all’appello è segnato come assente e l’indomani viene punito. Ma le risorse dell’ingegno umano sono tali, che molte mogli di soldati hanno appreso a imitare alla perfezione la voce del marito, e questo spiega perché le taverne siano piene di soldati ubriachi ancora dopo il suono della campana. Accorgendosi del mio stupore di fronte a questo sistema portentoso, il servitore di piazza mi ha assicurato che i soldati prussiani non sono mai stati alloggiati in altro modo, e che il governo evita per quanto possibile di ricoverarli in caserme; la ragione, a suo giudizio, è che ammassando un gran numero di questi disgraziati in una stessa camerata potrebbero nascere, col favore della notte, chissà quali complotti, allo scopo di disertare, o magari di far peggio. Ecco un argomento decisivo contro quelli che anche in Inghilterra, come si è letto ultimamente sulle gazzette, vorrebbero costruire caserme per acquartierare i soldati, col pretesto che altrimenti le truppe non potrebbero essere ben disciplinate; perché in nessun paese al mondo s’impartisce una disciplina più severa di quella prussiana.

Mentre mi raccontava queste cose, il domestico fremeva dall’impazienza di condurmi nelle strade più eleganti della città nuova, da cui la turba dei miserabili è tenuta rigorosamente lontana, e infine ho dovuto cedere ai suoi desideri. Il quadro che si offre agli occhi del visitatore è qui ben diverso, e non solo perché quasi tutti i proprietari sono esonerati dagli obblighi di alloggiamento. Sul grande viale che chiamano i Tigli, dove la migliore società cerca rifugio contro la calura all’ombra degli alberi, nella piazza dell’Opera, con le sue colonne corinzie sormontate dalla scritta pagana “Fridericus Rex Apollini et Musis”, nella Wilhelmsplatz dove sorgono le statue dei generali di Federico, con le sciabole sguainate a sfidare il cielo, nell’immensa piazza del Gensdarmenmarkt, dove le cupole gemelle del Duomo francese e del Duomo tedesco fiancheggiano il colonnato del Teatro Nazionale, la nobiltà ostenta un lusso sfacciato. Qui passano gli equipaggi più costosi che abbia ammirato da quando sono in Europa, gli ufficiali cavalcano nelle loro uniformi attillate come se fossero i padroni del mondo, e le signore che vanno a far spese nei negozi alla moda, facendo risuonare l’acciottolato sotto i tacchi dei loro scarpini, vestono abiti copiati direttamente dalle riviste di Parigi. A un occhio non esercitato le belle potrebbero apparire non troppo diverse dalle nostre élégantes di New York, ma mi sembra che i loro vestiti siano alquanto più trasparenti, ed esse mostrano le spalle e il seno con molto maggior disinvoltura di quanto non usi laggiù da noi. Una di loro, particolarmente graziosa, era accompagnata da un servitore negro che teneva aperto sul suo capo il parasole, e seguendola con lo sguardo avrei potuto lasciarmi trasportare dalla fantasia fino a credermi a Wall Street. E tuttavia, gli effetti di diverse annate di carestia e le difficoltà create al commercio dalle guerre incessanti cominciano a farsi sentire anche presso gli esponenti meno agiati del ceto borghese; sicché può accadere di incontrare maturi commercianti tranquillamente a spasso senza calze, con ai piedi scarpe dalle fibbie d’argento che ricordano un passato più prospero.

Fra le cause della miseria i berlinesi sono concordi nell’indicare il corso forzoso della carta moneta, che tutti maneggiano con visibile ripugnanza, come se quei bollettini contenessero l’annuncio della loro condanna a morte anziché un certificato di credito garantito dalla firma del ministro. Il primo risultato di questa bella politica è che chiunque procura di pagare in buoni anche i più piccoli acquisti, serbando le monete al sicuro nei forzieri, così che ad ogni transazione di commercio cresce il malumore generale. Perfino il banchiere da cui sono andato a incassare le mie lettere di cambio voleva pagarmi in carta moneta! Alla fine mi ha dato dell’oro, ma a un cambio vergognoso; per cinquecento dollari tratti su New York, ho ricevuto cento friedrichsd’or, e ho dovuto pagarne due di commissione. Se non altro, pagando in oro potrò sperare di essere ben servito, cosa che non sempre accade a chi paga in banconote. Non si può immaginare quanto questa novità contribuisca a guastare l’umore dei cittadini e in modo particolare dei commercianti. Il mio albergatore, per esempio, è furibondo: «A questo modo», dice, «son buoni tutti a pagare i debiti; il bell’affare! Una risma di carta squadrata, ed ecco pronte le migliaia e i milioni!». Nelle botteghe si commenta con rispetto la fortuna di un mercante di stoffe, che si è presentato da non so qual principessa di casa reale col conto di una grossa fornitura; il brav’uomo si aspettava di essere pagato in carta moneta, ma la principessa lo ha pagato metà in oro, metà in argento, e si è scusata di non poter saldare tutto il conto in oro! Questa cortesia viene celebrata come il più straordinario tratto di umanità, e qualche arrabbiato giunge fino a scorgervi la prova di un’opposizione della corte contro la politica del ministro delle finanze.

Alle preoccupazioni indotte dalle difficoltà economiche si aggiungono naturalmente quelle legate all’incertezza della congiuntura politica. Gli umori in città sono assai discordi quanto alla speranza di salvare la pace. Malamente informati da una stampa asservita al governo e sottoposta a vigile censura, i politici da caffè si sfogano prestando orecchio a ogni sorta di pettegolezzi e arricchendoli, a ogni passaggio di bocca in bocca, di nuovi particolari. Qui non sono più le malattie di Fox e Bonaparte a fare la rage dei conversatori, ma le anticipazioni sulla prossima riunione del gabinetto, le illazioni sul rientro in patria dell’armata francese in Germania, e soprattutto i bollettini da comari sulle invidie, le gelosie, i puntigli e i bisticci dei membri del governo, dei principi e dei generali, mortalmente divisi dal problema di stabilire se sia meglio per la Prussia fare la guerra a Bonaparte o piatire a qualunque costo un accordo con lui. Il re, che non avrebbe potuto finora inchinarsi più bassamente e più umilmente a ogni pretesa francese, e il cui senso del dovere pare si limiti alla decisione incrollabile di assicurare al suo popolo la pace a qualunque prezzo, ha manifestato il suo disappunto per i mormorii che il pubblico si permette di esprimere; in conseguenza ha ordinato agli ufficiali della guarnigione di astenersi, sotto pene severe, dal parlare di politica, e si dice che contempli addirittura un editto con la proibizione per tutto il pubblico, in generale, di discutere gli affari di stato. Ecco un sistema che meriterebbe d’esser messo alla prova anche in America!

Fino ad oggi, tuttavia, il minacciato editto non è ancora stato pubblicato; e in un caffè sul Gensdarmenmarkt, in cui sono entrato a rinfrescarmi, ho trovato un vecchio gentiluomo che indottrinava un crocchio di Quid nuncs,15 con un giornale in mano. Era, evidentemente, il politico del caffè, ascoltato dagli altri come un oracolo; lo dimostravano le sue sopracciglia, aggrottate per aver troppo scrutato le gazzette, il naso infossato vicino alla radice, a causa degli occhiali, e il panciotto macchiato di tabacco, articolo fra i più indispensabili a un politico. Riconoscendomi all’abito per un forestiero, trovò subito modo di attaccar discorso, e dopo essersi informato se portavo qualche novità entrò in una lunga discussione della situazione delle varie potenze, e delle notizie contraddittorie circa i movimenti francesi per mare e per terra, «i quali a ben guardare dimostrano», affermò con un’astuta strizzata d’occhio, «che avremo la pace!». Il vecchio sembrava assai soddisfatto di questa profonda conclusione, e si congratulava con se stesso per tanta perspicacia. «Io l’ho sempre detto, e in questo stesso luogo» concluse, volgendosi intorno agli avventori come per chiedere conferma della verità di quanto affermava. «Signori» aggiunse con uno sguardo misterioso, tenendo la tabacchiera in una mano e toccandosi il naso coll’indice dell’altra per conferire importanza alle sue osservazioni, «signori, io sono un osservatore. Io leggo. Io penso. Faccio le mie riflessioni. Non dico nulla – ma vedrete, vedrete: siamo prossimi alla pace.» Poi gratificò il suo naso con una poderosa presa di tabacco, e chinandosi verso di me aggiunse con aria ancor più misteriosa di aver scoperto la vera ragione per cui l’armata francese indugia in Germania: niente di più e niente di meno di una spedizione contro il Gran Turco! Nessuno, fra gli ascoltatori, parve trovare sorprendente quella profezia; a quanto potevo giudicare, erano tutti commessi di negozio, o scrivani d’avvocato, senza altre idee politiche se non quelle che leggevano sulle gazzette, e fin troppo felici di credere che se una nuova tempesta si preparava nei cieli d’Europa, i suoi fulmini sarebbero caduti il più lontano possibile dalle loro teste. Nel complesso, ho osservato che gli umori dei berlinesi sono tanto meno favorevoli alla guerra, quanto più modesta è la classe cui appartengono: sicché, se gli ufficiali parlano piuttosto violentemente contro i francesi e accarezzano in modo significativo l’elsa della spada all’udire il nome di Bonaparte, i negozianti non accennano che a mezza bocca alla prospettiva di un conflitto, mentre facchini, venditori ambulanti e ragazze di strada si augurano apertamente che la pace di cui il regno ha goduto negli ultimi anni possa durare ancora a lungo.

Giovedì, 31 luglio

Questa mattina di buon’ora, mentre Will finiva di disfare i bauli e di sistemare le mie cose negli armadi, sono andato a presentarmi al conte Haugwitz, cui sono indirizzate le mie credenziali. L’anticamera del ministro era affollata dai medesimi postulanti che ho avuto modo di studiare poche settimane fa nell’anticamera di Mr. Madison, e cioè, a giudicare dall’abito e dalle fisionomie, segretari disoccupati, negozianti in cerca di credito e poeti squattrinati venuti a sollecitare un impiego, foss’anche come spie; sicché ho avuto modo di constatare che sotto questo riguardo il governo dispotico non si distingue affatto dal repubblicano. Dopo una buona mezz’ora d’attesa un segretario azzimato e profumato, guardato con invidia e dispetto da tutti quei disgraziati, la cui principale aspirazione era probabilmente di prenderne il posto, è venuto a comunicarmi che Sua Eccellenza, essendo già impegnato in colloqui della più alta importanza, non poteva ricevermi fino a dopo pranzo; non aggiunse che sperava gli lasciassi il tempo di compiere in pace la sua digestione, ma mi parve di capire che questo era il senso ultimo del discorso. Non posso fare a meno di pensare che sarei stato accolto in modo alquanto diverso se mi fossi presentato in rappresentanza del re d’Inghilterra, o magari di Bonaparte; ciò che testimonia lo scarso credito di cui godono gli Stati Uniti presso le grandi potenze.

In mancanza di meglio ho trascorso la mattinata al caffè, sfogliando le gazzette; ma non c’è lettura più esasperante di quella dei giornali berlinesi. È vano cercare sulle loro colonne considerazioni intorno alla situazione politica e militare d’Europa, per non parlare di giudizi sulle condizioni del regno e dell’esercito, sui sentimenti del popolo, sull’operato dei ministri. I giornalisti, ben sapendo che da una parola del censore può dipendere la loro carriera e fors’anche la loro libertà, si mostrano persuasi che l’interesse pubblico sia dominato soprattutto dal teatro; pagina dopo pagina si descrive minutamente la messa in scena dell’ultimo dramma di Kotzebue, sicché il lettore paziente può apprendere il colore di ogni nastro indossato dalla protagonista, e sapere su quali battute è inciampato il primo attore. Le pagine politiche sono copiate fino all’ultima parola dal “Moniteur” e dalla “London Gazette”, e si limitano al resoconto il più laconico degli avvenimenti; non però quelli del continente e ancor meno le vicende interne della Prussia, ma piuttosto la guerra navale e coloniale in cui sono impegnate Francia, Spagna e Inghilterra. La sorte delle diverse squadre, le imprese dei corsari, le scaramucce nelle Indie riempiono le pagine, sicché sono meglio informato su questi avvenimenti sedendo in un caffè di Berlino di quanto potrei esserlo al porto di New York. Un certo spazio è riservato alle sedute del parlamento inglese e a quelle della commissione incaricata di preparare il nuovo Codice a Parigi; i verbali di questa commissione, traboccanti di espressioni bassamente servili all’indirizzo di Bonaparte, sono fedelmente riprodotti. Per tener viva l’attenzione del pubblico si riportano o s’inventano aneddoti pittoreschi, come la storia di un lord inglese che è montato a cavallo su una vacca a Margate, o la protesta dell’arcivescovo di Palermo contro la presenza in quella città di montanari scozzesi, il cui costume pare piaccia troppo alle belle siciliane. Eppure qua e là, scorrendo con pazienza fino all’ultimo trafiletto, ci si può imbattere in qualche riga consacrata agli affari di Stato, come la notizia, spedita da Cannstadt il 24 luglio, che i cavalli del maresciallo Berthier, appena arrivati da Monaco, hanno fatto dietro-front mentre attraversavano quella città: la redazione si guarda bene dall’aggiungere commenti, ma il lettore può trarre le sue conclusioni circa il prossimo ritorno in patria dell’armata francese, annunziato con tanta sicurezza dalla stampa parigina.

Dopo un paio d’ore ne ho avuto abbastanza di una lettura di tal genere, e per sfuggire alla calura del mezzogiorno sono andato a visitare l’Arsenale. Questo edificio imponente sorge sotto i Tigli a pochi passi dal mio albergo; sulla sua facciata, riflessa nella Sprea, troneggia una superba statua di Bellona, dea della guerra e amica fedele dei prussiani. Credevo che avrei incontrato qualche difficoltà a entrarvi ed ero pronto a rimandare la visita a più tardi, dopo aver ottenuto i permessi necessari; ma mi hanno assicurato che non vi sarebbe stato alcun ostacolo, e infatti è bastata una mancia al sottufficiale di picchetto. Il piano terreno dell’immenso deposito offre un superbo colpo d’occhio, poiché conserva tutta l’artiglieria da campagna dei reggimenti acquartierati a Berlino e a Potsdam: pezzi di bronzo da sei e dodici libbre, con le ruote e gli affusti dipinti di azzurro, secondo un’usanza secolare. Al piano superiore, una successione senza fine di stanzoni trabocca di montagne di tamburi, piramidi di spade, e più di centomila moschetti, tutti ordinatamente impilati in fasci di dieci. Nelle officine una moltitudine di operai in brache lunghe e maniche di camicia, sudando come dannati in mezzo ai fumi dello zolfo e del salnitro, fabbricano da mattina a sera pallottole e polvere da sparo; si dice che siano stati assunti manovali in soprannumero, e che il governo non lesini gli sforzi per poter mettere l’esercito sul piede di guerra, se necessario, col più breve preavviso. Nei sotterranei dell’edificio è stata scavata una gigantesca fonderia, dove si colano tutti i cannoni del regno; tuttavia le macchine con cui sono fabbricate queste bocche da fuoco sono così ingegnose che nessuno può vederle senza un permesso speciale. Ho chiesto se c’era una collezione di armi antiche, ma mi è stato risposto che nessuno ha mai pensato di costituirla, neppure per scopi di rappresentanza. In tutto l’edificio non c’è niente che non sia pronto per entrare in servizio all’istante, e ciò rivela più cose sulla natura della monarchia prussiana di quanto potrebbero fare molti volumi.

Alle quattro sono tornato dal conte Haugwitz, con la speranza di essere ricevuto meglio della prima volta. L’anticamera del grand’uomo, nonostante l’ora, era ancor sempre affollata di postulanti, ma mentre cercavo una sedia un lacchè assai cerimonioso mi è venuto incontro, e mi ha senz’altro introdotto nello studio del suo padrone. Costui sedeva a una scrivania perfettamente sgombera di carte, nel mezzo di un immenso salone vuoto, che dev’essere impossibile riscaldare adeguatamente d’inverno; per raggiungerlo dalla porta ho dovuto fare almeno dieci passi. Prima che arrivassi davanti a lui il ministro si è alzato porgendomi la mano, ornata di diversi grossi anelli; e da questo momento fino alla conclusione del colloquio mi ha trattato con una falsa cortesia spinta fino all’ossequiosità. Dico falsa, perché si sa che il conte Haugwitz, col suo viso amabile, le sue espressioni premurose e la sua voce flautata, è un ipocrita di prima forza; se non l’avessi saputo fin da prima credo che mi sarei lasciato ingannare, come molti altri prima di me. Egli deve la sua fortuna alla famosa contessa di Lichtenau, amante del Re Grasso, dalle cui mani ricevette l’ordine dell’Aquila Nera, la più alta decorazione di Prussia, quando ancora non aveva fatto nulla per meritarla. L’avvento al trono di Federico Guglielmo III avrebbe dovuto significare la fine della sua carriera; ma il giorno stesso in cui il Re Grasso morì, Haugwitz si presentò al suo successore e si appartò privatamente con lui; subito dopo, il re fece circondare dai soldati la casa della contessa di Lichtenau, la dichiarò in arresto e fece mettere i sigilli alle porte. Pochi giorni dopo madama fu processata in segreto e condannata alla fortezza a vita, senza che i capi d’accusa a suo carico siano mai stati divulgati; si sa soltanto che il conte Haugwitz è stato il suo principale e più implacabile accusatore e che la sua testimonianza al processo è risultata decisiva per ottenere la condanna. Questo voltafaccia ha fatto apprezzare Haugwitz dal re, che si era sempre vergognato per la vita scandalosa condotta da suo padre, e ancor più da quanti, ben comprendendo il suo gioco, hanno riconosciuto in lui un politico più profondo di quanto non sospettassero: sicché la politica prussiana ha continuato anche dopo di allora a passare attraverso le sue piccole e belle mani.

Quando il conte ebbe esaminato le mie credenziali, che gli avevo consegnato insieme a una traduzione francese, mi rivolse un sorriso amichevole e disse che era ben lieto di veder accreditare a Berlino un rappresentante del mio paese. «Sua Maestà» aggiunse «riceve con grande soddisfazione questo segno di attenzione da parte degli Stati Uniti, e avrà piacere di continuare le relazioni amichevoli e commerciali che sussistono fra le due potenze.» S’informò poi se gli Stati Uniti mantenessero una rappresentanza diplomatica a Vienna, e quando risposi di no mi parve assai compiaciuto di questa preferenza. «Spero» gli dissi «d’essere ricevuto quanto prima da Sua Maestà, per presentargli di persona le mie credenziali.» Ricordavo che quando John Quincy Adams venne a Berlino, otto o nove anni fa, il Re Grasso era appena morto, e poiché le sue credenziali erano indirizzate al defunto, egli non poté presentarsi al successore, e restò disoccupato per diversi mesi, finché non ricevette dall’America una copia aggiornata di quei documenti. Senza attendermi tanto, ero comunque rassegnato a qualche ritardo, grazie alle maledette questioni di etichetta con cui si divertono queste corti europee; perciò non sono rimasto sorpreso quando Haugwitz mi ha pregato di pazientare ancora per qualche giorno. Il re, a quanto pare, attende da un’ora all’altra il ritorno della regina dalle acque, dopodiché la corte andrà a Potsdam, dove si terranno solenni festeggiamenti per il genetliaco del re; fino ad allora l’etichetta non permette che Sua Maestà conceda udienze, sicché dovrò attendere che faccia ritorno alla residenza estiva di Charlottenburg prima di poter fissare la mia presentazione.

Il ministro pareva sinceramente desolato di questo intoppo, e non finiva di scusarsi; quando lo cacceranno dall’impiego, potrà ancora far fortuna sulla scena. Replicando ai suoi complimenti, ho dichiarato che il mio governo desidera conservare buone relazioni con tutte le potenze europee, e che il mio primo dispaccio sarà accolto con soddisfazione a Washington, se comunicherà che il pericolo di una nuova guerra è scongiurato. A dire il vero, l’opinione di Mr. Madison è piuttosto che la ripresa della guerra in Europa, distogliendo l’attenzione di Bonaparte dagli oceani, e fors’anche mettendo fine, con una battaglia fortunata, alla sua carriera brigantesca, rappresenti l’esito più desiderabile dell’attuale congiuntura diplomatica; ma non mi parevano cose da raccontare a un uomo delle idee del conte Haugwitz, che non sarà, forse, al soldo della Francia, come si dice, ma sarebbe certo capace di fare della Prussia una provincia francese piuttosto che arrischiare una guerra. Abbandonandosi comodamente sulla poltrona, e accarezzandosi con piacere le mani inanellate e profumate, egli mi ha assicurato che le relazioni tra il suo paese e la Francia non potrebbero essere migliori, che i dispacci dell’inviato prussiano a Parigi, Lucchesini, sono ogni giorno più rassicuranti, e che qualsiasi incomprensione manifestatasi in passato può considerarsi senz’altro risolta. Irritato dal suo tono fatuo, non ho potuto fare a meno di replicare che già altre volte Bonaparte ha dimostrato sufficiente doppiezza da intrattenere colloqui diplomatici coi suoi nemici per meglio distogliere la loro attenzione dai suoi preparativi militari. Il ministro si era sfilato un anello dal dito, e ora voleva rimetterselo, e non ci riusciva; per un istante mi parve sul punto di perdere la sua calma olimpica, ma proprio allora il gioiellino, ornato da uno smeraldo, tornò al suo posto. Il conte sorrise benevolmente, e come ricordando soltanto allora che non mi aveva ancora risposto, mi rivelò che l’imperatore dei Francesi, com’egli si compiace di chiamarlo, e il re di Prussia sono sul punto di concludere un patto di spartizione della Germania. «Già da due settimane è stato firmato a Parigi un trattato segreto, con cui sedici principi della Germania meridionale si sono dichiarati indipendenti dall’impero e hanno formato una confederazione sotto la protezione della Francia; e appena pochi giorni fa il principe di Talleyrand ha proposto, da parte del suo padrone, la costituzione di una seconda confederazione nella Germania del Nord, di cui Sua Maestà sarebbe il protettore» e qui ha aggiunto, con noncuranza ben simulata, «col titolo di Imperatore.» Sbalordito, ho chiesto a Haugwitz se il re abbia intenzione di accettare questa offerta; mi ha risposto che il gabinetto sta ancora valutandone l’opportunità, ma che in ogni caso l’esistenza stessa della proposta non lascia dubbi sulla buona intesa che regna fra i due governi. «Io non posso credere» ha aggiunto sorridendo «che nel momento in cui Napoleone ci comunica nei toni dell’amicizia il suo piano per la Germania del Sud e ci offre di prepararne insieme uno analogo per il Nord, che in questo stesso momento, dico, possa avere l’intenzione di farci la guerra.» «Ma lo zar di Russia» ho chiesto, aggrappandomi a quell’ultimo argomento, «non si sentirà minacciato da una siffatta alleanza?» «Il signor d’Oubril» ha risposto Sua Eccellenza in tono serafico «che si trova a Parigi con l’incarico di negoziare il trattato di pace per conto dello zar, ha già firmato i preliminari di un accordo fra i due imperi. Alessandro ama la pace, e saprà riconoscere nella nuova sistemazione della Germania, sotto la tutela del re mio padrone e dell’imperatore Napoleone, la più sicura garanzia per il futuro pacifico del continente.» Non so se egli abbia davvero creduto di farmi piacere dandomi queste informazioni, o non abbia invece intuito fin troppo bene i miei sentimenti; ad ogni modo, pour la bonne façon16 non ho potuto fare a meno di rallegrarmi con lui degli eccellenti risultati della sua politica.

Il ministro, che visibilmente non aveva voglia di lavorare e approfittava della mia presenza per evitare di ricevere i numerosi postulanti accampati nella sua anticamera, mi ha trattenuto ancora a lungo conversando amabilmente sugli avvenimenti del giorno, quelli beninteso che non presentano né per lui né per me il più piccolo interesse, come la ribellione dei serbi, la battaglia data da Czerni-George sotto Belgrado e la partenza della squadra del kapudan-pascià da Salonicco. Ha voluto sapere dov’ero alloggiato, e mi ha assicurato che il Re di Portogallo è uno dei buoni alberghi di Berlino; ciò che mi avrebbe fatto miglior impressione s’egli non mi avesse già rivolto la medesima domanda ed esibito il medesimo commento quando ero entrato lì, un’ora prima. Era il crepuscolo quando ho potuto finalmente rientrare al mio alloggio, dove ho cifrato un lungo dispaccio per Pinkney, mettendolo al corrente di tutte le novità mirabolanti che avevo appreso; poi mi sono fatto portare la cena, servita da una cameriera lentigginosa che chiamano Bärbel, e che dev’essere appena giunta qui dal villaggio natìo, poiché guarda ogni cosa con gli occhi sgranati per lo stupore. A Berlino, per fortuna, si mangia meglio che nel resto della Germania: una zuppa di pesce e una fricassea di piedini di vitello si sono accompagnate a un vino che se non pretendeva di essere francese, aveva almeno il merito di non costare quanto quest’ultimo, sicché ne ho vuotato più di una bottiglia, e sono andato a dormire con la coscienza d’essermi guadagnato il pane.

Venerdì, 1 agosto

Sono andato a cavallo nel cosiddetto parco del Tiergarten: nient’altro che una passeggiata polverosa lungo la riva della Sprea, a ridosso della città. È questo il luogo migliore per osservare gli abitanti della capitale, che nella bella stagione accorrono qui in gran numero, senza distinzione di ceto e di qualità. In generale i berlinesi sono robusti e coloriti; per lo più biondi, qualcuno rosso; ma tutti, mi pare, con la fisionomia tendente all’ottuso. I borghesi portano scarpe a punta, cravatta grossa, gilet piccolo e spesso piuttosto sporco, le falde della giacca ridicolmente corte, cappelli spropositati. I nobili e i funzionari usano abiti neri, il più possibile attillati, e spade così lunghe da ciondolare nella polvere, quando smontano da cavallo; peraltro stanno bene in sella, e molti hanno cavalli inglesi. Adeguandomi al costume locale, ho bevuto birra nei caffè all’aperto che costeggiano la passeggiata, abitudine che se seguita con perseveranza ogni mattina credo contribuisca non poco alla generale placidità dei berlinesi. Il pubblico si affolla mattina e sera nel parco, per andare a spasso, bere caffè o birra, e fumare la pipa, anche in presenza delle signore; solo quando uno dei caffettieri dà un ballo la consuetudine esige che sia vietato fumare. Le famiglie che possono permetterselo affittano per l’estate una casa in riva al fiume, e s’immaginano di vivere in campagna; queste ville sono piccole, e ogni equipaggio che passa sulla strada solleva nuvole di polvere proprio davanti alle loro finestre, eppure sono così alla moda che un inglese, recentemente, ha dato cento sterline per averne una.

Per sfuggire alla polvere non c’è altro modo che addentrarsi a piedi all’interno del parco, ma le acque degli stagni esalano in questa stagione un aroma così pestilenziale da scoraggiare anche il più ostinato amante della natura; raffiche di vento caldo fanno masticar sabbia ad ogni istante a chi sia tanto avventurato da spingersi fin laggiù, ricordandogli che Berlino, nonostante gli sforzi dei suoi abitanti per trasformarla in un paradiso terrestre piantando ovunque alberi e giardini, sorge in mezzo a un deserto sabbioso. Come se non bastasse, non si può fare un passo nel parco senza imbattersi nei tenenti dei diversi reggimenti di guarnigione che addestrano con la più grande serietà chi un solo uomo, chi due o tre uomini insieme, insegnando loro per ore e ore di seguito a maneggiare il fucile e a marciare con passo cadenzato. Ogni recluta, a quanto pare, è assoggettata per parecchie settimane a questo esercizio, e solo quando gli uomini hanno imparato a ripetere alla perfezione i movimenti richiesti si comincia a farli marciare e sparare in compagnia: cosicché non solo ogni reggimento costituisce una macchina perfetta, ma ciascuno dei duemila uomini che lo compongono è in sé un automa perfettamente funzionante. Ho potuto peraltro constatare che il generale von Blücher aveva ragione a vantare l’addolcimento della disciplina prussiana, poiché solo raramente gli ufficiali alzano il bastone sui loro uomini, e non ho mai visto somministrare più di due o tre colpi: quelle scene di orrore cui tutti i viaggiatori stranieri, ancora quindici o vent’anni fa, si lamentavano di dover assistere giungendo a Berlino sono del tutto scomparse, e a conti fatti credo che più delle reclute siano da compiangere gli ufficiali, cui tocca ripetere lo stesso monotono lavoro ogni mattina per tutta la vita.

Mio zio Van Cortlandt, che a New York presiede la loggia dei Quattro Elementi, e che ripone grande fiducia nella fratellanza universale, mi ha raccomandato di presentarmi al conte Kalckreuth, gran maestro della prima loggia scozzese di Berlino. In attesa dell’udienza a corte, questo mi è parso un mezzo buono quanto qualunque altro per introdurmi nella società berlinese, sicché dopo pranzo ho cercato in fondo al baule le commendatizie di mio zio e mi sono presentato al palazzo del conte. Sono stato fortunato a trovarlo in casa, giacché si trova in città solo per pochi giorni, avendo lasciato il suo comando in Pomerania per partecipare ai festeggiamenti di domenica; si tratta infatti di un generale di cavalleria, né ciò deve stupire, poiché in Prussia sono pochi i gentiluomini che non siano impiegati nell’amministrazione o nell’armata, e questi ultimi mi paiono più numerosi dei primi. I servi mi hanno introdotto in un salottino privato, arredato con gusto un po’ antiquato, ma assai confortevole, e ho atteso forse un quarto d’ora, sfogliando libri e giornali francesi. Mentre aspettavo giungeva dall’interno della casa un suono di voci che assomigliava molto a un litigio fra marito e moglie; allora ho ricordato ciò che mi aveva raccontato lo zio a proposito del conte Kalckreuth. Cinquant’anni fa quest’uomo era ufficiale della Guardia e aiutante del principe Enrico, fratello del gran Federico; la sua fortuna pareva fatta, ma sul più bello venne cacciato dal reggimento e bandito da Berlino, quando si diffuse la voce che la principessa, trascurata dal marito che le preferiva la compagnia dei tamburini, manifestava per l’aiutante una tenerezza non propriamente materna. Il bel Don Giovanni rimase vent’anni a vegetare in un reggimento di provincia, finché alla morte di Federico, quando il nuovo sovrano volle impiegare ogni studio nel disgustare i suoi zii, venne richiamato, promosso generale e fatto conte per soprammercato. Chiunque potrebbe considerarsi soddisfatto di un mutamento di fortuna così improvviso, ma Sua Eccellenza è costretto ad affaticarsi negli intrighi per soddisfare le ambizioni della moglie, una nobiluccia della Marca che ha commesso l’errore di sposare al tempo del suo esilio; costei, a quanto pare, è una vera Santippe, e il generale ha più paura di lei che di un reggimento di dragoni.

Il litigio fra marito e moglie è proseguito ancora per un po’, e in un tono tale che tutti i domestici dovevano esserne al corrente, senza bisogno di appoggiare l’orecchio alle porte; ma il padrone di casa è entrato di lì a poco, sorridente come se nulla fosse accaduto, e si è scusato per avermi fatto attendere così a lungo. Il conte Kalckreuth è un vecchio corpulento, con un gran ventre idropico, due occhietti maligni, la mascella vorace; il candore dei capelli incipriati contrasta curiosamente col colorito delle guance e delle labbra, ravvivate da una pennellata di rossetto. In una parola, assomiglia ai generali inglesi ritratti nelle caricature del tempo della Rivoluzione, imbellettati come femmine di malaffare, e di cui ci si chiede come potessero montare a cavallo e sguainare la sciabola. «Monsieur, je suis ravi de votre visite»17 ha esclamato, in un francese così perfetto che mi sono sentito in obbligo di rispondergli nella medesima lingua. «Oui, j’en suis ravi» ha proseguito, dopo aver esaminato la lettera di mio zio, «et d’autant plus que ce n’est pas seulement la visite d’un diplomatique distingué, mais d’un confrère.»18 L’accento con cui ha pronunciato quest’ultimo vocabolo, e l’occhiata che mi ha lanciato sollevando il naso dalla carta e riponendo in tasca l’occhialino, avebbero dovuto mettermi in guardia; ma non sono stato abbastanza svelto. Conoscendo, per esperienza, il tono con cui bisogna parlar di tali cose allo zio, ho creduto bene di impiegarlo anche qui, e ho descritto al conte le speranze che i nostri massoni nutrono per una nuova, più profonda unione di tutti gli spiriti elevati, non appena la tirannide sarà scacciata dall’Europa e dal mondo. Sua Eccellenza mi ascoltava sorridendo, ma con l’aria di non credere a una parola di ciò che raccontavo; sicché mi sono formato a poco a poco l’impressione che non facesse poi gran conto del tempio di Salomone.

«Certo» ho aggiunto alla fine, incontrando il suo sguardo ironico, «c’è anche da noi il rischio che la fratellanza universale si esaurisca nei rituali della loggia, e può far sorridere l’entusiasmo di uomini posati e autorevoli che si baloccano con cappucci e grembiali, nella speranza di meritare un giorno rivelazioni formidabili.» Non avevo voglia, dopo tutto, di far la figura dello sciocco. «Oui, ce ne sont que des farceurs» ha replicato; «on dit que rien ne tue comme le ridicule, mais je n’y crois pas, car depuis longtemps les loges seraient des nécropoles.»19 Così mi sono accorto che quello, e non l’altro, era il tono giusto per parlar con lui di simili argomenti. «Per conto mio» ha proseguito con malignità «mi diverto molto a ricevere i nuovi confratelli, e faccio qualche volta il chirurgo, pungendoli col mio stuzzicadenti e dando loro da bere dell’acqua calda, ch’essi credono sia il loro sangue.» «Si fa così anche da noi» ho ammesso. «Una volta, anzi, successe di peggio, quando si trattò di ricevere nella nostra loggia un avvocato scozzese, emigrato da poco in America. Bendato e messo a sedere su una barca, il disgraziato fu issato per mezzo di corde in un granaio, mentre due di noi battevano i remi in una bacinella d’acqua, che figurava l’oceano.» «Ebbene?» m’incoraggiò il conte. «Nessuno mi aveva detto» proseguii «che uno scivolo appoggiato al tetto serviva a far cadere il brav’uomo in un mucchio di letame nel cortile; passando, trovai che quel pezzo di latta imbarazzava e lo appoggiai contro il muro, dritto come una grondaia. Il candidato, dopo aver ascoltato un terribile discorso sulla prova che lo attendeva, fu spinto giù e questa caduta perpendicolare da una grande altezza lo rese poi per sempre un po’ bizzarro.» «Mais c’est charmant!» ha riso il conte; «et ce que c’est bien trouvé, “un peu bizarre”!»20

Proprio in quell’istante si è udita, nella camera attigua, la voce di madama che sgridava i servi; il conte è impallidito sotto il belletto, si è alzato dalla poltrona e mi ha pregato di scusarlo un istante, affrettandosi verso la porta, per quanto la sua mole gli permetteva. Appena rimasto solo nello studio, sono andato a sfogliare l’edizione dell’Encyclopédie che faceva bella mostra di sé dietro lo scrittoio, e che a giudicare dalla rilegatura avrei anche potuto scambiare per l’edizione originale; in realtà, come ho subito constatato, si trattava di una delle ristampe pirata di Amsterdam, e per giunta le pagine non erano state neppure tagliate. Questa scoperta mi confermava nell’impressione che nonostante il suo eccellente francese, il conte Kalckreuth fosse un conversatore più spiritoso che profondo, più a suo agio nel dire delle facezie che nel parlare di affari di Stato. «Lei è sposato?» mi ha chiesto quando è ritornato nello studio, avendo condotto a buon fine qualche negoziato con la consorte. «No» ho risposto «ma mi chiedo ogni tanto se non dovrei maritarmi.» «Non lo faccia!» ha replicato. «Non sarà nemmeno più padrone di fare i propri bagagli.» Mi sono messo a ridere, e gli ho chiesto se andava a fare la guerra agli svedesi. «Per ora siamo in pace, ma Dio solo sa che cosa ci attende; gli svedesi hanno dormito per centocinquant’anni, ma ora pare che si siano svegliati, Bonaparte ha fatto troppo rumore perché potessero continuare a sonnecchiare.» «Non ho mai potuto capire» ho ripreso «perché il re Federico non si sia impadronito della Pomerania svedese; non c’è ragione, credo, che quella gente possegga una fetta di Germania, e così vicina a Berlino.» «A dir la verità» ha replicato Kalckreuth «non si trarrebbe alcun vantaggio dall’annessione di quella provincia; sono quattro villaggi di pescatori, e non c’è che sabbia; in compenso il re di Svezia si dissangua per mantenervi dei reggimenti, e sa che quando si comportasse davvero male nei nostri confronti, ne faremmo un solo boccone; o almeno, lo sapevano i predecessori dell’attuale sovrano. Fino ad oggi, insomma, si può dire che la Pomerania è un ostaggio che la Svezia ha lasciato nelle nostre mani, e questo ci conveniva molto di più che non l’annessione pura e semplice del paese.»

«Ma parliamo di nemici più seri» ho ripreso. «Crede ella che ci sarà la guerra con Bonaparte? Perché ho già udito i pareri più disparati a questo proposito.» «Ma quali pareri vuol mai aver sentito?» mi ha interrotto il generale, piuttosto scortesemente, a dire il vero; ma ho subito compreso che quella villania non era rivolta a me, bensì a quei generali o ministri con cui potevo aver parlato e ch’egli si affrettava a infangare, perché fra tutti i suoi vizi la gelosia mi pare il più divorante. «Qui i pareri abbondano, ma a darli sono solo dei vigliacchi, che non conoscono né la storia, né l’arte della guerra e delle posizioni, né la geografia, tranne forse la carta della posta.» «Non c’è, quindi, un Federico II oggi in Prussia?» A queste parole Kalckreuth ha sogghignato. «Quand’anche ci fosse, è di ben altri uomini che avremmo bisogno. Federico II! Oggi non si parla d’altro, e si sente lamentare la sua morte come una gran disgrazia, quasi a suggerire che quel vecchio decrepito, morto vent’anni fa, se potesse ancora trascinare un’esistenza di centenario inchiodato su una poltrona, salverebbe la patria da Bonaparte!» «Eppure» ho interloquito «egli ha vinto la sua guerra da solo, e contro nemici ancor più potenti»; ma il conte era deciso a non darmi ragione. «Figuriamoci!» ha esclamato. «Oggi chiunque lo crede e lo ripete; ma chi è abbastanza vecchio per aver vissuto in quel tempo sa che la verità è un po’ diversa! Per conto mio, da quando ho sentito dire che Federico II ha vinto la guerra dei Sette Anni, ho smesso di credere all’esistenza di Annibale e di Giulio Cesare. La guerra è stata vinta dai generali, da uomini come il principe Enrico o il duca di Brunswick, non l’attuale, si capisce, ma suo zio; quelli erano uomini, non ce ne sono stati più come loro. Be’, non voglio dire uomini proprio in tutte le accezioni, almeno nel caso del principe Enrico si tratterebbe di un complimento immeritato, giacché i suoi gusti italiani sono risaputi; ma insomma, è grazie a loro che si è vinta la guerra.» «Il re Federico, dunque, gode di una fama usurpata?» «Ma se glielo dico io! Le nostre peggiori disfatte si debbono a lui; e verso la fine della guerra dei Sette Anni, non ispirava più né affetto né rispetto ai membri del suo seguito. Quando cavalcava accompagnato dai suoi aiutanti, un giovane maggiore di cavalleria, von Wodtke, aveva l’abitudine di far ridere tutti gli ufficiali facendo ogni sorta di smorfie dietro la sua schiena, e imitando il suo modo dinoccolato di stare in sella. La guerra andava male, le casse del tesoro erano vuote, il paese spopolato, l’esercito allo stremo. In privato, lontano dall’orecchio acuto del re, noialtri giovani ufficiali, disgustati da quel macello senza fine, lo chiamavamo il Becchino.»

«Immagino che al quartier generale del principe Enrico questi discorsi non si facessero soltanto in privato, ma in pubblico.» «Può giurarlo! Il principe era più giovane del re di quattordici anni, e lo detestava al punto di non sopportarne la vista; in nostra compagnia, soleva definirlo “il più sconcio e tristo imbecille”, “il più gran spilorcio e sudicione”, anzi “la bestia più volgare che l’Europa abbia generato”, ed era solito rimpiangere “che per volontà di Dio la nostra defunta madre il 24 gennaio 1712 non abbia abortito”.» Leggendo nei miei occhi il divertimento suscitato da un così grazioso quadretto familiare, il conte ha ammiccato. «Si direbbe un Greuze, non è vero? “L’amor fraterno”… Ma bisogna compatire Sua Altezza, i suoi sentimenti erano così delicati, e Sua Maestà così sudicio e brutale! E per di più pareva che la Provvidenza secondasse tutti i suoi disegni, almeno al principio; il principe Enrico non sapeva capacitarsene, e finì per accogliere come una liberazione i primi insuccessi di suo fratello. La sera della spaventosa disfatta di Kolin, trovò il tempo di mandare un biglietto alla sorella Amalia, con l’annuncio trionfale: “Enfin Phaéton est tombé!”21 Eppure», ha soggiunto con un sospiro, «come le dico, era il più gran generale su cui il re potesse contare, e lo salvò più di una volta dalla rovina. Non si può certo dire che sia stato ricambiato con pari moneta! Ancora nell’ultima campagna che combatterono insieme, nella guerra delle patate, il principe accusò apertamente Sua Maestà di aver voluto farlo cadere apposta nelle mani del nemico, e non sono lontano dal credere che avesse ragione». Scorgendo la mia perplessità, il generale è scoppiato a ridere di gusto. «Oh, la guerra delle patate! È quella guerra disgraziata che combattemmo contro l’imperatore Giuseppe, lei lo sa bene, nel ’78. I soldati cominciarono a chiamarla così, e ben presto la chiamavamo così tutti; non c’era nient’altro da mangiare, e l’esercito sarebbe morto di fame fino all’ultimo uomo senza le patate. Sua Altezza scrisse anche un poema in francese per celebrarle!»

«Dev’essere stata un’esperienza ben curiosa» ho ripreso «vivere nell’intimità di quei grandi uomini.» Il Cielo m’è testimone che non intendevo malizia, ma Kalckreuth ha inteso la domanda a suo modo. «Oh! Quanto a questo, Sua Altezza deve avermi creduto più bigotto di quanto non sia» ha replicato con un sorriso malizioso. «Mi ha fatto dormire tre settimane nella sua tenda durante la prima campagna che abbiamo fatto insieme, e non mi ha chiesto altro se non il mio ritratto in miniatura. Se si fosse spinto oltre, avrei riso e lo avrei pregato di tornare a dormire!» «È un peccato» ho detto, «che tanti ricordi debbano andare un giorno perduti; Vostra Eccellenza dovrebbe scriverne un libro.» «Oh, lo farò» ha risposto in tono leggero, «ma non subito; per il momento m’interessa piuttosto vedere che cosa ne sarà di questa disgraziata Europa; le mie memorie le detterò più tardi, giacché conto di vivere fino al 1820. Mi hanno predetto che vivrò finché avrò un capello nero nel codino; per ora ne trovo pochi di bianchi.» «Lei crede alle predizioni?» «Non ne so nulla» ha ammesso volubilmente il conte. «Ai presentimenti, direi di no, giacché ne ho già avuti due falsi, a Liegnitz e a Pirmasens; credevo che sarei stato ucciso. La notte prima di Pirmasens, ho sognato perfino i particolari della mia morte; una palla di cannone mi fracassava il ginocchio, e morivo sotto i ferri, mentre il chirurgo, un macellaio!, mi segava la gamba. Eppure vede, me la sono cavata senza un graffio. Altre volte ho veduto la morte da vicino, e non solo in battaglia; all’assedio di Magonza una bugia appiccò il fuoco alle cortine del letto e alla coperta, e mi svegliai già mezzo soffocato dal fumo, sentendo caldo al viso. Un’altra volta ho avuto un incidente di vettura, sulla strada di Prenzlau; sono stato scagliato fuori dalla porta e sono rotolato fino all’Ucker. Credevo di essermi rotto le reni, e sono rimasto sei settimane senza poter uscire; tre lacchè dietro la mia berlina ne sono morti. Ora, in questi casi non avevo sognato proprio nulla! Ma che vuol farci; alla mia età fa piacere credere che si vivrà ancora fino al 1820.»

Rientrato all’albergo, ho trovato ad attendermi una cena ancora migliore di quella dell’altra sera: aringa marinata, zuppa fredda di limone e ragoût di vitello all’uvaspina. Levandomi da tavola, non ho potuto fare a meno di affacciarmi in cucina per presentare i miei complimenti alla padrona, che attende personalmente ai fornelli. Frau Kruse è una matrona di proporzioni imponenti, e ha voluto a tutti i costi farmi assaggiare un bicchierino di kümmel preparato con le sue mani. A causa del gran caldo, mi ha chiesto se non voglio d’ora in poi cenare nel cortile, promettendo che mi farà apparecchiare un tavolo sotto il mandorlo, e per farmi toccar con mano la delizia di quel fresco ha ordinato a Bärbel di portar fuori la bottiglia del liquore e i bicchieri. Così, dopo aver passato il pomeriggio nel palazzo di un gran signore, conversando in francese, ho finito la serata nel cortile dell’albergo, ascoltando le chiacchiere della padrona e osservando la sguattera che lavava i piatti in cucina alla luce della lanterna.

Sabato, 2 agosto

Oggi ho voluto andare all’Opera, che passa a buon diritto per il primo spettacolo di Berlino, e dove canta la famosa Fantozzi. Non mi aspettavo di trovarvi un pubblico elegante, giacché mi avevano avvertito che l’Opera è pagata dal re, e l’ingresso è gratuito; per essere ammessi nei palchi occorre ritirare un biglietto, ma nel parterre può entrare chiunque, e quelli che non hanno avuto l’avvertenza di affittare una sedia prima che lo spettacolo cominci sono obbligati a stare in piedi per tutta la sera. Scendendo dalla carrozza davanti al teatro, sono rimasto sorpreso constatando che una folla di soldati, molti con la moglie o l’amorosa al braccio e alcuni perfino con i bambini, facevano disciplinatamente la fila davanti all’ingresso; il cocchiere, cui ho chiesto ragione di quel fenomeno, mi ha spiegato che ogni reggimento di guarnigione a Berlino ha il diritto di mandare all’Opera, ogni sera, una data quantità di uomini per ogni compagnia. Scuotendo la testa sono entrato nel vestibolo, e ho cominciato a guardarmi intorno alla ricerca del palco riservato ai forestieri, per cui avevo mandato a prendere il biglietto fin dal mattino; ma la calca indescrivibile mi ha impedito di richiamare l’attenzione degli inservienti. Esasperato, stavo battendo il bastone sul pavimento, senza che nessuno mi desse ascolto, quando una voce dietro di me ha detto in tedesco, ma in tono assai educato: «Il signore è un forestiero?». Mi sono voltato e ho visto davanti a me un uomo ancor giovane, alto e robusto, e che in passato doveva esser stato bello come un angelo, benché certi segni inequivocabili tradissero il precoce logorìo dovuto al troppo bere e alle notti di baldoria. Vestiva una divisa da ufficiale, in apparenza assai semplice, ma di un panno così fino che il mio frac nero appariva frusto al confronto; non portava decorazioni, ma un cordone dorato sulla spalla destra e i ricami, anch’essi dorati, del colletto lasciavano intuire che doveva trattarsi d’un generale. «Mi chiamo Pyle» ho detto «e vengo dagli Stati Uniti d’America.» Il giovane ha scoperto i denti in un largo sorriso, e mi ha teso la mano, che ho stretto prima ancora di udire le sue parole: «Felice di conoscerla. Sono il principe Louis Ferdinand di Prussia». Forse con troppa fretta ho lasciato andare la sua mano e ho abbozzato un inchino, ch’egli tuttavia non mi ha lasciato finire. «Mi permetta di invitarla nel mio palco; io sono un buon amico dell’America» ha dichiarato.

Questo principe è cugino del re, e per quanto ne so dovrebbe trovarsi a Magdeburgo, dov’è di guarnigione il suo reggimento, e che il re gli ha proibito di lasciare, per paura che le sue idee bellicose possano disturbare i francesi; ma si vede che è stato graziato. Nel palco ci attendevano due ufficiali in uniforme bianca e una giovane signora; il principe, con la più grande semplicità di questo mondo, me li ha presentati. «Madame Pauline Wiesel; il mio più caro amico, il maggiore von Schack, e il mio aiutante, tenente von Nostitz.» Madame mi ha teso la mano, e mentre la baciavo sono stato stordito dal profumo che emanava dal suo corpo; dico dal corpo perché l’abito, in questo caldo estivo, era poco più di un velo trasparente, e non doveva pesare più di qualche oncia. Non appena mi sono rialzato, questa deliziosa creatura si è rivolta al principe con una familiarità che in un paese repubblicano come l’America nessuno reputerebbe possibile rivolgendosi a un’Altezza Reale. «Louis» ha esclamato, accennando al maggiore, «mentre ti aspettavamo è nata una discussione col nostro Schack, e tocca a te risolverla. Mio marito sostiene che il reggimento Gensdarmes è meno antico del reggimento Garde du Corps, e il maggiore vuol sfidarlo a duello per questo.» Il maggiore si è messo a ridere; è un uomo imponente, dai favoriti impomatati, che dimostra più di quarant’anni e a giudicare dal suo colorito apprezza i buoni pranzi e il buon vino. «Stimatissima signora» ha esordito, «Sua Altezza non potrà che darmi ragione, e se non sfiderò vostro marito, sarà solo perché gli ufficiali dei Gensdarmes non si battono con i borghesi. Il nostro reggimento è stato fondato nel 1691, e il reggimento Garde du Corps solo nel 1740; del resto porta il numero 13 nella lista di anzianità, e noi, il 10.» Il principe si è messo a ridere. «Pauline» ha commentato, «il maggiore è dottissimo in questa scienza; forse non in molte altre, ma in questa certamente; non lo coglierai in fallo.» La signora ha riso a sua volta. «Wiesel si è dimostrato di nuovo uno sciocco! Glie lo dirò quando lo vedrò.» Poi, accorgendosi che la guardavo, mi ha rivolto un sorriso scintillante. «Voi dunque siete Americano! E qual è il reggimento più antico del vostro esercito?» «Temo che non esista alcun reggimento antico nel nostro esercito, anzi, a propriamente parlare, non abbiamo affatto un esercito» ho risposto. «Davvero? Quant’è buffo!» ha replicato la bella, alzando le spalle. «Eppure» è intervenuto cortesemente il principe «durante la vostra Rivoluzione avete dimostrato di saper combattere quanto chiunque altro.» «È vero» ho ammesso, «ma mantenere un’armata costa, e il nostro contribuente preferisce veder spendere in un altro modo i suoi dollari.» «Ma credete di poter seguitare a lungo così, in un mondo dove il cannone regna ogni giorno più sovrano?» ha insistito Louis Ferdinand. «Anche da noi» ho ammesso, pensando a una conversazione che ebbi la ventura di sostenere qualche anno fa con Albert Gallatin, «anche da noi qualcuno pretende che dobbiamo diventare un popolo guerriero, e che non abbiamo altre alternative; e ancora, che le idee prevalenti a questo proposito fra la nostra gente non sono altro che pregiudizi e ignoranza, di cui dovremo liberarci, e ciò il più in fretta possibile; ma per conto mio preferirei seguitare ancora un po’ alla vecchia maniera.»

Finito questo scambio di opinioni, abbiamo ascoltato l’aria della Fantozzi, che era entrata in scena appunto allora; madame Wiesel, a dire il vero, avrebbe preferito continuare la conversazione, e anche i due ufficiali mostravano qualche segno di impazienza, sicché si capiva che non era abitudine di quei signori andare a teatro per sentir la musica; ma il principe ascoltava con tanta compunzione che nessuno osava interloquire. Non appena l’aria si è conclusa, Sua Altezza ha applaudito calorosamente, poi si è rivolto a me. «Che cosa ne dite del nostro teatro?» ha indagato. Colto alla sprovvista, non sapevo che cosa rispondere. «Qui» ho detto dopo un lungo silenzio «non spostano i fondali come si fa da noi, dividendoli in due parti dall’alto in basso, e facendoli scorrere di lato, ma li appendono e li tirano su e giù dall’alto.» Il maggiore si è messo a ridere, ma il principe, molto cortesemente, ha annuito. «È un sistema certamente preferibile» ha osservato, «poiché evita alle scene di impolverarsi durante il montaggio.» Per nulla contento di aver fatto la figura dello sciocco, mi sono guardato intorno alla ricerca di un commento più intelligente; e ho constatato che benché il teatro sia molto più grande di quello di New York, all’interno fa poca figura, perché l’illuminazione è riservata al palcoscenico. «Qui da voi, a quanto pare» ho cominciato «il pubblico non riceve altra luce se non quella che si riflette dalla scena, con indubbio vantaggio dello spettacolo. Da noi le signore si lamentano che il teatro non è abbastanza illuminato, eppure oltre alla luce del palcoscenico c’è un gran candeliere al centro del soffitto e altri più piccoli alle pareti; e la parte riservata al pubblico non è ampia nemmeno la metà di questa. Un tedesco entrando nel nostro teatro sarebbe stupito di trovarvi tanta luce e osserverebbe, giustamente, che l’occhio confuso da una così gran varietà di lampade e candele non ha modo di concentrarsi sulla scena.» Non ho aggiunto che qui, in compenso, lo spettatore più attento non può evitare d’esser distratto da ciò che avviene nel parterre, dove i soldati fanno un chiasso indescrivibile, e impediscono la vista agli spettatori dei palchi più bassi: i granatieri, infatti, hanno la cattiva abitudine di tenere il cappello in testa, e qualcuno si fa perfino salire la moglie sulle spalle, ciò che non fa dell’Opera di Berlino uno spettacolo molto decente. Stavo per formulare un’osservazione spiritosa a questo proposito, ma proprio in quel momento è entrato un lacchè con una bottiglia di champagne e cinque calici di Boemia; quando tutti siamo stati serviti, il principe ha alzato il suo e si è guardato intorno. «Bene, amici miei! A che cosa beviamo? Beviamo» ha aggiunto subito «al fulmine, che al prossimo temporale colpisca quella canaglia di Haugwitz, mentre esce di casa per andare a trovare una delle sue amanti!» La compagnia, che non doveva essere alla prima bottiglia, si è associata senza batter ciglio a quel brindisi fuor del comune, e anch’io ho vuotato il mio calice; poi il principe mi ha chiesto se avevo già conosciuto Haugwitz, e alla mia risposta affermativa ha cominciato a parlar male del ministro, la cui arte di governare consiste tutta nel mendicare in ginocchio l’amicizia della Francia. «Il pubblico ha perduto ogni fiducia nel governo. Bonaparte ha abusato sfacciatamente del desiderio di pace manifestato da Sua Maestà; la colpa è di Haugwitz, e del modo miserabile con cui quell’infame e i suoi complici hanno condotto le cose. Si sostiene che costoro sono pagati da Parigi, ma su questo non voglio indagare; bastano il pregiudizio, la debolezza, diciamo pure le inclinazioni personali, e magari delle relazioni inconfessabili, per produrre gli stessi effetti dell’oro. Tutto il gabinetto» si è infervorato, senza curarsi dell’impressione che simili discorsi potevano fare a un forestiero «è francese in fondo all’animo, ma se dovessi indicare la causa primaria di questa pace vergognosa, e del discredito in cui sprofonda la Prussia, ebbene, direi che è la ciarlataneria zuccherosa del Tartufo Haugwitz.»

«Bloody fool»22 è risuonata una voce gutturale dietro di me. Credo d’essere sobbalzato; ma era il maggiore, che voleva mostrare la sua conoscenza della mia lingua. Madame Wiesel non parve affatto scandalizzata; molto probabilmente non aveva capito, e del resto mi pare che qui a Berlino il criterio di ciò che si può o non si può dire in presenza delle signore sia alquanto meno rigido che a Baltimora. «È vero» ho convenuto «che il conte Haugwitz non ha dato prova, finora, della necessaria risolutezza trattando con la Francia; ma non posso credere che il regno di Prussia sia governato da ministri venduti, o anche soltanto così spaventati da voler comprare la pace a qualsiasi prezzo.» «Eh bien! Ciò che le appare incredibile» ha ribattuto il principe «rappresenta per noi precisamente una realtà cui abbiamo dovuto avvezzarci, e non certo da oggi. Lei se ne accorgerà» ha proseguito. «Berlino esibisce già da lungo tempo la mescolanza più contraddittoria di mania militarista e di pavidità, anzi di ripugnanza davanti alla guerra; ma fra i ministri non ce n’è neppur uno che possa essere tacciato di contraddizione, fra loro c’è solo la pavidità.» «Ammettiamo pure, Altezza», ho ancora obiettato, «le insufficienze del ministero; ma se Bonaparte non offrirà i pegni più convincenti della sua buona volontà, resto persuaso che Sua Maestà saprà decidere da solo, come richiede l’onore della sua casa!» Ma il principe non è parso troppo convinto di quella difesa d’ufficio. «Il nostro re» ha sospirato «è il sovrano più integro e onorato che sia mai vissuto, ma già da troppo tempo dà la sua benedizione a una politica disonorevole. Ho provato ad avvertirlo, ed egli mi ha risposto rimproverandomi la mia smania di guerra… Eppure proprio per amore della pace la Prussia si è ormai inimicata tutte le potenze, e non appena una qualsiasi fra queste si sentirà pronta alla guerra e non vorrà più sopportare la nostra stravaganza scopriremo di dover pagare il conto senza avere un tallero in cassa! Bonaparte deve essere stupefatto della doppiezza del nostro comportamento, e di come stiamo correndo incontro alla rovina con le nostre stesse gambe.»

Madame Wiesel, che pareva trovar noiosa quella conversazione, si è alzata chiudendo di scatto il ventaglio. «Louis» ha esclamato rivolta al principe, che si è subito alzato a sua volta, come tutti i presenti, «sento che mi sta venendo l’emicrania. Se non ti dispiace vado a casa» e senza aspettar repliche ha teso la mano a tutti quanti, e se n’è andata. Il principe ha sospirato, ed è rimasto in contemplazione di quelle spalle nude che si allontanavano. «Vostra Altezza crede che Bonaparte sia disposto a mettere in azzardo in un’altra guerra tutto quel che ha guadagnato?» ho detto, per cercar di rianimare la conversazione. «Un buon giocatore» ha risposto il principe riscuotendosi dal suo incanto «sa quando è il momento di forzare la mano, e Bonaparte non si è ingannato sulla Prussia. “Credete che la Prussia mi dichiarerà guerra per questo?” ha detto dopo aver violato il territorio di Ansbach, e subito si è risposto: “Io conosco la Prussia, essa assisterà alla disfatta degli altri e poi si precipiterà sul cadavere!”. E infatti Bonaparte, grazie a quella violazione del nostro territorio, ha potuto comparire alle spalle di Mack, catturarlo con tutta la sua armata e prendere Vienna; e noi, per tutta risposta, abbiamo mandato Haugwitz a Schönbrunn, a complimentarsi con lui! Ora si dice che ci accorderemo con la Francia, ma solo a condizione che ritiri il suo esercito dal territorio tedesco, e certo il re e il gabinetto s’immaginano che questa sia una bagattella, e che Bonaparte sia così ansioso di avere la pace da accettare a cuor leggero una simile condizione. Io credo che Bonaparte farà mostra di accettare, ma che per un motivo o per l’altro la partenza dell’armata sarà rinviata, e allora, forse, per un puntiglio infantile, entreremo in guerra. À la bonne heure:23 ma sarà troppo tardi. Quel giorno la Prussia si ritroverà sola, senza alleati, e nessuno si commuoverà per il suo destino. Allora le lacrime e i lamenti di questi miserabili predicatori di pace non salveranno la monarchia di Federico; e mentre un anno fa, quando lo spirito dell’esercito era alto e la Germania non aveva che un solo desiderio, tutti gli uomini d’onore avrebbero dato con gioia la vita, ora accadrà proprio il contrario. Anzi i migliori lasceranno l’esercito, per non essere sacrificati al tradimento dei Lucchesini, Haugwitz e compari!»

Così dicendo, il principe è impallidito e mi ha guardato negli occhi, che ho subito abbassati. «Altezza» ho cominciato, «non le nascondo» ma il principe mi ha di nuovo interrotto, non perché vi sia in lui la minima traccia di quella villania calcolata che si trova qualche volta nei grandi, ma semplicemente perché, trascinato com’era dalla passione, non si era neppure accorto che avevo cominciato a parlare. «Sul mio onore» ha proseguito, «non le augurerei di trovarsi al mio posto: chi avrebbe mai detto che sarebbe venuto un giorno in cui ci saremmo vergognati di dirci prussiani! Se almeno potessi smettere quest’uniforme e tutta questa maledetta pompa militare: non soffrirei più così tanto per quello che succede. E pensare che per salvare la Germania, io sarei pronto a dare la mia fortuna, anzi la mia stessa vita!» A questo punto, fortuna volle che calasse il sipario. Louis Ferdinand ha interrotto la sua tirata, ha guardato l’orologio, poi si è alzato sorridendo e ha esclamato: «Bene, signori miei, spero che mi farete l’onore di proseguire la nostra conversazione a cena». «Sono onorato, Altezza», ho risposto con un inchino, «ma temo che l’etichetta non lo consenta, poiché non sono ancora stato presentato alle Loro Maestà.» Il principe si è messo a ridere e ha risposto che a casa sua decide lui l’etichetta. «Niente paura» ha aggiunto, osservando il mio sguardo perplesso. «Ceneremo en petit comité,24 e le Loro Maestà non ne sapranno nulla!» Mentre uscivamo dal palco notai che si guardava di sfuggita allo specchio, come per rendersi conto se non si fosse troppo alterato. Non ero del tutto sicuro del mio giudizio su di lui, tranne che su un punto: nella sua passione sembrava sincero, anche se un principe che si picca di politica dovrebbe saper controllare un po’ di più i suoi trasporti!

La cena doveva mostrarmi il mio ospite sotto una luce migliore. In casa del principe regna la massima libertà e non si osserva alcuna norma di etichetta, ma tutto è fatto con uno stile grandioso che definirei volentieri rinascimentale, e che deve fare la disperazione dei suoi amministratori; è vero che ogni cosa è pagata dai fornitori, e che i loro crediti non sono mai saldati. In sala da pranzo era già preparata una tavola con innumerevoli coperti, e un quartetto d’archi, in disparte, accordava gli strumenti. Sulla porta il principe si fece da parte e insisté per lasciare il passo, non solo a me, ma anche al maggiore e al tenente; una cortesia che non mi è mai capitato di incontrare in personaggi così altolocati. Nella sala ci venne incontro un borghese che mi fu presentato come il signor Dussek, musicista favorito di Sua Altezza, e dopo di lui molti altri ufficiali, dei quali non potei afferrare i nomi: poiché il principe sedette a tavola, il quartetto cominciò a suonare, i servi entrarono con le prime portate, e tutti si affrettarono a prendere posto, tagliando corto alle presentazioni. Ero un poco sorpreso dalla mancanza di signore, ma il maggiore, che si era seduto accanto a me, mi confessò che in quella società di soldati esse si sarebbero forse sentite in imbarazzo e che il principe ama passare quando possibile una serata fra uomini, in piena libertà.

La cena fu straordinaria, con zuppa di granchio, una gelée di cacciagione di cui non avevo assaggiato l’eguale da molto tempo, carpa cotta con erbe e cipolla, accompagnata da una teoria fantasmagorica di salse di ogni colore, e ancora molte altre portate di cui persi presto il conto; credo che siamo rimasti a tavola cinque o sei ore, e ininterrottamente si sentivano i tonfi delle bottiglie di champagne stappate dai lacchè. Il principe beveva con avidità, vuotando un calice a ogni boccone, ma anche gli ufficiali e il musicista non erano da meno. Il pranzo era servito con grande solennità da domestici in livrea, secondo un cerimoniale apparentemente piuttosto complesso, e a cui nessuno dei commensali badava più di tanto. Il quartetto suonò per due o tre ore, poi venne portato champagne ai musicisti ed essi si ritirarono in un angolo della sala a rinfrescarsi; allora il principe, che sedeva a capotavola con alle spalle un pianoforte, fece un mezzo giro con la sedia e attaccò a suonare. Dussek si alzò prontamente da tavola, ancora col tovagliolo al collo, si fece prestare un violino e prese ad accompagnarlo. Suonarono il primo movimento di una sonata a due, poi ripresero a mangiare, fra gli applausi della compagnia. Per quel che posso giudicare, il principe è un eccellente musicista, e il suo secondo non è da meno. Il tempo passava, Sua Altezza continuava a mangiare e soprattutto a tracannare champagne, ma alcuni dei commensali avevano smesso di bere e mangiare e giocavano a carte o a dadi sulla tavola, in perfetta libertà.

A questo punto debbo essermi addormentato, perché quando aprii gli occhi era notte fonda, la maggior parte degli ospiti se n’era andata, e soltanto il principe, Nostitz e Schack stavano ancora in un angolo a discutere, con i calici in mano e gli occhi gonfi di sonno; Dussek russava in un angolo, e io ero stato depositato senza accorgermene su un sofà. Ritornai in me in tempo per sentire il principe che diceva a Nostitz, con voce impastata: «Pardieu! Noi ci comporteremo come esige il nostro onore, ma la vittoria non sarà facile, e dovremo saper dare tutto per essa, e se necessario sacrificarci l’uno per l’altro. Allora, Nostitz, spero di aver fatto una buona scelta, sarete per me un compagno d’armi su cui contare in qualunque caso». A quanto pare il principe è persuaso che la guerra ci sarà, e ha cominciato per tempo ad apparecchiarsi in vista di questa evenienza. Nostitz, schiacciato da tanto onore, si alzò con le lacrime agli occhi, il principe lo abbracciò e baciò, e il ragazzo gli giurò fedeltà per la vita e per la morte. A questo punto richiusi gli occhi e cominciai a soffiare rumorosamente, sicché tutti tacquero, poi il principe mi si avvicinò sorridendo e mi disse che sperava avessi apprezzato la sua ospitalità; lo ringraziai come potevo, ancora stordito dal vino, ma già stava chiamando i servi perché si attaccassero i cavalli e fossi riaccompagnato a casa. Subito dopo si rivolse al maggiore, e gli comandò di mettersi a mia disposizione per tutta la durata del mio soggiorno berlinese, al fine di rendermelo il più piacevole possibile, «cosa che, maggiore, voi sapete fare benissimo». Il maggiore si inchinò sorridendo e promise che a cominciare dall’indomani mi avrebbe introdotto ai piaceri della capitale.

Domenica, 3 agosto

Il maggiore von Schack si è presentato oggi puntualmente al mio albergo, per invitarmi a pranzare con sua moglie. «Come dunque, mio caro Schack!» gli ho detto. «Non sapevo che foste sposato. Eccovi dunque incatenato al talamo.» «Sì» mi ha risposto, aggirandosi per la mia camera e osservando i quadri con aria da conoscitore, «anch’io ho compiuto il gran passo, e purtroppo non per una donna di qualità. Mi hanno un po’ gridato contro al reggimento e nel gran mondo, ma che fa? In lei ho trovato bellezza e buoni costumi, e tanto mi basta.» Questo prologo era tagliato su misura per suscitare la mia curiosità, tanto che credo di essermi presentato a casa del maggiore, sul viale dei Tigli, ancor prima dell’ora stabilita. Il domestico mi ha introdotto in un salone dove il padrone di casa conversava con due giovani signore, entrambe bionde e molto graziose, seppur già un po’ formose per la loro età. Il maggiore mi è venuto incontro e mi ha presentato una delle due signore come sua moglie Ottilie, e l’altra come sua cognata Dorothee. Mi sono complimentato con madame Schack per il buongusto con cui era ammobiliata la casa, ed essa ha risposto a questo complimento convenzionale con una risatina fatua, cui la sorella ha subito fatto eco; ma mi ero ripromesso di non lasciar trasparire alcuna reazione, anche se mi fosse toccato esser testimone di stranezze, sicché mi sono seduto come se nulla fosse sulla poltrona che Schack si era affrettato a indicarmi.

La conversazione si aggirava sugli ultimi spettacoli di teatro, e poiché venerdì ho ascoltato al Teatro Nazionale la Morte di Wallenstein di Schiller, e ho sentito recitare Unzelmann, Pedrillo e la Bethmann, non ho mancato di esprimere l’ottima opinione che mi sono fatto degli attori, e soprattutto delle attrici tedesche. «È così rinfrescante» ho osservato «sentir recitare in tono misurato e realistico, in contrasto con l’esagitazione caricaturale messa di moda dai teatri parigini e imitata con così cattivi risultati in tutto il mondo!» Schack ha cercato di convincermi che, al contrario, il modo in cui le attrici tedesche recitano la tragedia è deplorevole e che solo in Francia si conosce la vera arte della recitazione. «È vero» ho ammesso «che un eccesso di misura può risultare tedioso e che forse le vostre attrici finiranno per dare a qualsiasi parte il tono grave, fievole e sognante di Ofelia; e tuttavia quale riposo rispetto alle volgarità, alle passioni artificiose e alla declamazione tonante così consuete altrove! Credo anche» ho aggiunto con un inchino, rivolto alle due signore che mi ascoltavano con attenzione, «che l’incarnato pallido e i capelli dorati delle tedesche si addicano a una recitazione sotto tono, mentre il fisico meridionale delle francesi le spinge più facilmente a eccessi di coloritura. Ecco un’osservazione da cui anche le attrici dei teatri americani potrebbero trarre giovamento, se la loro ignoranza non le mettesse al sicuro dal rischio di apprendere alcunché dall’esperienza!»

Mentre tutti ridevano, ho approfittato della pausa per ammirare la caviglia ben tornita di Ottilie e il nasino a punta di Dorothee; non perdevo una mossa né una parola delle due donne, curioso di cogliere i segni rivelatori di quella condizione poco brillante cui aveva accennato misteriosamente Schack, e tuttavia la loro condotta non mi è parsa tradire la minima traccia di cattiva educazione. Anzi, quando finalmente ci siamo seduti a tavola, ero completamente sedotto dai modi graziosi della moglie del mio amico e ancor più da quelli di sua cognata, e concordavo con lui quanto alla bellezza fuor del comune della donna che si era scelto; quanto ai buoni costumi, cominciavo in verità a nutrire qualche sospetto, per qualche piccolo colpo di ginocchio che mi sfiorava di tanto in tanto, ma il timore di mancare alle leggi dell’ospitalità e il bon ton che altrimenti regnava nella conversazione mi impedivano di rispondere a quegli approcci discreti. Tuttavia ho notato che col passar del tempo, mentre quattro valletti in livrea servivano un pranzo non paragonabile a quello del principe Louis Ferdinand, e tuttavia squisito per la tavola di un privato, quel tono eccellente scompariva a poco a poco. Le voci si facevano più acute, gli scherzi meno innocenti, i volti rossi per il vino e per il caldo faticavano sempre più a mantenere la compostezza. Credevo che lo champagne e i tartufi fossero i soli responsabili di quel traviamento, e ho compianto in cuor mio il padrone di casa, che pareva non accorgersi di nulla e continuava a discorrere con me di politica da un capo all’altro della tavola. Ben presto, tuttavia, lo stesso Schack si è lasciato trascinare in discorsi sempre più liberi, prendendo a pretesto una domanda innocente che gli avevo rivolto sul conto di madame Wiesel.

«Lei, evidentemente, non conosce la storia di Pauline, ed è un peccato; non posso lasciarla più a lungo nell’ignoranza» ha cominciato. «La nostra Pauline è figlia di Monsieur César, un francese, consigliere di corte d’appello; lei sa che i nostri graziosi sovrani prendono volentieri al loro servizio dei francesi, e non sarò io a negare che costoro hanno più spirito di noialtri poveri borussi. Il consigliere morì quando Pauline era ancora bambina, e Madame César dovette allevarla con le sue sole forze; le vedove dei funzionari, si sa, non se la passano troppo bene con la pensione pagata dal Tesoro, e Madame arrotondava volentieri affittando camere a forestieri di distinzione, e magari anche in qualche altro modo.» A queste parole Dorothee si mise a ridere, e il suo piedino toccò il mio con tanta insistenza che per poco non rovesciai il bicchiere da cui stavo bevendo. «Era una bella donna» proseguì il maggiore senza accorgersi di nulla, «d’indole generosa, e ancor giovane; e voleva mettere da parte abbastanza denaro per permettere a sua figlia di farsi una posizione in società. Quando Pauline compì quindici anni la gente cominciò a notarla; ha pur visto com’è fatta, anche se così piccina: una vera francese, nonostante il suo sguaiato accento berlinese. Qualche anno fa gli abiti non erano così scollati come adesso, ma Pauline si metteva in mostra già allora con la massima naturalezza. Agli uomini che passavano per casa piaceva. Ora a quel tempo Madame César aveva un solo pensionante, un russo, un segretario d’ambasciata, a quanto credo; un uomo di mezza età, elegante, forse un po’ brutale, lei sa come sono i russi. Una sera tardi Pauline entrò per caso nella stanza della madre e la trovò teneramente abbracciata al suo locatario. Il russo era ubriaco e allungò le mani anche su Pauline; la ragazza lo lasciò fare. Alla madre in un primo momento la cosa non piacque troppo, ma vide che la figlia non ci trovava niente di allarmante e alla fine si misero tutti e tre d’accordo. La madre si rassegnò a una vedovanza più virtuosa e Pauline prese il suo posto fra le braccia del russo.» A questo punto il maggiore s’interruppe, perché sua moglie gli sussurrò qualcosa all’orecchio, ed entrambi scoppiarono a ridere; ero esterrefatto dal loro comportamento, ma ormai ero deciso a non sorprendermi più di nulla. Calmato l’accesso di fou rire, Schack riprese come se nulla fosse: «Dunque, dicevamo di Pauline e del suo russo. Ebbene, dopo qualche anno di ottima intesa quel signore dovette cambiar vita: si era indebitato, frequentava gente poco raccomandabile e alla fine perse Pauline al gioco». «Come!» esclamai. «Si giocano le amanti, anziché gli scudi, qui da voi?» «Qualche volta» ammise Schack; «e poi non dimentichi che era un russo. Insomma, il segretario fu costretto a cedere Pauline al suo vincitore. Berlino è una città tremendamente pettegola, e la cosa fu subito risaputa: ma Pauline andava per la strada col naso all’insù, come se niente fosse, e non sembrò scossa dal cambiamento. Poi, cinque o sei anni fa, ha deciso di cercarsi una sistemazione, e si è fatta sposare dal vecchio consigliere Wiesel, che ha diecimila talleri di rendita; ma anche dopo di allora non sono mancati gli amici di famiglia, e sa lei chi è l’ultimo?» Cominciavo a indovinarlo, ma preferii assicurare che non ne avevo alcuna idea, ciò che provocò un nuovo accesso di risa nelle due donne. «Ma il nostro principe Louis Ferdinand!» esclamò il maggiore. «Sua Altezza è perdutamente innamorato di lei, e non si tratta affatto di un amore platonico; l’ha conosciuta da poco tempo, ma si sa, “princes et rois vont très vite en amour”. Il favore di un principe era l’ultimo tocco che mancava a Pauline per perfezionare la sua posizione mondana, e oggi è ricevuta con entusiasmo in tutti i salotti di Berlino. L’anno scorso ha dovuto abbandonare per un po’ la vita di società, perché ha avuto una figlia, che secondo i calcoli di tutti dev’essere ancora del consigliere; questa primavera è tornata a segregarsi per qualche mese perché era di nuovo gravida, e questa volta, voglio credere, ad opera di Sua Altezza, ma disgraziatamente il bambino è nato morto. Da quando è tornata a uscire in società fa furore, le tout Berlin le fa la corte, e ciò le permette di tenere sulla corda il principe, che ha perso completamente la testa da quando la conosce, mentre lei la serba ben salda sulle spalle: lo tiene legato mani e piedi, e potrebbe farlo ballare sulla pubblica piazza come un orso se soltanto volesse.» Mentre concludeva il suo racconto, il maggiore aveva cominciato a prendersi con Ottilie delle libertà che mi facevano trasecolare, mentre Dorothee mi lanciava occhiate birichine, sfiorando con la punta della lingua un piccolo neo nero che le ornava il labbro superiore. Debbo confessare la mia ingenuità: solo in quel momento mi è balenato il dubbio di essere vittima di una mistificazione. Per mettere alla prova il sospetto ho mostrato di gradire le attenzioni di Dorothee, ed essa, sotto lo sguardo impassibile dei lacchè, ha accolto il mio incoraggiamento in maniera tale da non lasciarmi più dubbi sulla sua reale condizione. Vedendomi finalmente abbandonare ogni ritegno, l’anfitrione è scoppiato a ridere e mi ha confessato che la pretesa moglie e sua sorella erano due ragazze prese a prestito dalla più elegante maison della capitale. Mi sono congratulato con lui per lo scherzo e con le signorine per la loro eccellente educazione, che mi aveva tratto in inganno fino a quel momento. Schack, già un po’ brillo, ha dichiarato che anche in questo campo tutto dipende dalla disciplina, «almeno per noi tedeschi duri di testa», ed evidentemente quella della Prussia è sempre la prima, che si tratti di ragazze o di soldati.

A pranzo concluso, il maggiore ha proposto di andare a trovare le amiche della falsa madame Schack; e così ci siamo fatti condurre a casa di madame Chauderon, badessa del loro convento, in Jerusalemerstrasse. In carrozza Schack si è rivolto a Ottilie, che sedeva molto compostamente davanti a lui, e ha chiesto se avremmo incontrato Lisette. «Non lo so!» ha risposto vivacemente la ragazza. «Non la vediamo da molto tempo, il suo principe non la lascia più andare.» Lisette, mi ha spiegato il maggiore, è una ballerina mantenuta dal principe d’Orange, cognato del re, che non sdegna di arrotondare di tanto in tanto il suo mensile offrendo al primo venuto, per pochi talleri, ciò che al principe costa carissimo. Ottilie e Dorothee hanno sospirato pensando alla fortuna della loro compagna, e si sono augurate a vicenda di poterne un giorno condividere la sorte; intanto la carrozza si è fermata davanti a un pesante portone, e un lacchè è sceso a farci aprire. La padrona, contrariamente all’abitudine delle donne del suo stato, non ci ha accolti con ammiccamenti e sorrisi osceni, ma con la dignità di una madre che riceva in visita i corteggiatori delle figlie; e attraverso il salone principale, in cui trovavano posto almeno cinque tavoli, ci ha introdotti in una saletta dalle pareti rivestite di specchi, la cui porticina era dissimulata sotto un arazzo. Non mi sono affatto sorpreso constatando che eravamo i soli ospiti, poiché era ancora giorno, e quelle son case cui i più preferiscono bussare col favore del buio.

Fra le ragazze venute a farci compagnia, l’amante del principe d’Orange non c’era. «Ma siamo fortunati lo stesso», mi ha consolato il maggiore, indicandomi una di loro. «Lenchen sa fare delle cose che in America di sicuro nessuna ragazza le ha mai fatto, e sarebbe un insulto entrare in questa casa senza mettere alla prova i suoi talenti, sia detto senza offesa per le sue amabili consorelle.» Lenchen ha riso, coprendosi il viso con le mani come se si vergognasse, ma con una punta di malizia negli occhi azzurri come porcellana. È una biondina d’aspetto insignificante, giovanissima, coi capelli tagliati corti come se fosse appena guarita da una grave malattia, e il viso un po’ troppo pitturato. Ricorda un poco la Maizie che un tempo lavorava nel bordello della Broadway a New York, ma i suoi capelli sono dorati anziché color granoturco, e non ha il viso pieno di efelidi. Come le altre, era vestita assai decorosamente e aveva modi più decenti di certe signore del bel mondo; quando le due ragazze che avevano recitato così bene la parte in casa di Schack, allegando la stanchezza, il caldo e il troppo vino bevuto, hanno chiesto il permesso di ritirarsi, lasciandoci alle cure delle nuove venute, i baci e gli abbracci con cui si son congedate facevano pensare più a un pensionato per signorine di buona famiglia che non al luogo in cui ci trovavamo. Lo champagne e le ostriche sono stati serviti dalle cameriere di queste damigelle, e la conversazione ha ricominciato ad aggirarsi sugli ultimi spettacoli del teatro; ma per fortuna le nostre ospiti si sono presto stancate di recitare la parte delle gran dame, e hanno cominciato a spogliarsi. Rimasta soltanto con un paio di calze di seta verde, Lenchen mi si è seduta in braccio, mentre le sue compagne si occupavano del maggiore, e ha cominciato a imboccarmi di ostriche: di quei dolci molluschi che, come assicura Giovenale, a chi ne mangia in gran quantità non lasciano più distinguere, al buio, la bocca dalla natura di una donna.

Ero curioso di scoprire se veramente la ragazzina berlinese avrebbe saputo farmi provare qualcosa di nuovo, o se le vanterie del maggiore nascevano soltanto da quella tendenza, così comune fra gli europei, a considerare l’America come un paese dove i ritrovati più elementari della civiltà debbono ancora arrivare. Ma in verità Lenchen si è dimostrata degna dell’elogio che ne aveva fatto il maggiore. Col tocco gentile e caldo delle sue dita mi ha sbottonato la camicia e le brache, slacciato la cravatta, sfilato calze e scarpe, finché non sono rimasto nudo come il primo uomo davanti al Padreterno. Solo allora mi ha abbracciato, cominciando a prendersi cura di me in un modo che la mia penna non ha abbastanza risorse per descrivere, e che fa impallidire al confronto anche il talento di Maizie. È vero che in America non ho mai trovato un posto dove si offrano ragazze così ben educate, e che molto probabilmente un tale posto non esiste affatto, tranne forse nel Sud, in qualche bordello di negre: poiché, in quel campo, gli estremi della civilizzazione più artefatta e della natura più bestiale si toccano.

Districandosi a fatica dalle mie gambe, Lenchen si rizzò a sedere e prese ad asciugarsi il ventre e le ascelle dal sudore amoroso. Quando ebbe infilato la sottoveste che le era servita a quella bisogna, si ravviò i capelli incollati alla fronte, e vidi che sotto quella capigliatura color dell’oro due occhi sbarazzini mi fissavano con attenzione. «Perché mi guardi?» le chiesi. «Oh! Ma è vero che il signore, come mi hanno detto, viene dall’America?» fu la risposta. «È vero, ma non guardarmi così, non sono mica un selvaggio!» Lenchen, ancora una volta, si portò una mano alla bocca, con un imbarazzo delizioso. «Non volevo mica dir questo! È che mi sembra un paese così lontano, e non potevo credere di aver toccato qualcuno che ha fatto un viaggio così lungo, su tutta quell’acqua.» «E non soltanto toccato, mia cara», ribattei, «e ti assicuro che anche quel viaggio mi sarebbe parso meno lungo se tu fossi stata a bordo.» Lenchen rise e mi offrì un calice di champagne, ed io lo alzai alla sua salute; ma mentre bevevo vidi che una piccola smorfia si disegnava sul suo musetto. «Ebbene?» le chiesi. «Oh, signore, non è nulla; è che mi verrà un livido.» Si voltò con un guizzo, e mi mostrò un minuscolo arrossamento, presso un luogo delizioso della sua anatomia. «È sempre così, quando mi fanno far l’amore sul pavimento!» A questa uscita tutti si sono messi a ridere, con grande rabbia della ragazzina; ma una moneta che le ho applicato alla parte offesa è bastata a farle tornare il sorriso.

Più tardi Schack mi ha accompagnato all’albergo in carrozza, e ho dovuto complimentarmi con lui. «Sono incantato dalle buone maniere delle vostre ragazze. Ogni volta che sono stato a Londra ho sempre scambiato le ragazze del Vauxhall e del Ranelagh per le donne più oneste d’Europa e d’America, e credevo che fosse propria solo delle inglesi la capacità di rendere piccante il vizio prestandogli tutto il fascino della virtù; ma vedo che la disciplina prussiana compie miracoli ancora maggiori.» Il maggiore pareva assai soddisfatto che avessi potuto toccar con mano la veridicità della sua vanteria. «Non deve credere tuttavia» ha aggiunto magnanimamente «che le diciottomila ragazze della loro condizione che esistono a Berlino, dalle amanti dei tamburini fino a quelle delle Loro Altezze Reali, siano tutte così ben allevate.» «Diamine! La cifra mi sembra piuttosto alta; ho pur letto che la popolazione di Berlino si fa ascendere a centocinquantamila abitanti!» «Che fa?» ha risposto il maggiore alzando le spalle. «Io lascio ai predicatori evangelici il compito di sorvegliare la moralità pubblica, e per quanto mi riguarda è meglio che i tamburini abbiano delle amanti piuttosto che essere delle amanti loro stessi, come usava al tempo dei grandi principi della casa di Brandeburgo!»

Lunedì, 4 agosto

Questa mattina attendevo un biglietto del conte Haugwitz con la conferma della mia udienza; perciò ho preferito non allontanarmi troppo dall’albergo e sono rimasto a prendere il fresco in un caffè del Lustgarten, finché un ragazzo non è arrivato di corsa da parte del locandiere avvertendomi che era giunta una lettera per me. Il ministro confermava, col linguaggio più ossequioso di cui era capace, che Sua Maestà mi avrebbe ricevuto privatamente alle cinque al palazzo di Charlottenburg. Ero incerto se dovessi presentarmi in abito di corte o in frac; ma non avevo voglia di tornare in albergo a cambiarmi, sicché mi sono risolto per la seconda alternativa, che si è rivelata poi quella giusta. Poiché era ancora presto, me ne sono andato a piedi sotto i Tigli fino alla piazza che chiamano del Carré, da dove partono le carrozze per Charlottenburg, affollata di vetturini e di vecchie che vendono salsicce e pagnotte ai viaggiatori; e siccome il lacchè mi ha assicurato che è possibile pranzare ottimamente a Charlottenburg, ho preso una vettura e mi sono fatto condurre senz’altro laggiù.

Sono uscito dalla città per la porta di Brandeburgo, una cattiva imitazione dell’architettura ateniese, sormontata da una quadriga bronzea alla cui guida sta la dea della Vittoria, cara a Federico. L’ufficiale di guardia ha lasciato passare la mia carrozza senza alcuna formalità, ma ho avuto modo di osservare che alcuni civili, i quali a giudicare dal cattivo stato dei loro abiti non erano diretti ai caffè del Tiergarten, erano arrestati con una certa malagrazia e interrogati sui loro affari. Ecco una bella differenza fra l’America o l’Inghilterra, dove l’autorità deve rispondere agli elettori, e un paese come questo, dove non deve render conto a nessuno! La diffidenza dei picchetti è motivata dalle frequenti diserzioni dei soldati di guarnigione nella capitale; allo scopo di scoraggiarle non si esita a creare mille fastidi non solo agli innocenti borghesi, ma anche ai viaggiatori, nel timore che sotto i loro abiti civili possa celarsi un disertore travestito. I soldati, infatti, non sono autorizzati a uscire da Berlino senza uno speciale lasciapassare, che debbono depositare alle porte della città e ritirare al momento del rientro. Se all’ora in cui si chiudono le porte un lasciapassare non è stato ritirato, il suo titolare è dichiarato senz’altro disertore, si spara il cannone per mettere in allarme le sentinelle, e ufficiali a cavallo, comandati ogni giorno per questo servizio, partono immediatamente alla sua ricerca. Per evitare la cattura, i fuggiaschi cercano per quanto possibile di rivestirsi con abiti borghesi, così da passare le mura senza essere inquietati e prendere poi il largo con comodo; il risultato è che chiunque esca dalla città viene squadrato con sospetto, soprattutto se il suo abbigliamento non è tale da imporre il rispetto. Si dice anzi che il comandante della piazza di Berlino consigli agli ufficiali di guardia di attenersi al seguente sistema, da lui sperimentato personalmente con successo. Ogni volta che qualcuno passa sotto la porta, sia pure in abiti civili, l’ufficiale di picchetto deve gridare: «Perché questa canaglia non viene a presentarsi a me?». Se la persona così apostrofata è effettivamente un borghese, si rivolgerà all’ufficiale con aria compresa della propria dignità, ribattendo: «Signore, vi prego di parlarmi in un altro modo. Io non sono una canaglia». Ma se è un soldato travestito, quasi sempre cercherà di svignarsela facendo finta di niente, e subito verrà acchiappato. Ecco le comodità e i vantaggi che il mantenimento di un grande esercito permanente assicura ai cittadini!

Oltrepassata la porta, il vetturino mi ha condotto dapprima attraverso il Tiergarten; ma ben presto l’ombra dei tigli e dei castagni ha lasciato il posto a una landa sabbiosa, senza un albero né una goccia d’acqua. A perdita d’occhio il sole batteva su un suolo arido, dove il vento sollevava nuvole di polvere; ogni tanto la strada attraversava un villaggio, ma l’aspetto miserabile delle capanne e dei loro abitanti confermava tutti i pregiudizi che chiunque conosca il Brandeburgo non può evitare di nutrire sulle condizioni di questa provincia. Si può immaginare il sollievo del viaggiatore che dopo aver attraversato per due ore questo deserto d’Arabia giunge infine a Charlottenburg, con i suoi orti e giardini; sebbene anche questo villaggio non sia altro che una manciata di casupole e botteghe, addensate all’imbocco del viale che conduce al palazzo. L’edificio è modesto rispetto alle residenze di altri sovrani europei, e parrebbe più adatto a ospitare la corte di qualche principotto dell’impero anziché quella del re di Prussia; ma proprio per questo il re e la regina, i cui gusti sono comodamente borghesi, lo prediligono. Il clima, tuttavia, è quello che si può immaginare, a questa latitudine e con un suolo di questa natura; il vento deposita su ogni cosa una fastidiosa patina di sabbia, e se per caso si acquieta un istante l’aria si riempie subito di innumerevoli zanzare.

Mentre il vetturino mi attendeva rinfrescandosi, a mie spese, nella birreria più vicina ho sostato a lungo davanti al cancello, contemplando la statua dorata della dea Fortuna, massima protettrice della monarchia prussiana, che sembra sul punto di spiccare il volo, nuda, dalla cupola del palazzo. Poi ho ripercorso a piedi il viale e sono andato a pranzo in un caffè tenuto da un italiano, il signor Morelli, che in considerazione del caldo mi ha proposto un luccio in salsa olandese e una bottiglia di Bordeaux bianco; una scelta su cui mi sono trovato pienamente d’accordo. Subito dopo il caffè ho ripreso la vettura e mi sono fatto portare in gran pompa a quello stesso cancello davanti al quale avevo sostato incognito poc’anzi; qui ho trovato un aiutante di campo che mi attendeva per condurmi direttamente dal re. Salito lo scalone, abbiamo attraversato un lungo e angusto corridoio, piuttosto buio, sulle cui pareti erano schierati in parata innumerevoli ritratti di soldati, più o meno identici fra loro e tutti palesemente dipinti da pittori di provincia, all’inizio del secolo scorso: erano i ritratti dei granatieri giganti che il re Federico Guglielmo I, non contento di collezionarne amorevolmente gli originali, era solito commissionare per adornare con poca spesa le pareti del suo castello. Infine, dopo essere stato annunciato, sono entrato nello studio del re.

Sua Maestà era in piedi davanti a un leggìo su cui erano spiegate delle carte, e precisamente, a quanto ho potuto vedere, i piani della battaglia di Austerlitz. Il re di Prussia è un uomo ancor giovane, con lunghi favoriti e una certa qual tendenza alla pinguedine; molto più timido di quanto sia tollerabile nel suo mestiere, e poco amante dell’etichetta. Quando sono entrato, mi è venuto incontro fin quasi alla porta, e ha detto, in francese: «Monsieur, je suis charmé de vous voir ici».25 Quando ho risposto, inchinandomi, che ero padrone della sua lingua e che se gli fosse piaciuto avremmo potuto continuare la conversazione in tedesco, ha acconsentito con un cenno del capo; ma ben presto ho cominciato a chiedermi se non avevo commesso uno sbaglio. Il re parla tedesco in modo esitante e bizzarro, usando i verbi all’infinito ed evitando a tutti i costi il pronome “io”; ogni sua frase è infarcita di francesismi, tanto da suggerire l’impressione che egli sarebbe molto più a suo agio se potesse esprimersi addirittura in quella lingua. «Il Presidente degli Stati Uniti» ho dichiarato, consegnandogli le mie credenziali, «spera che Vostra Maestà vorrà considerare questa missione come una prova del rispetto del Presidente per la persona e per il trono di Vostra Maestà, e del suo desiderio di moltiplicare e rafforzare le relazioni di amicizia e commercio fra il regno di Vostra Maestà e gli Stati Uniti.» Il re ha impiegato molto tempo per esaminare le lettere, tanto da farmi temere che avrebbe sollevato qualche difficoltà; il Dipartimento di Stato, non a torto, ha il puntiglio di redigere le comunicazioni ufficiali esclusivamente in inglese, pur accompagnandole con una traduzione francese, ma si sa che ci sono corti dove le credenziali degli ambasciatori sono accettate soltanto se tradotte nella lingua del paese, o tutt’al più in latino. Alla fine, però, ho compreso che il re non sapeva semplicemente cosa dire, e per questo prolungava la lettura più del necessario; finalmente ha cominciato a parlare senza guardarmi negli occhi, pregandomi di assicurare il Presidente del Congresso che questo nuovo passo nelle buone relazioni fra i nostri due paesi era per lui occasione di grande compiacimento. Non mi è parso il caso di osservare che la formulazione da lui impiegata per designare il Presidente degli Stati Uniti non era per nulla corretta; non avevo voglia di cominciare una carriera diplomatica spaccando il capello in quattro. «Sono molto gratificato dall’attenzione che gli Stati Uniti dimostrano verso il mio governo, e desidero assicurarli della nostra reciproca buona volontà, e buoni sentimenti, per la loro felicità e prosperità» ha aggiunto.

È seguito un lungo silenzio, e poiché era evidente che non aveva altro da dirmi, avrei dovuto ritirarmi; ma mi dispiaceva lasciar passare quest’occasione senza cavarne altro. «Maestà, il governo degli Stati Uniti d’America» ho osservato prudentemente «desidera adoperarsi, per quanto è in suo potere, affinché il mondo torni a conoscere quella pace cui aspira invano da tanto tempo. Gli Stati Uniti sono un grande paese pacifico, e sebbene non abbiano alcuna intenzione di intromettersi nei dissensi interni delle potenze europee, hanno però ogni interesse a che il commercio di tutte le nazioni possa svolgersi in piena libertà; ciò che non avviene a causa dello stato di turbamento di cui l’Europa è preda da lungo tempo.» Sua Maestà ha alzato brevemente su di me uno sguardo interrogativo, ma subito è tornato ad abbassare gli occhi e da quel momento in poi non mi ha mai più guardato in faccia. «Ora» ho proseguito «la posizione della monarchia prussiana nel concerto degli stati europei è così distinta, che al mio governo preme sopra ogni altra cosa essere informato sulle scelte di cui Vostra Maestà vorrà compiacersi.» Qui mi sono fermato, poiché mi era parso di intendere, da un brusco movimento del re, che egli volesse interloquire; ma dopo qualche secondo, poiché non accadeva nulla, ripresi a parlare. «Il Presidente degli Stati Uniti ha avviato colloqui col governo di Sua Maestà Britannica in vista di un trattato capace di regolare con reciproca soddisfazione le relazioni commerciali fra i due paesi» dissi cautamente, «ma non vorrebbe assumere impegni fino a quando la politica del gabinetto inglese non sarà tornata a godere fra le potenze europee di quel consenso che ne ha fatto in passato la forza.» Quella menzione del gabinetto inglese e della sua politica venne accolta dal re con visibile disgusto, ma ancora una volta egli si limitò a stringere le labbra e a tacere, sicché non mi restò altro che proseguire. Non mi pareva di aver detto fino a quel momento nulla che il mio interlocutore non dovesse già conoscere, sicché mi parve giunto il momento di scoprire un poco le mie batterie. «Per quanto, come Vostra Maestà non ignora, si siano manifestate in passato talune… diciamo talune esitazioni nella condotta del governo degli Stati Uniti, sono autorizzato ad assicurare a Vostra Maestà che esso è ora risoluto ad appoggiare con tutti i mezzi a sua disposizione ogni iniziativa volta ad assicurare il ristabilimento dell’equilibrio mondiale e la liberazione dell’Europa dalla minaccia della guerra e dell’oppressione.» A queste parole il re, che mi aveva ascoltato fino a quel momento con visibile disagio, ha assunto un’espressione costernata; è balzato in piedi, costringendomi a fare altrettanto, e sempre senza guardarmi ha mormorato: «Certamente, certamente… Lodevoli intenzioni… Assicuriamo tutta la nostra comprensione… Il vostro governo non avrà motivo di lagnarsi». Poiché avevo la sensazione che si sarebbe liberato di me al più presto, ho risolto di approfittare del vantaggio che avevo guadagnato, e l’ho incalzato: «Potrò dunque riferire al mio governo che Vostra Maestà non esiterà a scendere in campo quando ciò sarà richiesto dal benessere del suo popolo e di tutti i popoli d’Europa?». Questo doveva essere un po’ troppo per il futuro imperatore della Germania del Nord, perché a queste parole il re mi ha finalmente guardato in faccia, e con un supremo sforzo di volontà è riuscito a padroneggiarsi e a pronunciare qualche frase compiuta. «Il mio prozio» ha borbottato «diceva spesso che il re è il primo servitore dello Stato; e anch’io lo sono. Il mio dovere è di rendere felici i miei sudditi. Credete che essi vogliano la guerra? No, e anch’io non la voglio. Costa sangue e denaro. I nostri vicini possono battersi fra loro quanto vogliono; noi resteremo neutrali. Ma se qualcuno mi attaccherà» ha aggiunto in tono improvvisamente adirato, «mi difenderò fino all’ultimo uomo!» Così dicendo ha tirato un gran sospiro, ha di nuovo abbassato gli occhi ed è tornato al suo tono consueto, senza tuttavia lasciarmi il tempo di interloquire: «Ora, purtroppo, voi capite… Ma felice, felice di aver fatto la vostra conoscenza… Verrete a corte, non è vero? Il ciambellano… Il ciambellano manderà un invito… La rivedremo con piacere!». Questa volta non potevo far finta di non capire che ero stato congedato: e così mi sono inchinato il più profondamente possibile e sono uscito dallo studio, dove l’aiutante mi attendeva per scortarmi attraverso il corridoio, passando in rivista i ritratti dei granatieri, fino al cortile che splendeva nella luce dorata del pomeriggio.

Risalendo in carrozza, ero tutt’altro che soddisfatto per l’esito di quell’intervista. Se questo era l’uomo i cui reggimenti dovevano mettere fine all’avventura di Bonaparte, pareva che il Corso avrebbe avuto tutto l’agio di continuare a divorare l’Europa, un boccone dopo l’altro, purché usasse l’accortezza di non invadere la Prussia; se non per ultima, s’intende. Stavo appunto ragionando su ciò che avrei dovuto scrivere a Pinkney, e su come non lasciar trasparire, nel dispaccio, che dopo tutto avevo fatto la figura dello sciocco, quando la carrozza si è fermata, prima di immettersi sulla strada maestra, all’uscita da Charlottenburg; mi sono affacciato alla finestra, e ho veduto una ragazza dai capelli rossi che vendeva fiori all’angolo della strada. Le ho fatto cenno di avvicinarsi, e poche parole sono bastate a capire che era disponibile per un commercio più privato, come avviene spesso alle donne della sua classe. «Hai un marito?» le ho domandato. «Sì, nella Guardia a Potsdam» ha risposto, schiudendo le labbra in un sorriso. Era abbastanza lontano, e a quel sorriso non mancavano più di due o tre denti; così l’ho fatta salire e ho ordinato al cocchiere di andare tranquillamente a spasso per qualche stradina di campagna. Il mascalzone mi ha inteso alla perfezione, e ho avuto tutto il tempo di colloquiare intimamente con la mia fioraia, prima di riprendere la strada di Berlino. Questa volta avevo con me la famosa scatola e volevo indossare l’armatura, ma la ragazza mi ha pregato di non farlo, osservando che così il divertimento sarebbe stato molto più piacevole. Con la mia solita leggerezza l’ho accontentata; e ora non mi resta che sperare nell’aiuto degli dèi, o in quello della Provvidenza. Rientrando in città, è stato giocoforza riflettere sulla mia scarsa capacità di attenermi ai propositi più solenni: arrivando a Berlino ero addirittura deciso a non aver niente a che fare con le donne, per evitare i rischi così consueti in una grande città, ma la libertà e la solitudine, compagne di ogni viaggiatore, non aiutano a respingere le tentazioni che si presentano da ogni parte. E la tentazione più grande non sono neanche le ragazze dei bordelli, ma quelle che vagabondano per la strada, pronte a sottomettersi per una pinta di birra e un soldo; queste tengono sempre sveglio il desiderio, anche se è proprio da loro che bisognerebbe guardarsi per evitare spiacevoli inconvenienti. Come se non bastasse, frugandomi in tasca ho scoperto che la svergognata mi aveva rubato il fazzoletto!

All’albergo ho detto alla padrona di mandare a prendere la livrea di Will, che si è impolverata per bene durante il viaggio, per farla spazzolare. Bärbel è salita al quarto piano, dove Will occupa una stanza nei quartieri dei domestici, ma mi ha pregato di accompagnarla per aiutarla a spiegarsi; benché si sforzi di imparare qualche parola, infatti, Will non è in grado di capire ciò che gli dicono i tedeschi, né di farsi capire a sua volta, e si trova nel più grave imbarazzo ogni volta che ha a che fare con uno stalliere o un lacchè. Avrei potuto suonare e chiamarlo di sotto, ma mi divertiva l’idea di accompagnare lassù la servetta, che secondo ogni apparenza aveva paura di affrontare Will da sola, in quell’antro male illuminato; credo che non si sia mai trovata faccia a faccia con un negro in vita sua, e tra lui e un diavolo dell’inferno immagino che non faccia troppa differenza. Così siamo saliti, e abbiamo trovato Will che si stava appunto spogliando della livrea per rivestire il suo solito abito grigio; entrando senza bussare, la ragazza ha avuto modo di vedere qualcosa che altrimenti non le sarebbe mai caduto sott’occhio, e sbaglierò, ma credo che da quel momento abbia cominciato a considerare il mio negro con animo diverso. Quanto a lui, avevo già notato come guardava la fioraia, quando l’ho fatta salire in carrozza, e ancor più quando ne è discesa; ora, mentre si infilava in fretta le brache, ho avuto l’impressione che guardasse Bärbel allo stesso modo. Preferirei che Will non si avvezzasse a toccare le bianche, ma giacché non posso controllare l’uso che fa del suo denaro quando lo lascio in libertà, è inutile sperare che presto o tardi questo non accada; così, in fin dei conti, la politica più assennata è di stare a vedere quel che nascerà da un accozzamento così improbabile, e fors’anche di assecondarlo, per trarne se possibile qualche altra occasione di divertimento.

Martedì, 5 agosto

Stamattina avevo appena finito di vestirmi, quando sono venuti ad annunciarmi la visita del maggiore. Leggermente sorpreso da tanta assiduità, ho dato ordine di farlo salire; entrato in camera, ha chiuso la porta e parlando a voce insolitamente bassa mi ha chiesto se non mi sarebbe garbato di fare una partita a carte. «Mio caro Schack» gli ho detto «è da prima di imbarcarmi che non vedo le carte, e confesso che le mani cominciano a prudermi. Ma come fare? Mi sembra che qui non si giochi che a questo vostro hombre, e io non ci sono avvezzo.» «Preferite giocare a whist?» ha replicato il maggiore, senza scomporsi. «Allora giocheremo a whist, qui tutti conoscono codesto gioco. Certi ufficiali amici miei giocano oggi al caffè, e cercavamo appunto il quarto.» Così all’ora stabilita sono entrato in un caffè del Gensdarmenmarkt, dove ho trovato Schack in compagnia di due ufficiali, che mi sono stati presentati come il tenente von Suckow e il tenente von Knorr. Non mi pareva ch’essi appartenessero alla società abituale del maggiore, anzi non erano neppure ufficiali di cavalleria, ma di fanteria, e le loro uniformi blu mi sono parse già un po’ lise ai gomiti; da come maneggiavano le carte si capiva che erano giocatori esperti. Abbiamo sorteggiato le coppie per la prima partita, ed io mi sono trovato a giocare con Schack; il tenente von Suckow, cui toccava il mazzo, ha proposto di giocare un soldo al punto, ciò che mi è sembrato piuttosto ragionevole, e al mio assenso ha cominciato a distribuire velocemente le carte.

Mentre giocavamo Schack si è messo a parlare di Bonaparte, le cui intenzioni continuano a tenere col fiato sospeso il gabinetto prussiano. «Da ogni parte» ha osservato «vengono lettere con la notizia di un gran fermento fra le truppe francesi in Germania, senza che si possa indovinare contro chi questo nuovo flagello dev’essere diretto; per conto mio, credo che questi movimenti siano destinati a tenere in rispetto l’Austria, e convincerla ad accettare senza troppe proteste la nuova Confederazione del Reno.» I nostri due avversari giocavano in silenzio, scambiandosi di tanto in tanto un’occhiata; il maggiore continuava a chiacchierare, e qualche volta sciupava una carta, regalando loro più prese di quel che sarebbe stato giusto. Quando la partita si è conclusa abbiamo cambiato le coppie, ed io sono stato associato a Suckow. Mentre raccoglieva le carte, questi ha osservato che Schack era l’unico della compagnia ad aver conosciuto Bonaparte di persona, e gli ha domandato quale impressione ne aveva tratto. Il maggiore ha raccontato che qualche anno fa si trovava a Parigi, dove poté assistere alla rivista nel primo anniversario della battaglia di Marengo; e in quell’occasione venne presentato al Primo Console. La sera Bonaparte volle invitarlo a pranzo, ma l’invito arrivò troppo tardi perché potesse decentemente presentarsi. La sera successiva, a teatro, il Primo Console lo interpellò e gli chiese come mai non si era fatto vedere; Schack rispose che all’ora in cui aveva ricevuto l’invito, gli altri commensali erano già al caffè. Bonaparte rise e si lamentò del cattivo servizio dei suoi valletti!

Parlando, Schack si distraeva, e così è toccato a me, che sedevo subito dopo di lui, approfittare dei suoi sbagli, anche se le mie carte non erano più così buone come la prima volta. Finita la partita abbiamo cambiato nuovamente le coppie, ed io mi sono rallegrato d’essere in società con Knorr, che mi pareva il più esperto dei quattro. Mescolando le carte, costui ha chiesto a Schack se gli sia piaciuto il teatro parigino; il maggiore ne è rimasto addirittura entusiasta, o almeno così dichiara, poiché gli parrebbe degno di un Urone o di un Ottentotto non dimostrare apprezzamento per Talma. «Lo spettacolo» ricorda «era affollatissimo. La sala non era spaziosa, ci volevano mille intrighi per ottenere un posto. Il mio biglietto mi dava accesso alla loggia dei ministri stranieri, proprio a fianco del palco consolare, e così potei godere di due spettacoli egualmente interessanti. Talma impersonava Manlio, e non ho mai veduto un attore più ammirevole; nella scena in cui si cingeva il capo della corona d’alloro, lo si sarebbe detto un trionfatore antico sul punto di salire su un carro tirato da schiavi. A pochi passi da me, così vicino che avrei potuto toccarlo, Bonaparte ascoltava con aria seria, e tutta la sua fisionomia esprimeva l’entusiasmo del conoscitore che sa riconoscere i bei versi. Ma la cosa più straordinaria era la grande somiglianza fra i due, soprattutto di profilo; li si sarebbe detti fratelli. Solo lo sguardo era differente: quello dell’attore era profondo, l’altro di una gravità affettata.» Il paradosso così ben descritto, dell’attor tragico capace d’imitare la gravità di un conquistatore antico, mentre il conquistatore moderno si studiava invano di eguagliare la serietà del commediante, ha suscitato l’ammirazione di tutti i presenti.

Schack, compiaciuto, ha ripreso: «La sera stessa venne un secondo invito a pranzo, questa volta per il giorno successivo; impossibile rifiutare, e d’altronde la curiosità suscitata da tutto ciò che poteva riguardare la vita intima del grand’uomo doveva prevalere su ogni altra considerazione. Alle cinque e mezza mi presentai al cancello del Primo Console, poiché sapete che in Francia pranzano a questi orari impossibili. Si pranzò en famille, senza apparato. Eravamo a giugno, era ancora pieno giorno, il sole entrava implacabile dalle finestre spalancate, eppure i candelabri erano tutti accesi. Mi hanno assicurato che Bonaparte, per una bizzarra fantasia, non pranza mai diversamente. Il servizio procedeva con la più grande celerità e si parlava poco. Bonaparte mangiava poco e molto in fretta, scegliendo di preferenza i piatti più semplici. Verso la metà del pranzo gli vennero presentati, su un piatto rotondo che non faceva parte del servizio, dei carciofi à la poivrade; egli si mise a ridere, e ci propose di dividere con lui il suo modesto pasto, facendo un grande elogio di questo piatto da anacoreta. Ma poiché nessuno sembrava tentato di assaggiarli, fece passare il piatto davanti a sé, e se li mangiò tutti! Per contro Joséphine era molto interessata ai piatti che le venivano presentati; non ne rifiutava nessuno, e pareva contrariata dalla celerità con cui le portate si succedevano. Infine vennero a dire al Primo Console che un ministro lo attendeva per una comunicazione d’importanza, ed egli si alzò precipitosamente da tavola, senza lasciarci il tempo di finire il gelato. Rientrati nel salone, le cui finestre erano anch’esse spalancate e davano sul viale principale del giardino, vedemmo Bonaparte assai agitato, che gesticolava come un vero italiano, benché il ministro facesse del suo meglio per calmarlo; del resto non ho mai saputo di che cosa stessero parlando. Nel salone, il silenzio era interrotto soltanto da qualche frase che ci credevamo in dovere di scambiare, per non aver l’aria di ascoltare la conversazione che si svolgeva in giardino. Quando infine Bonaparte rientrò, sua moglie si avvicinò e lo interpellò a bassa voce, posandogli una mano sulla spalla; questa familiarità, in presenza di testimoni, non parve garbargli, ed egli allontanò rudemente quella mano, pur serrandola con affetto fra le sue. Poi si rivolse a noi, e ci disse: “Messieurs, je vous prie de m’excuser si nos manières, ici, ne sont pas celles des cours dont vous avez l’habitude; mais moi, je ne suis qu’un petit gentillâtre, et chez moi on vit sans façon!”».26

A questa uscita sono scoppiato a ridere, ma gli altri due, che non dovevano intendere troppo bene il francese, hanno appena accennato un sorriso, senza distogliere gli occhi dal gioco. Calata l’ultima carta di quella che doveva essere ormai la quarta o la quinta partita, Schack ha cavato l’orologio, ha osservato che erano ormai le cinque, e ha proposto di fare i conti; è risultato che nonostante la modestia della posta, io e il maggiore perdevamo ciascuno una dozzina di talleri. «Dico, mio caro Schack», ho osservato, «è un peccato smettere di giocare proprio adesso, quando potremmo rifarci.» «Perché no?» ha esclamato Knorr. «Ma, signori miei», ha osservato il maggiore, «si fa tardi, e noi rischiamo di addormentarci con le carte in mano. Se vogliamo continuare, continuiamo pure, ma parliamo chiaro. Giocheremo sempre un soldo a punto, o vogliamo rendere un poco più divertente il gioco?» Knorr ha proposto di mettere in palio un tallero a ogni mano. «Ma forse sarà troppo» ha osservato Suckow, guardandomi di sbieco; naturalmente ho ribattuto che mi stava benissimo, e così abbiamo cominciato a distribuire le carte.

Durante il gioco Schack è ritornato ben presto sull’argomento dei suoi viaggi a Parigi, che evidentemente non aveva avuto tempo di esaurire. Questa volta a far le spese della conversazione è stato il maresciallo Davoust, che Schack ha conosciuto l’estate scorsa, durante il suo ultimo soggiorno parigino. «L’hôtel del maresciallo a Parigi» ha cominciato a narrare «mi aveva dato un’idea grandiosa del suo gusto e della sua opulenza; perciò quando seppi che era andato a passare qualche giorno in una sua campagna, in attesa di partire per l’armata, deliberai di andarlo a trovare, convinto di trovarlo lussuosamente stabilito. Giunsi da lui alle tre, in compagnia di una damigella che mi aveva fatto l’onore di condividere con me quella gita.» Knorr ebbe un risolino antipatico, ma il maggiore continuò senza scomporsi: «La residenza del maresciallo era una specie di castello, circondato da un fossato e da un muro, e aveva come ingresso un portone ermeticamente chiuso. L’erba cresceva nel fossato; si sarebbe creduta un’abitazione abbandonata da molti anni. Quando finalmente il mio lacchè ebbe trovato il cordone del campanello, una ragazzina scalza e piuttosto malvestita arrivò a chiedere che cosa volevamo. “Il signor maresciallo è in casa?” “Oh! Scusate tanto, ci sono proprio, e anche la signora marescialla” balbettò la ragazza, e corse a chiamare uno dei servitori del castello, che la seguì senza affrettarsi e aggiustandosi la livrea. Mi feci annunciare e, rintanato nella vettura con la mia compagna, attesi ancora un bel po’, chiedendomi se dovevo insistere o semplicemente lasciare un biglietto.»

Il padrone del caffè, senza esserne stato richiesto, ci portò quattro bottiglie del suo vino; il maggiore bevve un bicchiere e riprese: «Dopo un buon quarto d’ora, un valletto si presentò infine alla porta della carrozza e ci introdusse in un vasto cortile; si scusò della lentezza del servizio, confessando senza riguardo che nell’istante in cui ero arrivato i servitori stavano lavorando nel giardino, e lui stesso era occupato a ripulire il verziere. Ci fecero attraversare parecchi saloni completamente vuoti; la camera in cui infine ci introdussero non era granché più ornata delle precedenti, ma almeno c’erano un canapè e delle sedie. Il maresciallo arrivò qualche minuto dopo, in uno stato di traspirazione che attestava la sua fretta; si sedette col fiato corto e, cavato il fazzoletto per asciugarsi la fronte, ebbe cura di inumidirlo di saliva per meglio ripulire la polvere di cui il suo volto era coperto. Io e la mia piccola amica ci guardavamo cercando di non scoppiare a ridere. Dopo qualche minuto di una conversazione stentata, il maresciallo suonò per avvertire sua moglie, che non tardò ad apparire. Ci accorgemmo subito che aveva fatto toilette apposta per noi, perché si stava ancora attaccando gli ultimi spilloni al corsetto. Col suo arrivo la conversazione non migliorò affatto. Non potrei dire che madame mancasse di educazione, ma c’era in lei una certa rigidità che poteva essere scambiata per alterigia; insomma non perdeva mai di vista il maresciallato. Infine, sentendoci di troppo, ci alzammo per prendere congedo, ma i due, chissà perché, ci pregarono di restare a pranzo».

Mentre Schack raccontava, le bottiglie si vuotavano, le carte continuavano a passare di mano in mano, e l’elenco dei punti, tenuto da Suckow, si allungava. «In attesa che fosse servito in tavola» proseguì il maggiore «il maresciallo propose una passeggiata nel parco. Non c’era nessun sentiero tracciato, l’erba dei prati era pronta a trasformarsi in fieno, gli alberi tagliati durante la Rivoluzione rinascevano sotto forma di arbusti; la mia compagna lasciava a ogni cespuglio dei frammenti dei suoi volants, e le sue scarpette lilla avevano preso una tinta verdastra. Il nostro ospite ci incoraggiava con la voce e col gesto, promettendoci una sorpresa charmante. Infine ci trovammo di fronte a una sorta di piccolo capanno di legno; il maresciallo mise un ginocchio a terra e strillò: “Ah! Eccole, eccole!”. Poi, modulando la voce: “Pi… pi… pi…”. Subito uno stormo di quaglie cominciò a volteggiare intorno alle nostre teste. “Date del pane a queste signore” disse il nostro ospite a un villano che doveva far le veci del guardacaccia. “Si divertiranno come delle regine!” E così eccoci lì, sotto un sole bruciante, a dar la beccata alle quaglie! La marescialla vuotò con una calma e una dignità imperturbabili il paniere che le era stato presentato. Quanto alla mia amica, fu sul punto di sentirsi male, e fece osservare che il tempo si guastava e che rischiavamo di essere sorpresi dal temporale. Rientrando al castello, vidi dei muratori occupati a demolire una torretta, l’ultimo avanzo dell’originario edificio gotico che ancora non fosse stato restaurato. La mia amica, il cui gusto, temo, non era così ben formato come i suoi piedini, non poté impedirsi di manifestare una sorta di critica. La marescialla non disse una parola, ma mi parve che fosse dello stesso avviso, e anzi credetti di indovinare dal suo sguardo e dal suo sorriso sdegnoso che c’era stata discussione a proposito della torretta. Il marito non ci nascose che quelle critiche non erano di suo gusto, e si pronunciò piuttosto energicamente contro la mania delle vecchie muraglie; ciò che lo rialzò non poco nella mia stima, anche se non potrò mai più impedirmi di pensare a lui ogni volta che assaggerò un piatto di quaglie!» concluse Schack, fra le risate della compagnia.

Quando finalmente tutti riconobbero che era troppo tardi per continuare a giocare, pregai Suckow di fare il conto di ciò che dovevo; risultò che ero in debito, complessivamente, di un centinaio di talleri, e così mi accorsi troppo tardi che giocare un tallero al punto è un po’ troppo. «Mi dispiace» dichiarò Schack «di averle portato sfortuna proponendole di giocare con noi; ma vede bene che non ne ho colpa, poiché ho perduto anch’io. Piuttosto» proseguì guardandoci in faccia uno dopo l’altro «domani o dopodomani potremmo avere la rivincita.» «Non domani» dichiarò Knorr a malincuore, «perché sono di servizio. Ma dopodomani, con piacere.» Suckow mi guardò per un istante, poi guardò Schack. «Neppure dopodomani» sentenziò infine. «Ho un impegno che non posso rimandare.» «Ebbene» concluse Schack, «ne riparleremo»; e si alzò per congedarsi. In un primo momento ci rimasi male; ma già mentre me ne tornavo malinconicamente a casa mi persuasi che era meglio così, e mi ripromisi di stare più attento la prossima volta.

Mercoledì, 6 agosto

Questa notte ho avuto un incubo. Mi pareva di trovarmi in carrozza insieme al maggiore, in una città affollata. Benché nella via passassero cavalli e carrozze, e una moltitudine di pedoni, all’interno della vettura regnava un silenzio completo. Volevo aprire un finestrino, per rendermi ragione di quella tranquillità innaturale, e mi accorgevo che la carrozza si era fermata in una strada solitaria. Battevo col bastone contro il soffitto del legno, per ordinare al cocchiere di ripartire, giacché ero sicuro che non era quella la nostra meta, ma il cocchiere non dava segni di vita. Quel che è peggio, era impossibile aprire la porta della carrozza; e mentre cercavo vanamente di abbassare la maniglia, ero subitamente attraversato dalla sensazione che il maggiore chiuso con me nella vettura fosse in realtà un assassino, o peggio. Poiché sapevo di sognare, mi sforzavo di svegliarmi, ma inutilmente; e mi sarei messo a urlare, tanto era il terrore che m’incuteva il maggiore, incombente dietro di me nell’oscurità della vettura, se il cocchiere non fosse finalmente venuto ad aprire la porta. Anche il cocchiere era Schack, ma per qualche ragione in questa veste non avevo più paura di lui, sicché volli pagargli il prezzo della corsa; il maggiore mi osservava con interesse mentre contavo le monete d’oro, poi si avvicinava sorridendo, mi metteva la mano nella borsa e ne cavava fuori altro denaro, che intascava, sempre guardandomi tranquillamente negli occhi. Curiosamente, quel furto sfacciato non mi irritava, anzi provavo un’inspiegabile fiducia nei confronti del maggiore, che del resto era seduto al mio capezzale, e mi costringeva dolcemente a inghiottire una medicina. Sorpreso di trovarmi lì, gli chiedevo se ero malato, e di che cosa; ma Schack mi faceva segno di tacere, posandosi un dito sulle labbra. Will entrava nella stanza, vestito del mio abito di corte, e battendo con una mazza sul pavimento annunciava: «La Signora Gonorrea è in visita!».

In preda a un irragionevole terrore a causa di queste parole, urlavo disperatamente quando Will, destato dalle mie grida, è venuto a svegliarmi. Per poco non lo prendevo per il bavero, dandogli della canaglia e chiedendogli che razza di scherzo era mai quell’annuncio; ma la vista della sua faccia sbalordita mi ha riportato alla realtà. Poiché erano appena le cinque e mezza, gli ho ordinato di lasciarmi dormire ancora qualche ora; ma il ricordo dell’incubo non mi lasciava riprendere sonno. La parte che riguardava il maggiore mi era fin troppo chiara, dopo lo scherzo che mi ha giocato ieri, e il sogno non ha fatto che rafforzare la decisione di non sedermi più con lui al tavolo da gioco; ma che voleva dire quella Signora Gonorrea? A lungo sono rimasto sveglio sotto le lenzuola, senza poter scacciare il pensiero che a volte i sogni sono premonitori. Finalmente l’orologio dell’albergo, al piano di sotto, ha battuto le otto; allora mi sono deciso a vestirmi e ho suonato per chiamare Will. Appena alzato dal letto ho chiesto il vaso da notte e ho tentato di pisciare; ma alla prima goccia, ecco una fitta acuta. La fronte mi si è coperta di sudore; l’orribile annuncio del sogno non cessava di risuonarmi nella testa. Con un pretesto ho ordinato a Will di uscire e mi sono seduto sul letto, cercando di padroneggiarmi prima di affrontare un secondo tentativo. È andata meglio di quel che temevo e sono riuscito a liberarmi senza che la fitta si ripetesse, ma una sensazione di bruciore ha continuato a tenermi in allarme per tutta la mattina. Tremo al pensiero che il sogno sia stato davvero premonitore; l’idea di passare qualche settimana chiuso in camera a pane, acqua, brodo e medicine mi fa gelare il sangue. Alla ricerca della responsabile, ho subito ripensato alla fioraia di Charlottenburg, con cui sono stato così imprudente. Sembra destino che le ragazze dai capelli rossi mi mettano negli impicci; avrei dovuto pensare a Nell di Fleet Street, prima di farla salire in carrozza. E perché prima della partenza non ho messo nei bagagli le pillole del Dr. Keyser, o l’Elisir di Lisbona? Basta: se la scampo, giuro che d’ora in avanti combatterò solo in armatura, per quanto la soddisfazione sia poca.

Oggi m’è venuto il primo invito da una delle case in cui ho lasciato le mie lettere di presentazione; a dire il vero la lettera era per il banchiere Crayen, ma nel frattempo il banchiere è stato nobilitato, e poi è morto, sicché l’invito a prendere il tè proveniva dalla signora von Crayen. O meglio dalla consigliera von Crayen, poiché qui chiunque abbia un impiego acquista un grado, come sarebbe consigliere di corte o consigliere segreto, e le mogli hanno diritto a esser trattate col grado del marito. Costei abita con la figlia in un appartamento sotto i Tigli, nella stessa casa del maggiore, ma con questa differenza, che Schack affitta il piano nobile, mentre madre e figlia si sono accontentate del secondo piano; ciò che del resto in quella strada presenta i suoi vantaggi, poiché gli alberi non arrivano a far troppa ombra alle finestre, e anche il brusio del traffico giunge attutito. Fra i lacchè che stazionavano in anticamera in attesa dei padroni c’era un negro, rivestito di una sontuosa livrea; se ne stava seduto in poltrona, ed era intento a ricamare. Will, scorgendo un uomo della sua stessa razza, si è illuminato e gli è andato incontro a mano tesa. «Ehi, fratello!» ha esclamato, in inglese. Il negro ha alzato gli occhi dal suo lavoro, lo ha squadrato freddamente, considerando con visibile pregiudizio il suo semplice abito grigio, poi gli ha risposto, in francese, che non comprendeva la sua lingua. Non ho potuto fare a meno di ridere dello sconcerto di Will, il quale non aveva mai incontrato un negro che non sapesse l’inglese; ma non intendevo permettere che il mio domestico fosse trattato con insolenza, sicché ho interpellato a mia volta l’uomo, in francese. Il negro si è subito alzato in piedi, e in ottimo francese mi ha spiegato di essere il parrucchiere personale del principe Radziwill, e di chiamarsi La Grenade, poiché è nato in quell’isola; «mais on m’a élevé et formé à Paris»,27 ha aggiunto fieramente. Gli altri lacchè, pur senza capire una parola della conversazione, si divertivano un mondo al confronto dei due negri; non potendo far altro, ho lasciato Will in loro compagnia, e mi sono fatto annunciare alla padrona di casa.

La consigliera von Crayen è una matrona di una cinquantina d’anni, che conserva ancora le tracce d’una passata bellezza; accanto a lei sedeva con le gambe accavallate il giovane principe Radziwill, cognato del re. Al tavolino da tè, insieme alla cameriera, si affaccendava una giovane donna bionda, di taglia giunonica, ma assai proporzionata; quel che si vedeva dei suoi piedini e delle caviglie lasciava ben sperare, e l’illusione si manteneva risalendo con lo sguardo su per la linea delle gambe, fino ai seni che la moda impone oggi di esporre senza misericordia alle occhiate dei curiosi; ma il volto, in cui spiccavano due occhi tristi e intelligenti, era bucato dal vaiolo. Era la figlia della padrona di casa, Victoire; dopo aver ossequiato la madre, ho scambiato con lei qualche complimento convenzionale, ma non ho avuto tempo di occuparmi troppo a lungo di lei, giacché fra gli ospiti sedeva la deliziosa Pauline Wiesel. Prima del mio ingresso si parlava di romanzi, e dopo le presentazioni la conversazione è tornata sul medesimo argomento. Madame Wiesel ha preteso di aver passato tutta la mattina a piangere mentre sua madre le leggeva Valérie, «eppure avevo fatto voto di non lasciarmi sfuggire neppure una lacrima, ma non c’è nulla da fare, è una storia così triste e così meravigliosa!» A questa uscita Victoire ha sorriso con aria di superiorità e ha risposto con un silenzio assai eloquente. «Vedo che Madame Wiesel è una natura sentimentale» ho bisbigliato a Schack, l’unica persona della compagnia con cui avessi già fatto conoscenza, e cui perciò, del tutto naturalmente, m’ero seduto vicino. «Vedo che avete l’occhio acuto!» ha replicato il maggiore sul medesimo tono. «Può darsi che ritrovarla qui vi sorprenda; ma è cugina di Victoire, sebbene non si assomiglino affatto.» La conversazione mi ha dimostrato che questa affermazione non si riferiva soltanto al fisico, ma anche allo spirito, e questa volta a tutto vantaggio di Victoire. «Avete dei romanzi popolari in America?» mi ha chiesto quest’ultima, con un sorriso. «Ma Victoire!» l’ha interrotta Pauline. «Queste son domande da fare a una signorina, non a un signore che ha affari ben più importanti di cui occuparsi!» «Gli affari importanti dei signori» ha ribattuto dolcemente Victoire «di solito non impediscono loro di divertirsi, e ti assicuro che i romanzi che così a torto si chiamano per signorine non si smercerebbero così facilmente, se davvero fossimo soltanto noialtre a leggerli. Non è vero, signor Pyle?» ha proseguito, rivolgendomi un sorriso che in altri tempi doveva esser stato sfavillante. «È vero, in fede mia» ho approvato, con un piccolo inchino. «Purtroppo in America non abbiamo ancora un romanziere popolare, e dobbiamo accontentarci dei romanzi inglesi; ma un giorno cominceremo a produrre anche questa merce in proprio.»

«Sapete?» ci ha interrotti Pauline, passando con volubilità da un soggetto all’altro. «Non ho potuto portare con me la mia scimmietta. Ricordi Kiki, Victoire? Com’era graziosa! Mi è fuggita durante una gita in campagna. Ci sono scimmie in America, signor Pyle?» Non ho potuto rispondere a questa singolare domanda, poiché Victoire, perdendo la pazienza e dimentica del tè che stava preparando, ha esclamato: «Vi prego di non parlar più di scimmie in casa mia; e se Kiki è scappata, non sarò io a rimpiangerla. Veramente questa è una moda che fatico a comprendere. Come può reggere l’animo di vedere sempre intorno a sé quelle orrende scimmie? Ci si avvilisce già a considerarle solo come animali; ma si diventa addirittura maligni, quando si cede alla tentazione di ricercare sotto la loro maschera le sembianze di persone conosciute». «Eppure» è intervenuto il principe Radziwill «si dice che esse costituiscano per i dotti un oggetto di studio inesauribile, e che la conoscenza dei loro costumi possa consentire scoperte inattese sul conto del dominatore dell’Universo, l’uomo.» «Oh, ci parli di questo!» ha miagolato Pauline. «Volentieri» si è affrettato a compiacerla il principe. «Per quel che posso naturalmente, secondo le cognizioni apprese da ragazzo, almeno dieci anni fa. Se poi nel mondo scientifico si pensi ancora così, se ciò corrisponda alle teorie moderne, non saprei dire.» «Questo è il guaio» ha aggiunto Schack, approfittando di una pausa del principe per inserirsi nella conversazione. «Ora non si può più imparare nulla che valga per tutta la vita. I nostri avi si attenevano all’istruzione ricevuta in gioventù; ora invece dobbiamo rifarci da capo ogni cinque anni, se non vogliamo essere assolutamente fuori moda.» Victoire gli ha lanciato un’occhiata, e prima che il principe potesse riprendere la sua dissertazione ha tagliato corto: «Può darsi, ma io credo di non essere affatto fuori moda se dichiaro che di simili studi non so che farmi. Già non ho mai potuto fare amicizia con gli scarafaggi e i vermi». Mentre Pauline manifestava con una smorfia il suo ribrezzo per le ultime creature menzionate, il principe ha provato a ribattere che seguendo quei princìpi l’uomo non avrebbe potuto acquisire alcuna conoscenza del mondo che lo circonda. «Ma io intendo proprio il contrario!» ha esclamato Victoire, accalorandosi. «Trovo che della natura non dovremmo conoscere se non quegli esseri viventi che ci circondano immediatamente. Gli uccelli che saltellano sui nostri rami, che cantano nel nostro fogliame, appartengono a noi, ci parlano, fin dalla prima giovinezza, e noi impariamo a conoscere il loro linguaggio; ed è con piacere che apprendiamo a riconoscere un rigogolo da una capinera. Ma una creatura esotica strappata dal suo ambiente produce su di noi un’impressione penosa. Almeno questo accade a me, che sono avvezza a una vita tranquilla. Bisogna già condurre una vita varia e rumorosa, per sopportare intorno a sé scimmie, pappagalli e negri!» «È quello che mi dico anch’io, ogni volta che il mio domestico mi fa spazientire» ha dichiarato gravemente il principe Radziwill; ma si vedeva che aveva una gran voglia di ridere. La madre di Victoire è accorsa in aiuto della figlia, pregandola di voler servire finalmente il tè, e tutti hanno approfittato volentieri dell’occasione per abbandonare l’argomento; ma sospetto che la poverina non se la sia cavata altrettanto a buon mercato, più tardi, quando è rimasta faccia a faccia con la madre. In ogni caso, il suo intervento ha conseguito il non trascurabile risultato di azzittire Pauline, che da allora in poi è rimasta seduta in silenzio, senza seguire la conversazione, volgendo solo intorno i grandi occhi, con aria insieme annoiata e impertinente.

Dopo il tè sono andato con Schack all’opera comica, che si dà nello stesso teatro dell’opera seria; stasera il re e la regina assistevano allo spettacolo, e tutti gli sguardi erano volti alla sovrana, che usciva in pubblico per la prima volta dopo il suo ritorno dalle acque. Credevo che tanto interesse fosse dovuto all’onesta preoccupazione per la sua salute, e ne chiesi conferma al maggiore; egli tuttavia si mise a ridere. «Voi non conoscete i berlinesi! Certo, tutti quanti adorano la regina, soprattutto perché il suo sistema politico è molto più conforme all’opinione pubblica, mentre delle idee politiche del re ci si fida poco; ma quello che tutti spiano è il loro comportamento reciproco. Capirà, alla partenza della regina non si è parlato d’altro che di litigi, di separazioni, e della simpatia del re per la ballerina Schulz!» «E c’è qualcosa di vero?» m’informai. «Sono tutte stupidaggini» replicò decisamente il maggiore. «Quei due si vogliono bene come Werther e Lotte, e si esprimono con lo stesso linguaggio, benché la parte, come lei sa, non sia stata scritta per un re e una regina; ma la gente non può saperlo. Del resto il re ha quello che si merita; i pettegolezzi nascono dal disprezzo e dalla sfiducia del pubblico nei confronti della sua politica. Non si sente ripetere, se non che suo padre valeva molto più di lui; eppure sa il cielo in quale considerazione fosse tenuto il defunto sovrano, finché era vivo.» «È curioso quel che mi dice. Un repubblicano si figura che in una monarchia il re sia tenuto per poco meno d’un semidio, e che nessuno osi attribuirgli passioni e vizi dei comuni mortali» osservai. «In questo caso» replicò il maggiore «siete molto lontani dall’immaginare la verità. Qui da noi le critiche e i pettegolezzi non si stampano sui giornali, come da voi, ma in compenso corrono ancor più liberamente. Un parente che abita in provincia mi ha scritto per chiedermi se è vero che il re si ubriaca, cosa di cui laggiù tutti sono convinti, mentre è noto che beve solamente birra!»

Avendo preso posto nel palco riservato ai forestieri, eravamo troppo lontani dal palco reale per osservare la fisionomia di coloro che vi sedevano; ma non per accorgerci che il re rideva a crepapelle a ogni lazzo del vaudeville. «A quanto pare, il re si diverte» ho bisbigliato all’orecchio di Schack. «Sua Maestà si diverte sempre all’opera comica e alla commedia francese» ha replicato il maggiore, in tono beffardo. «Ma delle vostre tragedie tedesche, che cosa ne pensa Sua Maestà?» l’ho stuzzicato. Per tutta risposta il maggiore ha alzato le spalle. «Un giorno la regina l’ha obbligato a presenziare alla tragedia di Schiller, e il direttore del teatro si è presentato al palco reale per i complimenti d’uso. Poiché il re taceva, si è permesso di sollecitare il suo giudizio sullo spettacolo; il re ha taciuto ancora per un po’, mettendo tutti in imbarazzo, poi si è degnato di dichiarare che la vita ha già abbastanza tragedie!» Proprio in quel momento, un ciambellano è entrato nel palco reale e si è chinato all’orecchio del re; questi si è rivolto alla regina, poi entrambi si sono alzati e hanno abbandonato il palco in gran fretta. «Credo che stia succedendo qualcosa» ha esclamato Schack, e dopo avermi pregato di attenderlo è uscito dalla nostra loggia. Era già di ritorno di lì a pochi minuti, con un’espressione perplessa in volto. «Le Loro Maestà hanno lasciato il teatro, a quanto pare, per l’arrivo di un corriere da Parigi.» «Bisogna credere» ho osservato «che si aspetti qualche gran notizia» e suppongo che tutti quanti in teatro stessero facendo la medesima osservazione, a giudicare dal brusio che correva in tutti i palchi e perfino nel parterre.

Più tardi il maggiore mi ha portato a cena in un ristorante italiano chiamato la Sala Tarone, situato in uno scantinato cinque o sei gradini sotto l’acciottolato dei Tigli. Qui, mentre assaggiavamo il piatto della casa, consistente in un’insalata di sardelle con cozze, cervellata, olive, capperi e olio di Lucca, accompagnata da due bottiglie di Borgogna, ho chiesto a Schack se pensava di potermi rendere un servizio. «Non avete che da comandare» ha risposto il maggiore. «Poiché il mio soggiorno a Berlino si protrarrà, ho ragione di credere, piuttosto a lungo, avrò bisogno di un appartamento; mi chiedo se non potreste aiutarmi.» Schack è rimasto per un istante pensieroso. «Mi pare» ha detto poi «che ci sia un palazzo da affittare sul viale dei Tigli, proprio di fronte a casa mia, e anche piuttosto a buon mercato.» «E quanto vuole averne il proprietario?» «Se ricordo bene, quattrocento luigi.» Per poco non ho inghiottito il nocciolo di un’oliva. «Quattrocento luigi! Ma mio caro maggiore, sono quasi duemila dollari! Per lei, questo è un appartamento a buon mercato?» Il maggiore si è stretto nelle spalle. «È un palazzo di venti stanze, come quello dell’ambasciatore francese; certo si può anche spendere meno.» Mio malgrado ho dovuto sorridere. «Lei, mio caro Schack, non ha alcuna idea di quanto i contribuenti americani siano poco inclini a spendere il loro denaro per mantenermi a Berlino. Monsieur Laforest riceverà probabilmente da Parigi due o trecentomila dollari all’anno, ma io debbo accontentarmi di tremila.» «Così poco, eh?» ha osservato il maggiore. «Mi riesce difficile crederlo; non più tardi di qualche giorno fa, il residente del principe di Anhalt-Bernburg mi confidava di poter contare su un salario di ventimila talleri, e credo che pochi ambasciatori si accontentino di meno.» «I rappresentanti degli Stati Uniti» ho replicato «quando tornano in patria, non mancano mai di lamentarsi per l’impossibilità di vivere su un piede di eguaglianza non dico con gli altri ministri stranieri, o con la nobiltà di corte, ma neppure con i mercanti, che pure si arricchiscono commerciando con l’America; in passato usavo rallegrarmi, come tutti, di queste misure di economia, che mostrano come il nostro paese sia governato secondo princìpi ben diversi da quelli delle potenze europee, ma ora comincio a considerare la faccenda da un altro punto di vista; eppure così stanno le cose, e benché sia disposto a spendere del mio, non intendo però rovinarmi. Ho bisogno di un appartamento che mi permetta di ricevere, perché non intendo ridurmi alla condizione consueta fra i nostri rappresentanti all’estero, che vivono quasi interamente ritirati in casa propria, e, se ce l’hanno, nella cerchia della propria famiglia; per la stessa ragione intendo assumere due o tre lacché in livrea; ma non ho bisogno di venti stanze!»

Il maggiore è tornato a stringersi nelle spalle. «Può anche darsi» ha ammesso «che riesca a trovare qualcosa di più adeguato alle vostre necessità. Mi pare» ha aggiunto rischiarandosi «che il consigliere Wiesel, il marito della nostra Pauline, abbia intenzione di affittare una parte del suo appartamento, quando la moglie e il figlio partiranno per le acque; non sarebbe una sistemazione definitiva, ma potrebbe pur sempre accomodarvi ottimamente per qualche mese.» La prospettiva di diventare locatario di Pauline, e di un gentiluomo di larghe vedute come dev’essere suo marito, mi sorrideva solo a metà, ed egli dovette accorgersene, giacché si mise a ridere. «Avevo sentito dire che voialtri americani siete una nazione di puritani, ed eccone la conferma! Ma non abbia paura, non crederà che Sua Altezza vada a trovare la bella a casa sua.» Benché Pauline mi avesse colpito per la sua bellezza fin dalla prima volta che l’avevo veduta, la conversazione odierna mi aveva lasciato di lei un’impressione poco lusinghiera, e mi parve giunto il momento di schiarirmi le idee. «Ma caro Schack, fra noi credo che non possano esserci segreti: mi dica dunque chiaramente, Madame Wiesel, oltre che una sgualdrina, è anche una stupida come mi è parso quest’oggi, o dissimula il suo spirito in casa di sua cugina?» A questa domanda Schack ha riso ancor più di gusto. «Ma si capisce, Pauline è una stupida, è una testolina in cui non è mai entrato un pensiero elevato, né intellettualmente, né moralmente. Perfino Sua Altezza, in privato, è pronto a riconoscere la bassezza e la stupidità della sua innamorata: egli tuttavia crede che sia stata trascinata così in basso dalle circostanze infelici della sua vita passata, ed è convinto che il suo amore le aprirà gli occhi al bene, alla bellezza e alla verità.» Così dicendo il maggiore ha alzato il bicchiere bevendo a Pauline; osservando l’avidità con cui tracannava il suo Montrachet, mi sono ricordato la conversazione che avevamo avuto a teatro intorno alle abitudini private del re, e non ho potuto fare a meno di pensare che nella cerchia del principe Louis Ferdinand un uomo innamorato di sua moglie e che beve soltanto birra deve apparire ben poco degno di sedere sul trono.

Giovedì, 7 agosto

Certamente non sono malato! Ieri al risveglio avrei giurato che i sintomi erano identici a quelli degli altri attacchi della malattia: la sensazione così caratteristica di «pisciare aghi e spilli», come dice mio cugino Bill Pinkney. Ma se così fosse oggi dovrei stare ancor peggio, e invece stamattina ho pisciato senza il minimo inconveniente, sicché tutto lascia pensare che l’incidente sia stato soltanto un brutto scherzo del mio cervello: quasi che davvero, come vuole La Mettrie, certe sensazioni passate, anziché cancellarsi, restassero iscritte nella macchina del nostro corpo, come una memoria addormentata che può ad ogni passo risvegliarsi, in presenza di un qualsiasi stimolo nervoso. Ma giuro solennemente di non andare mai più con una donna senza condom, se non à la française. Per celebrare questa risoluzione, sono sceso dabbasso e ho interpellato la padrona, ordinando per oggi un pranzo speciale; la brava donna ha promesso di prepararmi uno dei suoi cavalli di battaglia, la carpa alla birra.

In attesa del pranzo, sono andato a portare le ultime carte da visita che ancora mi mancavano; qui infatti l’etichetta prevede che i diplomatici, al loro arrivo, si presentino agli altri ministri stranieri e ai principi del sangue lasciando una carta ai loro palazzi, e questa cerimonia viene solitamente ricambiata entro qualche giorno. Adempiuto a quest’obbligo, si può benissimo durare dei mesi senza vedere in faccia coloro cui ci si è presentati per iscritto, il che consente un notevole risparmio sulle spese di rappresentanza. L’ultima visita è stata per il più anziano dei principi del sangue, Ferdinand, ultimo fratello superstite di Federico il Grande e padre del principe Louis. Questo principe ha settantasei anni, è sordo, avaro e rimbambito. Era stato un giovane e brillante ufficiale, comandante di reggimento nelle battaglie di cinquant’anni fa; ma suo fratello lo disprezzava, e per complicate ragioni dinastiche, o forse soltanto per malvagità, lo costrinse a sposare la figlia di una delle loro molte sorelle. Le fatiche della guerra ebbero ragione di lui; un bel giorno si ammalò di mal di petto e la sua carriera militare fu finita. Da allora vive come un ufficiale in pensione, tiranneggiando le figlie zitelle e osservando scrupolosamente un assortimento di obblighi da lui stesso escogitati. La vita che conduce nel suo castello di Bellevue è una caricatura del servizio militare: il suo passatempo preferito consiste nel far esercitare tutto il giorno una disgraziata compagnia di invalidi che il re ha messo a sua disposizione. In famiglia è un pedante, un avaro e un misantropo, che trascorre le serate ispezionando scrupolosamente i conti di casa, ossessionato dalla paura di cadere in povertà. Quasi nessuno dei suoi parenti mantiene più relazioni con lui, se non per pura convenienza; gli restano ancora due o tre vecchi amici, i soli a fargli visita al di fuori delle occasioni ufficiali, e con loro si sfoga a parlar male del suo defunto fratello, criticandone le capacità militari, poiché, a suo giudizio, Federico perdeva troppo tempo suonando il flauto e conversando con i filosofi per poter curare a dovere l’addestramento dei soldati.

Si può perciò immaginare la mia costernazione quando il domestico che ha aperto il portone di Bellevue, anziché prendere in consegna la carta da visita che gli avevo fatto trasmettere da Will, è sceso fino alla mia carrozza e mi ha informato che Sua Altezza mi avrebbe ricevuto senz’altro. Mi sono fatto coraggio e sono stato introdotto in un’anticamera che in origine doveva essere stata ammobiliata lussuosamente, ma dove nessuno aveva più toccato nulla per mezzo secolo; i tendaggi erano grigi di polvere, e i vetri erano lavati soltanto ad altezza d’uomo. Salito lo scalone, il domestico ha bussato a una porticina e mi ha fatto passare in un minuscolo studio, dove Sua Altezza era intento a un solitario con le carte, che peraltro ha subito interrotto, ricevendomi con tutta la cortesia di cui era capace. Il principe è un ometto rinsecchito, vestito di un’uniforme fuori moda, con i gomiti rattoppati e i risvolti lisi e macchiati di tabacco, in parrucca incipriata e codino; appeso a un muro della stanza, si potrebbe scambiarlo per un ritratto dipinto da un maestro morto un bel po’ di tempo fa. Parla con rapidità sovrumana e su tre parole che pronunzia due risultano quasi del tutto incomprensibili; se si aggiunge che è anche piuttosto sordo, si comprende come la nostra conversazione abbia stentato ad avviarsi. Nonostante la calura, sudavo freddo, poiché ero stato avvertito che il principe, in ragione appunto della sua limitata comunicativa e più in generale di quella rotella svitata che cigola con moto ellittico nel suo cervello, ha la mania di credere che gli altri parlino fra loro in una lingua segreta per escluderlo dalla conversazione, e anche per questo frequenta la corte il meno possibile: quando perciò cominciò a interrogarmi, mi attendevo da un momento all’altro di vederlo imporporarsi di collera e di essere cacciato su due piedi dal castello, tanto più che ad ogni risposta mi sgranava gli occhi in faccia con espressione attonita, pregandomi di ripetere. Tuttavia le mie risposte debbono averlo soddisfatto, poiché la conversazione si è prolungata in modo inatteso senza dar luogo a incidenti di sorta. Quando infine ho avuto l’impressione che si accingesse a congedarmi, la mia partenza è stata ritardata da un nuovo avvenimento, poiché è entrato senza farsi annunciare un altro visitatore, anche lui un vecchio. Il principe è parso rallegrarsi, tanto che per un momento ha perfino sorriso; gli ha fatto cenno di avvicinarsi e ci ha presentati: «Il mio vecchio, vecchissimo amico, il generale conte Schmettau».

Questo generale è per l’appunto uno dei pochi amici d’antica data che ancora siano ricevuti a Bellevue. Pare che oltre a essere stato in gioventù l’aiutante di campo del principe, abbia servito a sua insaputa anche come amante di sua moglie, e secondo Schack è lui il vero padre del principe Louis. Ignoro se il vecchio principe sia al corrente di questo pettegolezzo; il malanimo che ha sempre dimostrato nei confronti del figlio parrebbe dimostrare di sì, ma in tal caso diverrebbe inspiegabile l’amicizia che continua a manifestare al generale. Quest’ultimo fisicamente gli assomiglia abbastanza: anche lui è magro, segaligno, visibilmente molto vecchio; veste in borghese, con i capelli incipriati, ma senza pose da damerino. Si è seduto vicino a noi con visibile soddisfazione, col fiato corto per aver salito lo scalone, ma perfettamente a suo agio; ha cavato di tasca una tabacchiera e ha offerto da fiutare al principe e poi a me, che ho rifiutato. Col suo arrivo la conversazione si è fatta più brillante, mantenendosi tuttavia su un piano piuttosto frivolo; e con lo stesso tono con cui aveva lodato la cioccolata del caffettiere Schimmelpfennig il generale ha portato il discorso su Bonaparte, che a suo giudizio non ha alcuna intenzione di fare la pace, e non aspetta se non il momento propizio per sfoderare gli artigli e gettarsi sulla Prussia. «Ma allora si accorgerà che i prussiani non sono degli austriaci qualunque» ha concluso il vecchio, visibilmente soddisfatto all’idea di tornare a battersi, dopo tanti anni di inattività.

Il principe ha sorriso acidamente ascoltando questi propositi; infatti è stato fin dal primo momento un ammiratore convinto della Rivoluzione francese, ed è il solo, fra i principi e i generali prussiani cui Bonaparte ne ha fatto omaggio, che non si vergogni di mostrarsi in pubblico con l’aquila della Legion d’Onore. C’è da chiedersi cosa avrebbe detto il gran Federico, se uscendo dalla tomba avesse potuto vedere questo pennuto di nuovo genere luccicare accanto all’Aquila Nera sul petto di suo fratello! Anziché incoraggiare gli spiriti bellicosi del vecchio generale, Sua Altezza l’ha interrotto piuttosto sgarbatamente. «Napoleone vi farà vedere lui di che cosa è capace, se non starete attenti. Ma queste sono soltanto chiacchiere da vecchie comari. Dimmi piuttosto, Minna, come proseguono i tuoi studi?» Questa domanda, e ancor più il modo straordinario in cui era stata formulata, mi hanno sorpreso a tal punto che i due vecchi debbono avermi letto in volto lo stupore, e il principe, la cui lingua si era improvvisamente sciolta, ha proseguito a mio beneficio: «Il signor Pyle si compiacerà di apprendere che il conte Schmettau trascorre i suoi anni da pensionato studiando la storia militare e lavorando a un gran progetto di cartografia dei campi di battaglia del regno; abbiamo davanti uno storico e un cartografo, non soltanto un militare. Inchiniamoci dunque al suo sapere! Quanto al nome con cui l’ho chiamato, è quello con cui è comunemente noto in società, almeno da quarant’anni, se la memoria non m’inganna; ma non si preoccupi, esso non allude affatto a un’inclinazione amorosa del genere prediletto dai miei defunti fratelli, bensì semplicemente al dramma di Lessing, il cui secondo titolo è La fortuna del soldato. Gli venne dato… be’, ho scordato da chi gli venne dato, e perché, ma certamente un’ottima ragione c’era, giacché gli è rimasto appiccicato fino ad ora. Già, Minna von Barnhelm! Hi! Hi! Hi!».

Il generale ascoltava questo discorso straordinario senza dar segno di disagio, essendo evidentemente abituato al bizzarro linguaggio del nostro ospite; direi anzi che sulle sue labbra aleggiava un sorrisetto di superiorità. Del resto, confrontando il suo frac di ottimo taglio con l’uniforme stinta del principe, e le sue osservazioni pungenti col borbottìo indistinto di Sua Altezza, chiunque avrebbe scambiato lui per il prozio del re, e l’altro per un ufficiale in pensione. Perciò sospetto che se quello che si racconta sul suo conto è vero, egli faccia visita così di frequente al vecchio principe soprattutto per giudicare, con soddisfazione, il declino fisico del marito tradito rispetto alla propria duratura agilità. Sua Altezza rideva fra sé, tutto soddisfatto; poi ha smesso di ridere, ed è seguito un momento di silenzio. «Siamo in tre» ha borbottato infine il principe. «Che cosa ne direste di una partita all’hombre?» Il generale ha declinato l’invito con un sorrisetto. «Vostra Altezza sa che io ho per principio di non giocare mai meno di un tallero al punto, e giocare a fagioli, come s’usa a Bellevue, non mi garba» ha osservato, con una franchezza che rasentava la villania; ho dimenticato di notare che egli è molto ricco, e perde molte migliaia di talleri all’anno al tavolo da gioco. «Quanto a me, Altezza», ho soggiunto inchinandomi, «sono molto onorato, ma ignoro il gioco», ed era la pura verità; del resto mi pare di aver già perduto abbastanza in questi giorni, per dover riprendere così presto le carte in mano. Perciò mi sono inchinato molto profondamente, e sono tornato all’albergo ad assaggiare la famosa carpa.

L’ostessa aveva apparecchiato soltanto per me sotto il mandorlo, e quando sono entrato all’albergo la sua miglior zuppiera di porcellana fumava già, spandendo all’intorno il profumo della birra cotta e del grasso pesce che vi navigava. La pietanza si è rivelata così deliziosa che non ho potuto fare a meno di corteggiare Frau Kruse affinché me ne svelasse la ricetta; la brava donna ha dichiarato che, buon Dio, essa sapeva preparare la carpa alla birra, ma raccontare al signore come si faceva, questo era proprio al di sopra delle sue forze, e si sarebbe certamente imbrogliata. Alla fine ha confessato che stava per prepararla di nuovo, poiché suo marito, annusando il profumo, aveva deciso di averla per cena, e aveva mandato apposta Bärbel a comprarne una bella grossa; sicché abbiamo convenuto che bevendo il mio kümmel avrei assistito, comodamente seduto in cucina, alla preparazione del manicaretto. La ragazza, rimboccatasi le maniche, sventrò il pesce, ne cavò le interiora che finirono immediatamente ai gatti del cortile, poi ne fece scolare il sangue in un bicchiere di aceto. Nel frattempo la padrona aveva aperto una bottiglia di birra, di quella che a Berlino chiamano bianca, e l’aveva versata nella pentola, insieme a una buona quantità di cipolle affettate. Adagiato il pesce in quel brodo, vi aggiunse sale, pepe e spezie, e il bicchiere di aceto in cui era scolato il sangue del pesce; poi mise la pentola sul fuoco. Ben presto la birra cominciò a bollire, e allora essa aggiunse un grosso pezzo di burro, che si sciolse rapidamente. «Ecco!» dichiarò poi, trionfante. «Adesso il signore fa cuocere il pesce finché la birra non sia consumata, ma badi che bisogna lasciare una salsa sufficientemente densa.» «Ed è tutto?» «È tutto! Anzi no, povera me: un quarto d’ora o mezz’ora prima di servire si aggiunge un bicchiere di vino bianco, mi raccomando, è molto importante.»

Dopo pranzo sono andato a prendere il fresco sul ponte del Castello; e qui mi sono imbattuto in quello stesso tenente von Suckow con cui avevo giocato a carte martedì. Egli conduceva con sé un ragazzino di non più di dodici o tredici anni, dall’aspetto di un provinciale appena arrivato in città, vestito di un piccolo frac blu, con i capelli rasati e gli occhi sgranati per la meraviglia. Questo giovane personaggio mi si presentò bravamente, battendo i tacchi e fissandomi negli occhi mentre mi porgeva la mano: era anch’egli un piccolo von Suckow, cugino in terzo o quarto grado del mio conoscente, ed era giunto a Berlino il giorno prima con la speranza di essere ammesso come cadetto in un reggimento di fanteria. Il suo parente lo stava appunto conducendo a casa del feldmaresciallo von Möllendorff, proprietario di uno dei reggimenti di guarnigione nella capitale, che lo avrebbe esaminato per decidere della sua sorte. «Come! Erano questi dunque gli affari improrogabili!» Suckow assentì, e mi raccontò ridendo come il ragazzino fosse partito tre giorni prima, per posta, dal suo villaggio del Meclemburgo, che non aveva mai lasciato prima di allora, in compagnia di un guardacaccia che aveva già svolto lo stesso servizio per una mezza dozzina di giovani della famiglia. «Io mi sono adoperato fin dall’alba per renderlo presentabile e insegnargli a rispondere a tono alle domande del generale, ma non so, non so se avremo successo; vede anche lei che è un piccolo campagnolo, non ha mai avuto altra compagnia che i figli dei contadini.» Mentre si svolgeva questa conversazione il ragazzino consultava a ogni momento, con aria preoccupata e al tempo stesso compresa della sua importanza, un enorme orologio d’argento, che doveva essergli stato regalato per l’occasione e che egli era assai fiero di possedere; poiché la scena mi divertiva, proposi di accompagnarli. Mentre proseguivamo, a piedi, verso l’abitazione del feldmaresciallo il ragazzino ammirava a bocca aperta i palazzi lussuosi, gli equipaggi brillanti e soprattutto i militari nelle loro eleganti uniformi, sognando evidentemente il momento in cui anch’egli avrebbe potuto pavoneggiarsi in divisa sotto gli occhi delle belle signore; per parte sua il tenente non cessava di esaminarlo con fare insoddisfatto e di criticarne ora il portamento, ora il nodo della cravatta, ora l’accento dialettale, scuotendo la testa con l’atteggiamento blasé di un uomo di mondo, senza pensare che non più di cinque o sei anni prima lui stesso doveva essersi trovato nelle medesime condizioni del suo piccolo protetto.

Al termine della passeggiata giungemmo al palazzo del feldmaresciallo, e un domestico, appreso lo scopo della nostra visita, ci introdusse nell’appartamento. La stanza dove eravamo entrati era oscura e puzzava di tabacco; in un primo momento credemmo che non vi fosse nessuno, ma dopo un istante scoprimmo un’interminabile pipa turca, il cui fornello poggiava sul pavimento mentre la canna scompariva dietro la stufa di porcellana; un leggero movimento ci fece supporre che alla sua estremità doveva trovarsi un essere vivente. Poiché, tuttavia, il padrone della pipa non dava segni di vita, restammo tutti e tre in mezzo alla stanza, senza sapere che cosa fare. Dopo un istante che ci parve piuttosto lungo una voce rude, che sembrava uscire dallo sportello della stufa, ci interpellò duramente: «Vediamo, avvicinatevi!». Il tenente spinse avanti suo cugino e lo presentò in poche parole, esponendo i motivi per cui aveva creduto di poter scomodare Sua Eccellenza. Il padrone di casa si alzò in piedi, e scorgendo in me un civile e probabilmente anche un forestiero le sue maniere si fecero immediatamente più cortesi; mi presentai ed egli si disse quanto mai onorato di fare la mia conoscenza. Era un vecchio alto e curvo, in grande uniforme, con la placca dell’Aquila Nera sul petto e una parrucca incipriata, e non mi rivolse mai la parola se non in un francese passabile, benché con gli altri due parlasse il rude tedesco dell’esercito, una lingua che assomiglia più all’abbaiare dei cani che al linguaggio di un popolo civilizzato. Quando ebbe finito di complimentarmi, passò ad esaminare da vicino il candidato, scuotendo la testa e borbottando di tanto in tanto degli hum! hum! inarticolati che non promettevano niente di buono. Dopo un lungo silenzio alzò gli occhi in faccia al tenente e parlò con la stessa voce dura: «Questo giovanotto è troppo piccolo per me; non posso accettarlo così. Bisogna rimandarlo a casa e aspettare che sia cresciuto di una spanna. Lo prenderò più tardi».

Questa risposta produsse visibilmente un effetto terribile sul candidato; i suoi occhi si riempirono di lacrime e solo all’ultimo momento si ricordò, uscendo, di fare la riverenza. Appena scesi in strada il suo dolore non si contenne più ed egli scoppiò a piangere: la prospettiva di ritornare a casa, di rinunciare al frac blu e all’orologio d’argento, e di rientrare al collegio per coniugare di nuovo il verbo amo e tradurre Cornelio Nepote lo precipitavano nella più profonda costernazione. Per consolarlo, suo cugino osservò che gli restava ancora una speranza, e gli propose di andare a trovare il proprietario del suo reggimento, generale von Arnim, per tentare nuovamente la sorte; avvertendolo tuttavia che il successo era questa volta ancor più improbabile, poiché l’organico del reggimento era al completo. Il ragazzino si asciugò gli occhi e lo pregò di condurlo immediatamente dal generale, e così ci rimettemmo nuovamente in cammino. Questa nuova visita cominciò sotto auspici più favorevoli, dal momento che il generale, un vecchio canuto, con la schiena così curva da non poter camminare se non appoggiandosi al bastone, ci accolse molto amabilmente. Il tenente perorò nel modo più persuasivo la causa del cugino; il vecchio, ascoltandolo, esaminava da ogni parte il fisico del candidato, immobile sull’attenti. Infine dichiarò a sua volta che il ragazzo non era abbastanza alto e aggiunse che d’altronde egli aveva già nel suo reggimento l’organico regolamentare di cadetti. Mentre il tenente parlamentava col generale, assicurandolo dello zelo che suo cugino avrebbe posto nel crescere il più in fretta possibile, e menzionando come per caso la cifra più che rispettabile della rendita che i suoi parenti avevano intenzione di assegnargli, il generale lasciò cadere uno stuzzicadenti che teneva in mano. Subito il ragazzino si precipitò a raccoglierlo e lo restituì al suo proprietario, con un inchino in cui si vedevano messi a frutto tutti gli sforzi del suo maestro di danza. Il generale sorrise, gli accarezzò la guancia e disse con benevolenza: «To’, questo biondino sa come ci si comporta. Ebbene, mi voglio rovinare: lo prendo, ma soltanto a titolo di cadetto soprannumerario».

Questo successo inaspettato riempì di entusiasmo il ragazzino, che riusciva a stento a contenere la sua gioia, e al quale non importava proprio nulla di essere titolare o soprannumerario, pur di essere finalmente soldato prussiano. Suo cugino provvide a raffreddare alquanto il suo entusiasmo spiegandogli per filo e per segno la differenza che passa fra un cadetto regolare e un cadetto in soprannumero: quest’ultimo non ha diritto a farsi tagliare l’abito dal proprio sarto, ma deve portare l’uniforme d’ordinanza e dormire in un quartiere militare, in casa di un soldato sposato e alloggiato in città, che ha l’incarico di sorvegliare il suo giovane locatario; non gli spettano né il soldo né la pagnotta, e deve dunque mantenersi a proprie spese fino al giorno in cui sarà promosso titolare. Per contro, è tenuto a compiere il servizio di un sottufficiale ed è trattato come tale, con la sola eccezione delle punizioni corporali. Sentendo menzionare queste ultime il ragazzino impallidì e con voce non troppo sicura s’informò in che cosa esattamente consisteva l’eccezione; il tenente non si fece pregare. «È molto semplice, signor cugino! Fino a cinque o sei anni fa, i cadetti potevano essere bastonati da qualsiasi ufficiale, magari un alfiere appena più anziano di loro, e questo alla minima mancanza; ma soltanto, badate bene, col piatto della spada. È un privilegio di cui apprezzerete la portata, e che condividevano con gli altri sottufficiali, i quali per riguardo del loro grado non possono essere bastonati che in questo modo. Ma ora» concluse il tenente strizzandomi l’occhio «gli animi, come si dice, sono più illuminati; si è riflettuto in alto loco che i cadetti sono troppo giovani per essere trattati così rudemente, e si è deciso di esentarli del tutto dalle punizioni corporali. Il signor cugino è fortunato; ai nostri tempi le cose erano ben diverse!»

Venerdì, 8 agosto

Stasera, a casa della signora von Crayen, ho incontrato una vecchia conoscenza. Quando sono entrato nel salotto un uomo corpulento si è alzato dalla poltrona e mi è venuto incontro, tendendomi la mano; e in lui ho riconosciuto un tedesco che per anni aveva commerciato a New York, benché non ne ricordassi il nome. «Victoire» mi disse familiarmente «mi aveva preannunziato che l’avrei incontrata, e mi sono subito ricordato di lei; e come sta il vecchio Mr. Van Cortlandt?» «Quando sono partito, stava benissimo; ma che ne è dei suoi affari? Non l’ho più veduta a New York da qualche anno, credo.» «Ahimè!» ha replicato giovialmente. «I miei affari sono andati a rotoli. Si vede che non era destino ch’io rimanessi in America; eppure per un po’ avevo creduto seriamente di far fortuna. Pazienza! La mia famiglia non è stata troppo contenta di vedermi tornare; mio fratello, il generale, s’è messo in allarme; ma i negozianti non lo sanno, e mi fanno credito.» «Il signor von Bülow» rise Victoire «è troppo modesto; sono sicura che i suoi libri gli rendono abbastanza per pagare i negozianti, tutti i nostri amici ufficiali non parlano d’altro.» A quanto pareva, avevo a che fare con uno scrittore, e ora conoscevo anche il suo nome, ma non sapevo affatto che genere di libri scrivesse; sicché sarei stato alquanto in imbarazzo a sostenere la conversazione, se il signor von Bülow, non sospettando affatto la mia ignoranza, non mi avesse tirato in causa. «Cara Victoire, il nostro amico, Mr. Pyle, le dirà che non sono solo le poesie, come sapeva già Orazio, a non dare il pane, ma neppure i trattati di arte militare; e se dovessi pagare i miei debiti con quel che mi rendono i miei studi, credo che sarei già in prigione.» «So soltanto» replicai «che non darebbero il pane in America, ma qui, mi pare, dovrebb’essere tutt’altra cosa, sicché non oso pronunciarmi. Ma piuttosto, vecchio mio, giacché mi trovo di fronte un conoscitore, non mi lascerò scappare l’occasione. Crede che la Prussia possa tener testa alla Francia, qualora le cose dovessero mettersi al peggio?» «Nemmeno per sogno!» esclamò Bülow. «Soltanto dei pazzi, oggi, potrebbero dichiarare guerra a Bonaparte; soprattutto quando si mettono degli imbecilli alla testa dell’esercito, mentre i veri generali sono ridotti a prendere il tè nei salotti e nessuno si degna di ascoltare le loro opinioni.» «Perciò» domandai «il re ha ragione a non voler fare la guerra?» «Anche un bambino lo capirebbe! Non possiamo farcela contro la Francia, è assodato. Per far la guerra alla Francia, ci vuole un Marlborough o un principe Eugenio, e io non ne trovo, né da noi, né in nessun altro paese. Solo i ciechi, che non mancano a Berlino, possono non vedere che la nostra salvezza consiste nel far la guerra alla Russia, insieme alla Francia. Questa guerra avrebbe ogni probabilità di vittoria, mentre l’altra non potrebbe cominciare sotto peggiori auspici. In una guerra contro la Francia, ci troveremmo in pericolo di perdere la capitale fin dalla prima campagna; guardate come Napoleone ha preso Vienna! Ora, con la perdita della capitale tutto il nostro sistema di credito è destinato a crollare in una notte; tutta la carta moneta diventerà carta straccia.» «Eppure» obiettai «mi pare che Berlino sia già stata presa in passato; sempre però dai russi, mai dai francesi!» Sembra tuttavia che oggi il ripetersi di un simile evento sia positivamente impossibile. «Prima di prendere Berlino, qualsiasi avversario dovrebbe impadronirsi delle fortezze che sbarrano il passaggio sui fiumi, ma non tutti gli avversari sono uguali quanto a questo. I francesi sono maestri in ogni genere di guerra, le nostre fortezze sull’Elba e sull’Oder non offrirebbero che poca resistenza. Ma il Russo non capisce la guerra d’assedio. Fossati profondi e bastioni di terra per lui sono Candia e Gibilterra.» «Ma infine» volli insistere «allearsi con la Francia, oggi, non significherebbe forse rinunciare all’indipendenza della monarchia, e assoggettarsi a un dispotismo straniero?» Un mormorio di approvazione mi dimostrò che le signore stavano ascoltando la nostra discussione, ed erano sorprese quanto me dalle opinioni del signor von Bülow; ma costui si limitò a scuotere il capo sorridendo. «Perché dispotismo? I francesi sono un popolo illuminato. Essi non creerebbero un dispotismo, ma la monarchia universale. La Francia è potente e Napoleone l’uomo del secolo: alla loro ombra la Prussia potrà prosperare. Il dispotismo russo, fondato sulla schiavitù e sul knut, quello è veramente una minaccia, e non solo per noi tedeschi, ma per la civiltà umana; soltanto la Prussia può arginarlo, e se per continuare a vigilare sui suoi confini orientali essa è costretta ad essere l’alleata, anzi la fedele confederata, della Francia, ebbene sia! La guerra contro Napoleone significherebbe la distruzione della Prussia, e allora la minaccia slava non troverebbe più un argine. Ascolti la mia profezia: il giorno in cui sulla Vistola e sull’Oder non ci sarà più un potente stato militare, si spezzerà la diga che protegge la Germania dell’Ovest e del Sud dall’inondazione che viene da Est. Essa riporterà la fiamma della guerra civile in Germania, e ogni idea di ordine e di diritto sarà cancellata dallo spirito umano; la barbarie di secoli da gran tempo dimenticati ritornerà; l’Europa sarà un deserto, e» proseguì inchinandosi verso di me, dopo una pausa e un sorriso malizioso, «e l’America occuperà il suo posto.»

Un coro di risate argentine mi persuase che le signore avevano accolto questa uscita come uno scherzo, e anch’io condividevo il loro sollievo per il subitaneo sgonfiarsi di un’eloquenza che era parsa sul punto di assumere toni tempestosi. «Se quel giorno avrò un posto nel governo» replicai sullo stesso tono «le offrirò il ministero della Guerra; s’intende che bisognerà crearlo, perché ora non c’è; ma credo che i contribuenti saranno disposti a questo sacrificio, per assicurarsi i servigi di un uomo così dotto nell’arte della guerra.» Bülow, disgraziatamente, mi prese sul serio, ed è questo un guaio che capita fin troppo spesso con questi tedeschi; si lisciò il naso, e dichiarò solennemente che è sbagliato parlare, come avevo fatto, di arte della guerra. «È un relitto del passato, di un’epoca in cui gli uomini non avevano ancora imparato a pensare. Al nostro tempo si addice una sola formulazione: quella di scienza della guerra. Nessuno finora in Prussia» continuò «si è reso conto di questa verità: perciò io ho deciso di colmare la lacuna, e mi sono proposto di esporre la scienza bellica secondo il metodo deduttivo della matematica, di ricercarne i princìpi e dedurne i corollari. È necessario edificare una nuova teoria militare, una teoria fondata su proposizioni universalmente valide, e formulata con un vocabolario universale: e su questa teoria dovrà essere costruita una campagna, come la formulazione di un teorema.» Gli risposi che, per quanto ne sapevo, una battaglia poteva difficilmente essere ridotta a una formula matematica, e che sarei rimasto molto sorpreso se i generali fossero scesi in campagna armati di regolo e compasso. Bülow replicò, sorridendo, che anche questa obiezione dimostrava quanto le mie vedute fossero sorpassate. «Lei mi parla di battaglie, ma oggi la battaglia non è più necessaria. Una campagna condotta secondo le regole scientifiche è destinata a risolversi col più completo dei successi senza che sia necessario sparare un colpo, e la vittoria di Napoleone a Ulm l’anno scorso ne ha offerto la prova più convincente.» Victoire, che diversamente dalle altre signore continuava ad ascoltare la nostra conversazione, obiettò che pochi mesi dopo la capitolazione di Ulm, Bonaparte aveva pur dovuto combattere la battaglia di Austerlitz, ma l’obiezione non parve scuoterlo. «Ma via! Bisogna aver commesso un errore per trovarsi nella necessità di dare battaglia. E Napoleone, sebbene sia indubbiamente un grande generale, non aveva letto i miei libri. Ora sono stati tradotti in francese, e si vendono da Magimel, libraio per l’arte militare, sul quai des Augustins; ho appena ricevuto la recensione pubblicata dal “Moniteur”, e mi vanto di dire che è di un tono assai lusinghiero. Da un anno all’altro, potrei dire da un giorno all’altro, le mie idee si diffondono in tutta Europa, e il futuro non potrà che darmi ragione.» «Dunque un grande generale non dovrebbe mai dare battaglia?» insisté ingenuamente Victoire. «Si capisce!» ribadì l’altro, serissimo. «La battaglia, al giorno d’oggi, non decide più nulla, e vedrete che nelle prossime guerre non ci saranno più battaglie! D’altronde, quale maggior gloria per il nostro secolo civilizzato, che quella di aver portato la scienza militare a una perfezione tale da rendere possibile combattere grandi guerre e sbaragliare interi eserciti senza che neppure un morto resti sul campo, abolendo questo inutile sacrificio umano, più degno dei cannibali che di noialtri? Il sangue, le ferite, le mutilazioni inflitte in battaglia a tanti disgraziati scompariranno dall’esperienza dell’uomo civile, così come sta scomparendo il vaiolo dopo la scoperta dell’inoculazione; e il generale diverrà sempre più simile al matematico o all’astronomo che, nella tranquillità del suo laboratorio, determina coi suoi strumenti il corso degli astri.»

L’imperdonabile accenno al vaiolo ha provocato un attimo di gelo, di cui solo il signor von Bülow, ignaro della propria goffaggine, non si è accorto; ma per fortuna proprio in quel momento ha fatto il suo ingresso un nuovo ospite, lo scrittore Jean-Paul. Costui è uno spilungone borioso, con la fronte calva, i pochi capelli spettinati e gli occhi spiritati che presso i tedeschi passano per indizio infallibile del genio, con al guinzaglio un barboncino bianco che ha immediatamente cominciato ad abbaiare in tono bilioso. Salutati i presenti con un cenno del capo, il grand’uomo si è seduto nella migliore poltrona, liberata appositamente per lui dalla padrona di casa, e dopo aver bevuto d’un fiato una tazza di tè ha esclamato con aria critica: «Il tè! Mia cara signora von Crayen, mi consenta di metterla in guardia contro questa bevanda nociva alla salute e contraria allo spirito tedesco». Ero curioso di sapere come lo scrittore avrebbe giustificato queste affermazioni straordinarie, così ho scambiato con Bülow un cenno d’intesa, ed entrambi abbiamo taciuto; d’altronde non avremmo potuto fare diversamente, giacché tutte le signore si erano raccolte come passeri attorno al nuovo venuto e aspettavano le briciole del suo verbo. «Il famoso medico olandese, Bontekoe» continuò Jean-Paul, quando fu ben sicuro che tutti lo ascoltavano «pretendeva che il tè impedisse l’ispessimento degli umori, e ordinava ai suoi malati di assorbirne fino a duecento tazze al giorno; ma un bel giorno si scoprì che la Compagnia delle Indie lo sovvenzionava, e che egli avrebbe prescritto come medicamento universale il veleno per topi, se la Compagnia ne avesse fatto commercio. Oggi tutti i medici riconoscono che il tè è nocivo; se troppo carico, agisce come un narcotico sui nervi, che debilita e rende insensibili; se più leggero, indebolisce la forza digestiva dello stomaco, come l’acqua calda.» La signora von Crayen, riempiendogli nuovamente la tazza, ha obiettato che gli inglesi sono bevitori inveterati di tè, e non sembrano trovarsene peggio; ma Jean-Paul, inzuppando un dolce nella bevanda, ha replicato che l’esempio non era calzante. «Lei dimentica che gli inglesi si nutrono di piatti abbondantemente speziati, di cui il tè mitiga l’effetto eccitante; inoltre essi fanno molto movimento e non bevono caffè. Ma le nostre signore tedesche non si muovono mai, ingoiano ogni sorta di liquido, e pretendono ancora di non potersi privare del loro tè! Perché allora non sostituirlo con altre tisane, il cui effetto corroborante è stato più volte riconosciuto? La menta, la melissa, il tiglio, la foglia di lampone, e tante altre piante delle foreste e dei giardini tedeschi potrebbero rimpiazzare vantaggiosamente questa stravaganza straniera.»

Le signore ascoltavano queste sciocchezze come l’oracolo di Delfi, ciascuna con la sua tazza in mano e a bocca aperta per l’ammirazione. Victoire non era da meno delle altre, e debbo confessare che vederla così incantata, dimentica di sé al punto di protendersi in avanti, seduta sul bordo della sedia, col mento appoggiato ai pugni e i gomiti puntellati alle ginocchia, per non perdere una parola del grand’uomo, mi ha ingelosito. Ho trovato però un alleato nel signor von Bülow, che non si curava di nascondere il suo fastidio per lo sproloquio del nuovo venuto. «E pensare che Berlino» mi sussurrò all’orecchio «va pazza per questo ciarlatano; le signore corrompono il suo parrucchiere per ottenere ciocche dei suoi capelli, e la regina conserva come una reliquia un ciuffo di pelo del suo barboncino.» Quando non ha avuto più nulla da dire a proposito della disgraziata bevanda, Jean-Paul ha portato la conversazione sui sogni, argomento inesauribile per i poeti moderni. «I sogni sono una forma involontaria di poesia» ha sentenziato, invitando le signore a raccontare i loro sogni della notte scorsa. La signora von Crayen ha cominciato confusamente a raccontare un sogno senza capo né coda, in cui entravano non si sa come pesci rossi e uccellini, e lo scrittore ascoltava a occhi socchiusi, il naso per aria, quasi vivesse una sublime esperienza spirituale. In quella il signor von Bülow ha detto piano, ma abbastanza forte perché tutti lo sentissero: «Già, i sogni hanno questo di volgare, che tutti sognano». La signora von Crayen si è confusa ancor più e ha smesso di raccontare, Victoire ha guardato lo screanzato con aria di rimprovero, e io, incrociando il suo sguardo irritato, ho alzato gli occhi al cielo, guadagnandomi, credo, la sua gratitudine a spese del povero Bülow, con cui pure in cuor mio mi trovavo d’accordo.

Per un momento mi ero baloccato con l’idea di raccontare il mio incubo della notte scorsa, ma l’uscita del mio amico aveva irrimediabilmente squalificato l’argomento, tanto che perfino lo scrittore fu costretto a un istante di silenzio. Approfittando dell’occasione ho cercato di riprendere la conversazione interrotta con Bülow, raccontandogli fra l’altro l’episodio della carta geografica al pranzo degli ussari, che lo ha grandemente divertito; ma Jean-Paul si è subito intromesso, dichiarando in tono frivolo «di non aver mai avuto un’idea chiara delle carte geografiche e della posizione degli stati», e che solo uno spirito meschino poteva interessarsi di simili aridità. Bülow è andato in collera a questa osservazione, e ha ribattuto offensivamente ch’egli non aveva trascorso la propria vita raccontando favole, ma imparando a governare gli stati e a comandare gli eserciti; che se si riconosceva un difetto, era quello di essere troppo modesto, ma che non avrebbe tollerato di essere accusato di meschinità da chi evidentemente era incapace di comprendere la vita degli uomini e dei popoli. A queste parole lo scrittore ha cominciato a farsi aria col ventaglio, lamentandosi del caldo soffocante e dello stato penoso dei suoi nervi. Bülow, che come certi cani da caccia induriti da mille battaglie non lascia facilmente la sua preda e la insegue anche quando essa spera di trovar scampo in un altro terreno, buttandosi dal bosco in palude o dalla brughiera incolta in un campo di granturco, ha prontamente ironizzato sulla vanità delle malattie alla moda. «Le buone vecchie malattie dei nostri nonni non sono più di bon ton. Oggi gli uomini soffrono di nervi, le signore di vapori o di emicrania: e nessuno sa che cosa siano i vapori» ha esclamato, fra le risa eccitate delle signore. «E i nervi?» lo ha provocato sorridendo Victoire. «Proprio allo stesso modo, c’è stato un tempo felice in cui nessun essere umano sospettava di avere dei nervi. Le cose sono ben cambiate da allora! Molti anni fa un medico inglese (si chiamava, credo, Whytt) ha avuto la sciagurata ispirazione di scrivere un libro sui nervi e le loro malattie. Un farmacista che si rompeva la testa da tempo sulla malattia immaginaria di una dama – perché in Inghilterra i farmacisti esercitano la medicina – lesse il libro e troncò il nodo gordiano: Madama, sono i nervi. Il termine diede piena soddisfazione e diventò di moda. Oggi, tutto il mondo vuole avere dei nervi; ed è molto se rientrando a casa la sera non trovo i miei lacchè intenti a discutere lo stato dei loro nervi. Anche il linguaggio si è adattato: un tempo, un uomo nervoso era un gran gagliardo, solido e robusto. Oggi è un essere che risente di ogni impressione alla millesima potenza, che sviene a causa del ronzio di una mosca e che rischia le convulsioni per il profumo di una rosa.»

Lo scrittore non cessava di rinfrescarsi col ventaglio, senza trovare il fiato per replicare a quell’attacco. Allora Victoire, con la sensibilità di un’accorta padrona di casa, si è offerta di sedere all’arpa, e guardandosi intorno ha incontrato il mio sguardo. «Signor Pyle!» ha esclamato. «Volete usarmi la finezza di reggere il libro?» Poi è andata a cercare in mezzo a una quantità di musica che stava ammucchiata su un tavolino, mettendo in fuga una gatta che vi si era addormentata sopra, ed è tornata con lo spartito; i domestici hanno portato l’arpa in mezzo alla stanza, ed io ho preso posto su una sedia al fianco di Victoire. In quella posizione non potevo evitare di posare lo sguardo sulla gola e sul seno della suonatrice, e di osservare fra me e me che più d’uno, prima della sua malattia, si sarebbe reputato fortunato di trovarsi al mio posto. Credo anzi che se la faccenda fosse continuata più a lungo, avrei faticato a tenere a bada qualche pensiero libertino; ben presto tuttavia Victoire ha giudicato di aver fatto abbastanza, e si è levata in piedi, inchinandosi graziosamente per ricevere gli applausi del pubblico. Più tardi, al momento di prendere congedo, mi sono complimentato con lei per la sua musica, di cui non avevo ascoltato nemmeno due battute. «Lei è troppo buono» ha replicato Victoire, «ma se ha creduto di farmi un complimento ha sbagliato; preferirei che dicesse francamente a maman che non sono fatta per suonare l’arpa, così potrei finalmente farla portare in soffitta.» La signora von Crayen, che si trovava lì accanto, la minacciò scherzosamente col dito. «Bambina, se ti lasciassi fare a tuo modo, passeresti le giornate a leggere romanzi!» Piccata d’esser chiamata bambina così in pubblico, Victoire, che in verità non merita quell’appellativo più di quanto la madre meriti il suo titolo nobiliare, ha ribattuto in tono falsamente innocente: «Sai, maman, mi sono accorta da un po’ di tempo che i romanzi non mi divertono più come quando ero giovane. Bisognerà che chieda al signor Bülow di prestarmi uno dei suoi trattati sull’arte della guerra, pardon, la scienza». La signora von Crayen, cui non garbava sentirsi ricordare che sua figlia ormai non era più una bambina, si è allontanata facendo mostra di non aver sentito. «È curioso!» ho osservato. «Si parlava di romanzi già l’altro giorno, quando ho avuto l’incommensurabile fortuna d’essere introdotto in questa casa ospitale. Ma se davvero quando eravate giovane, come voi dite, vi divertivano i romanzi, posso permettermi di chiedere quali preferivate? Dovreste ricordarlo, poiché quel tempo non può certo essere troppo lontano.» Victoire mi ha risposto in un sussurro, guardandosi alle spalle con aria maliziosa: «So che dovrei preferire quelli di Jean-Paul, e questo farebbe piacere a maman, ma “amicus Plato”, con quel che segue: in verità nulla mi ha mai commosso tanto quanto i romanzi di Lafontaine!».

Sabato, 9 agosto

Stamattina mi sono svegliato col pensiero, già affacciatosi più volte nei giorni scorsi e sempre rimosso, che oggi parte il corriere per Londra, e io non ho nulla di nuovo da scrivere. Per un momento sono stato tentato di ricorrere al metodo che Gus Foster, il segretario della legazione inglese a Washington, mi ha raccomandato in guisa di viatico prima della partenza, e che a suo dire è largamente usato da tutti i residenti britannici all’estero. «Quando si è appreso qualcosa che possa interessare il governo, lo si scrive; se non si è appreso niente, si inventano le notizie, e poi si smentiscono col dispaccio successivo. Così» concludeva Gus «si può mandare un rapporto con ogni corriere, e non ci si trova mai a corto di argomenti.» Però ho provato un qualche scrupolo nel servirmi fin d’ora di questo segreto, e ho preferito sfogliare i giornali degli ultimi giorni, nella speranza di trovarvi materia di riflessione. Infatti sul “Moniteur” del 2 agosto si accenna, in termini tutt’altro che chiari, alla presenza di un plenipotenziario inglese a Parigi. Ovviamente ciò non sarà un segreto neppure per Pinkney, che anche senza far conto della buona volontà dei suoi interlocutori inglesi può sempre leggere le notizie sul “Moniteur” come le leggo io; e tuttavia potrebbe non essere privo di interesse sapere che cosa i ministri prussiani, e soprattutto i più fedeli alla Francia, vorranno dirmi di questi negoziati. Con questo intento sono andato a trovare il consigliere segreto Beyme, responsabile degli affari interni, e uno dei maggiori responsabili dell’accondiscendenza, per non dir altro, dimostrata dal re di Prussia nei confronti di Bonaparte.

Quando sono stato introdotto nel suo studio mi sono trovato davanti un uomo corpulento, calvo, vestito molto semplicemente in frac e senza decorazioni. Beyme è stato professore di università prima che il re lo scegliesse, fra la sorpresa di molti, come suo primo consigliere, e l’educazione borghese traspare da tutti i suoi gesti, così come la sua formazione giuridica è rivelata dall’andamento monotono e pedante del discorso. A suo merito vanno ascritti il modo semplice in cui tratta chiunque si rivolga a lui e la fedeltà che continua a manifestare alle antiche amicizie: una qualità che si ritrova assai raramente fra coloro che hanno fatto fortuna, e ancor più insolita in un universitario. Dice il dottor Johnson che i professori non dimenticano mai nulla, tranne i loro amici; ma Beyme non ha rinunciato alla compagnia dei suoi colleghi accademici, benché sia divenuto in un certo senso l’uomo più importante del regno e anche uno dei più ricchi, grazie al poco zelo con cui respinge i regali che gli giungono da ogni parte.

Con un tale interlocutore, mi sono guardato bene dal lasciarmi sfuggire qualsiasi proposito bellicoso, compiacendomi invece della pace duratura che la politica del gabinetto prussiano ha procurato al regno; il brav’uomo, che non vedeva in me se non un americano, e dunque, a quanto credeva, un nemico arrabbiato dell’Inghilterra, mi ha assicurato che gl’intrighi inglesi non sapranno rompere la buona intesa che si sta ritrovando fra le potenze continentali. «Fox ha mandato lord Yarmouth a Parigi, credendo di poter dettare condizioni all’imperatore; ma si accorgerà ben presto del suo errore. La pace di Napoleone con la Russia è fatta, e non appena l’imperatore sarà persuaso dell’acquiescenza della corte di Vienna alla Confederazione del Reno, le truppe francesi in Germania lasceranno i loro accantonamenti per far ritorno in patria, dove già si preparano i festeggiamenti per accogliere gli eroi; allora lord Yarmouth potrà richiedere i passaporti e imbarcarsi per la sua isola, con la quale nessuno in Europa vorrà più avere a che fare fino a quando non avrà mutato sistema.» Quando parla dell’imperatore la voce di Beyme, d’abitudine piatta e pedante, sale di un buon mezzo tono, e i suoi occhi si spalancano per l’ammirazione dietro gli occhiali; ma per il resto il suo modo di intendere le relazioni fra le potenze è veramente degno di un professore, abituato a veder tutto attraverso la lente del codice. A suo giudizio le trattative in corso tra Lucchesini e Bonaparte non possono che andare a buon fine, poiché a quanto sembra la nuova legislazione in preparazione a Parigi, ch’egli chiama senz’altro Codice Napoleone e su cui si mostra profondamente e dottamente informato, riprenderà in più di un punto il Codice Generale prussiano del 1798, riconoscendone la superiorità su ogni altro sistema legislativo; e su questo bel fondamento gli pare che non possa regnare fra i due paesi altro che la più fraterna e duratura amicizia. Poiché una così profonda scienza dello Stato mi lasciava senza parole, Beyme ha creduto di incontrare la mia approvazione e ha proseguito illustrandomi in gran dettaglio il profitto che il giure francese trarrà da questa imitazione, in particolar modo per quanto concerne la regolamentazione della vita familiare, che egli giudica il vero fondamento di uno Stato bene ordinato. Ho così appreso, non senza qualche stupefazione, che il re di Prussia non si priva di dire la sua riguardo alla vita domestica dei suoi sudditi, e per esempio obbliga con una legge apposita le madri ad allattare i figli; salvo permettere a questi ultimi, raggiunta l’età di quattordici anni, di ricorrere in tribunale contro il padre ogni volta che ritengano lesa la propria libertà, compresa quella di scegliere la confessione religiosa. A me pare che un sovrano il quale detta disposizioni di questo genere nella sfera familiare o domestica non abbia per la famiglia una considerazione gran che maggiore che per la caserma o la casa di correzione; al contrario il consigliere segreto crede che in questa tutela stia la chiave per uno sviluppo libero e felice della famiglia come dello Stato, e non ha mancato di tessermi l’elogio della vita domestica delle Loro Maestà, la quale, a suo giudizio, dà l’esempio a tutti i sudditi di una famiglia rispettosa della morale e delle leggi. Per poco non gli si inumidivano gli occhi mentre celebrava «quella coppia che avrebbe potuto trovare il suo luogo soltanto nell’antichità classica, o nel mondo illuminato in cui viviamo: la vita di Federico Guglielmo e Luisa rappresenta per la collettività il modello, seppure un poco più in grande, di ciò che dev’essere la vita privata, e, per così dire, un etometro, cui ciascuno potrà commisurare la propria felicità domestica; e io credo che col loro esempio i matrimoni felici diverranno sempre più frequenti, e si accrescerà la felicità generale dello Stato.»

L’etometro era un po’ forte, e queste chiacchiere non mi dicevano nulla che potesse rientrare con qualche profitto nel mio prossimo rapporto. Nella speranza di fare qualche passo avanti, ho provato a intavolare la questione dell’accordo commerciale in vigore fra i nostri due paesi, e degli aggiornamenti che è nostro desiderio negoziare; ma mi sono subito accorto che il ministro Beyme giudica anche il commercio alla luce del Codice Generale, e non ha nessuna vera cognizione delle scienze economiche. Perciò ho creduto inutile prolungare oltre l’intervista, e dopo essermi trattenuto ancora qualche minuto ad ascoltare le sue chiacchiere mi sono congedato. Mentre cifravo il dispaccio per Londra, ho mandato a chiedere di Schack, che più volte nei giorni scorsi aveva fatto cenno a una gita in campagna; il caldo e la polvere di Berlino cominciano a farmi desiderare un po’ di refrigerio. L’amico non era in casa; al mio domestico di piazza dissero che era partito da solo, in whisky, alla volta di Potsdam, dove si trovano da ieri il re e la corte. L’uomo tuttavia aggiunse che mentre usciva in strada uno dei lacchè del maggiore, con cui è in relazione da vecchia data, gli era corso dietro mormorando che il suo padrone era bensì partito in direzione di Potsdam, ma sulla strada si sarebbe certamente fermato da madame Chauderon, sicché con un po’ di fortuna avrei ancora potuto trovarlo laggiù. L’ora mi pareva un po’ insolita per una visita a quel luogo, ma l’intimità che avevo avuto modo di osservare tra Schack e la padrona mi ha persuaso che non c’era nulla di inverosimile nell’indiscrezione del lacchè. Data la calura non avevo voglia di andare a piedi fino in Jerusalemerstrasse, né mi premeva d’andarvi con tutta la pompa d’una carrozza; perciò mi sono accontentato di prendere un fiacre, e dopo pochi minuti mi sono ritrovato davanti al portone in cui ero entrato poche sere fa in compagnia di Schack.

La casa, com’è naturale a quell’ora, era deserta; ma madame, riconoscendomi per un amico del maggiore, mi ha pregato senz’altro di accomodarmi, ed è salita a bussare a una porta, per poi tornar giù desolata con l’annuncio che Schack era partito proprio pochi minuti prima. Non ero mai stato al bordello di mattina, e mi ha colpito l’atmosfera vacua e annoiata che vi regna, simile a quella che si avverte in un collegio o, credo, in una caserma durante le lunghe ore oziose di un pomeriggio domenicale. Le ragazze vagavano senza scopo da una stanza all’altra, senz’essersi ancora lavate; alcune si erano appena svegliate, e non indossavano se non vestaglie logore o perfino la camicia da notte. Tutte, poi, avevano i capelli arruffati, e le calze mal tese sulle gambe, se non erano addirittura a piedi scalzi; qualcuna toccava per divertirsi i tasti del pianoforte, qualcun’altra faceva pigramente dei giochi con le carte per indovinare l’avvenire. Giacché ero venuto fin lì, mi è parso spiacevole aver fatto il viaggio per nulla e ho chiesto di Lenchen, che avrei rivisto volentieri. «È in camera sua» mi ha risposto la padrona, «e per quanto ne so sta facendo il bagno, ma se il signore lo desidera, può salire a sincerarsene di persona.» Non mi sono fatto pregare e sono salito; ho bussato alla porta indicata, e senza attendere risposta sono entrato.

La ragazza era davvero intenta a bagnarsi, e quando mi ha visto entrare ha sorriso allegramente. Mi sono avvicinato alla grande vasca di rame collocata al centro del pavimento e scherzando ho provato col dito la temperatura dell’acqua: era tiepida, deliziosa nella calura afosa del mezzogiorno. Lenchen faceva il bagno appena coperta da un velo di mussolina trasparente, certo molto più comodo della camicia di tela con cui sono solite bagnarsi le donne oneste, e sembrava trarre da quella sua lavanda un piacere molto più grande di quanto non ne tragga di solito, a quanto credo, la gran parte delle signore di mia conoscenza. Si vedeva benissimo che nessun dottore l’aveva mai messa in guardia in tono solenne contro i rischi che l’eccitazione nervosa, il rilassamento delle carni, il riscaldamento del sangue possono provocare in una natura femminile, di per sé debole e soggetta ai vapori, all’emicrania e a ogni sorta di altri malanni consueti nella buona società. «Mi pare» dissi «che tu trovi un gran godimento in codesto bagno.» «Oh, sì!» esclamò sgranando gli occhi. «Non c’è un piacere al mondo come il bagno, e d’estate me ne pago uno quasi ogni giorno.» «Come, lo paghi?» «Purtroppo», rispose alzando le spalle, «Madame ne concede soltanto uno alla settimana. Quelle che vogliono farlo più spesso debbono pagarlo.» Contando sulle dita di una mano, si è messa a calcolare la spesa che questo lusso le viene a costare. Per un soldo il calderaio le affitta la vasca di rame, che preferisce a quelle di legno dei bottai, benché queste costino la metà; il portatore d’acqua si fa pagare un pfennig per ogni secchio, e per uno o due pfennig, a seconda della stagione, la cuoca le riscalda l’acqua fino alla temperatura necessaria. Questa enumerazione non doveva essere senza un secondo fine, poiché un istante dopo si sentì nuovamente bussare ed entrò appunto il portatore d’acqua, un ragazzone dai capelli rossi; questi si tolse il cappello e rivolgendosi a Lenchen come a una signora le disse che gli dispiaceva molto, ma il suo padrone intendeva che gli fosse saldato immediatamente il conto. Risultò che da quasi un anno la fanciulla non pagava la sua acqua, e che doveva ormai più di venti soldi; naturalmente cercai subito la borsa e gettai un tallero all’intruso, ben deciso a farmi rimborsare in natura quella piccola spesa. Non ci fu bisogno di aprir bocca, perché Lenchen è una ragazza intelligente; e del resto, come dice Cicerone, “perspicuitas argumentatione elevatur”, ovvero, quel che è chiaro non ci guadagna a esser spiegato. Cinque minuti dopo i miei abiti giacevano sul pavimento, ed io stavo condividendo con lei quel piacere di cui mi ero appena assunto l’onere.

Quando uscimmo gocciolanti dall’acqua ormai fredda erano già battute le due. Dal momento che non avevo nulla da fare decisi di partire anch’io alla volta di Potsdam, e di approfittare della gita per assistere, domattina, alla parata domenicale. La diligenza giornaliera che parte a mezzogiorno dalla piazza ottagonale della porta di Potsdam, e che a quanto mi assicurano giunge a destinazione in sei ore, è comunemente considerata il mezzo più economico e sicuro per compiere questo viaggio; ma poiché era ormai troppo tardi per prenderla, ho mandato il domestico a noleggiare dei cavalli e sono partito col mio legno. La gita da Berlino a Potsdam non somiglia propriamente a una partie de plaisir, e solo monarchi sprezzanti del proprio e dell’altrui comodo possono aver scelto di collocare laggiù la propria residenza. La strada corre per ore in mezzo alla brughiera sabbiosa, interrotta solo raramente da macchie di pini o da magri campi in cui i paesani, in ritardo con la mietitura, si affannano a tagliare e ammucchiare la segale e l’orzo. Nel corso della passeggiata il cielo, che ancora al mattino pareva limpidissimo, si è andato popolando di nuvole e per un momento ho temuto che il temporale ci avrebbe colti in aperta campagna, ma per buona sorte siamo arrivati a destinazione ancora asciutti. Solo mentre sto scrivendo, all’imbrunire, comincia a tuonare e tutto lascia pensare che prima di notte la pioggia verrà a sferzare le pianure brandeburghesi.

A metà strada abbiamo sorpassato la diligenza, e mi sono rallegrato di essere partito piuttosto con la mia vettura; all’arrivo, tuttavia, ho scoperto che il risparmio di tempo non valeva la spesa. Entrare a Potsdam, infatti, è cosa tutt’altro che semplice, soprattutto per uno straniero che viaggia privatamente; l’abitato sorge nell’ansa di un fiume e presenta un’unica via d’accesso, fortificata da linee successive di fossati e bastioni. Alla barriera ho perso quasi un’ora prima che i miei documenti, passati di mano in mano da un sottufficiale all’altro, fossero finalmente vidimati da un ufficialetto azzimato, seduto a una sudicia scrivania in un ufficio del corpo di guardia. Ho preso alloggio all’Angelo d’Oro e poi, mentre Will si occupava dei cavalli, ho fatto un giro a piedi per la città, accompagnato da un domestico dell’albergo. Assai più di Charlottenburg, Potsdam si presenta, a una prima impressione, come la degna residenza di un monarca. Le strade sono larghe, diritte e ben pavimentate, e lo stile delle decorazioni è degno dell’antica Roma: la sovrabbondanza di statue degli antichi dei e di iscrizioni latine è tale, che si potrebbe sospettare che la religione cristiana sia stata espulsa dai domini prussiani, e il vecchio Giove e la sua famiglia restituiti all’antico onore. Tuttavia lo stato dei giardini e degli stucchi è ancor più pietoso di quanto non accada a Berlino: non c’è un amorino di gesso cui non sia stato rotto il naso. Se poi si chiede chi abiti in questi palazzi, ci si sente rispondere che sono vuoti, o usati come magazzini per il grano dell’esercito. Potsdam è una città morta, silenziosa e priva di abitanti. Il re Federico, che teneva assai a ingrandire e abbellire la sua residenza, ha fatto costruire a sue spese interi quartieri, impiegando per i palazzi la miglior pietra da taglio, e stabilendo personalmente le misure delle strade e degli edifici; per sua disposizione le vie principali sono attraversate da canali, con una fila di tigli su ogni lato, per far ombra alla passeggiata. Tutte le risorse della magnificenza e del gusto sono state dispiegate senza risparmio; e tuttavia il risultato è squallido e molto spiacevole, perché il re non si è mai chiesto dove avrebbe trovato gli abitanti per i suoi palazzi. La costruzione di tanti edifici a spese dell’erario ha fatto crollare gli affitti, scoraggiando i privati dall’investire; gli obblighi di alloggiamento che qui, data l’entità sproporzionata della guarnigione, pesano sugli abitanti ancor più che a Berlino scoraggiano chiunque dal venirsi a stabilire a Potsdam, e benché le case siano offerte a vile prezzo a mercanti e artigiani si potrebbe credere che non vi abiti nemmeno un civile. Per la strada non si vedono che militari; dalle finestre dei pochi appartamenti abitati pende sempre un paio di uose bianche da soldato. L’educazione di questi inquilini non è, come si può immaginare, del tutto confacente allo splendore degli edifici in cui alloggiano; in questa stagione essi fanno la loro toilette alla finestra senza inquietarsi dei passanti, e mentre contemplavo, nella luce incerta del crepuscolo, il bell’allineamento dei palazzi sono stato brutalmente risvegliato dalla mia estasi dal getto scrosciante di uno di quei figli di Marte, che dal terzo piano si alleggeriva nella strada.

Nel corso della passeggiata il lacchè mi ha invitato ad ammirare l’architettura regolare del castello, ricostruito sotto Federico, che bizzarramente lo ha voluto dipinto di rosso e giallo, e l’eleganza dei colonnati che si dipartono dalle sue ali e racchiudono l’immenso spazio della Paradeplatz, dove ogni domenica mattina si tiene la parata alla presenza del re. Nel castello, dando una mancia ai domestici, è possibile visitare lo studio di Federico, che si conserva con ogni cura esattamente nello stato in cui era al momento della sua morte: con le tracce di tabacco, le sedie dalla fodera sudicia e strappata, infine tutte le prove della scarsa pulizia di quel principe, che riservava ai suoi cani le carezze negate alla moglie e, a quanto si dice, a qualsiasi altra donna. Su una poltrona è ancora aperto il libro che il re stava leggendo quando la morte venne a trovarlo, del tutto inaspettata da lui stesso, a quanto pare, benché tutti coloro che lo servivano ne avessero presentito l’arrivo; è uno Svetonio, in francese, e il volume è aperto alla pagina della morte di Augusto, ciò che lascia sospettare, mi sembra, una mistificazione dei domestici. Affacciandosi al balcone lo sguardo spazia sull’immensa piazza deserta, e oltre, sulle vie rettilinee che si perdono all’orizzonte, più deserte della City di Londra la domenica mattina; e il visitatore non può reprimere un moto di compassione all’indirizzo di Federico, considerando che nonostante i suoi sforzi nessuno viene ad abitare la sua bella città.

A pochi passi dal castello sorge la guglia slanciata della Garnisonkirche, probabilmente la più curiosa chiesa cristiana che occhio umano possa vedere; non ci sono reliquie, né tabernacoli, né immagini sacre, ma soltanto abbellimenti di natura militare. Dalla volta pendono, coperte di polvere, le innumerevoli bandiere tolte in battaglia al nemico, e credo che vi si celebri la messa al suono di marce militari. Si dice anche che in tutta la sua vita Federico non si sia neppure avvicinato alla chiesa; per contro Federico Guglielmo, che è buon cristiano, vi ascolta regolarmente il servizio mattutino quando soggiorna a Potsdam. Da morto, tuttavia, Federico ha dovuto sopportare di essere sepolto proprio qui, e ora giace in solitudine nella cripta, né fra i suoi popoli sono mai corse profezie preannunzianti il suo ritorno, come è accaduto a tanti altri regnanti tedeschi. Prima di tornare all’albergo per la cena sono sceso a visitare la sua tomba, privilegio che chiunque può assicurarsi con poche monete. La porta della cripta si apre proprio sotto il pulpito; le pareti sono parate a lutto con velluto nero a frange d’argento, e in una bara d’argento, appoggiata su un semplice rialzo di marmo, è sepolto Federico. Nella cripta faceva freddo e l’unica luce era quella della torcia impugnata dal domestico; il sagrestano, lungo e magro, vestito di nero, faceva risuonare il mazzo di chiavi con cui ci aveva aperto la strada e le ombre di tutti noi si proiettavano sinistramente sulle pareti del sepolcro. Fuori tuonava. Non ho ritenuto che fosse il caso di trattenermi in quel luogo più di un istante, né ho creduto opportuno avviare in silenzio un colloquio con lo spirito del gran re, ad evitare che visioni indesiderate venissero, più tardi, a turbare il mio sonno.

Domenica, 10 agosto

Dopo l’acquazzone di ieri sera il tempo è cambiato: per la prima volta dopo tante giornate serene il cielo è grigio di nuvole, e fa improvvisamente freddo, come se l’estate fosse finita nel volgere di una notte. Dopo essermi riscosso dal torpore mattutino, ho indossato i panni pesanti che Will aveva pensato bene di portare con noi, e sfidando l’umidità sono andato a visitare il parco di Sans-Souci. Poiché minacciava pioggia, e il castello si trova a una certa distanza dalla città, avrei voluto andare in carrozza, ma non c’erano cavalli; sicché ho deciso di prendere una vettura di piazza. Anche questa richiesta tuttavia ha incontrato impreviste difficoltà, e dopo una lunga attesa non ho ottenuto altro che una specie di vile calesse, che doveva essere appartenuto alla vedova di un negoziante, e per il cui uso mi hanno fatto pagare due talleri all’ora; in questo bell’equipaggio sono giunto finalmente alla meta. Un domestico in livrea voleva a tutti i costi mostrarmi il castello, dove si conserva un altro gabinetto del gran re, in tutto simile, m’immagino, a quello che ho visitato ieri; mi sono accontentato di salire il grande scalone fino alla terrazza, dove sono sepolti, sotto lastre di marmo, i cani e i cavalli da battaglia di Federico. Dalla balconata si gode una splendida vista del parco, appena guastata dalla nebbia leggera che al mattino indugia a lungo sulla campagna; a poca distanza si può scorgere il famoso mulino a vento, tuttora appartenente ai discendenti di quel mugnaio che rifiutò di venderlo al re.

Tornando in città per assistere alla parata sono passato davanti agli accantonamenti dei soldati del reggimento della Guardia. Gli uomini, sotto la sorveglianza dei sottufficiali, erano intenti a compiere la loro toilette all’aperto in vista dell’ispezione: chi si incipriava il codino, chi stringeva con visibile sforzo il colletto rosso d’ordinanza, chi spazzolava le ghette, chi imbiancava con la creta le bandoliere della giberna. I sottufficiali, senza perdere di vista i loro uomini, si prendevano cura dei propri baffi, di cui il regolamento prescrive la lunghezza, e ne piegavano le punte all’insù spalmandole di sego, in modo da non mascherarne il colore naturale. Coloro che avevano avuto la sfortuna di trovarsi di sentinella sotto la pioggia di stanotte si affannavano a sbiancare col gesso la veste e i calzoni, su cui il blu della divisa e il rosso dei risvolti, ottenuti con tinture di pessima qualità, avevano irrimediabilmente stinto. Altri ancora lucidavano la canna del fucile, che deve risplendere come uno specchio, ciò che rende evidentemente impossibile mirare, almeno sotto il sole; è vero che ad eccezione dei tiratori scelti, i quali dispongono di carabine rigate, i soldati non sono addestrati a mirare individualmente, e che tutto lo scopo delle esercitazioni a fuoco, eseguite con cartucce a salve allo scopo di risparmiare i proiettili, consiste nell’insegnare agli uomini a caricare e sparare tutti insieme ad altezza d’uomo, con la massima rapidità possibile, al comando dei loro ufficiali.

Giunto al colonnato del Castello, trovai la piazza già piena di gente che si assiepava da tutti i lati, trattenuta da un cordone di soldati, a testimonianza eloquente della popolarità di quello spettacolo; sicché dovetti licenziare la vettura e farmi largo a piedi tra la folla. Disperavo di trovare un posto e meditavo già di entrare nel Castello e pagare un domestico per farmi aprire una finestra, quando sentii la voce familiare del maggiore che mi chiamava da un whisky fermo proprio all’angolo della piazza, nel punto da cui dovevano comparire i soldati. Poiché il suo reggimento non era comandato per prendere parte alla parata, il mio amico aveva pensato di venire ad assistervi da privato cittadino, e mi offrì cortesemente un posto a bordo della sua vettura. Prima ancora che potessi ringraziarlo mi chiese se conoscevo l’ultima novità, e alla mia risposta negativa mi informò che l’imperatore di Germania ha abdicato al suo titolo, conservando soltanto quello di imperatore d’Austria e re d’Ungheria. Più di qualsiasi considerazione sulla fine improvvisa di un organismo così vetusto e venerando quale il Sacro Romano Impero, la notizia mi parve giustificare qualche commento in merito alle voci di un’imminente spartizione della sovranità sulla Germania fra i sovrani di Francia e di Prussia; ma prima che potessi interrogare il maggiore sulla sua opinione in proposito un suono marziale di oboi, pifferi e tamburi cominciò a farsi intendere in lontananza, dapprima esile, poi sempre più distinto. La folla rumoreggiava per l’eccitazione e ciascuno si alzava sulle punte dei piedi, col risultato di vedere esattamente ciò che avrebbero visto se tutti fossero rimasti tranquilli. Presto la musica divenne assordante e il reggimento della Guardia comparve in fondo alla strada, per poi passare proprio davanti alla nostra carrozza e andare a schierarsi in bell’ordine sulla piazza. In testa procedeva la musica, poi la bandiera, portata dal sottufficiale più anziano e scortata da un picchetto di ufficiali. I soldati, rigidamente allineati, marciavano al passo di parata, e cioè a un’andatura tanto lenta quanto irrazionale e noiosa; si vedeva benissimo che mantenere quel passo, impugnando il pesante moschetto con la baionetta inastata, costava loro uno sforzo sovrumano. Tutti avevano i capelli incipriati; gli ufficiali vestivano l’uniforme di gala, coperta di ricami d’argento. Anche gli ufficiali superiori erano a piedi e portavano come unica arma una curiosa picca di foggia antiquata. Quando il reggimento fu schierato, venne ordinato il presentat’arm!, e tutti si irrigidirono nella posizione, non meno legnosa, prescritta dal regolamento. Poiché mi complimentavo con lui per l’allineamento delle truppe, che dal luogo lievemente rialzato in cui ci trovavamo risultava di una precisione soprannaturale, il maggiore sorrise e mi spiegò che la piazza è selciata di pietre quadrate, disposte in linee parallele di fronte al palazzo, in modo tale che schierandosi la truppa le pietre stesse indichino la posizione e la distanza di ogni fila. Subito dopo entrò nella piazza, a cavallo, il reggimento Garde du Corps, al suono delle trombe, e andò a schierarsi accanto alla fanteria; i corazzieri mantenevano, in sella, la stessa rigida immobilità dei loro compagni appiedati, e perfino i cavalli dovevano essere stati addestrati a restare tranquilli nella stessa posizione, se necessario per ore, senza innervosirsi e senza nitrire.

Benché il cielo fosse cupo, e non si scorgesse il sole da nessuna parte, la pietra grigia del selciato e quella candida del palazzo e del colonnato parevano sfavillare; e la loro luce si rifletteva sull’acciaio delle baionette, sul blu e sull’argento delle uniformi, sulle groppe nere dei cavalli. È curioso come lo spettacolo di mille o duemila canaglie rivestite di cattivo panno a spese del re, e messe in fila a suon di musica col moschetto in spalla, possa produrre emozioni irragionevoli nel cuore umano; e mi persuado sempre più che a meno di una necessità straordinaria, l’America dovrebbe continuare a fare a meno di una forza armata permanente. Quando finalmente la musica tacque, il re uscì a cavallo dal portone del Castello, con un numeroso seguito, e percorse lentamente al passo tutta la piazza, ispezionando con cura l’allineamento e l’equipaggiamento della truppa. Si sa che il re si compiace di escogitare ogni giorno qualche mutamento nell’uniforme dei suoi soldati, allo scopo di rendere possibile qualche piccolo risparmio, sicché non mi ha sorpreso l’attenzione con cui esaminava fino agl’infimi particolari del loro abbigliamento. Quando fu soddisfatto smontò da cavallo, si portò davanti alla prima fila e mormorò un ordine; subito il colonnello che comandava il reggimento della Guardia lo ripeté ad alta voce, e i cadetti in servizio nel reggimento uscirono dai ranghi e si allinearono davanti al re. Sua Maestà esaminò benevolmente quei ragazzini, molti dei quali non gli arrivavano alle spalle, e si informò sul loro nome, l’età, la data del loro ingresso in servizio, e mille altre cose dello stesso genere. A volte rivolgeva queste domande direttamente all’interessato, ma talvolta interpellava il colonnello, e credo che non fosse cosa da poco, per quel vecchio, ricordarsi a memoria tutti quei dettagli. «Si capisce!» confermò il maggiore ridendo. «Quella è la più grande preoccupazione di tutti i generali e colonnelli prima di ogni parata, e i cadetti sono costretti a ripetere infinite volte il proprio nome, la data di nascita e così via, finché i loro superiori non siano ben certi di averli imparati a memoria.» Poi Schack mi mostrò il principe ereditario che assisteva alla rivista, a piedi, accompagnato soltanto dal suo precettore, senza alcun ufficiale o domestico al suo seguito. Non nascosi la mia sorpresa al vederlo così mescolato fra la folla, senza alcuna distinzione. «A Vienna o a Pietroburgo non sarebbe certo così» concesse Schack. «Là il principe ereditario non si mostrerebbe a una rivista che in carrozza, con un distaccamento di guardie del corpo al seguito; ma Sua Maestà desidera che il suo successore sia allevato con semplicità, senza ispirargli un’idea esagerata della sua importanza.» «Mi pare una risoluzione degna degli antichi» replicai «e conferma che quella di Prussia è ancor sempre una monarchia filosofica; tuttavia, se io fossi il suddito di una monarchia cosiffatta, una volta persuaso che il re non ha ragione di credersi troppo importante, comincerei a chiedermi se di lui non si possa fare a meno del tutto.» «Non c’è da temerlo» ribatté Schack ridendo; «qui si vorrebbe bensì che il principe ereditario non si facesse troppe idee circa il proprio merito, ma nonostante tutta la cura che si pone nel soffocarle, si formeranno sempre fin troppo presto!»

Dopo la parata sono andato a far colazione con il maggiore in un caffè poco lontano dalla piazza. Eravamo lì da pochi minuti quando sono entrati rumorosamente cinque o sei ufficiali della Garde du Corps, e scorto il maggiore si sono diretti verso di noi. Dopo le presentazioni li abbiamo invitati a sedere al nostro tavolo. Uno di loro ha posato il cappello accanto alla sedia, si è strappato il codino infilandolo in tasca, e ha scrollato la testa, passando la mano fra i lunghi capelli biondi per farne cadere la cipria ed esclamando: «Quando ci libereremo da questa porcheria?». Gli altri lo hanno subito imitato, liberandosi dai codini mentre agguantavano le sedie degli altri tavoli per sedersi intorno al nostro; dopodiché, vedendomi non poco sorpreso da questa manovra, mi hanno spiegato che è pratica comune fra gli ufficiali adottare codini posticci, della lunghezza prescritta di quattro pollici, di cui possono liberarsi non appena finito il servizio, dal momento che nella vita civile nessun giovanotto elegante porta più il codino. Non è questo il solo portento della tenuta militare prussiana, poiché ad esempio, a quanto ho appreso con mia meraviglia, la camiciola che si vede sporgere sotto la giubba dei soldati è egualmente posticcia, e si riduce a un lembo di tessuto cucito direttamente all’abito, per risparmiare sulla stoffa; così come cuciti, in modo che sia impossibile sbottonarli, sono i risvolti colorati sul petto dell’uniforme. Mentre riflettevo su queste curiose misure di economia, che peraltro sollevano il legittimo malcontento dei soldati, uno dei nuovi venuti ha esclamato: «Ma noi, signori miei, parliamo di queste piccinerie, e non di quella che è la vera novità del giorno!». «Parliamo dunque, se volete, dell’abdicazione dell’imperatore» ha cominciato Schack, con l’aria di trovare quell’argomento quanto mai noioso; ma l’altro ha tagliato corto, con un movimento impaziente della mano. «Ma no, si tratta di ben altro!» «Ebbene, mio caro Bredow?» l’ha sollecitato il maggiore. «Ebbene! Vi posso assicurare che ci armiamo! Tutti i reggimenti hanno ricevuto l’ordine di richiamare i riservisti e mettersi sul piede di guerra.» Un coro di esclamazioni stupefatte ha accolto la notizia, lasciata cadere con tanta sicurezza; ma prima che il giovanotto potesse dar ragione delle sue affermazioni è entrato nel caffè, alle spalle dei miei compagni di tavolo, un altro ufficiale del medesimo reggimento, assai più anziano di loro. Non potevo immaginare chi fosse, dal momento che nell’esercito prussiano gli ufficiali non portano sulla divisa alcuna insegna del loro grado, ma poiché non appena aprì bocca tutti scattarono in piedi capii che il nuovo venuto era, come infatti mi fu confermato più tardi, il comandante della Garde du Corps, von Wintzingerode. Il colonnello, toltosi i guanti, si schiarì la gola con aria seria e cominciò a rampognare i malcapitati per la loro acconciatura fuori ordinanza. «Ho già avuto più volte l’onore di far notare ai signori ufficiali del reggimento Garde du Corps» esordì gravemente «che non è consentito presentarsi in pubblico con pettinature stravaganti, ma devo purtroppo constatare che qualche giovane signore non ha ancora avuto il tempo di tener conto delle mie amichevoli sollecitazioni. Vorrà dire che in futuro mi considererò obbligato, anche se a malincuore, a far rispettare con maggior severità il regolamento. Anche se il corpo dei signori ufficiali della Garde du Corps dovrebbe dare l’esempio a tutti gli altri reggimenti di cavalleria, mi trovo purtroppo costretto a portare ad esempio proprio a loro il corpo dei signori ufficiali del reggimento Gensdarmes» e qui accennò a Schack, impeccabile nella sua uniforme candida e pettinatura incipriata, il quale non seppe reprimere un sorriso. Poiché i colpevoli non aprivano bocca, il colonnello alzò le sopracciglia e continuò: «Certo non sono così ortodosso da credere che il giorno della battaglia un ufficiale, solo perché ha la testa riccioluta e la fronte incorniciata di tirebouchons come un Sigfrido cornuto e appena un sospetto di codino, e un fiocco così meschino che ci vorrebbe il cannocchiale per riconoscerlo, debba comportarsi meno valorosamente di un altro, che si pettina i capelli lisci sulle tempie e porta un codino capace di reggere il fiocco regolamentare. La questione è un’altra, e cioè che l’ufficiale dev’essere di esempio ai sottufficiali e ai soldati anche nel rispetto dei regolamenti». I suoi subordinati ascoltavano questa intemerata con sguardo contrito, e il colonnello dovette giudicare di aver detto abbastanza: «Ho piacere di aver incontrato i signori», concluse bruscamente, poi girò sui tacchi e si avviò alla porta. Ma l’ufficiale che aveva parlato in precedenza lo interpellò: «Permette Vostra Eccellenza una domanda? È vero che ci armiamo?». Il colonnello, già sulla porta, si fermò e lo guardò aggrottando le ciglia. «Signor tenente» disse poi freddamente, «non spetta agli ufficiali di Sua Maestà occuparsi di politica»; poi, dopo aver pronunciato questa sentenza, fece un secco cenno col capo, tornò a voltarsi e uscì dal caffè.

In seguito a questa epifania il signor von Bredow, dando voce all’opinione generale, espresse tutta la sua disapprovazione per il comportamento del colonnello. «Si direbbe» esclamò «che la lunghezza del codino sia più importante per un ufficiale, che non il sapere contro chi dovrà battersi domani!» È vero che i giovani ufficiali, tenendo oltre misura alla propria eleganza, sono particolarmente sensibili alle assurdità del regolamento militare, e deplorano la ristrettezza di vedute dei superiori. Costoro sono affezionati all’uniformità dell’abbigliamento, e si oppongono a ogni innovazione personale, foss’anche soltanto nel taglio della divisa o nel modo di annodare la cravatta. «Il generale von Grawert ci disse una volta» ha ricordato ridendo il capitano von Puttkammer «che proprio per questo l’uniforme si chiama così, e non milleforme o pluriforme.» «Questo sarebbe anche giusto» ha ribattuto un altro «se i vecchi non pretendessero che noi portiamo ancor sempre le falde così basse, il frac così largo, il panciotto così ampio come si usava al tempo della guerra dei Sette Anni!» A guardarli ho avuto tuttavia la conferma che nessuna ingiunzione è sufficiente a tenere a freno la più potente fra tutte le passioni dei giovani, quella di seguire la moda: essi comprano dei cappelli grossi come macine di mulino, con due palmi di gallone, stringono la veste e i pantaloni fino a soffocarsi, accorciano il codino, e per queste iniziative illegali parecchi sono finiti agli arresti.

Messa fra parentesi questa inaspettata distrazione, la conversazione è ritornata alle novità annunciate dal signor von Bredow, secondo il quale tutta Potsdam non parla d’altro che di preparativi di guerra, di acquisti straordinari di farina e di cavalli, e di ordini sigillati già mandati dal re ai comandanti dei reggimenti e delle fortezze. I signori dei Gensdarmes e della Garde du Corps passano per i più accesi fautori della guerra, motivo per cui la gente del popolo li guarda con non dissimulata antipatia. Anche fra di loro, tuttavia, l’opinione prevalente è che i francesi non oseranno sfidare la Prussia, e che armandosi il re conta a buon diritto di spaventarli e indurli a sgomberare la Germania. Le grandi vittorie francesi dell’ultimo inverno non li hanno impressionati oltre misura: «Bonaparte ha sistemato gli austriaci, ma se osa prendersela con noi prussiani, sta fresco!». Del resto non mancano di sottolineare che la vittoria di Austerlitz è stata guadagnata soprattutto a danno dei russi, per i quali, al pari del signor von Bülow, nutrono il più profondo disprezzo. «In ogni caso» ha esclamato il maggiore sorridendo «se davvero dovrò partire per il campo voglio comprare dei cavalli. Puttkammer, quanto vuole per vendermi la sua Pamina?» L’interpellato sorrise, e rispose che non l’avrebbe data per meno di trenta luigi. Questa risposta mi parve sorprendente, poiché tutti quegli ufficiali montavano, come avevo avuto modo di vedere, cavalli magnifici, e quanto a Schack, nessuno dei suoi cavalli vale meno di cento luigi. La trattativa andò avanti, e con mio stupore si concluse sul momento per il prezzo dichiarato di venticinque luigi, che il maggiore si impegnò a mandare la sera stessa al venditore. Poiché leggeva lo stupore sul mio volto, Schack volle chiarirmi il mistero. «Il nostro amico americano» rise «crederà che siamo impazziti, perciò sarà meglio confessargli il nostro cifrario segreto.» Gli ufficiali della Garde du Corps e dei Gensdarmes, proseguì con un sorriso di condiscendenza, sono tutti ricchi, ed è sottinteso che le loro cavalcature non possono valere meno di cento luigi; sicché, vendendosi l’un l’altro dei cavalli, si limitano a dichiarare la somma che eccede la cifra di partenza, ed egli aveva acquistato Pamina, una bellissima giumenta bianca, per centoventicinque luigi d’oro. La spacconeria di questo linguaggio mi ha colpito sgradevolmente; ma è vero che non si può giudicare un uomo dal modo in cui parla, e che il più arrogante dei nobiluomini può esser capace di fare il suo dovere in guerra, al pari di chiunque altro. Se poi questi giovanotti così baldanzosi, con i loro purosangue inglesi, le loro divise immacolate e i loro stivali tirati a lucido, siano destinati in breve tempo a conoscere la polvere e il sangue dei campi di battaglia, questo è un interrogativo che nonostante le notizie portate dal signor von Bredow nessun aruspice, oggi, potrebbe vantarsi di sciogliere.

Lunedì, 11 agosto

Al ritorno da Potsdam ho trovato Berlino in fermento. In strada e nei caffè tutti parlano degli ordini che il re ha firmato per mettere l’esercito sul piede di guerra; i giornali non pubblicano una parola, né di conferma né di smentita, ma è certo che i reggimenti della guarnigione hanno cominciato a richiamare i riservisti e che le fortezze sono state poste in stato di allarme. I prezzi della farina e dell’acquavite sono già saliti, benché il raccolto di quest’anno sia abbondante, e il corso del cambio è in ribasso, a conferma dello scarso entusiasmo con cui i commercianti guardano alla prospettiva di una guerra. Misure così straordinarie non possono essere state precipitate che da qualche grossa novità, e subito sono corso con la memoria al corriere arrivato da Parigi l’altra sera, quando il re e la regina hanno lasciato così precipitosamente il teatro. Il conte Haugwitz, cui sono andato a chiedere conferma delle voci che corrono, è a Charlottenburg, in conferenza con Sua Maestà; in sua vece sono andato a trovare il consigliere segreto Lombard, responsabile degli affari esteri in seno al gabinetto, nonché uno degli uomini più odiati di Berlino.

A mezzogiorno il consigliere segreto aveva l’aria di essersi appena alzato e stava a tavola a far colazione, in vestaglia e con l’aspetto malaticcio, circondato da una dozzina di cortigiani che dovevano aver assistito al suo lever. Ho potuto studiarlo comodamente mentre sorbiva il caffè, tenendo il manico della tazza fra due dita e col mignolo ben sollevato, come probabilmente si giudicava di bon ton nell’anticamera della contessa di Lichtenau. Lombard infatti è un altro di coloro che debbono tutto, o quasi, all’amante del Re Grasso, e che affettano ora di ricordarla come Minchen Encke, quando nei giorni del suo splendore le baciavano la mano e la chiamavano Vostra Grazia. La sua nascita plebea non è fatta per accrescere la scarsa stima che il pubblico nutre di lui: il padre era un parrucchiere della colonia francese, «feu mon père de poudreuse mémoire»,28 come egli stesso ha la compiacenza di esprimersi, e la moglie è figlia di un barbiere reggimentale, salito poi al grado di chirurgo. Allievo brillante del Collegio francese, dove fu mandato a studiare a spese dei suoi compatrioti, conversatore disinvolto, poeta classico e bello spirito, Lombard venne notato da Federico e nominato fra i suoi numerosi segretari, negli ultimi anni di vita del gran re; in seguito seppe guadagnarsi la protezione di madama Lichtenau, e grazie alle sue carezze venne nominato consigliere di gabinetto quando non aveva ancora trent’anni. Sotto il nuovo regno avrebbe dovuto essere spazzato via come tanti altri suoi pari, ma la fiducia illimitata riposta in lui dal conte Haugwitz gli ha consentito di mantenersi a galla. Il suo viso gonfio e invecchiato prima del tempo tradisce fin troppo chiaramente il libertino che ha smarrito nel vino la salute e lo spirito; la sua buona conoscenza del francese e le sue belle maniere ne farebbero pur sempre, credo, un eccellente segretario, ma mi par dubbio che possieda le qualità necessarie per decidere la politica estera della Prussia.

Non mi aspettavo certo di trovare Lombard scosso dalla notizia del riarmo prussiano; e tuttavia non credevo di trovarlo così imperturbabile. Il figlio del parrucchiere non fa mistero dei suoi sentimenti giacobini e risponde con freddezza sorniona ai mangiafrancesi che si moltiplicano ogni giorno in società. Non so se abbia ragione il principe Louis Ferdinand, quando sostiene che Lombard «è un uomo impossibile da comprare, perché si è già venduto, e a un prezzo che nessun altro sarebbe disposto a pagare per una merce così scadente»; ma certo il suo comportamento non è calcolato per dissipare i sospetti. Gli umori del pubblico e specialmente dell’esercito nei suoi confronti sono tali che un altro, nei suoi panni, non oserebbe più uscire in strada, per paura di essere bastonato; eppure ricevendomi, in compagnia dei suoi clienti, si è comportato con frivola indifferenza e non ha parlato neppure per un momento della notizia del giorno, interrogandomi invece con fredda cortesia sulle faccende di Washington, di cui si è mostrato assai disinformato. Quando infine, ottenuta la grazia di un colloquio privato, gli ho chiesto a quattr’occhi se il corriere di Parigi, che l’altra notte ha causato la partenza precipitosa del re e della regina dalla commedia, non avesse qualcosa a che fare con le voci di mobilitazione che corrono su tutte le bocche, mi ha risposto con bella faccia tosta che il re ha bensì ordinato ad alcuni reggimenti di richiamare i loro riservisti, ma che si tratta di una misura prudenziale, inevitabile in questi tempi turbolenti; egli anzi si stupisce che non sia stata adottata assai più per tempo. Quel provvedimento non ha in ogni caso alcuna relazione con i colloqui di Parigi, dove Lucchesini si conduce come sempre con piena soddisfazione del ministero. Allora non ho più resistito e gli ho detto sorridendo che a ogni modo mi pareva una misura ben curiosa da parte di un monarca che fino a ieri si apprestava a spartirsi con Bonaparte il dominio della Germania. Il consigliere è rimasto sorpreso che io fossi al corrente di quei maneggi, ma si è subito ripreso e col tono più fatuo e irritante ha ribattuto che non sapeva perché parlavo al passato. Il re, ha aggiunto, approva pienamente la costituzione della lega fra i principi della Germania meridionale; quanto alla proposta francese di organizzare una simile confederazione anche nel Nord del paese, «la modestie naturelle de notre maître fait qu’il n’est pas encore bien certain s’il profitera de l’occasion de faire entrer la dignité impériale dans la maison de Brandebourg; mais son cabinet ne peut que le lui conseiller et en comprendre l’utilité pour les destinées de la Prusse»!29 Poiché non avevo intenzione di lasciargli quartiere così a buon mercato, gli ho chiesto come mai, se davvero fra il suo padrone e Bonaparte regna una così cordiale intesa, il ritorno delle truppe francesi oltre il Reno, già più volte annunciato dalla stampa parigina, non ha ancora avuto luogo, e anzi esse ricevono quotidianamente cannoni e cavalli dalla Francia. «Diamine!» mi ha risposto, guardandomi con sorpresa. «Conosciamo tutti la doppiezza del gabinetto di Vienna, e lei vorrebbe che l’imperatore Napoleone disarmasse, prima di essere completamente persuaso delle buone intenzioni austriache nei confronti della nuova Confederazione?» L’Austria, ha aggiunto, è oggi il solo ostacolo a una generale pacificazione europea, fatta eccezione naturalmente per la Gran Bretagna; anche la Russia ha già firmato la pace, ed egli non avrebbe saputo offrirmi una prova più convincente della buona volontà che anima l’una verso l’altra le potenze continentali.

Non potendo cavar altro da quel petit-maître incorreggibile, l’ho lasciato al suo caffè; e stasera sono andato al Teatro Nazionale, per toccare con mano i veri umori del pubblico. In questi giorni il famoso Iffland mette in scena La Pulzella d’Orléans, di Schiller, e il tono bellicoso dello spettacolo contribuisce non poco a riscaldare i berlinesi. Già al levarsi del sipario i contadini preoccupati evocano il ciclone guerresco che minaccia le loro terre con toni che non possono non suonare familiari all’orecchio di un europeo: oggi, si dicono, siamo ancora liberi cittadini, e proprietari delle vecchie terre che i nostri padri aravano; ma nessuno può dire quale sarà domani il nostro padrone, perché l’Inglese porta ovunque il gonfalone vittorioso spiegato al vento, e i suoi cavalli calpestano i fertili campi di Francia; tutt’intorno avvampano villaggi e città, e il fumo delle devastazioni s’avvicina sempre più alle nostre case… A queste parole il teatro è azzittito, e si capiva che ognuno in cuor suo aveva sostituito il Corso all’Inglese, e le sabbie brandeburghesi ai verdi campi della Lorena. Ma quando la protagonista, madame Fleck, ha proclamato che sotto le mura di Orléans rovinerà la fortuna del nemico, poiché la sua misura è colma, ed egli è maturo per il raccolto; e che prima che la segale ingiallisca e sia pieno il disco della luna, nessun cavallo inglese berrà più le acque della Loira, la sala è esplosa in un’ovazione che il talento dell’attrice, da solo, non sarebbe bastato a spiegare.

Il re e la regina non erano a teatro, e forse proprio per questo il pubblico raddoppiava d’audacia ogni volta che il dramma chiamava il re a rispondere della sua condotta imbelle, e lo assicurava che il popolo si sarebbe levato dietro di lui come un sol uomo, se finalmente si fosse risolto a impugnare la spada. Quando Dunois, scintillante nella sua armatura di latta, ha dichiarato che il popolo deve sacrificarsi per il suo re, giacché questo è il destino e la legge del mondo, e ha proclamato indegna quella nazione che non dà tutto con gioia per il suo onore, si è scatenato nel teatro un uragano di applausi, che sono durati senza interruzione per parecchi minuti, accompagnati da ripetuti urrà. Quando gli applausi si sono un poco calmati ho sentito qualcuno, nel palco accanto al mio, dichiarare tranquillamente che l’alleanza è già firmata fra Prussia, Inghilterra, Russia, Austria e Svezia, e che questa volta la Francia non ha scampo; non so se tutti, in teatro, fossero altrettanto bene informati, ma è certo che il sentimento comune era quello, ed io ero forse il solo, fra tutti quegli scalmanati, a riflettere che in verità Federico Guglielmo ha molto in comune con Carlo VII, ma che nel suo regno non è ancora comparsa una Pulzella.

Alla fine del second’atto ho scorto Victoire e sua madre, e mi sono avvicinato con l’intenzione di salutarle. Victoire aveva un abito bianco a points, fiori bianchi, una ghirlanda di perle e al collo un filo di perle nere di vetro. Mentre mi facevo largo tra la folla si è girata all’improvviso, mi ha riconosciuto e prima che potessi aprir bocca mi ha salutato per prima: una sconvenienza che sua madre non ha mancato di notare, giacché l’ha guardata con disapprovazione, e poi, quando credeva che io non vedessi, le ha dato un colpetto sulla mano col ventaglio. Victoire stessa è arrossita e mentre le baciavo la mano non ha osato guardarmi negli occhi, ma ha subito riguadagnato il suo buonumore quando le ho chiesto che cosa pensava di quelle manifestazioni di entusiasmo. Con gli occhi che brillavano dall’eccitazione, mi ha risposto che il popolo di Berlino non aveva mai dimostrato con altrettanta irruenza il suo attaccamento alla dinastia e il suo amore per la libertà. «Io sono fiera, sì, fiera di appartenere a questo popolo e di essere cittadina di un paese che produce simili uomini!» Così accesa di piacere e di entusiasmo, dimentica di se stessa al punto di prendermi inavvertitamente per il braccio mentre parlava, accalorandosi a dimostrare che avevamo la fortuna di vivere grandi giorni, mi è parsa molto meno brutta delle altre volte, e d’improvviso mi è presa una gran voglia di accompagnarla nel suo palco. Qui ci siamo seduti l’uno accanto all’altra nei primi posti, mentre la madre, nonostante le mie proteste, prendeva posto dietro di noi; così essa poteva sorvegliare ogni nostro gesto, ma in compenso non era in grado di spiare i nostri discorsi.

Non posso dire di aver ascoltato molto dell’ultimo atto; cosa di cui d’altronde non mi dolgo affatto, poiché gli attori, eccitati dall’entusiasmo del pubblico e nel disegno di esasperarlo ancor più, si permettevano tutti i trucchi più rancidi per suscitare l’applauso, come quello di mandare grida improvvise col piede già alzato per partire, pestare i piedi per terra, darsi una pacca in fronte e mandare in frantumi i bicchieri. Mentre la Pulzella teneva bravamente testa alla perfida regina Isabella, Victoire ha posato la mano sul davanzale del palco, io ho fatto lo stesso, e le nostre mani si sono sfiorate come per caso. Le sedie erano molto vicine, e sentivo il calore della sua coscia contro la mia; con cautela ho esercitato una modesta pressione, ed essa non si è ritirata. Chinandomi al suo orecchio con leggerezza, come per commentare ciò che accadeva sulla scena, le ho detto che per la prima volta da molti giorni non mi sentivo infelice. «Ma io credevo che lei non potesse sopportarmi; la prima volta che è venuto da noi non mi ha parlato neppure una volta» ha mormorato. «Come avete potuto credere questo?» ho risposto, assumendo un’espressione desolata. Incoraggiato da questo scambio di battute, le ho parlato all’orecchio ogni volta che ho potuto, mescolando al discorso tanti sospiri che avrebbe dovuto essere stupida come una pietra per non capire. A un complimento più smaccato degli altri, mi ha guardato sorridendo: «You are very kind» ha mormorato. «I’m but fair, Madam»30 ho risposto, prima ancora di accorgermi che essa mi aveva parlato in inglese, ed io le stavo rispondendo per la forza dell’abitudine nella medesima lingua. Victoire è scoppiata a ridere vedendo la mia faccia, e avvicinandosi al mio orecchio ha bisbigliato che nel bel mondo si corre il rischio di sfigurare, se non si è buoni a lanciare un motto in inglese; «ma con lei come maestro» ha aggiunto «non avrò più paura di dire qualche sproposito». Al calar del sipario, per dare agli altri l’impressione di aver parlato fino allora soltanto dello spettacolo, ho scherzato a proposito della Pulzella: ecco una ragazza che non conosce la sua fortuna, aveva trovato due ammiratori e non se n’è neppure accorta. Lo scherzo tuttavia non è riuscito, perché la madre di Victoire ha replicato, con un tono un po’ meno leggero del solito, che spesso anche uno solo è già di troppo. Non riesco a farmi una ragione di un comportamento così freddo; se davvero la brava donna spera ancora di sposare sua figlia, dovrebbe mostrare tutt’altro viso agli uomini che la avvicinano, a meno ch’essa non creda di alzare il prezzo della sua mercanzia col moltiplicare le difficoltà. A ogni modo i miei affari prosperano anche senza il suo aiuto; al momento di andarsene ho aiutato Victoire ad avvolgersi nello scialle, ed essa, di nascosto da sua madre, mi ha regalato un sorriso che lascia ben sperare per l’avvenire.

Martedì, 12 agosto

Il re ha dato oggi al Castello una festa in costume per il compleanno di suo suocero, il duca di Meclemburgo. Fino all’ultimo Schack giurava che il trattenimento sarebbe stato annullato in considerazione della grave ora che il paese sta vivendo, ma così non è stato, e poiché un domestico di palazzo era venuto già da qualche giorno a portarmi un biglietto d’invito, sono stato finalmente presentato alla regina e ai fratelli del re, completando così le udienze protocollari. Va detto a onor del vero che il protocollo è rispettato qui soltanto per abitudine, senza quella passione per la forma che contraddistingue la corte di Vienna e anche, a quanto dicono, quella di Bonaparte. Il re non ama l’etichetta, e i suoi divertimenti sono di un gusto assai familiare, e per di più non troppo dispendioso. Le feste da ballo, grande passione della regina, sono la sola concessione ai divertimenti mondani; i balli di bambini sono in gran voga, e non c’è a Berlino palazzo nobiliare in cui, sull’esempio dato dalla coppia regale, non si invitino periodicamente i rampolli della buona società. Per il resto, a palazzo si gioca poco e nel migliore dei casi a vingt-et-un, dal momento che Federico Guglielmo disapprova le carte; per sfuggire alla noia si fa della musica, e anche il monarca non disdegna di esibirsi al violoncello, sebbene il vero virtuoso di questo strumento fosse il suo predecessore, il Re Grasso, considerato dai competenti uno dei migliori violoncellisti d’Europa. Certo l’austerità di questo regime giova a rimpinguare le casse del tesoro, ma non c’è dubbio ch’esso risponde ancor più alle inclinazioni personali di Sua Maestà; del resto un bello spirito ha osservato giustamente che la moda oggigiorno è di vedere sul trono dei buoni mariti e dei buoni padri di famiglia, piuttosto che dei buoni sovrani, come accadeva in passato.

Il tema del ballo odierno era “Una festa campestre”, e per l’occasione la galleria era stata adornata con frasche e covoni di paglia. A eccezione di coloro che dovevano svolgere un ruolo preciso, già assegnato in precedenza e lungamente provato, gli invitati erano esonerati dall’obbligo di presentarsi in costume, sicché la maggioranza degli ospiti era in abito di corte come me, con parrucca, cipria e decorazioni. Prima che la festa cominciasse sono stato presentato alla regina Luisa, che non si è data troppa pena d’intrattenermi, giacché bruciava palesemente dall’impazienza di andare a travestirsi. Questa sovrana è una biondina sui trent’anni, ancora bella ma non più per molto, come preannunziano il colorito cereo, gli occhi cerchiati, il corpo provato da dieci gravidanze. Benché affaticata dalla vita domestica e dalla routine di corte, ama pazzamente le feste; nelle grandi occasioni è ancora capace di ballare fino all’alba, e i cavalieri non le mancano fra i giovani, eleganti ufficiali della Guardia. Anche in questa occasione il re ha voluto venire incontro al suo capriccio, rifiutando di annullare un trattenimento già annunziato da lungo tempo. «Il rex è troppo buono con me» ha scherzato la regina. «Ieri la mia stanza era così piena di cartoni di Quittel, Michelet, Bibeau e insomma di tutti i sarti di Berlino, che Sua Maestà non ha potuto letteralmente metterci piede per venire a darmi il buongiorno, e gli è mancato il cuore di deludermi!» Il re è stato costretto a sorridere, come non gli accade quasi mai in questi giorni, nonostante la sua naturale bonomia. «Non potrei perdonarmi se ti causassi il più piccolo dispiacere. Se il tuo medico ti permette di ballare, chi sono io per impedirtelo? Inoltre un ballo stanca il corpo, ma riposa la mente, e ti farà certamente meno male che non la lettura del tuo Gibbon o del tuo Werther!» ha esclamato allargando le braccia.

La quadriglia, cui ho assistito insieme alla folla degli invitati assiepati lungo le pareti, mentre al centro della sala sovrani e principi del sangue interpretavano i quadri viventi, è risultata a dire il vero di un effetto piuttosto spettrale. Su tutti i visi si leggeva la preoccupazione per il futuro, mescolata alla fatua convinzione che tale angustia non dovesse in alcun modo trasparire in quel momento e in quel luogo. Il principe Radziwill, travestito da contadino svizzero, ha cantato con bella voce tenorile la “Danza delle vacche”. Il principe Louis Ferdinand, livido in volto, ha ballato in costume da pastore, al suono di uno zufolo; infine la regina, comparendo improvvisamente tra le frasche, travestita da angelo custode, ha augurato al festeggiato un felice inizio della sua vita in Svizzera. Il principe, con cui ho avuto appena il tempo di scambiare qualche parola durante il ballo che ha seguito la mascherata, era schiumante di rabbia. «Eccomi qui a fare il pagliaccio, col cuore gonfio di pena per l’epoca vergognosa in cui viviamo, e pieno di cattivi presentimenti per l’indomani!» «Ma sono poi giustificati, codesti presentimenti?» ho arrischiato, nella speranza che il principe, così provocato, mi avrebbe detto qualcosa che ancora ignoravo. Il calcolo si è rivelato azzeccato, poiché Sua Altezza ha esclamato, in tono indispettito: «Giustificati! Bisogna vedere che cosa s’intende per giustificati! Sapete, mio caro, cosa comunica Lucchesini nel suo ultimo dispaccio? Comunica che lord Yarmouth, dopo aver bevuto insieme a lui parecchie bottiglie del suo eccellente champagne, gli ha confidato la prossima conclusione della pace tra Francia e Inghilterra! E poiché Lucchesini si compiaceva che il governo inglese avesse infine rinunciato a porre come condizione dell’accordo la restituzione dell’Hannover, milord ha ribattuto che il governo di Sua Maestà non vi ha rinunciato affatto, e che Bonaparte stesso ha offerto all’Inghilterra l’Hannover in cambio della pace!». A queste parole debbo aver spalancato gli occhi per la sorpresa, poiché sono fin troppo chiare le implicazioni di una simile offerta. Essa significa che l’usurpatore è pronto a riprendersi, come un padrone capriccioso, la provincia che ha appena regalato al re di Prussia; significa che tutte le assicurazioni di amicizia ch’egli invia quotidianamente a Berlino non valgono la carta su cui sono scritte, e che le truppe francesi non ripartiranno tanto presto dai loro accantonamenti in Germania. Comprendevo ora perché il conte Haugwitz si guardasse intorno con una faccia imbarazzata, facendosi aria col fazzoletto profumato e cercando vanamente di apparire imperturbabile come sempre; e comprendevo anche il silenzioso rimprovero che si leggeva su tutti i volti: tu, proprio tu ci hai sempre assicurato che non vi sarebbe stata la guerra, e ora! Soltanto la regina sembrava ignara della costernazione generale; guardandola ballare nel suo travestimento da angelo, ridendo a gola spiegata alle tenere sciocchezze che senza dubbio i suoi cavalieri le sussurravano all’orecchio, non era difficile comprendere perché in società, e soprattutto fra i giovani ufficiali, sia così diffuso un sentimento di devozione cavalleresca nei suoi confronti, e perché un suo sorriso, o uno sguardo dei suoi begli occhi ridenti, siano il più grande favore per cui essi competono.

Poco prima che fosse servita la cena, la festa è stata interrotta da un incidente che avrebbe potuto verificarsi soltanto alla corte prussiana. Il re, asciugandosi il sudore col fazzoletto dopo l’unico ballo in cui suo malgrado si era lasciato trascinare, parlò all’orecchio della regina; quest’ultima andò a parlare egualmente all’orecchio della gran maggiordoma di corte contessa Voss, il cui giudizio è inappellabile in materia di cerimoniale, e pochi istanti dopo fecero irruzione nella sala una dozzina di bambini. Oltre ai figlioletti della coppia regale, venuti a dare il bacio della buonanotte ai genitori, la masnada scatenata comprendeva i figli del principe d’Orange e dei principi Radziwill; tutti quanti erano travestiti, e il contrasto fra la rumorosa allegria di questi bambini biondi, i costumi rutilanti delle dame e dei cavalieri che partecipavano al ballo, l’austerità tabaccosa dei dignitari assiepati lungo le pareti offriva uno spettacolo degno di un carnevale italiano. Fra tutti solo il principino ereditario si sforzava di esibire un sussiego più adeguato al suo rango che ai suoi dieci anni; vestito, come già domenica a Potsdam, di una divisa identica a quella del re, e insignito di un’alta decorazione, appariva impegnato a imitare i modi del padre, cui somiglia del resto non poco nei tratti del viso. Ma tanto i principini più piccoli, vestiti alla ussara e coi capelli lunghi e inanellati come bambine, quanto le principessine, in costume da venditrici del mercato, con piccole gerle sulle spalle e cappelli di paglia, si comportavano come si addice alla loro età, ignorando allegramente il proprio rango e il luogo in cui si trovavano, senza che alcuno se ne mostrasse scandalizzato. Anzi il re e la regina contemplavano teneramente quella che essi chiamano «la nostra piccola allegra banda» e credo che avrebbero permesso ai bambini di arrampicarsi sulle poltrone, di tirare il codino ai lacchè e di assaggiare lo champagne, se i precettori non avessero insistito per riportarseli via.

«Sono così felici!» ha mormorato il re, rivolto alla contessa Voss; poi, credendo forse di scorgere uno sguardo di disapprovazione negli occhi di quel dragone, ha aggiunto: «Mi pare di poterlo ben dire, loro non immaginano tutte le pene che li aspettano su questa terra». Proprio in quel momento uno dei bambini è tornato indietro di corsa e si è buttato nelle braccia della regina. «Mamma! Fritz dice che tu e papà non potete venire a dire le preghiere con noi prima di dormire, ma io gli ho detto che non è vero!» «Altezza, non questa sera» ha cominciato severamente la contessa Voss, ma la regina l’ha interrotta con bel garbo. «Oh, la prego, cara Voss!» ha implorato sorridendo; a dire il vero non l’ha chiamata proprio così, ma con un soprannome, o una storpiatura del suo nome, che non m’è riuscito d’intendere. Il re si era avvicinato a una finestra e guardava fuori nel buio, ma il bambino è andato a tirarlo per la manica. «Papà, è vero che tu e mamma verrete a dire le preghiere con noi?» Il re ha guardato la contessa Voss, poi la regina; anche una decisione di quel genere pareva al di sopra delle sue possibilità. «Tu che cosa dici?» ha mormorato, rivolto alla moglie. «Oh, per piacere, per piacere, mamma!» ha esclamato il bambino. «Altrimenti non sarai più la mia Mignana!» Questa enigmatica minaccia ha sortito il suo effetto, perché la regina ridendo ha preso in braccio il piccolo ussaro, e rivolta alla contessa Voss ha esclamato, non però nel tedesco che si parla a corte, ma in quello corrotto che usano qui i contadini e i servitori: «Che farci? Lei lo sa, cara, “dis Luissch’ is a Nari!”»; il che significa, più o meno, “questa Luisa è una matta”; e con questa bella giustificazione si è diretta alle stanze dei bambini, completamente immemore del ballo interrotto.

Come molti altri, ho lasciato il salone e ho seguito il corteo fino all’appartamento dei principini; ma non mi sono inoltrato fino alle stanze da letto, e ho atteso il ritorno delle Loro Maestà visitando l’immensa stanza dei giochi. Qui ho potuto ammirare, oltre a bambole, pupazzi meccanici, cavalli di legno, schiaccianoci e carillons, innumerevoli libri illustrati; in ogni pagina un lappone, un mandarino, un orso, un calzolaio, un principe, tutto ben fatto, a colori vivaci, e con una piccola didascalia a fianco, magari in versi. Anche in America si potrebbero fabbricare libri così; sarebbero a buon mercato, e si darebbe vita a un’industria nuova, che non esiste nemmeno in Inghilterra. Ma tutto questo non è ancora nulla rispetto all’esercito di soldatini di stagno, proprietà personale del principe ereditario: scalpitanti squadroni di ussari, verniciati di rosso e oro, battaglioni di fanteria in marcia con le bandiere al vento, batterie di artiglieria in posizione, coi serventi affaccendati intorno alle palle e ai barili di polvere. Il talento degli artigiani tedeschi è insuperabile in questo campo, e le ordinazioni della corte berlinese debbono aver fatto la fortuna di più di un bottegaio di Norimberga. Con questo esercito, in parte schierato in parata su un grande tavolo, in parte acquartierato in bell’ordine dietro i vetri di un armadio, il principino impara per tempo a familiarizzarsi con l’arte che gli darà il pane, il giorno in cui succederà a suo padre sul trono. Ma certo i tempi sono assai cambiati rispetto a quelli del grande Federico, che all’età di dieci anni si vide regalare da suo padre una compagnia di bambini, equipaggiati di uniformi e moschetti su misura, con l’ordine di farli esercitare tutti i giorni in piazza d’armi!

A mezzanotte, finalmente, è stato servito il souper, per forse quattrocento persone, distribuite fra dieci o dodici tavole; il servizio era discretamente sontuoso, con un valletto gallonato ogni quattro invitati e vasellame d’argento a tutte le tavole. La prima portata è stata tagliata alla tavola reale dai generali von Elsner e von Lecoq, in piedi, e le porzioni distribuite dai ciambellani e dalle dame d’onore; ma appena i sovrani hanno bevuto il primo bicchiere, che secondo l’etichetta di corte è sempre servito immediatamente dopo la prima portata, tutti questi camerieri d’alto rango si sono affrettati a prendere posto alle tavole adiacenti. Solo allora la conversazione, dapprima assai impacciata, si è soffermata più liberamente sulla situazione politica, quasi che il sollievo per aver assolto all’impegno preso portando felicemente a termine il ballo avesse liberato gli invitati dalla maschera di frivolezza che s’erano imposti fino a quel momento. Ho così potuto constatare che il desiderio di battersi suscitato nel pubblico berlinese dall’evidente malafede di Bonaparte risulta alquanto temperato nelle stanze del palazzo: i più intimi consiglieri di Federico Guglielmo non nascondono la speranza che tutto possa in qualche modo accomodarsi senza ricorrere al più disperato di tutti i mezzi, la guerra.

Uno di costoro è l’amico intimo del re, generale von Zastrow, bell’esemplare in fede mia di ufficiale politique. La sua conversazione tradisce l’uomo istruito sì, ma pedante, ma di vedute limitate, soffocato dall’accumulo delle pratiche e incapace di elevarsi al di sopra dei dettagli del servizio per raggiungere una visione politica superiore; l’uomo, insomma, che ha respirato troppo a lungo la polvere degli incartamenti anziché quella dei campi di battaglia. Egli mi ha confermato che il riarmo dell’esercito è dovuto all’ultimo dispaccio di Lucchesini, il cui contenuto è stato giudicato da tutti profondamente allarmante. Come se non bastasse, i giornali francesi annunciano la chiamata alle armi di cinquantamila uomini della leva di quest’anno, affannandosi ad assicurare che si tratta di un’operazione per null’affatto straordinaria, e che senza dubbio gli affari del continente si arrangeranno; ora ognun sa, per l’esperienza degli anni passati, quale partito si debba trarre da simili assicurazioni della stampa francese. Eppure il generale ha una gran voglia di credere che Lucchesini si sia ingannato, o peggio sia stato deliberatamente fuorviato dall’Inglese, a forza di champagne, per guastare le eccellenti relazioni tra Francia e Prussia. «Se davvero l’imperatore fosse capace di trattare la nostra provincia dell’Hannover come un pegno da offrire all’Inghilterra in garanzia della sua buona volontà, sarei il primo a dichiarare sacrosanta la guerra contro la Francia» ha dichiarato a bassa voce, epperò ha subito aggiunto più forte: «ma l’ambasciatore francese, M. de Laforest, assicura che le voci giunte qui a questo proposito sono soltanto falsità, e io non vedo perché non dovremmo credergli; dopo tutto non è sempre vero che in vino veritas!». Principio eccellente; ma è fin troppo comprensibile che per uomini come il generale von Zastrow la prospettiva di una guerra appaia intrinsecamente sconveniente, se confrontata con i mille vantaggi che la pace assicura a loro e ai loro amici. Ogni parola rivela in lui quello spirito nefasto dei corridoi e delle anticamere, che di fronte alla minaccia di Bonaparte non sa immaginare altro sistema se non quello seguito in tutti questi anni dal gabinetto prussiano: e cioè di non fare niente, sperando che qualche miracolo impreveduto, un assassinio, una rivoluzione, la folgore del cielo, venga a liberare l’Europa dall’orco, senza che la Prussia debba scomodarsi.

La mancanza di entusiasmo con cui questi signori guardano alla possibilità di una guerra non è affatto in contraddizione con la scarsa simpatia che essi nutrono per i francesi. La ragione profonda di ciò mi è stata rivelata senza volerlo da un altro signore che si trovava seduto accanto a me, il ministro von Reck. Costui è un vecchietto magro, con la bocca piegata in una strana smorfia che lo fa assomigliare a una vecchia donna, e non nasconde la speranza che Lucchesini, a Parigi, riesca dopo tutto a salvare la pace: non tanto perché egli abbia in simpatia Bonaparte, che anzi teme come il fuoco, ma perché lo allarma l’atteggiamento con cui molti, soprattutto fra i giovani ufficiali, guardano al futuro. «Non si sente parlare d’altro che di risveglio nazionale, di guerra nazionale» mi ha soffiato all’orecchio mentre prendevamo il caffè, alitandomi in faccia il suo fiato cattivo di vecchio. «Nazione: non sembra a lei che questa parola abbia un suono giacobino?» La sua avversione per la nuova Francia non gli impedisce del resto di testimoniare il più grande rispetto per Laforest; egli anzi non è alieno dal giustificare l’indignazione dell’ambasciatore, che ha avuto parole di fuoco contro l’ingratitudine della corte prussiana, colpevole di aver ordinato il riarmo dell’esercito senza usargli la finezza di avvertirlo. Grazie alla loquacità del ministro ho appreso che Laforest sarà a pranzo domani da Haugwitz, e che si è impegnato a non spedire a Parigi il suo rapporto prima di quel colloquio, nel corso del quale, presumibilmente, il ministro si adopererà a dissipare la cattiva impressione prodotta dall’armamento prussiano. Così, dopo tutto, il futuro resta quanto mai incerto, e se le informazioni di Lucchesini rappresentano senza alcun dubbio un rude colpo per il sistema del gabinetto, non si può escludere senz’altro la possibilità di una rappacificazione dell’ultimo minuto. Comincio a capire, in verità, le ragioni per cui a Washington si trovano così esasperanti le oscillazioni della politica prussiana!

Mercoledì, 13 agosto

Quest’oggi, al caffè, ho discusso con Schack delle notizie che arrivano da Londra, dove la firma del trattato fra lo zar e Bonaparte ha provocato il ribasso dei titoli. «Tanto peggio per loro» ha osservato il maggiore, alzando le spalle. «Io compro cavalli inglesi, ma non ho mai pensato di comprare titoli inglesi!» «E fate male, mio caro Schack. Non c’è niente di più solido di un buon pacchetto di azioni delle Indie; vi assicuro che la Compagnia pagherà ancora i dividendi, quando Bonaparte e Alessandro saranno sepolti e dimenticati!» Ma la vera novità è che la malattia di Fox si è improvvisamente aggravata, sicché la questione del giorno è se egli rassegnerà soltanto il suo ufficio in Downing Street, o il suo ufficio su questa terra. Sa il cielo come sarà accolta a Washington questa notizia, e se il partito democratico non ne trarrà giovamento per disfare in un’ora tutto ciò che è stato fatto così faticosamente negli ultimi mesi. «Il buono» ha osservato Schack, additandomi un titolo a fondo pagina «è che in tempi siffatti, l’ultima preoccupazione degli inglesi dev’essere quella di farci la guerra, e infatti qui si assicura che il ministro prussiano a Londra, il barone Jacobi, non ha affatto l’intenzione di fare i bagagli, e che un plenipotenziario inglese, forse lord Morpeth o lord Moira, sarà quanto prima accreditato a Berlino per negoziare la pace.» «Mi pare che sia tempo!» ho commentato. «Veramente questa dissennata guerra è stata sul punto di precipitar la Prussia fra le braccia di Bonaparte, e gl’inglesi non ammetteranno mai troppo presto che il loro puntiglio per quel disgraziato Hannover ha corso il rischio di perderli.» Poi, giacché desideravo rivedere il principe Louis e discutere con lui, più tranquillamente di quanto non avessi potuto fare ieri, ho chiesto a Schack se non sapeva dove avrei potuto trovarlo. «Che giorno è oggi? Mercoledì?» ha mormorato il maggiore; poi un largo sorriso si è disegnato sulla sua faccia. «Volete venire con me, mio caro Pyle? Vi prometto di condurvi nel salotto più curioso del mondo, e là troveremo senza fallo anche Sua Altezza.»

Così ci siamo avviati verso il Gensdarmenmarkt, e strada facendo Schack mi ha informato circa la nostra destinazione. «La padrona di casa è una zitella ebrea, che abita con i genitori nella Jägerstrasse, e riceve la società più brillante di Berlino.» «Ma, caro maggiore» ho obiettato «lei vuol prendermi in giro un’altra volta!» «No, mio caro, è inutile che si faccia delle illusioni, questa signorina da cui la conduco non è affatto di piccola virtù come lei ha subito pensato, anche se qualche anno fa è quasi riuscita a farsi sposare dal giovane conte Finkenstein; la famiglia l’ha salvato appena in tempo. La nostra Rahel ha consacrato la sua esistenza agli studi, ed è una piccola femme savante, circondata da una corte di letterati e uomini di scienza.» «Ma non dovrò mica lasciarmi presentare i suoi genitori?» ho indagato. «Le pare» mi ha rassicurato Schack «che benché ebrei, avrebbero così poco garbo da importunare i visitatori della figlia? Al contrario; essi sono ben contenti di veder entrare nella propria casa dei cristiani così autorevoli, e se ne restano zitti nei loro appartamenti, per paura di rompere l’incantesimo.» Poiché ero ormai avvezzo alle stravaganze del gran mondo berlinese, ho creduto a ogni parola del mio compagno, e ho fatto bene, poiché tutto ciò che mi stava dicendo era la pura verità: la buona società, sempre avida di novità piccanti, ha davvero eletto questa piccola ebrea a protagonista delle sue serate. Il successo mondano peraltro, mi ha avvertito Schack mentre salivamo le scale, non ha soddisfatto fino in fondo la sua brama di essere accolta da pari a pari nell’aristocrazia; pretesa un po’ ridicola, ma che la povera Rahel spera ancora, nonostante l’età non più verde, di poter realizzare grazie a qualche portentoso matrimonio.

Entrati in casa, siamo stati accolti da un domestico che ci ha introdotti cerimoniosamente, e ci ha preceduti attraverso tutto l’appartamento, in cui le luci erano spente e non si vedeva anima viva; giunti davanti a una scala interna, si è inchinato e ci ha lasciato il passo. «Non si sorprenda di nulla!» ha bisbigliato Schack, invitandomi a precederlo su per la scala. Questa conduceva in una spaziosa mansarda, arredata lussuosamente, anche se poco illuminata. Parecchie persone erano già riunite attorno alla padrona di casa, che ci è venuta incontro e mi ha dato la mano da baciare con una disinvoltura che ha messo fine alle mie apprensioni. Il suo aspetto fisico non è in verità troppo incoraggiante: è una bruna un po’ pelosa, con un gran naso ereditato dai suoi avi di Giudea, e una mascella prominente che farebbe la felicità di un Lavater. Ignorando allegramente Schack, come si fa con amici di vecchia data e coi quali si sa di potersi permettere tutto, mi ha fatto sedere nella poltrona accanto alla sua, ed io mi sono chiesto con imbarazzo di che cosa avrei mai potuto parlare con lei; ma per fortuna la questione si è risolta da sé, giacché come una vera zitella non sta mai zitta. «Come mi piacerebbe che lei mi parlasse dell’America!» ha dichiarato sospirando; ma doveva trattarsi di un desiderio del tutto platonico, giacché ha subito proseguito raccontandomi l’idea che si era fatta del mio paese attraverso i libri che aveva letto, senza mai lasciarmi il tempo di interloquire. Infine mi ha chiesto come trovassi Berlino; per conto suo, le sembrava una città così noiosa! Immagino che per una donna possa esserlo, ma ho avuto la cortesia di non dirglielo.

Proprio in quel momento è entrato nella mansarda il principe Louis Ferdinand, in compagnia di Madame Wiesel. Tutti i presenti si sono alzati in piedi, ma il principe ci ha pregati di restare comodi; e a Rahel, ch’era accorsa a complimentarlo, ha detto familiarmente: «Mia cara piccola, avevo proprio voglia di venire a rifugiarmi qui da voi, stasera!». Questo tono disinvolto non conteneva neppure un sospetto di quella condiscendenza, che troppo spesso rende spiacevole la conversazione dei grandi. Non che il principe trascurasse le forme indispensabili in società, soprattutto in presenza di signore, o che scadesse nella volgarità, ma nulla nella sua condotta lasciava pensare che egli si ritenesse da più degli altri ospiti; e se si rivolgeva in quel modo alla padrona di casa, era evidente che lo faceva per abitudine, come un amico di lunga data, e che si aspettava di sentirsi rispondere sullo stesso tono. Avanzando nel cerchio degli ospiti, si è guardato intorno alla luce incerta delle candele, poi ha esclamato: «Jette!». Questa esclamazione si rivolgeva a una giovane signora, che si era agitata non poco sulla sua poltrona quando il principe era comparso sulla porta. Sua Altezza le si avvicinò e le baciò affettuosamente la mano; qualcuno si alzò per lasciar libera la poltrona accanto a quella di Jette, Rahel ne accostò un’altra, dove sedette Pauline, e ancora una per sé. «Cara Jette! Come stanno i bambini?» s’informò subito Pauline. «Bene, grazie a Dio!» rispose l’interrogata. «Sai, Louis», proseguì rivolta al principe, «Blanche tossiva la notte, ed ero già spaventata, ma ora è passato.» Questo scambio di battute non mi parve degno di nota sul momento, eccetto per la straordinaria dimestichezza di cui tutti quanti, lì dentro, sembravano dar prova col principe; avrei appreso in seguito che i bambini di cui si parlava sono appunto suoi, e che Henriette Fromm, chiamata da tutti Jette, è stata la sua amante per tre o quattro anni, prima che entrasse in scena Pauline. Ma il sale della situazione sta nel fatto che le due donne sono intime amiche, e spesso si incontrano proprio qui, nel salotto dell’ebrea; non solo Henriette non è affatto all’oscuro della nuova passione del principe, ma è disposta a sacrificarsi per la felicità dell’amica, la quale a sua volta si sforza di consolarla, con forse minor sincerità, per ciò che essa ha perduto.

Rahel, cui quella conversazione domestica non garbava troppo, non si è fatta scrupolo di interromperla. «Amici!» ha esclamato. «Ora noi siamo qui seduti a prendere il tè» e indicò il tavolo su cui scintillavano le porcellane, e i vassoi carichi di biscotti e panini imburrati. «Siamo qui» riprese, «uomini e donne, in tutta quella libertà che un’antica amicizia può offrire, a godere ciascuno della conversazione e dell’intelligenza degli altri. Ma può darsi che fra qualche giorno, noi povere donne ci ritroviamo qui da sole, a cercar di scacciare, parlando di ricette e di sciroppi per la tosse, l’angoscia per gli amici lontani e in pericolo. Agli amici che stanno per partire» concluse, guardandosi intorno; e veramente nel circolo degli ospiti, che s’era fatto silenzioso, sedevano diversi ufficiali, fra cui Schack; ma ognuno comprese ch’essa pensava soprattutto al principe, e da lui attendeva una risposta: «a questi amici io chiedo se è vero quel che si dice nel Wallenstein: che “la guerra è terribile come i flagelli del cielo, eppure è buona anch’essa, se è voluta dal destino”». «Ma nel Wallenstein si dice anche: “Questi non sono affari che riguardino le donne”» la interruppe dolcemente Henriette. Il principe, che dapprima aveva accavallato le gambe con la più grande disinvoltura di questo mondo, s’era rifatto serio mentre Rahel parlava; ora tuttavia rise, ma s’accorse che quella risata umiliava l’amica. «Mia cara» disse in tono commosso, «se questa guerra, che il destino certamente vuole, non ci sarà negata dalla nequizia o dalla sprovvedutezza degli uomini, il ricordo di serate come questa sarà fra i più cari che io, e questi signori, porteremo con noi al campo. Ma io credo che ci sarà negata» aggiunse amaramente. «Voi parlate di Schiller; ebbene, guardate come il poeta ha saputo anticipare il dramma dei nostri tempi, quasi ch’egli avesse veduto i soldati di Bonaparte in Germania, e la turpitudine della corona imperiale sul suo capo, e soprattutto quell’incessante dubitare che corrode la nostra risoluzione. Quando Max Piccolomini chiede se sia una buona guerra, quella che si prepara contro l’imperatore, mi par di sentire non dico Haugwitz o gli altri traditori, che sanno fin troppo bene dove si trovi il loro sudicio interesse, ma tanti onesti Buttler e Pappenheim del nostro esercito e della nostra monarchia, che non sanno vedere al di là del più meschino tornaconto quotidiano.»

«Tanti!» ha esclamato Rahel. «Son forse tanti, e io non li conosco, ma mi son parsi più numerosi quelli che in teatro si alzavano in piedi a gridare il loro entusiasmo; e sembrava che ognuno di loro volesse ripetere al re, come la moglie di Wallenstein al marito esitante, “È questo il tempo!”» «Su questo non c’è dubbio» ha ammesso il principe. «Il momento è giunto, presto sarà troppo tardi. Napoleone ha colto lo spirito del più grande movimento popolare del nostro tempo, la Rivoluzione francese. Lo spirito lo ha protetto finché Napoleone lo ha seguito; chi allora ha voluto provarsi a fermarlo, era destinato a esser schiacciato. Ma ormai è chiaro a tutti che egli ha preferito tradirlo, inseguendo solo il vantaggio dei familiari, il prestigio e la vendetta, da vero còrso.» «Vostra Altezza crede che vi sia molta differenza fra lui e i francesi?» ho chiesto, colpito da questa idea. «Si vede che per voi inglesi, o americani, i latini sono tutt’uno!» ha esclamato Rahel, prima che il principe potesse rispondere. «No», ha proseguito l’ebrea, «Bonaparte è diverso dai francesi, non ha il loro carattere frivolo e leggero: è un italiano, calcolatore e freddo. Governa i francesi proprio perché non è uno di loro; è loro superiore e li dirige come un burattinaio, sfruttando la loro vanità e la propria forza. E per amor suo i francesi, con tutta la loro disinvoltura puramente di superficie e la loro corruzione profonda, hanno rinunciato con un’alzata di spalle a tutto ciò che avevano conquistato, a quella libertà che era loro costata tanto sangue, ed ora costringono gli altri popoli a ripagare col sangue la propria!»

A queste parole il principe Louis ha sospirato. «Qui, appunto, sta la ragione del nostro disaccordo. Non tutti i popoli hanno la fortuna di ricevere dai loro sovrani il permesso di versare il proprio sangue. Chi di noi non spera che l’esercito sia chiamato a marciare per difendere la libertà della Germania, anzi di tutta l’Europa? Ma purtroppo non è più il tempo di mio zio. Allora era la Prussia a imporre la guerra agli altri, ogni volta che il suo onore o la sua prosperità erano minacciati; oggi, quando il nemico ci entra in casa senza chiedere permesso, lo si prega educatamente di non trattenersi troppo a lungo. Quando ero bambino mi raccontavano che durante la crisi del ’78 l’imperatore Giuseppe visitò la sua armata al campo, e disse ai suoi generali, per bravata, che desiderava la guerra, ma che non credeva di averla. “Chi vuole scommettere?” chiese. “Ma chiunque scommetterebbe” rispose il maresciallo Laudon, sempre di cattivo umore. “Non vuol dir niente, chiunque” ribatté spavaldo l’imperatore. “Ma io, per esempio” disse il maresciallo Lacy. “Quanto?”chiese l’imperatore, che si aspettava una risposta di una ventina di ducati. “Duecentomila fiorini” disse il maresciallo. L’imperatore divenne rosso e tacque, e tutti sentirono che quella lezione era stata ben meritata. Una settimana più tardi, Federico era in Boemia alla testa di ottantamila uomini… Ma oggi, se qualcuno mi dicesse che fra un anno saremo ancora in pace, non sarei disposto a scommettere un luigi per smentirlo!» «Eppure» ho obiettato «il richiamo dei riservisti è confermato, gli ufficiali partono per raggiungere i loro reggimenti, si acquistano cavalli e farina!» Il principe ha fatto una smorfia. «Vogliono far paura a Bonaparte, ma non troppa, come se fosse possibile prendersi gioco di lui con simili mezzi. Non appena alzerà la voce, diranno di aver scherzato. Già oggi Berlino è molto più tranquilla di ieri e dell’altro ieri; i giornalisti hanno avuto ordine di non permettersi nessuna riflessione, e i militari di non occuparsi di politica!»

«Ma la pace» ha interloquito timidamente Henriette «non è forse il bene più prezioso? Così, almeno, sente e sa in cuor suo ogni donna!» «La pace» ribatté il principe recisamente, ma senza asprezza «è il bene più prezioso; ma l’illusione della pace è ciò che rischia di perderci. Troppi di noi, Jette, sottovalutano ciò che la guerra di Napoleone può ancora significare per il mondo, senza accorgersi che i vecchi tempi non valevano molto e che i nuovi non sono compiuti; si sente dire che anche lui morirà un giorno, e la sua opera si disferà da sola; credo il contrario, a Napoleone seguirà un altro Napoleone. Non è più il tempo in cui il mondo per migliorare poteva accontentarsi della medicina, oggi occorre la chirurgia, e non importa più quale sia la mano che impugna il bisturi. Lo spirito della Rivoluzione creerebbe un altro Napoleone nello stesso momento, forse in Russia.» «In Russia!» ha esclamato Rahel. «In Russia, o in Cina, non è questo che importa; ciò che importa è che nel momento stesso in cui noi alziamo la spada contro Napoleone dobbiamo sentire profondamente che non siamo chiamati a batterci contro la Rivoluzione e il suo spirito universale, ma al contrario che ci battiamo per quello spirito, che egli ha tradito; altrimenti ne saremo divorati.»

Non avevo mai compreso, prima d’oggi, quanto profondamente lo spirito giacobino abbia impregnato gli europei, e quanto Bonaparte abbia fatto girar loro la testa. Se davvero questa guerra si combatterà, mi accadde di pensare, l’Europa che ne uscirà non sarà comunque più quella di prima; e proprio allora il principe, i cui pensieri dovevano aver seguito il medesimo corso, volle esporre come a suo giudizio si sarebbero dovute regolare le potenze vincitrici, una volta che Bonaparte fosse stato sconfitto. «Ciò che è perito non può essere risuscitato dalla tomba, ma ciò che è sepolto vivo deve essere riportato alla luce» esclamò. «Converrebbe, a esempio, non lasciar scomparire il nome di un popolo, come quello dei polacchi, che esiste veramente in lingua, tradizione e costumi; la Prussia che dispone della capitale potrebbe annettere il titolo di diritto, così la Russia quello della Lituania, l’Austria della Galizia. Non si deve solo liberare la Germania dalle truppe francesi, e poi consolidare per sempre tutto ciò che si è creato nel frattempo. Non dobbiamo erigere di nuovo la mummia del vecchio impero che Federico derise con pochi reggimenti, con le sue città imperiali e tutte le sue ridicolaggini cerimoniali; il più grande Stato tedesco, la Prussia che adesso ha più sudditi dell’Austria, deve imparare a guidare la Germania, ma è necessario che l’unione dei tedeschi sia garantita da un elemento spirituale vivo, forse un nuovo Ordine Teutonico, non solo un fisso elemento giuridico come la solita corte d’appello imperiale!» Il disgraziato imperatore tedesco, che Bonaparte ha tramutato da un giorno all’altro in imperatore d’Austria, è oggetto qui a Berlino di feroci sarcasmi. «È come un ufficiale che si lascia mettere a riposo a mezza pensione!» ha dichiarato Schack. Tutti hanno riso a questa uscita, ma il principe non intendeva lasciarsi togliere la parola: già profetizzava ciò che sarebbe accaduto al sistema degli stati sotto il soffio dello Spirito universale, attribuiva con sicurezza un destino a Russia, Spagna, Turchia, tanto che stavo per chiedergli se non aveva in serbo una profezia anche per gli Stati Uniti; ma Pauline mi ha preceduto, chiedendo soavemente: «E l’Italia?». L’oratore si è arrestato interdetto, poi ha sorriso amabilmente: «L’Italia divisa si svilupperà in bellezza, là la famiglia di Bonaparte magari riuscirà ad attecchire». «E così» ha concluso Rahel «vedremo se Napoleone e i suoi fratelli sapranno governare i loro compatrioti così bene come hanno governato i francesi!»

La compagnia si è sciolta piuttosto tardi, e poiché non avevo voglia di andare a dormire mi ha punto il desiderio di fare una visita alla Jerusalemerstrasse. Mentre le campane del Duomo francese suonavano la mezzanotte, ho attraversato a piedi il Gensdarmenmarkt, e pochi minuti dopo sono giunto all’indirizzo ben noto. Qui il pubblico era più numeroso della volta scorsa e la sala era piena di fumo; poiché non avevo più in tasca nemmeno uno scudo, ho dato un federico d’oro all’uomo che mi aveva aperto il portone, pregandolo di volermelo cambiare, e di mandare intanto a chiamare Lenchen. Il portinaio mi fece accomodare in una sala separata, promettendo che mi avrebbe servito; di lì a poco infatti Lenchen comparve sulla porta, in un déshabillé reso ancor più malizioso dal suo sorriso birichino. «Il signore, allora, è rimasto soddisfatto!» esclamò accostandosi a me, e guardandomi spudoratamente negli occhi. Voleva sedersi, ma la avvertii che preferivo passare direttamente in camera; era già aggrappata al mio braccio quando all’improvviso mi lasciò, corse con un grido verso la tavola e, appoggiato il piede su una sedia, si scoprì in fretta la gamba sotto la luce del candeliere a muro. Senza indugio la raggiunsi e quando fui presso di lei vidi che aveva catturato con due dita una pulce e la schiacciava fra le unghie, con un’espressione di disgusto che involgariva il suo faccino dipinto, mentre con l’altra mano si grattava furiosamente.

Mi inginocchiai e baciai il piccolo segno rosso del morso che spiccava sopra l’orlo della calza. La smorfia di Lenchen si mutò in un sorriso; allungò le mani verso di me, e mi sussurrò che non c’era affatto bisogno di salire in camera; anche lì nessuno sarebbe venuto a disturbarci. Ma si sbagliava, perché proprio in quel momento ritornò l’inserviente, e mi disse che il mio federico calava di due grani; gli risposi che me lo portasse indietro, perché non credevo che calasse. Lenchen, imbronciata, sedette su una poltroncina, massaggiandosi là dove la pulce l’aveva morsa; l’uomo ritornò con la moneta, e mi parve che non fosse la stessa, anzi questa era visibilmente limata, mentre quelle che mi aveva dato il mio banchiere erano nuove. «Come!» disse allora Lenchen, saltando in piedi, e affrontando minacciosamente l’uomo. «Ti pare forse che il signore debba venir qui a spendere delle monete limate?» Il suo tono era così bellicoso che non potei fare a meno di ridere, soprattutto considerando la sua piccola statura in confronto al portinaio. «Basta, basta» dissi, per non fare storie; intascai la moneta e ne porsi un’altra, facendo verificare all’uomo e a Lenchen che era buona. Partito quel seccatore, tornai a fare quel che stavo facendo prima, cioè a consolare Lenchen per la sua morsicatura; e lo feci così bene ch’essa rovesciò il capo all’indietro e cominciò a gemere. Sospirava con tanta autenticità che avrei scambiato la sua simulazione per un piacere genuino, se non sapessi per esperienza che le ragazze più pregiate, in simili luoghi, sono proprio quelle che meglio sanno simulare il trasporto, e dare un’apparenza di libertà al loro commercio. Appoggiandosi con la mano alla parete, per non cadere, Lenchen cercò con l’altra mano fino a trovare il canapè, e vi si lasciò andare, attirandomi su di sé mentre verificava, con la mano ora rimasta libera, se fossi già in condizione di godere di lei; la verifica dovette soddisfarla, poiché mormorò: «Come?» in tono dolcemente interrogativo. Tanta semplicità finì di conquistarmi; «così» risposi, ed essa si dispose nella posizione più adatta ad accogliermi. A cose fatte, mi venne da ridere. «Per terra, nella vasca da bagno, e ora sul canapè; forse un giorno riuscirò a venire a trovarti nel tuo letto!» scherzai. La ragazzina si mise anch’essa a ridere, e così accogliemmo ridendo anche il portinaio, venuto finalmente a portarmi i miei cinque talleri.

Giovedì, 14 agosto

Oggi ho avuto l’occasione di rinnovare la mia conoscenza con l’esercito prussiano, e di stringere familiarità con un’altra istituzione fra le primarie di questo regno, l’Università; e ho trovato la seconda più bellicosa del primo, ciò che del resto può apparire sorprendente solo a un osservatore superficiale. Stamattina prendevo la cioccolata, chiedendomi se non fosse il caso di andare a porgere i miei rispetti al ministro Haugwitz e cercar di cavarne qualche notizia sulle intenzioni del gabinetto prussiano, quando è entrato nel caffè il tenente von Suckow insieme a un altro ufficiale, che mi ha presentato come il capitano von Pannwitz, comandante della sua compagnia. I due ufficiali si sono seduti al mio tavolo e il capitano ha insistito per offrirmi una birra, e poi un’altra, e infine un bicchierino di schnaps, ciò che a quell’ora mattutina mi ha messo in uno stato di placidità del tutto innaturale. Il capitano von Pannwitz è un uomo di una certa età, alquanto corpulento e di umore gioviale; vive da scapolo ed è sufficiente osservarlo per accorgersi che l’amministrazione di una compagnia consente al suo proprietario delle belle economie. Quando ho rifiutato un secondo bicchierino, si è informato dove avessi intenzione di pranzare, e poiché non avevo ancora preso disposizioni mi ha invitato a pranzare con lui e con gli altri ufficiali della sua compagnia al posto di guardia del Castello, beninteso a sue spese. Questo posto è il più importante di Berlino; è comandato da un capitano e comprende un tenente, un sottotenente, un alfiere, un cadetto, due caporali istruiti nelle pratiche d’ufficio e in possesso di una bella calligrafia, e numerosi soldati. Tutta questa gente, a eccezione dei soldati semplici, in virtù di un’usanza assai antica pranza e cena a spese del capitano, ciò che costituisce per quest’ultimo un esborso non indifferente. Come si può immaginare, la qualità dei rinfreschi offerti dall’ospite varia secondo le disposizioni di ciascuno. Molti non intendono affatto sopportare grossi sacrifici per nutrire un così gran numero di giovanotti, che hanno tutti un appetito formidabile; altri, al contrario, spendono da re, tanto per la qualità quanto per la quantità dei piatti. Il capitano von Pannwitz, per fortuna, a quanto mi sussurrò il tenente mentre attraversavamo il ponte del Castello, apparteneva a questa seconda categoria. Al nostro arrivo, la guardia era già riunita nella via Larga e non si attendeva che l’arrivo del cadetto mandato a prendere la bandiera del reggimento a casa del generale: il quale, per una di quelle bizzarrie che mi paiono piuttosto frequenti nell’esercito prussiano, è autorizzato a conservarla a casa propria. Finalmente questo drappo glorioso è arrivato, e con mio grande divertimento mi sono accorto che ne restava soltanto l’asta, cui non era più attaccato neanche un brandello di stoffa: la bandiera, infatti, era stata completamente sbrindellata dalle palle nemiche nel corso di innumerevoli battaglie. Anche così peraltro lo stendardo, che non doveva essere meno lungo di otto piedi, costituiva un peso non trascurabile per un ragazzino di tredici anni, e il cadetto barcollava sotto il carico.

Il corpo di guardia si trova nella corte esterna del Castello, in un seminterrato o per meglio dire in cantina, giacché bisogna scendere una ventina di scalini per raggiungerlo. Il clima in questi giorni si è volto al fresco, e a quella profondità non faceva affatto caldo, sicché ho constatato con piacere che l’immensa stufa di porcellana era accesa; un soldato specialmente addetto a questo servizio, e cui spetta il pomposo titolo di calefactor, si affaccendava già al suo sportello. Poiché era passato mezzogiorno, la prima preoccupazione di tutti è stata quella di apparecchiare la tavola; e la più gioiosa animazione regnava fra tutta quella gente che non si sarebbe mai creduta addetta a un servizio così importante. I due scrivani si erano seduti in un angolo e preparavano il loro rapporto della sera; per il momento non avevano altro da fare se non tagliare le penne e squadernare la carta, ma presto sarebbero stati occupatissimi, poiché il posto del Castello riceve i rapporti e in generale tutte le scartoffie degli altri posti di guardia della città. Gli ufficiali, comodamente seduti, si sono tutti accesi la pipa, e ho faticato molto per convincerli che non intendevo dividere con loro quel piacere; nel frattempo i soldati aprivano i panieri e la tavola si copriva di piatti e bottiglie. I convitati erano assai più numerosi di quel che si potrebbe credere, poiché, seguendo anche in questo un’antica usanza, gli ufficiali della guardia smontante restano a pranzo con quelli che danno loro il cambio. A ogni momento la porta si apriva ed entrava un alfiere o un tenente, che andava a salutare il capitano von Pannwitz, e dichiarava gravemente: «Signor capitano, ho l’onore di augurarle il buongiorno». Ma il capitano che comandava il picchetto uscente, potendo contare evidentemente su una maggior dimestichezza col suo pari grado, entrò esclamando a gran voce: «Buongiorno, mio piccolo capitano!»; ed io vidi che il nostro ospite non era affatto contento d’esser trattato davanti a tutti con tanta familiarità. Quando tutti gli invitati hanno fatto la loro comparsa, Pannwitz ci ha esortati a sederci a tavola e far onore al pranzo, e tutti hanno obbedito senza farsi pregare. Le vivande non eccellevano certo in raffinatezza, e ad accompagnarle non c’era né Bordeaux né champagne, ma l’eterna birra berlinese, che i convitati parevano giudicare ampiamente sufficiente; essi del resto compensavano in quantità ciò che mancava alla qualità della bevanda.

Nel corso del pranzo ho avuto modo di constatare ancora una volta quanto sia grande l’ignoranza degli europei nei confronti del mio paese. Sono già abituato a essere scambiato in strada per un inglese, e del resto è destino del viaggiatore entrare in contatto a ogni passo con uomini e donne delle classi più infime, postiglioni, domestici, ciceroni, camerieri, insomma i più miserabili mercenari, da cui non ci si può certo attendere un’informazione sia pure approssimativa sullo stato del mondo: quasi tutti gli esseri di questa sorta con cui mi accade di parlare si dimostrano persuasi che l’America appartenga all’Inghilterra, e che noi siamo nella stessa situazione della Scozia o dell’Irlanda. Ma si ammetterà che un gentiluomo americano possa sentirsi offeso quando un ufficiale al servizio del re di Prussia, pranzando con lui nel castello del suo sovrano, gli chiede se la sua provincia, poiché ai suoi occhi gli Stati Uniti non sono che una provincia, non è una gran produttrice di vino, e se non si trova nelle vicinanze della Turchia “o comunque da quelle parti”! Disgustato da questa domanda, mi sono rivolto all’altro dei miei vicini, ch’era poi quel tal capitano; costui, essendo duro d’orecchio, non aveva compreso nulla di quello scambio di battute, e mi ha chiesto se ero inglese. «Chiedo scusa» ho risposto, «sono degli Stati Uniti d’America.» «Be’, è la stessa cosa» ha concluso il brav’uomo, soddisfatto di aver trovato un posto anche per me nella sua immagine del mondo!

Quando gli inservienti hanno levato la mensa, tutti i commensali si sono augurati a vicenda una buona digestione, come usava al tempo dei nostri bisnonni; poi abbiamo proceduto all’atto solenne della preparazione del caffè, o piuttosto siamo andati a guardare i calefactores che lo preparavano. Non appena il caffettiere capo ha annunciato che la nera bevanda era pronta, gli ufficiali, come a un segnale, hanno posto nuovamente mano alle loro immense pipe, e il caffè è stato sorbito in religioso silenzio, mentre la cantina s’impregnava pian piano di fumo. Seduto a un tavolino rotondo, il capitano von Pannwitz esaminava i brogliacci degli innumerevoli rapporti che prima di sera avrebbe dovuto spedire a un numero altrettanto incalcolabile di autorità, e si preparava a distribuirli fra gli scrivani incaricati di copiarli in bella scrittura. In piedi accanto a lui, il segretario, un piccolo caporale con un accento della Germania meridionale, attendeva di essere chiamato a leggere ad alta voce il più importante dei rapporti, quello destinato personalmente al re. Osservando tutta questa brava gente intenta a lavorar di carta e penna era difficile ricordare che si trattava pur sempre di militari di carriera, votati alla battaglia e alla morte; e nulla sembrava più inconcepibile dell’idea che la guerra dovesse venire a turbare quella routine consolidata da tempo immemorabile. Proprio allora, tuttavia, la sentinella all’esterno del posto di guardia ha gridato: «Allarme!». Quel grido non era altro che l’annuncio, a norma di regolamento, dell’avvicinarsi dell’ufficiale di giornata; ma lo scompiglio che ha provocato non sarebbe stato minore se avesse segnalato l’arrivo di Bonaparte in persona. Tutti gli ufficiali, infatti, sono saltati in piedi e si sono precipitati verso l’uscita, cercando ognuno di arrivar fuori per primo. Ma per sbucare all’aperto bisognava risalire quei famosi venti scalini, sicché naturalmente i ragazzi, cadetti, alfieri e sottotenenti, sono usciti vincitori da questa corsa di nuovo genere; mentre gli uomini più maturi, i tenenti e il capitano, tutti egualmente afflitti da un certo embonpoint, hanno superato l’ostacolo molto meno facilmente e sono riemersi alla luce del sole ansimanti e fradici di sudore. Io li ho seguiti tranquillamente, e sostando sul penultimo gradino ho assistito alla rivista passata alla guardia da un vecchio corpulento, che poi, quando siamo ritornati tutti quanti nel nostro averno, mi è stato presentato come il colonnello von Walther und Cronach, comandante del reggimento.

Il colonnello mi ha stretto la mano bonariamente, scusandosi se non mi trattava con tutte le forme cui, come diplomatico, dovevo secondo lui essere abituato. «Io» ha brontolato «sono una vecchia sciabola tedesca, e non m’intendo di complimenti.» La sua stretta di mano era poderosa e il suo aspetto esteriore aveva qualcosa di singolare, di cui non riuscivo a darmi ragione, finché non mi sono accorto che non portava il codino; Suckow mi ha poi spiegato che siccome l’acconciatura regolamentare era solita provocare al colonnello spaventose emicranie, egli ne è stato dispensato con decreto personale di Sua Maestà. Nel frattempo al colonnello era stata presentata una tazza di caffè, ed egli la sorbiva in piedi, guardandosi intorno con aria severa. «Non posso dire d’essere scontento di lor signori» dichiarò poi; «solo vorrei che un servizio di così grande importanza per lo Stato, come quello che Sua Maestà ha loro affidato, non si tramutasse in una piacevole occasione conviviale. Non si può fare il proprio dovere divertendosi, e loro sanno che bisogna fare tre volte di più del proprio dovere, per farlo appena passabilmente. È vero» proseguì poi con un piccolo inchino nei miei confronti «che loro avevano un ospite, e in questi casi una certa cura per i piaceri di questo mondo diviene anch’essa doverosa.» Poi si avvicinò ai panieri in cui i servitori avevano cominciato a riporre le stoviglie, alzò il coperchio d’una pignatta e annusò. «Minestra, e con carne! Il signor capitano von Pannwitz sa trattar bene i suoi ospiti!» Ciò detto, si avvicinò allo scrittoio, sedette sulla punta d’una sedia e in quella scomoda posizione cominciò a esaminare i rapporti. «Ecco!» esclamò un momento dopo, brandendo il primo di quei fogli, e cercando con gli occhi il sottufficiale che l’aveva compilato. «Questo rapporto dovrebbe essere mostrato nelle scuole, come esempio di cattiva scrittura, anzi pessima. Quando lei sarà al campo, e dovrà scrivere degli ordini, come farà a venirne a capo?» «Ma Eccellenza» si permise di obiettare il sergente, «quella è solo la brutta copia!» «E con questo? In battaglia non ci sarà bella copia, perciò bisogna che la brutta sia scritta anch’essa in ottima calligrafia. È, mi pare, uno dei principi basilari del servizio. Ho passato la vita» aggiunse poi, rivolto verso di me «a ripetere ai giovani che da quando si svegliano al mattino, fino a quando vanno a coricarsi la sera, debbono pensare al servizio, ancora al servizio e sempre al servizio; ma mi sembra di aver perduto la pena.»

Con un sospiro tornò a esaminare i rapporti; lesse accuratamente, uno per uno, tutti quei fogli, in bella e brutta copia, poi si alzò, con le mani dietro la schiena. «Mah! Il re è servito male» borbottò, senza però precisare la ragione del suo scontento. «Eppure è il re! Che cosa deve succedere allora in una repubblica?» «Posso assicurarla» intervenni piccato «che in una repubblica lo stato è servito bene, poiché il suo interesse è quello di tutti i cittadini.» Il vecchio parve costernato di avermi offeso. «La prego di perdonarmi, perché non ho mai inteso portar pregiudizio al suo paese; del resto, a quel che mi si dice, è un paese timorato di Dio.» «Più di molti paesi europei» confermai in tono asciutto. «Non ne dubito» replicò il vecchio accalorandosi «e sono persuaso che le nostre disgrazie nascano proprio da questo. Oggi non si pensa al Signore Iddio, se non colla speranza che ci faccia vincere alla lotteria o alle carte, come se i miracoli del cielo dovessero servire a un uso così meschino, e non, come dev’essere, a far sì che l’uomo rifletta sulla vita e sulla morte.» «Non sapevo» osservai «che i luterani credessero ai miracoli.» «Ai miracoli forse no» ammise, «ma alle visioni senza dubbio; del resto, possiamo forse mettere un limite all’onnipotenza divina? Se vi dico che io stesso ne sono testimone!» Lo guardai non poco sorpreso, ed egli tacque per un istante. «Posso anche raccontarlo» borbottò poi, «tanto tutto l’esercito lo sa, e questi giovanotti» proseguì, accennando ai suoi ufficiali «non perderebbero l’occasione di divertirsi un po’ alle mie spalle, non appena me ne sarò andato. Da ragazzo, durante la guerra dei Sette Anni, e precisamente il giorno della battaglia di Torgau, mi persi in un bosco, e l’Altissimo si degnò di mandarmi una visione: vidi il mio proprio funerale, col picchetto che rendeva gli onori funebri riservati ai generali.» «Allora», sorrisi, «potete guardare al domani con legittima tranquillità.» Il colonnello si strinse nelle spalle con religiosa rassegnazione; levò lo sguardo al cielo, o meglio al soffitto della cantina, e sospirò che ogni cosa è nelle mani di Dio. Avevo già avuto modo di rendermi conto che una radicata, anche se tranquilla, passione religiosa è tutt’altro che rara fra gli ufficiali prussiani, e soprattutto fra gli anziani; ma la conversazione col colonnello mi ha persuaso di averne scoperto il tipo ideale, quasi preso di peso da una commedia di Kotzebue. Nel suo mestiere, a quanto m’è parso di comprendere, egli vede una sorta di servizio non troppo dissimile da quello degli uomini di Chiesa, con la stupefacente capacità che hanno uomini cosiffatti di dimenticare che quel mestiere consiste innanzitutto nell’assassinare e storpiare altri uomini, cristiani al pari di loro. «Quando si sale a cavallo» dice «bisogna lasciare da parte tutti i pensieri che non siano rivolti alla battaglia che si sta per combattere, o a Dio»; e sono convinto che dica la verità, e che proprio il pensiero del buon Dio gli stia fisso in testa quando sguaina la sciabola per comandare l’assalto.

«Che cosa ne dite del vecchio?» mi chiese Suckow ridendo, dopo la partenza del colonnello. «Curioso personaggio» risposi. «Ancor più di quel che credete» replicò il tenente. «Da giovane era candidato in teologia; c’è voluta la guerra dei Sette Anni per farlo diventare ufficiale.» «Ma dunque dev’essere molto vecchio» osservai. «Credo che abbia più di settant’anni; ma va a cavallo meglio di me. Si racconta che nell’abbracciare il mestiere delle armi abbia fatto tre voti, di castità, di povertà e di obbedienza.» «E li ha rispettati?» «Pare proprio di sì! Non è sposato, e c’è da giurare che non ha mai toccato una donna; per questo ha un corpo così poderoso. Quanto alla povertà, si dice che di tutte le sue pensioni, che non sono poche, tenga per sé soltanto trecento talleri; del resto, quel che non va per pagare la servitù, o per invitare a pranzo gli ufficiali del reggimento, è destinato ai poveri.» «Non credo che dia dei pranzi molto appetitosi» osservai. «Al contrario! La sua tavola è eccellente; ma lui, di regola, mangia solo minestra, e senza carne.» «E quanto all’obbedienza?» volli ancora indagare. «Avete veduto com’è; ebbene, dagli altri pretende assai meno che da se stesso. Lo scrivano fra poco avrà finito di ricopiare i rapporti, e il suo servizio sarà concluso; allora se ne andrà all’osteria, per consolarsi della monotonia delle sue occupazioni vuotando una bottiglia di birra. Noialtri, è vero, dovremo restare qui; ma metteremo in tavola le carte, e inganneremo il tempo giocando all’hombre fino all’ora di cena. Poi, quando sarà buio, i calefactores sistemeranno le poltrone davanti alla stufa, e noi ci installeremo, per passare la notte il più comodamente possibile; e il capitano von Pannwitz» concluse sogghignando «darà il segnale del silenzio augurandosi ad alta voce la buona notte. Ma il colonnello» riprese, pigiando col pollice il tabacco nel fornello della pipa «a quest’ora non pensa affatto alla cena, e meno ancora alle carte; farà a cavallo il giro delle porte, per visitare tutti i posti di guardia che toccano oggi al reggimento; poi se ne tornerà a casa, mangerà un’altra minestra, e comincerà a scrivere rapporti, e non smetterà prima di mezzanotte.»

Lasciati quei signori alle loro pipe, sono risalito all’aria aperta e me ne sono andato a piedi fino in piazza della Contrescarpe, che dopo la visita dell’imperatore Alessandro nell’inverno scorso si chiama in suo onore Alexanderplatz; qui un negozio mi ha attratto con la varietà di frutta che offriva, e ho deciso di comprare una pesca o una melagrana per addolcirmi la bocca. Mentre il negoziante mi mostrava la sua merce è entrata nella bottega una bambina di forse quattro o cinque anni, scalza, appartenente alle classi più infime, e fermandosi sulla soglia ha chiesto un frutto al padrone. Questi le ha domandato con voce dura quanto voleva spendere, al che la bambina ha mostrato con la più gioiosa innocenza una monetina da tre pfennig. «Per quello non ti dò proprio niente» ha ribattuto il negoziante in tono ancor più duro. La bambina, con gli occhi improvvisamente pieni di lacrime, si è voltata ed è scappata via. A questa scena assisteva oltre a me un secondo cliente, che aveva appena acquistato fiori e ananas, ordinando di spedirli a una certa signora, accompagnati da un biglietto vergato sul posto, con grafia frettolosa e illeggibile. Costui ha fissato il negoziante, poi ha messo la mano in tasca e senza una parola gli ha teso una moneta da tre soldi. In fretta l’uomo ha richiamato indietro la bambina e le ha riempito il grembiulino di prugne. Mentre la bimba se ne andava incredula col suo tesoro, l’acquirente dell’ananas mi ha guardato con un accenno di sorriso: «Speriamo che non si mangi la dissenteria insieme alle prugne», ha esclamato; «sarebbe ben triste se questo piccolo piacere dovesse costarle la vita!». Incuriosito da un commento così bizzarro, dissi a quel gentiluomo che ero rimasto assai edificato dalla sua buona azione, e benché si trattasse di una somma da nulla, speravo che mi avrebbe permesso di assumermene per metà il costo. Egli disse che non c’era neppure da parlarne, e chiese con chi aveva l’onore di discorrere; così ci presentammo, e scoprii che stavo parlando col signor Fichte, professore di filosofia.

Il mio nuovo conoscente era un uomo panciuto, con gli occhiali, assai cordiale nel modo di fare, nonostante quella distrazione che si suppone sia tipica della sua professione. Poiché trovavamo interessante la rispettiva conversazione, decidemmo di andare al caffè, e qui, scoprendo che sapevo giocare a scacchi, il professore m’invitò senz’altro a giocare una partita. Ho incontrato di rado un avversario così distratto; giocando sorbiva rumorosamente la cioccolata, prendeva a calci senza accorgersene il cappello rotondo posato sul pavimento accanto ai suoi piedi, parlava senza interruzione con me e con i curiosi che ci circondavano, meditava sulla scacchiera passandosi le mani nei capelli spettinati, e insomma attirava l’attenzione di tutti gli avventori del caffè pur senza mai alzarsi dalla sua poltrona. Durante la partita non smise per un istante di discorrere, interrogandomi sulla mia provenienza e sulle mie idee; e mi informò nel medesimo tempo dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni con la stessa naturalezza che se avesse avuto di fronte, anziché un estraneo, un conoscente intimo e di antica data. Più di ogni altra cosa si lamentava del suo posto di professore alla regia università di Erlangen, soprattutto per via dello stipendio che giudica troppo basso: appena milleduecento fiorini all’anno, più due cataste e mezza di legna stagionata e altrettante di legna verde. Tutto questo mentre i suoi colleghi della facoltà di medicina, grazie ai loro studi privati, guadagnano il doppio e sono molto meno assidui all’università: sicché egli intende senz’altro scrivere al ministro Beyme e postulare un congruo aumento del suo appannaggio. «Per giunta» ha borbottato «la facoltà è composta di somari: io ho inviato loro il programma delle mie lezioni per il prossimo semestre, e quei bravi professori lo hanno tradotto e pubblicato in un latino barbarico, costringendomi a disconoscerne la paternità!» Gli ho domandato come mai non si trovava laggiù, e mi ha risposto che in un luogo come Erlangen è impossibile vivere; perciò ha chiesto e ottenuto un congedo per il semestre estivo, e da Pasqua ha potuto restare a lavorare a Berlino. Ora si avvicina il semestre invernale, ed egli ha già fatto tutti i preparativi per raggiungere la sua sede, ha preso in affitto una casa e acquistato dei mobili. Ma il rischio di una guerra lo preoccupa, poiché tutti sanno che in tal caso le truppe prussiane non potrebbero difendere la Franconia, e che dai loro accantonamenti i francesi potrebbero entrare a Erlangen in un’ora: perciò medita di rivolgersi al re per ottenere il prolungamento del suo congedo anche al semestre invernale, o almeno il permesso di rimandare il trasferimento «fino a quando una guerra vittoriosa», per riferire le sue parole, «non avrà reso sicuro il paese».

Così discorrendo il professore si accalorava a tal punto da dimenticare completamente la partita e il movimento dei pezzi, sicché gli ho dato due volte scacco matto; la prima volta si è limitato a girare la scacchiera e a disporre senz’altro i pezzi per la rivincita, ma la seconda volta si è tolto gli occhiali, si è ravviato i capelli incollati dal sudore e sorridendo benevolmente coi suoi occhi miopi mi ha detto che sarebbe stato onorato se avessi accettato di continuare la nostra conversazione cenando a casa sua. Questa si è rivelata un alloggio borghese del tipo più comune, non privo di comodità, ma certo non lussuoso. Nella sala da pranzo il tavolino, che basta appena per quattro persone, è addossato alla stufa in modo tale che non c’è spazio per più di due sedie, e gli ospiti vengono messi a sedere su un canapè. Nella camera adiacente il professore ha il suo studio, i suoi libri, il suo tavolo dove passa le notti a lavorare, nonostante le proteste della moglie, che teme per la sua salute. La filosofia occupa interamente la vita del marito e, di riflesso, quella della moglie. Vanno raramente a teatro, e mai in visita, perché il professore è troppo assorbito dal suo lavoro, ed è in freddo con quasi tutti i suoi colleghi: il suo unico svago è la partita a scacchi al caffè. Ecco un uomo che non rischio di incontrare in Jerusalemerstrasse! Come se non bastasse, il suo tempo è assorbito da una tumultuosa corrispondenza, che lo costringe a ritardare o annullare molti dei suoi impegni. Egli scrive all’editore Cotta, di Tubinga, chiedendo un anticipo sui diritti d’autore per un’opera che deve ancora finire di scrivere; alla vedova di Schiller, a Weimar, felicitandosi del successo con cui le opere del suo rimpianto marito sono rappresentate nei teatri berlinesi; al ministro Hardenberg pregandolo di interessarsi presso la corte di Weimar, affinché vieti ai librai di laggiù di ristampare i suoi libri senza permesso e senza pagargli un fiorino; al suo avvocato a Jena, annunciandogli il prossimo invio di un promemoria circa il suo processo contro l’editore Gabler, colpevole appunto di pirateria ai suoi danni. Questo processo che dura da cinque anni e di cui non si intravede ancora la fine angustia oltre misura il professore, che fatica a mantenere la calma quando ne parla: con disperazione di sua moglie, che riconosce nel marito una costituzione apoplettica, e teme addirittura per la sua vita. Frau Professor Fichte è una piccola donna dai capelli tinti, che deve essere stata piuttosto graziosa da giovane, e che palesemente adora il suo uomo, di cui condivide tutte le preoccupazioni, pur non comprendendo una parola della sua filosofia. Quando il professore si è allontanato per sorvegliare la cottura della cena, di cui è solito interessarsi personalmente, essa mi ha pregato di non sollevare a tavola l’argomento della guerra, di cui paventa l’effetto deleterio sull’umore del marito; egli, a quanto pare, soffre di spasmi dolorosi che nessun medico ha saputo debellare, e la buona donna, a sua insaputa, fa dei versamenti alla Cassa delle Vedove, per assicurarsi una pensione dopo la sua morte.

La cena si è rivelata consistere in una testa di bue, piatto che ho sempre cordialmente detestato e che a mio parere dovrebbe scomparire da ogni mensa civilizzata; per giunta, a Berlino è buona norma servirla con una salsa di limone, uva passa, garofano, miele e zucchero, di cui si potrebbe benissimo fare a meno. Mi sono perciò limitato ad assaggiarne una fetta, mentre il padron di casa, fra le rimostranze di sua moglie, si è servito tre volte, riempiendosi il piatto con abbondanza. L’avvertimento che essa mi aveva rivolto è risultato del tutto superfluo, poiché lo stesso Fichte, appena trangugiato il primo boccone e con esso un mezzo boccale di birra, è tornato sull’argomento della guerra con la Francia. «La nazione» ha dichiarato «riconosce negli studiosi la sua guida spirituale, e noi dovremmo appellarci pubblicamente a essa in quest’ora solenne; mi propongo di rivolgermi al ministro Hardenberg per chiedere se il governo non giudichi opportuna la pubblicazione di un manifesto in tal senso.» Il brav’uomo è certo che, così come gli studenti di Erlangen si entusiasmavano ad ascoltare le sue lezioni, allo stesso modo potrebbero essere scossi i sentimenti del popolo, e desidera toccare il cuore ai tedeschi con i suoi discorsi e infiammarne il patriottismo; tuttavia, da cittadino rispettoso delle autorità, non intende fare un passo senza aver ricevuto la preventiva approvazione del governo. «E se una tale iniziativa dovesse essere giudicata inopportuna?» ho chiesto, tornando col pensiero a quel tal ministro per il quale la parola stessa di nazione aveva un suono spiacevolmente giacobino. «Non che ve ne sia il motivo, anzi!» ho soggiunto, per dissipare la cattiva impressione che quel rilievo poteva aver suscitato; «ma si sa, il procedere dei governi è insondabile!» «In tal caso non vedo che un modo per fare il mio dovere» ha risposto il professore. «Rivolgerò una supplica a Sua Maestà, affinché mi sia consentito di seguire l’esercito al campo come predicatore.» «Fichte!» ha ruggito sua moglie, che non doveva essere al corrente dei bei propositi intrattenuti dal marito; «Fichte!» poiché essa, bizzarramente, ha l’abitudine di rivolgersi a lui in tal guisa, forse per rendere meglio evidenti agli occhi dei forestieri e della domestica il rispetto dovuto al professore; «che ne sarà dunque di me, se tu te ne andrai alla guerra?» Il marito così interpellato ha alzato gli occhi dal piatto, e le ha sorriso candidamente. «Anche tu potresti accompagnarmi, mia cara! Io credo che al campo vi sarebbe gran bisogno delle qualità di una vera signora.»

La reazione di madama a questa proposizione è stata così scandalizzata che il professore ha creduto bene di tornare al suo intendimento originario, assicurandola che un governo illuminato come quello che regge i destini della Prussia acconsentirà senz’altro a un’iniziativa benefica come quella ch’egli propone; sicché né lui, né alcuno dei suoi colleghi si troverà costretto a prendere un partito così disperato come quello di unirsi all’armata. Egli ha poi proceduto a illustrare ulteriormente il beneficio che la nazione tedesca trarrà dall’insegnamento dei suoi filosofi; e ha tanto insistito su questo concetto, che non ho potuto fare a meno di interromperlo. «Ma mio caro professor Fichte! Lei parla con tanto calore della nazione tedesca, eppure se non mi sbaglio i sudditi del re di Prussia, in seguito alle ultime fortunate annessioni, sono per metà polacchi!» Il professore ha taciuto a lungo, fissando la tovaglia davanti a sé, poi ha bevuto un boccale di birra, si è pulito solennemente le labbra dalla schiuma e ha sospirato. «Se non temessi di macchiarmi di tradimento mettendo in discussione, io semplice cittadino, la politica del governo, le direi infatti che l’acquisto di territori così vasti, popolati da milioni di polacchi, cattolici per giunta, non potrà rivelarsi un vantaggio per lo Stato. E ciò non è ancora nulla di fronte all’acquisto di innumerevoli sudditi ebrei!» Egli non trova parole abbastanza forti per esprimere la sua ripugnanza nei confronti di questa razza disgraziata; e non finisce di stupirsi che i monarchi d’Europa tollerino la presenza di stranieri malevoli nel cuore di ogni nazione. Gli ho detto che per nostra buona fortuna ci sono pochi ebrei in America; è scoppiato a ridere, e mi ha consigliato di far pressioni sul governo affinché siano prese misure contro il loro arrivo, altrimenti, assicura, ne arriveranno altri senza fallo. Scherzando ho osservato che in mezzo agli americani anche gli ebrei finirebbero per mutar costume e assimilarsi agli altri, così come accade ogni giorno ai tedeschi e agl’irlandesi che sbarcano a New York; sullo stesso tono, il professore ha ribattuto che non c’è speranza di indurre mai gli ebrei a mutare i loro costumi. «Non vedo altro modo» ha aggiunto ridendo sonoramente «che quello di tagliar la testa a tutti quanti, una bella notte, e attaccarne al loro posto delle altre in cui non ci sia neanche una sola idea giudaica.» La signora Fichte si è messa a ridere a sua volta, così forte da rischiar di rovesciare le bottiglie sulla tavola; e non ho potuto fare a meno di sorprendermi constatando quanto sia peculiare il senso dell’umorismo dei tedeschi. Con l’aiuto di Dio questa cena filosofica, servita da una cameriera sciatta e maleducata, che si aggirava per la casa in ciabatte e calze bucate, è finalmente giunta al termine; sicché mi sono congedato da quei degni coniugi e per la prima volta da quando sono a Berlino me ne sono andato a dormire digiuno.

Venerdì, 15 agosto

Il principe Ferdinand, che dopo la mia visita dell’altro giorno a Bellevue sembra avermi preso in inspiegabile simpatia, mi ha fatto recapitare ieri sera l’invito ad accompagnarlo a visitare il suo reggimento, di guarnigione a Neuruppin, a dieci miglia da Berlino. In un altro momento avrei trovato un pretesto qualsiasi per rifiutare una gita così bizzarra; si dà il caso tuttavia che quest’oggi il ministro francese Laforest offra una gran festa, cui tutto il corpo diplomatico è stato invitato, per celebrare San Napoleone, la cui ricorrenza, precedentemente ignota, è stata da poco fissata al 15 agosto con un motu proprio di quel degno gentiluomo, il Papa. L’invito del principe mi offre un’occasione eccellente per giustificare l’assenza, sicché ieri sera, trovando il biglietto al mio rientro in albergo, ho mandato Will a Bellevue per avvertire Sua Altezza che accettavo; sull’invito era specificato che si richiedeva una risposta la sera stessa. Ho compreso la ragione di questo procedimento stamattina alle quattro, quando il principe, che si corica presto ed è uso svegliarsi a notte fonda, è passato a prendermi in carrozza; il principe August, figlio minore del principe e comandante di un battaglione di granatieri, era della partita insieme al suo aiutante di campo, ed entrambi non sembravano meno assonnati di me. La sterile brughiera brandeburghese, con le sue sabbie rosse e i suoi sterpi, non offriva certo un quadro piacevole sotto un cielo raggelato e quasi invernale, e la compagnia non era delle più allegre; per fortuna ho sonnecchiato per quasi tutto il tragitto, sfuggendo all’obbligo di sostenere la conversazione. Quando finalmente ho aperto gli occhi, stavamo cambiando i cavalli a Fehrbellin; il principe Ferdinand ne ha approfittato per raccontare della grande battaglia che si combatté proprio qui centotrent’anni fa, poi mi ha informato con orgoglio che il suo reggimento, di cui egli è comandante titolare da oltre sessant’anni, è il miglior reggimento di tutto l’esercito prussiano. Il principe August guardava malinconicamente dal finestrino, pensando probabilmente a qualche damigella con cui aveva dovuto rinviare l’appuntamento per la passeggiata pomeridiana, mentre il suo aiutante leggeva un tomo ponderoso, interrompendosi di tanto in tanto per sottolineare a matita qualche passo saliente, nonostante i sobbalzi ininterrotti della carrozza.

A Neuruppin, dove siamo giunti appena in tempo per il pranzo, siamo stati ospitati in casa del maggiore von Böhnicke, comandante effettivo del reggimento per conto del principe, il quale vivendo a Berlino si ricorda in realtà assai di rado dei suoi doveri. La città, affacciata su un lago brumoso, è di ottima architettura, essendo stata interamente ricostruita neppure vent’anni fa, dopo un disastroso incendio; al centro, al posto della vecchia chiesa, sorge ora un ginnasio dedicato, come informa un’iscrizione sulla facciata, “Ai cittadini del futuro”. Ma nonostante l’imponenza dello stile classico il viaggiatore non tarda ad accorgersi che si tratta appena di un grosso villaggio, dove gli unici frequentatori della biblioteca pubblica sono gli ufficiali del reggimento. I solenni edifici a più piani che incombono con la loro mole dietro le mura, sorprendendo già a distanza l’occhio del viaggiatore, non sono nient’altro che caserme, e la grande piazza circondata di palazzi serve soltanto come piazza d’armi. Non vi sono altre industrie né commerci se non quelli che comporta una città di guarnigione: le tessiture lavorano per confezionare le uniformi, i mercanti traggono i loro guadagni dall’approvvigionamento della truppa, sicché si può dire che la città esista esclusivamente in funzione delle milizie che vi sono acquartierate. Del resto, secondo le cifre che abbiamo appreso durante il pranzo alla tavola del maggiore, il reggimento conta più di millecinquecento uomini a fronte di una popolazione civile di neppure cinquemila abitanti; per la strada non s’incontrano che uomini in uniforme, e distaccamenti di soldati comandati dagli ufficiali subalterni servono da polizia e da pompieri per l’intera città.

L’alloggiamento di una simile moltitudine pone evidentemente problemi considerevoli, risolti alla meno peggio grazie alle contribuzioni forzate cui sono tenuti gli abitanti. Gli ufficiali superiori hanno le proprie case in città, mentre i subalterni abitano per lo più in camere d’affitto; la truppa, caso raro se non unico in tutta la monarchia prussiana, anziché essere acquartierata in casa dei borghesi è accasermata nei palazzi di cui sopra. Questa sistemazione lascia aperto un problema non trascurabile, quello delle famiglie dei soldati: poiché le caserme sono ideate per accomodare una moltitudine esclusivamente maschile, donne e bambini sopravvivono in gran parte accampati in baracche, in abietta povertà, sebbene il maggiore von Böhnicke e il cappellano del reggimento, dottor Mielke, si sforzino in tutti i modi di alleviare la miseria di questi poveracci. L’iniziativa che sta loro maggiormente a cuore è l’istituzione di una scuola domenicale per assicurare un’educazione ai bambini, che altrimenti vivrebbero in quasi completo abbandono. Scuole per i figli dei soldati esistono in verità presso quasi tutti i reggimenti; vi si insegna a recitare il catechismo, correggendo ogni errore a colpi di bastone, a leggere, a scrivere, ma senza ortografia, e qualche volta a far di conto – cioè, più o meno, quel che viene insegnato ai figli dei contadini in tutte le scuole del regno. Mentre tuttavia ogni villaggio è tenuto per legge a mantenere un maestro di scuola, sotto la responsabilità del pastore, le scuole di reggimento non possono sussistere senza l’aiuto dello Stato; ora il cappellano, che era a tavola con noi, lamenta che dopo la salita al trono di Federico Guglielmo III gli sforzi già intrapresi in tal senso siano stati drasticamente limitati, nel timore che un eccesso di educazione possa rendere i ragazzi troppo ambiziosi e insoddisfatti dello stato in cui è piaciuto alla Provvidenza di collocarli. Il pastore si è espresso con calore contro questa concezione oscurantista ed ha elogiato non so qual generale che sborsa di tasca propria il denaro per pagare il maestro ai figli dei suoi soldati. «Sua Eccellenza» ha spiegato con calore «ha affittato a sue spese una camera, in cui il maestro abita e insegna, e con il soccorso degli ufficiali, e di molti signori e dame del vicinato, ha potuto costituire una piccola biblioteca e un laboratorio di filatura. Ogni mese il cappellano legge in pubblico i voti degli allievi, e li trasmette al generale, che ricompensa i meritevoli; tutti gli ufficiali assistono all’esame di fine anno, e l’anno scorso il miglior classificato ha ricevuto in dono un cappello dal maggiore del reggimento.» Il brav’uomo raccontava queste piccolezze con quella serietà di cui solo i tedeschi più rispettabili sono capaci, e alla fine del pranzo ha pregato il principe di intercedere presso Sua Maestà affinché siano aumentati i fondi per la sua scuola; ma si comprendeva benissimo che il principe, se fosse dipeso da lui, avrebbe abolito addirittura ogni istruzione che non fosse quella militare, e che soltanto la noia gli impediva di dar sulla voce al pastore e zittirlo. «I figli dei soldati saranno soldati a loro volta, o entreranno come manovali nelle nuove manifatture che la benevolenza dello stato sta facendo sorgere in tutte le città della monarchia» ha borbottato infine. «Mandarli a scuola significa soltanto insegnar loro la superbia, la presunzione e il disgusto per le fatiche fisiche, e dunque render loro un pessimo servizio.» Il pastore tuttavia ha afferrato la palla al balzo e con l’aria di dar ragione al principe ha ribattuto che, se i mezzi lo avessero permesso, si sarebbe potuto per l’appunto insegnare ai ragazzi e alle ragazze a filare, lavorare a maglia, cucire e far merletti, e magari a intagliare il legno e fabbricare giocattoli, come si faceva prima che i fondi venissero ridotti; preparandoli in tal modo a esercitare un mestiere. «Magari il signor pastore» ha risposto il principe con sarcasmo «vorrebbe anche ripristinare per i miei ufficiali l’obbligo di visitare le famiglie dei soldati, per informarsi se i marmocchi vadano con le scarpe o scalzi, e se venga loro dato abbastanza da mangiare; quando deciderà di farlo, abbia però la bontà di domandare il mio parere.» Quest’obbligo, a quanto pare, è stato introdotto alcuni anni or sono all’insaputa del principe, che si affrettò ad abrogarlo non appena ne fu informato; e su questa battuta, formulata in tono così tagliente da non ammettere replica, il discorso è stato lasciato cadere. Mi è parso d’altronde di comprendere che gli ufficiali del reggimento, a eccezione del maggiore e di qualcuno dei capitani anziani, hanno accolto con sollievo la riduzione dell’impegno scolastico e condividono punto per punto le opinioni del principe, sicché la causa del pastore appare senza speranza.

A tavola il maggiore ha altresì ragguagliato il suo padrone sullo stato del reggimento, e dalla conversazione è emerso un quadro non troppo dissimile da quello che mi ero fatto parlando a Tangermünde con gli ufficiali dei corazzieri. Alla data odierna la forza del reggimento è ben lontana dal corrispondere all’organico previsto sulla carta, in conseguenza del sistema di licenze praticato in tutto l’esercito prussiano; e ciò al duplice scopo di risparmiare sul mantenimento della truppa e di alleviare alla popolazione il peso della coscrizione obbligatoria. Su circa millecinquecento uomini iscritti nei ruoli poco più di metà, in maggioranza mercenari stranieri, sono in servizio permanente; gli altri sono in permesso per dieci mesi e mezzo all’anno, e si guadagnano da vivere lavorando come braccianti o artigiani, tornando sotto le bandiere per un periodo di addestramento intensivo prima dell’ispezione annuale e delle manovre di primavera. I comandanti di compagnia, per giunta, hanno il permesso di mettere in congedo provvisorio anche i mercenari, trattenendo per sé il loro soldo, e come si può immaginare non esitano ad avvalersi di questo diritto; i disgraziati così congedati sono costretti a restare a disposizione e non possono uscire senza permesso dalla città, ma sono padroni del loro tempo, vale a dire che devono lavorare per vivere. Ne consegue fra l’altro che qui, come in ogni città del regno, la maggior parte dei ciabattini, facchini, servi d’osteria e altri simili mestieri sono in realtà soldati in congedo, che sopravvivono miseramente del proprio lavoro, senza altra risorsa se non quella di mandare donne e bambini a mendicare non appena il rincaro del pane rischia di farli morire di fame. Quest’anno l’ordine di mobilitazione appena emanato ha costretto a sospendere tutti i congedi e ad anticipare il richiamo dei riservisti, ma a tutt’oggi le operazioni sono appena avviate: solo una dozzina di richiamati sono arrivati al reggimento, ed è stata una fortuna, perché non avrebbero saputo come equipaggiarne di più. I depositi mancano di tutto, e perfino il pane per la truppa viene distribuito irregolarmente, come se l’intendenza non fosse in grado di venire a capo del problema posto dall’improvviso aumento degli effettivi. Già gli ultimi riservisti presentatisi ieri, fra cui due o tre uomini molto anziani, oltre i cinquant’anni, non hanno potuto ricevere il fucile e neppure il biglietto d’alloggio e vagano per la città alla ricerca di una sistemazione di fortuna, mendicando il pane alle porte dei borghesi.

Dopo pranzo il principe ha voluto assistere alle esercitazioni della truppa. I soldati, che fin dal mattino erano stati prevenuti di quella visita, attendevano allineati nell’immensa spianata polverosa che la municipalità ha assegnato al reggimento come piazza d’armi; i palazzi circostanti parevano le quinte di un immenso palcoscenico, e infatti le finestre erano piene di borghesi affacciati, che si godevano lo spettacolo proprio come a teatro. Sotto l’occhio pignolo del principe, i due battaglioni si sono incolonnati al suono di pifferi e tamburi, hanno marciato fino ai capi opposti del campo, poi hanno cambiato fronte, si sono dispiegati con grande rapidità e hanno marciato in linea l’uno contro l’altro, a passo cadenzato; a cento passi hanno assunto la formazione di tiro e hanno cominciato a sparare a salve, compagnia per compagnia, gareggiando in rapidità di tiro. I soldati di ogni compagnia sono addestrati a sparare tutti nel medesimo istante, e sono minacciati delle punizioni più severe se per un caso disgraziato accade loro di strappare la tela, se cioè la detonazione non risuona d’un sol colpo: ciò che è giudicato, a quanto pare, indispensabile per l’efficacia del fuoco. Lo spettacolo ha innegabilmente una sua grandezza, per quanto si possa dubitare della sua reale utilità su un campo di battaglia, in cui magari può capitare di incontrare, Dio non voglia, dei cespugli o di dover attraversare un fossato. Sulla terra battuta la truppa manovra con straordinaria precisione e simmetria: migliaia di piedi si alzano e si abbassano in cadenza, migliaia di braccia eseguono simultaneamente, e a gran velocità, la complicata manovra di caricamento del fucile; e del resto la mortale serietà con cui tutti gli ufficiali, dal principe fino all’ultimo dei cadetti, considerano questi esercizi costituisce la migliore garanzia della loro riuscita. I soldati maneggiano il pesantissimo moschetto d’ordinanza con una disinvoltura che solo l’esercizio incessante e i colpi di bastone distribuiti senza risparmio dagli ufficiali possono giustificare, e a ogni movimento i moschetti rintoccano sonoramente all’unisono, con un bel rumore di legno e di metallo. Questo effetto, a quanto mi è stato spiegato, si ottiene allentando al massimo tutte le viti e i bulloni del congegno, così da far risuonare le diverse parti l’una contro l’altra; e sebbene qualche ufficiale avanzi a bassa voce i suoi dubbi sull’opportunità di una simile pratica, ai generali piace che le armi siano maneggiate non solo in modo corretto, ma con un bell’effetto sonoro, così da impressionare oltre agli occhi anche le orecchie.

Quando le esercitazioni si sono concluse il principe è sceso da cavallo per passare personalmente in rivista la truppa, e mi ha invitato ad accompagnarlo. Osservati da vicino e uno per uno i soldati non offrono un bello spettacolo. L’uniforme, compresi i calzoni e le uose, è di un materiale così scadente da far arrossire il più spudorato dei fabbricanti di tessuti. L’equipaggiamento della truppa è fabbricato con i materiali più miserabili e grossolani; la tela è tela di sacco. Le scarpe non resistono a una marcia prolungata e i soldati sono costretti ad arrangiarsi ogni sera con ago e filo, improvvisandosi ciabattini, per conservarle lucide e intatte per l’ispezione, a scanso di tante bastonate. I calzoni di lino da campagna, che i soldati indossano durante le esercitazioni a causa della polvere che in questa stagione è dovunque, sono così corti da dare alle truppe un aspetto più ridicolo che marziale. Il principe, tuttavia, non pareva preoccuparsi di ciò; si aggirava invece con aria arcigna alle spalle dei soldati, osservandone con disgusto i volti anneriti dalla polvere, e di tanto in tanto, estraendo di tasca un regolo d’argento, misurava i loro codini, per assicurarsi che corrispondessero alla lunghezza prescritta. In seguito esaminò accuratamente i moschetti, le cui canne, dopo l’esercizio, non erano più lucidate a specchio come erano state fino a poco prima; accompagnandolo, ho avuto modo di notare che a differenza della canna i congegni interni dei moschetti sono alquanto in cattivo stato e spesso arrugginiti, ma nessun regolamento deve far menzione di ciò, poiché il principe non si è permesso in proposito la minima osservazione.

Quando siamo rientrati in casa del maggiore le campane della Klosterkirche battevano le otto, e il principe si è ritirato senza cenare, come ha preso l’abitudine di fare forse più per economia che per astinenza. Il padrone di casa non ha osato servire agli altri ospiti una cena in piena regola, per timore di disturbare il sonno di Sua Altezza, ma ha egualmente fatto preparare una tavola carica di formaggi, prosciutti e carni affumicate, accompagnate da parecchie bottiglie di vino della Mosella, cui soprattutto il principe August non ha mancato di fare onore. Mentre mangiavamo ho notato sul fondo della sala, appena visibile nella luce incerta delle candele, un ritratto che mi è parso curioso, e più tardi, col bicchiere di brandy in mano, mi sono avvicinato per osservarlo. Era il ritratto di un gentiluomo in parrucca bianca, vestito da militare, ma con quella libertà che contraddistingueva gli ufficiali ancora all’inizio del secolo scorso, prima che ovunque si imponesse la tirannia dei regolamenti e delle uniformi. Sullo sfondo nero il pittore aveva iscritto in lettere dorate un nome ormai quasi illeggibile e una data: MDCCXII AETATIS SVAE LVI. Il gentiluomo così immortalato aveva una fisionomia poco raccomandabile, forse in virtù della benda nera che gli fasciava l’occhio sinistro e delle cicatrici che deturpavano entrambe le guance; ma il particolare che più mi colpì era il fascio di baionette luccicanti che teneva sotto il braccio con elegante noncuranza, come se si fosse trattato di una canna da passeggio. Chiesi lumi al nostro ospite ed egli mi spiegò non senza compiacimento che quello era il ritratto di uno dei suoi predecessori, Teufel von Birkensee, che aveva comandato il reggimento un secolo prima, e si era fatto dipingere tenendo sotto il braccio diciassette baionette, in memoria delle diciassette ferite d’arma bianca ricevute alla battaglia di Malplaquet. Per illustrarmi il dipinto il maggiore si era collocato accanto a esso, e non potei fare a meno di notare il contrasto fra il sorriso canzonatorio e crudele del bravaccio nel ritratto, e il volto serio e posato del padrone di casa; perfino l’uniforme di quest’ultimo, tagliata su misura per un proprietario evidentemente avvezzo alle sue comodità, pareva meno militaresca al confronto con quella del suo predecessore. Non so se ciò sia dovuto all’influenza della religione, o semplicemente alla vita monotona che gli ufficiali prussiani conducono in tempo di pace, facendo ogni giorno le stesse cose e senza cambiare mai sede; ma è certo che ben difficilmente potrei immaginare il maggiore von Böhnicke, o qualunque altro degli ufficiali che ho conosciuto fra ieri e oggi, nell’atto di commissionare un ricordo di sé così tracotante e bizzarro.

Sabato, 16 agosto

Questa notte il fracasso dei domestici che caricavano la carrozza e degli stallieri che preparavano i cavalli mi ha destato prima dell’alba, e poiché da un momento all’altro mi aspettavo che il principe mi mandasse a chiamare non mi è rimasto che alzarmi. Appena vestito sono sceso in sala da pranzo, dove il padrone di casa, che doveva aver trascorso la nottata in piedi, aveva fatto servire il caffè; a tavola sedeva già un ospite ancor più mattiniero di me, e cioè l’aiutante del principe August, capitano von Clausewitz. Costui è un ragazzo che non dimostra più di vent’anni, con due occhi accesi in un volto ancora imberbe, dai lineamenti così delicati che in altri tempi avrebbe potuto sostenere, senza sfigurare, le parti femminili in una compagnia d’attori. La sua conversazione, che ieri a tavola non avevo avuto modo di apprezzare, poiché si era rinchiuso in un ostinato mutismo e non rispondeva che a monosillabi agli scherzi del principe August, rivela un’intelligenza insolitamente vivace e una sensibilità che, in chiunque non fosse tedesco, parrebbe addirittura morbosa. «Che cosa ne dite dello spettacolo cui abbiamo assistito ieri?» mi ha chiesto, quasi vergognoso, come se si aspettasse un commento tagliente. «Non vi nascondo» ho sorriso «che la preoccupazione del principe per il rispetto dei regolamenti mi pare sfiori la pedanteria, se non peggio; e che non ho mai visto misurare i codini dei soldati come se la loro lunghezza rappresentasse una questione di vita o di morte per lo stato. E tuttavia» ho aggiunto «il reggimento offre uno spettacolo meraviglioso quando manovra, e credo che se Bonaparte avesse potuto vedere gli esercizi cui ho assistito io ieri esiterebbe alquanto prima di misurare la sua gloria così recente con quella dei prussiani.» Il giovanotto ha risposto con una smorfia. «Voglia Iddio che sia così! Io, per parte mia, non riesco a non ripetermi che quel poco che ho veduto della guerra assomiglia ben poco agli spettacoli che noi rappresentiamo tutti i giorni in piazza d’armi.» Ho replicato con cautela che il principe, per quanto il sangue che correva nelle sue vene vibrasse naturalmente al suono del tamburo, mi sembrava infatti uomo più attaccato alle forme che alla sostanza della vita militare, ma che certamente non tutti i reggimenti dell’esercito prussiano erano esercitati secondo il suo sistema. «Qui purtroppo si sbaglia!» ha ribattuto vivacemente il capitano. «Lei, evidentemente, non ha dovuto leggere e studiare i Principi di tattica del defunto generale von Saldern, cui tuttora si ispirano le nostre manovre. Senta qui» ha detto, cavando di tasca un libriccino rilegato in tela, e visibilmente molto usato. Ha cercato sfogliando in fretta le pagine, finché non ha trovato la citazione che cercava. «“È vero” dice l’autore, “che il regolamento prescrive di fare settantasei passi al minuto, ma, in seguito a osservazioni e riflessioni serie, sono stato indotto a ritenere che sarebbe preferibile fare soltanto settantacinque passi al minuto.” Che gliene pare? C’è da sorprendersi che non ci sia un capitolo su come insegnare il passo cadenzato ai cani del reggimento!»

«Ma, infine», ho proseguito, un po’ sorpreso da tanto sarcasmo, «chiunque scriva oggi di cose militari mi pare riconosca che il metodo e l’esercizio costituiscono la sola chiave per la vittoria, e così stando le cose, l’esercito prussiano non ha da temere che i suoi allori si dissecchino tanto presto.» «Per quanto ne so» ha ribattuto il capitano, le guance infiammate dal calore della discussione, «c’è una sola chiave capace di aprire le porte della vittoria, ed è il morale degli uomini. Ricordate cosa scrive Tucidide a proposito della battaglia di Mantinea? Gli spartani erano stati sconfitti in più occasioni, e anche allora si dimostrarono inferiori agli avversari quanto a cognizioni tattiche e conoscenza del terreno, ma furono i nemici a volgere in fuga per primi; e Tucidide commenta: “Bastò questa sola battaglia a riscattare gli spartani dal biasimo che si era accumulato su di loro; a quanto pareva, erano esposti agli oltraggi della fortuna, ma il loro coraggio era ancor sempre quello di prima”. Quanto a noi, non c’è dubbio che la nostra disciplina è ancor sempre quella di prima; ma il coraggio? Ecco una domanda a cui nessuno potrebbe in buona fede rispondere!» Imburrando una fetta di pane, mi sono complimentato per la sua erudizione; per un momento un’ombra è passata sulla sua fronte, come se temesse d’essere burlato, poi ha confessato con qualche riluttanza che il gusto per gli studi lo ha sempre fatto sentire in certo modo un estraneo, non solo nell’esercito e nella buona società, ma anche in famiglia. Suo padre era un ufficiale in pensione, «e in casa sua» dice «non ho incontrato altro che ufficiali, e non esattamente i più colti. Gli unici libri che avevamo in casa erano il regolamento di servizio e il libro di preghiere!». Poco prima del suo dodicesimo compleanno il padre lo consegnò al comandante del reggimento del principe Ferdinand, proprio qui a Neuruppin, e da allora non ha conosciuto altro che la vita militare. In questo peraltro non c’è niente di eccezionale, come egli stesso ha osservato: «Da noi, nella nobiltà voglio dire, quando un bambino compie i dodici o i tredici anni, lo cresimano, gli regalano un frac blu e un paio di calzoni che possano servirgli da uniforme quando sarà cadetto, gli tagliano i capelli, gli appiccicano un codino posticcio e lo mandano all’esercito, che a partire da quel giorno si prenderà cura del suo avvenire: e la maggior parte dei bambini, allevata in quell’idea fin dalla più tenera infanzia, aspetta con ansia il giorno in cui lascerà la casa paterna per diventare un soldato». Ricordando il piccolo von Suckow, gli ho detto che avevo già avuto modo di verificare di persona la veridicità di quella rappresentazione; egli ha aggiunto, tuttavia, di aver provato disagio per quel distacco precoce. «Può immaginare che cosa significhi per un bambino di quell’età, soprattutto se di carattere fortemente impressionabile, lasciare la famiglia, la casa, tutto ciò che ha conosciuto fino allora, per andare incontro all’ignoto. Se chiudo gli occhi rivedo ancora mia madre entrare nella mia stanza per svegliarmi, a notte fonda, e la cucina dove bevvi l’ultimo caffelatte della mia infanzia, alla luce di una candela, mentre fuori era buio e pioveva, e il domestico che doveva accompagnarmi a prendere la diligenza sellava i cavalli. La sofferenza che provai quel giorno non è ancora del tutto superata, e credo che non riuscirò mai a dimenticarla.» Strano discorso nella bocca di un militare! Subito dopo, tuttavia, era in trincea all’assedio di Magonza, e la sua voce infantile si univa a quelle rauche delle migliaia di soldati che salutavano con brutale entusiasmo l’incendio della città sotto il fuoco della loro artiglieria…

Il capitano mi ha confidato che i suoi interessi si rivolgono all’architettura e alla matematica, due campi in cui mi riconosco ignorante come un bue, ma in misura ancor maggiore, come si conviene a un militare di carriera, all’arte della guerra. Gli ho chiesto che cosa leggeva con tanto interesse durante il viaggio in carrozza, ed è risultato trattarsi di un libro del signor von Bülow. «Conosco l’autore» ho osservato compiaciuto; «è un originale, ma molto competente. È una buona lettura?» Mi ha rivolto uno sguardo di compatimento. «Stasera, quando avrò finito di leggerlo, potrò rispondere con maggior cognizione di causa. Ma posso dire fin d’ora che in tutti i trattati di strategia e cosiddetta scienza militare pubblicati negli ultimi anni dai vari Bülow, Massenbach, Venturini e compagnia c’è meno saggezza e meno verità di quanta se ne trovi in un libro di cucina, e non credo che quest’ultima fatica del signor Bülow mi farà cambiare opinione!» Un po’ piccato da tanta sicurezza, gli ho chiesto di dimostrarmi con qualche esempio la fondatezza di un giudizio così tagliente; e credo che non aspettasse altro, poiché, con gli occhi che gli brillavano, ha posato la tazzina del caffè e mi ha invitato a seguirlo in camera sua, per poter proseguire il discorso in re.

Giunti al piano di sopra, il capitano ha spalancato le imposte, ignorando tranquillamente il letto non ancora rifatto, si è chinato sul tavolo, dove giaceva aperto il volume in questione, e ha cominciato a sfogliarlo febbrilmente; finché, ritrovato il passo che gli interessava, non me l’ha agitato sotto il naso con espressione di trionfo. «Ecco qua! Bülow, per esempio, pretende che non si possa giungere a un grado superiore della tattica e della strategia se non in quanto si sia iniziati alla matematica superiore. È un’assurdità che non meriterebbe alcuna attenzione, se non fosse per l’arroganza con cui l’autore trasforma questa affermazione impossibile da verificare in un cosiddetto teorema. In realtà, c’è più o meno lo stesso rapporto fra la matematica e l’arte militare che fra la matematica e un sermone! Ma il suo amico non è il solo fra i nostri strateghi da tavolino a covare questa infatuazione per la matematica. Questi signori senza la tabella dei logaritmi non crederebbero possibile far attraversare a tre uomini un rigagnolo.» Ho obiettato che lui stesso, dopo tutto, dedica il suo tempo alla matematica; mi ha risposto che lo fa per suo piacere personale, e piuttosto che credersi obbligato a farlo per le esigenze del suo mestiere, si sentirebbe per una volta di dar ragione a quei suoi colleghi che considerano lo studio come un’inutile stravaganza. «Ma ciò dipende dal carattere tutto astratto, letterario, delle idee del signor Bülow. Le sue affermazioni perentorie lo fanno passare agli occhi del pubblico per un carattere progressista, se non addirittura chiaroveggente, eppure secondo lui il successo di un’operazione dipende dall’ampiezza di un angolo disegnato sulla carta! Un piano di guerra, così ragiona questo signore, deve avere come base una linea di magazzini stabiliti nelle fortezze; da qui ci si dirige verso l’obiettivo di cui ci si vuole impadronire, tracciando linee di operazione che formano sulla carta un triangolo, il cui vertice è appunto l’obiettivo. “Quando si vuole operare con sicurezza, la base dev’essere lunga, concava se possibile, e in ogni caso l’angolo formato dalle linee di operazione non deve misurare meno di novanta gradi”! Dove ha mai sentito simili stupidaggini? Egli crede, evidentemente, che l’Europa sia una spianata, come quelle dove fanno l’esercizio i nostri reggimenti. Ma in compenso, eccolo pretendere che un generale debba saper compiere rilievi sul terreno e disegnare delle carte geografiche! È come se mi venissero a dire che un Mozart o un Gluck deve saper fabbricare la carta da musica. Quanto all’artiglieria, di cui secondo l’autore un generale dovrebbe conoscere ogni dettaglio tecnico, i migliori capi militari sembrano averne saputo ben poco, dal momento che anche gli artiglieri hanno sempre ignorato, finora, l’essenziale, vale a dire l’azione del fuoco. In ogni caso, mi prendo l’impegno di far stare su mezzo foglio tutto ciò che un generale deve sapere sugli effetti dell’artiglieria.» «Ma dunque» ho interloquito «tutta la letteratura militare è inutile, e gli anni di studio trascorsi dai cadetti in accademia potrebbero tranquillamente essere spesi in miglior modo?» Ha sorriso a questa prospettiva. «Per puro gusto del paradosso, potrei risponderle che effettivamente l’inclinazione agli studi che si manifesta in tanti ufficiali, soprattutto durante un lungo periodo di pace, produce effetti deleteri. Gli ufficiali progrediscono nelle scienze, finché la guerra non appare ai loro occhi come un gioco, il cui esito dipende solo dal calcolo: e non si può immaginare un’illusione più nefasta. Ma intendiamoci, non voglio sostenere che lo studio sia inutile, e che il re potrebbe dar ordine domani di chiudere la Scuola di Guerra senza danno per la nazione. Ciò che voglio dire è che la tattica, la tattica elementare, non occorre certo un trattato per spiegarla, e qualsiasi sergente è in grado di impadronirsene. Restano, certo, la tattica superiore e la strategia: ma né l’una né l’altra comportano volumi di teoremi e di regole, e chi si attende di trovarne i princìpi nei manuali rischia di restare deluso. La tattica e la strategia non sono tanto una scienza, quanto un modo di pensare: come direbbero i filosofi, è una questione di forma e non di sostanza. Ed è quella forma che occorre assimilare, ed è per questo che bisogna studiare, non per imparare delle regole a memoria.» Questo discorso mi è sembrato quanto mai giudizioso, e debbo confessare che la mia stima per il signor von Bülow ha cominciato a scemare, per quanto simpatico egli sia in società; ma non potevo persuadermi che il suo libro fosse davvero così sciocco come il mio giovane interlocutore sosteneva. «Non è ancora convinto? Ebbene, legga: legga che cosa scrive il suo amico sulla funzione del combattimento nella guerra moderna.» Mi additava un passo evidenziato da furiose sottolineature, ma non avevo bisogno di leggerlo: ricordavo fin troppo bene ciò che Bülow mi aveva detto in proposito, sorseggiando il tè nel salotto di Victoire. Il mio interlocutore si preparava visibilmente a una vigorosa confutazione di quelle idee; proprio allora, tuttavia, quello che avevo creduto essere un segnalibro infilato nelle pagine del volume è scivolato sul tavolo, rivelandosi invece la busta di una lettera vergata con calligrafia inequivocabilmente femminile. Il capitano è azzittito di colpo, è arrossito, poi è scoppiato a ridere, ma di un riso un po’ forzato. «A quanto vedo» ho detto «non sempre le vie della testa si allontanano da quelle del cuore!» Ma il giovanotto continuava a tacere, sicché non giudicai di buon gusto interrogarlo su un argomento che lo imbarazzava in tal modo; d’altra parte proprio in quell’istante un servitore è venuto a bussare per avvertirci che il principe Ferdinand si era vestito, aveva preso il caffè e intendeva ripartire senza indugio per Berlino, sicché è stato giocoforza interrompere il nostro colloquio.

Quest’ultimo tuttavia ha avuto un’inopinata conclusione nel pomeriggio, quando sono entrato in un negozio sotto i portici del Castello, coll’intenzione di acquistare un paio di stivali. Nella bottega un’anziana signora, assistita da una nurse e da due commesse deferenti, faceva provare diverse paia di stivaletti foderati di pelliccia a una bambina di forse due anni; un’altra signora, molto giovane e graziosa, con uno scialle di cachemire sulle spalle, sembrava attendere che la bambina si decidesse, ma di tanto in tanto sbirciava nervosamente attraverso la vetrina del negozio, come in attesa di qualcuno che non veniva. Dopo aver ripetuto più volte questa manovra la giovane signora ebbe una smorfia di delusione e tornò a occuparsi della bambina, la quale nel frattempo pareva finalmente aver scelto un paio di calzature adatte alle sue esigenze. Proprio in quel momento è entrato nel negozio il capitano von Clausewitz, e senza vedere nessuno di noi, col fare un po’ stordito che gli è proprio, è andato direttamente a parlare col proprietario, a proposito di una certa fornitura di scarpe per la truppa. La giovane signora, al vederlo, ha assunto un’indescrivibile espressione di sorpresa e felicità, ed egli a sua volta, non appena si è accorto di lei, ha troncato la conversazione col negoziante e le si è avvicinato, cominciando a parlare a voce bassa e accalorata, con la medesima espressione beata dipinta sul viso. Il negozio era pieno di clienti e i due innamorati ne hanno approfittato per stringersi in un angolo e discorrere a lungo senza che nessuno si occupasse di loro; soltanto la vecchia signora, acquistati gli stivali per la bambina, è passata accanto a loro uscendo e ha salutato la giovane con un colpetto sul braccio, non senza un sorriso indulgente: al che il capitano si è inchinato piuttosto rigidamente, per tornar subito a sorridere alla sua bella. Finalmente i due colombi si sono lasciati, il capitano ha baciato la mano alla fanciulla trattenendola fra le sue molto più a lungo di quanto non si ritenga di solito conveniente, ed è uscito rimontando sul cavallo che il suo domestico aveva tenuto a freno fuori del negozio. Una volta in sella si è avviato al Castello, non senza voltarsi molte volte indietro verso la giovane signora che non gli toglieva gli occhi di dosso; e nella sua distrazione è entrato nella corte passando per il portone più basso, riservato ai pedoni, con grave rischio di perdere il cappello e, se il cavallo si fosse imbizzarrito, fors’anche la testa.

Ormai ero così incuriosito che non ho potuto impedirmi di seguirlo, e, sorprendendolo nel cortile del Castello, confessargli di aver assistito a ogni cosa. Come avevo immaginato, la giovane signora dallo scialle di cachemire è quella medesima la cui mano aveva vergato l’indirizzo sulla busta da me intravista stamattina. Nonostante la sorpresa di ritrovarmi in quel luogo e l’imbarazzo di vedere scoperto il suo segreto, il giovanotto era così felice di poter confessare il suo amore, sia pure a un estraneo, che mi ha raccontato spontaneamente ogni cosa, mettendomi a parte dell’estasi che prova nel vedersi ricambiato e delle angosce che gli prepara il futuro. La sua innamorata, a quanto pare, è nientemeno che una contessina Brühl, ciò che gli causa non poche preoccupazioni, poiché di fronte a un simile nome quello dei Clausewitz scompare. Infatti, come mi ha confessato con qualche esitazione il giovanotto, sebbene egli sia certissimo di essere nobile, il suo nonno paterno era professore di teologia a Halle, e aveva sposato la figlia di un parroco. «Per noncuranza, egli non si firmava neppure con la particella nobiliare, e lo stesso hanno continuato a fare i suoi figli, tranne mio padre, il più giovane di tutti e il solo che abbia seguito la carriera delle armi.» Egli ha aggiunto, rosso in viso come un gambero, che la sua famiglia fu rovinata durante la guerra dei Trent’anni, e perse allora le sue terre e i suoi titoli di nobiltà; e non mi è parso caritatevole approfondire questo discorso. Tuttavia non ho potuto impedirmi di chiedergli perché, trovandosi nella sua situazione, non si sia rivolto al re per ottenere un decreto di conferma della sua nobiltà; mi ha risposto che ci aveva pensato, ma che gli amici lo avevano convinto a non farne nulla, assicurandogli che nessuno avrebbe mai messo in dubbio la sua qualità di gentiluomo, e che quel passo sarebbe apparso meschino. «Non posso sopportare l’idea di passare per un usurpatore o un avventuriero, ma non voglio neppure far credere che mi vergogno dei miei parenti, tutte persone di una probità esemplare!» La contessina ricambia i suoi sentimenti, come io stesso ho potuto constatare, ed è troppo al di sopra di simili meschinità per curarsi della differenza di nascita, ma lo stesso non si può dire purtroppo della madre di lei, che governa la casa dopo la morte del marito. La contessa Brühl gode, grazie al nome e alla posizione del suo defunto sposo, del primo posto nella società berlinese, ed è così severa nel suo giudizio sulla nascita, i costumi e le maniere altrui che essere ammessi in casa sua rappresenta una consacrazione sociale; ciò che agli occhi del capitano è tanto più ridicolo in quanto lei stessa non è nobile, e anzi, in quanto figlia di un mercante inglese impiegato al consolato di Pietroburgo, non avrebbe nemmeno potuto essere ricevuta a corte se non si fosse riscattata grazie al suo matrimonio!

«Fino a oggi Marie non ha osato confessare a sua madre il sentimento che ci lega, e così esso è sepolto nei nostri cuori; grazie a Dio» ha osservato il capitano «non siamo costretti a vederci di nascosto, poiché tutti i giorni c’è l’occasione di incontrarci, a corte, alla commedia, a un souper; ma è duro dover reprimere gli slanci dell’anima, e adattarsi al tono frivolo e superficiale della società, quando tante cose profonde richiederebbero d’esser dette! Non so per quanto potrò ancora acconciarmi a una vita simile; sento che mi è necessario unirmi presto in matrimonio. Sono diventato impaziente; credevo che la fatica fisica avrebbe messo a tacere i desideri, e mi sono impegnato nel servizio più di quanto fosse necessario e perfino opportuno; e invece essi diventano sempre più tormentosi. Mi pare d’esser circondato di creditori, e di non sapere più dove dar del capo per soddisfarli!» Avrei potuto indicargli facilmente il modo di mettere a tacere quei creditori, e con meno scudi di quanti ne occorrano per imparentarsi coi Brühl; ma sarebbe stato inutile, poiché palesemente il capitano non è uomo che possa trovar requie fra le braccia d’una Lenchen. «Il matrimonio» ha aggiunto «mi è necessario, poiché non saprei altrimenti come mantenermi moralmente buono»; e a chi fa discorsi siffatti non si può dare l’indirizzo della Jerusalemerstrasse. Senonché, appunto, per il matrimonio, anche lasciando da parte ogni disparità di condizione e di fortuna, ci voglion quattrini; e questo ostacolo appare formidabile anche agli occhi d’un innamorato. «Eppure» si lamenta il capitano «io vivo a Berlino, lei vive a Berlino, in due palazzi diversi: perché non potremmo vivere insieme senza chiedere di più? Ma l’usanza impone che si formi una famiglia e il nostro rango esige che si viva con decoro: cavalli, carrozza, domestici e lacchè. Oh, gli sciagurati pregiudizi! Quanti uomini assaporano la felicità dell’amore con poco, magari con un paio di centinaia di talleri; e noi dovremmo rinunciare a tutto questo perché apparteniamo alla nobiltà?»

Domenica, 17 agosto

«Eh bien, Monsieur, vous aimez la mauvaise compagnie»31 mi diceva una volta un gentiluomo a Londra, avendomi sorpreso mentre giocavo a carte in una taverna di Southwark, in compagnia di gente che mio padre non si sarebbe mai sognato di ricevere. Doveva aver ragione; giacché mi sono annoiato presto della società di un distinto ufficiale come il maggiore Schack, con tutti i suoi cavalli inglesi e il suo reggimento Gensdarmes, mentre quella di un giocatore spiantato come il tenente von Suckow mi diverte ogni giorno di più. Quest’oggi mi sono addentrato con lui nei bassifondi di Berlino, allo scopo di andare a visitare il suo protetto, che ha preso servizio presso il reggimento in qualità di cadetto soprannumerario ed è stato alloggiato in casa di un caporale. L’indirizzo era in via della Posta, una squallida stradina di case d’affitto a quattro o cinque piani, su cui il sole non batte neppure a mezzogiorno e dove ristagna in permanenza un buon odore di cavoli e rape. Il portone che cercavamo era in faccia a una macelleria e dava su un cortile umido, in fondo al quale scorreva la Sprea. Ci siamo arrampicati su per una scala stretta e ripida, dove a giudicare dall’odore tutti quelli che passano si liberano la vescica; e infatti a uno dei pianerottoli abbiamo incontrato uno che pisciava senza scomporsi. Finalmente siamo arrivati all’ultimo piano, dove, in fondo a un corridoio così buio che anche in pieno giorno non si distinguevano le porte, abita il caporale Meritz. Questo brav’uomo, sarto di mestiere, era in maniche di camicia nell’unica stanza che, insieme a uno sgabuzzino senza finestre, forma tutto l’appartamento; e prendeva le misure al suo nuovo pensionante, cui era incaricato di cucire l’uniforme. Il cadetto soprannumerario ci ha accolti con entusiasmo e non appena liberato dagli spilli del sarto si è affrettato a mostrarci con legittimo orgoglio il suo quartiere: cioè appunto lo sgabuzzino di cui sopra, in cui sono allineati due lettini di ferro, uno dei quali gli appartiene, mentre l’altro è condiviso fraternamente da due soldati. Al piede del lettino era legato un cagnolino bianco che il ragazzino si era comprato per avere un po’ di compagnia, e all’altro capo pendeva una gabbietta di vimini con due tortore. Poiché in tutto l’alloggio non c’era posto a sufficienza per sederci ho proposto di andare a bere un bicchiere nella mescita più vicina, e dopo aver scoraggiato l’ottimo Meritz, che pretendeva di seguirci, assicurandolo che ci saremmo presi cura del suo locatario abbiamo ridisceso la scala pericolante, tornando con sollievo all’aria aperta.

All’osteria ci siamo seduti attorno a un tavolo non troppo lurido; l’oste e perfino gli avventori ci venivano a guardare fin sotto il naso, poiché non ci conoscevano, ma il luccichio di una moneta d’argento li rese tutti pronti a servirci. Fin dal primo bicchiere non ci peritammo di scherzare col ragazzino sui meriti dell’alloggio che gli era stato assegnato. Nonostante questa sistemazione poco brillante, di cui non aveva potuto nasconderci gli aspetti più scomodi, il giovane von Suckow era pieno di entusiasmo per la sua nuova condizione. Ci parlò con calore di Meritz e di sua moglie, una berlinese puro sangue, appartenente alla classe delle cuoche, che gli aveva assicurato di essere un cordon bleu di prima forza. «Ha servito per anni in casa del signor Pistorius, consigliere segreto alla guerra, e mi ha garantito che cucinerà tutto quel che le chiederò; oggi ha preparato la crema al cioccolato!» esclamò il ragazzino, con gli occhi che brillavano alla prospettiva di quella delizia. «E chi dorme nell’altro letto?» indagò il tenente. A quell’interrogativo l’entusiasmo del cadetto sbollì d’un tratto. «Oh! Sono due soldati, ma credo che siano due bravi ragazzi» ci assicurò, in tono non troppo convinto. «Kottwitz è l’uomo di destra della prima fila della compagnia; è una posizione rispettabile, non è vero? Egli mi ha giurato che viene affidata soltanto a soldati sperimentati.» «Oh, sì, se è il primo uomo della fila potete fidarvi di lui» motteggiò Suckow, ma in tono così serio che il ragazzino non se ne accorse; «ma qual è il suo mestiere?» «È musicista» fu la risposta; «lo chiamano sempre a suonare alle feste, e ritorna a casa ubriaco, ma così ubriaco che non può ritrovare da solo il suo letto.» Il tenente non pareva affatto preoccupato all’idea che suo cugino si trovasse in siffatta compagnia; certamente, egli stesso era passato per la medesima esperienza pochi anni prima, e del resto può darsi che un nobile di campagna del Meclemburgo consideri come una specie di scherzo ciò che spaventerebbe più di un giovanotto della buona società di New York. «E l’altro?» continuò a indagare il mio amico. «Oh! È un tamburino, ma non mi sembra mica tanto intelligente. È polacco, e che io sia dannato se mi ricordo il suo nome» esclamò il ragazzino, che in quei pochi giorni pareva aver fatto grandi progressi nel linguaggio dell’esercito. «Farfuglia a gran fatica qualche parola di tedesco; ieri ho passato tutta la sera cercando di conversare con lui, e tutto quello che ho potuto apprendere è che al suo paese faceva il guardiano di porci.» «È un utilissimo mestiere» dichiarò beffardamente suo cugino, e con ciò la sistemazione del ragazzino venne definitivamente approvata.

Poiché, dopo aver vuotato la prima bottiglia, il cadetto è diventato improvvisamente pallido e ha smesso di parlare, Suckow e io ne abbiamo concluso che alla sua giovane età non deve ancora essere avvezzo al bere, soprattutto con un caldo simile; sicché lo abbiamo sollevato di peso e lo abbiamo condotto a prendere un po’ d’aria. Dopo che il nostro amico, affacciato al parapetto sul canale, ha liberato lo stomaco del peso superfluo, gli ho comprato da un venditore ambulante un pezzo di zucchero di barbabietola, che qui a Berlino passa per una galanteria e costa due volte più dello zucchero di canna; e mentre il ragazzino si addolciva la bocca io e suo cugino siamo rientrati nella bettola e abbiamo finito la seconda bottiglia. «Chissà» ha osservato Suckow «se mi toccherà partire per la guerra con il moccioso appresso; è tutta colpa del mio buon cuore: che bisogno avevo infatti di farlo entrare nel mio reggimento? Avrebbe potuto benissimo tornarsene a casa!» «Può anche darsi» ho replicato «che non dobbiate partire affatto; anzi, se dovessi giudicare dagli umori che ho riscontrato in questi ultimi giorni, direi senz’altro che la guerra non ci sarà.» E in verità il governo ha fatto tutto ciò che poteva per dissipare le voci di lunedì scorso e rassicurare Bonaparte circa gli immutati sentimenti di amicizia che la Prussia nutre nei suoi confronti. Il feldmaresciallo von Möllendorff, a pranzo da Laforest, ha voluto alzarsi per primo a brindare alla salute dell’imperatore, la Pulzella d’Orléans non va più in scena, e il cambio è stato sostenuto al tasso precedente. «Il mio albergatore» conclusi «è così persuaso che il riarmo sia stata una misura inutile, da dolersi con me che Sua Maestà abbia intrapreso così grandi spese senza necessità, poiché, a quanto si dice, mantenere l’esercito sul piede di guerra costa all’erario centomila talleri al giorno!» «A proposito» disse Suckow, seguendo non so quale oscuro collegamento di pensieri, «non avreste intenzione di fare una partita?» In un altro momento avrei accettato volentieri, poiché debbo ancora rifarmi di tutto l’oro che ho perduto l’altro giorno; ma ho dovuto declinare l’invito, perché dopo pranzo ero invitato a prendere il tè dalle signore von Crayen.

Questo tè pomeridiano è stato memorabile per più di una ragione. Fra gli ospiti di Victoire c’era una delle celebrità del momento, il poeta Zacharias Werner, che ha rappresentato poche settimane fa qui a Berlino un suo dramma su Martin Lutero, intitolato La consacrazione della forza, di cui si dicono le meraviglie. È un omaccione esaltato, sempre pronto a parlare più forte del necessario e a gesticolare smisuratamente, ma al tempo stesso con qualcosa di untuoso e anzi pretesco nel modo di fare e nel tono della voce, accentuato dall’abito nero e dal cappello, pure nero, di foggia antiquata, proprio come quello di un curato. Victoire, sempre affascinata dai letterati, pendeva dalle sue labbra, ciò che mi ha seccato non poco, anche perché l’omone, credendosi inosservato, le lanciava certe occhiate inequivocabili e con la scusa di sorbire il caffè si leccava oscenamente le labbra; ma per fortuna un passo falso ha precipitato la sua disgrazia. Uno dei presenti, consigliere di non so quale dipartimento, aveva annunciato la sua prossima partenza per la Polonia occupata, che ora si chiama, con curioso understatement, Prussia Meridionale, sebbene i suoi confini giungano fino al Bug e al Niemen. Victoire l’ha pregato di scriverle ogni settimana per comunicarle le sue impressioni su quel popolo: «Dovete sapere che amo i polacchi, e li amo proprio de tout mon coeur. Sono così cavallereschi e infelici!» ha dichiarato. E poi, volgendosi a Werner, che a quanto sembra passa per un conoscitore della nuova provincia: «E siete stato proprio voi, signore, a insegnarmi ad amarli. Quante volte ho riletto i vostri poemi polacchi, quante lacrime ho sparso sulla morte di Kosciuszko! Come siete fortunato, ad aver conosciuto da vicino quella razza nobile e disgraziata!».

Sentendosi rivolgere la parola con tanto entusiasmo, il poeta ha sollevato il sopracciglio in atto di sorpresa. «Io, signora? Ahimè, mi sarebbe più caro non aver esercitato su di voi un’influenza così fallace! Non nego, non nego di aver scritto molti versi in elogio degli infelici polacchi, e neppure li rinnego, ché non son uso rimangiarmi le mie parole; e tuttavia, se sapeste quanto la realtà è diversa dalla vostra generosa immaginazione!» Poi, prima che Victoire potesse riprendersi da un colpo così inaspettato, ha proseguito, felice di aver attirato l’attenzione di tutti i presenti: «Io, signora, ho studiato i polacchi dal vero per undici anni, e sono purtroppo giunto alla conclusione che quella razza è la sola responsabile di tutte le sue disgrazie. Varsavia è molto diversa da ciò che avevo sognato; quella libertà polacca in cui onore ho composto tanti poemi, e di cui mi auguravo insensatamente la rinascita, senza accorgermi di tradire così il mio re e il mio paese, mi ha disgustato radicalmente da quando ho conosciuto i suoi miserabili apostoli. La mia sola scusante è che ero giovane, e subivo l’influenza di alcuni polacchi esaltati – poiché nessuna nazione è più esaltata dei polacchi: ma ora che posso dire di averli conosciuti per bene, e a mie spese, vi assicuro che essi non meritano di occupare il cuore e l’immaginazione di una così bella signora». Anche se in cuor mio sospettavo ch’egli avesse ragione, godevo nel vedere il dispetto che le sue parole provocavano in Victoire, e l’abisso che egli scavava senza saperlo sotto i propri piedi. Perciò l’ho provocato, ribattendo che senza dubbio s’ingannava, e che i polacchi meritano la simpatia di tutti i popoli civili. Mi ha guardato con commiserazione, e ha risposto, agitandosi sulla sedia e grattandosi furiosamente, che i polacchi meritano una sola cosa: di essere trasformati al più presto in tedeschi e in protestanti, poiché il loro sangue è marcio quanto la loro religione. «Non sono dunque cristiani?» ho domandato in tono innocente. Il poeta mi ha lanciato un’occhiata feroce. «Sostengono d’essere cristiani, ma io vi dico che un maomettano è più cristiano d’un cattolico, e che i turchi sono una razza meno depravata degli slavi. Solo un sangue giovane e robusto come quello tedesco, sostenuto dai conforti della vera fede, potrà riscattare il loro paese dalla sua abiezione» ha concluso, e poco è mancato che battesse un pugno sul tavolino per meglio sottolineare le sue parole, con grave pericolo di tazze e teiera. Mi sono stretto nelle spalle, senza nascondere la mia disapprovazione per questo modo di vedere; e ho constatato con gioia che Victoire, ancora scossa e incredula per il comportamento del suo idolo, mi indirizzava sguardi non equivoci di simpatia.

La presenza del poeta ha reso alquanto sgradevole il resto della serata, anche perché l’omaccione, dopo aver finito di tuonare contro i disgraziati polacchi, ha approfittato dell’occasione per cavar fuori dalla marsina un lungo manoscritto, alquanto stazzonato e unto nelle prime pagine. «Questa è la mia ultima fatica» ha dichiarato «e s’intitola La croce sul Baltico. Vuol rappresentare la diffusione della vera fede in quelle lande inospitali a opera dei valorosi cavalieri teutonici, senza il cui aiuto il popolo polacco, tradito dall’inettitudine dei suoi principi, avrebbe dovuto soccombere all’aggressione dei pagani.» Dopo aver smascherato il filisteismo di Iffland, che ha avuto il torto di rifiutare il capolavoro, il drammaturgo ci ha costretti ad ascoltare un riassunto completo del suo poema, con drammatizzazione delle scene principali, eseguita da lui stesso alternando alla sua voce naturale un inatteso falsetto. Al levarsi del sipario si vedono i Pruteni radunati sulla riva del Baltico per raccogliere l’ambra; quei bravi pagani invocano la divinità perché protegga il loro lavoro. Nel silenzio generale l’autore ha scandito, con voce sepolcrale: «Bankputtis! Bankputtis! Bankputtis!»; poi ha taciuto, asciugandosi il sudore con un fazzolettone a quadretti. Allora un bello spirito ha protestato: «Mio carissimo amico! Illustre poeta! Possibile che tu abbia scritto tutto quanto il poema in questa lingua maledetta? Nessuno di noi ci capirà qualcosa. Ti prego perciò di cominciare addirittura colla traduzione!». Pochi hanno saputo soffocare un risolino, e Werner ha fulminato con lo sguardo il miscredente prima di proseguire la lettura. Il seguito del dramma, come si può ben immaginare, è degno della prima scena, e temo di dover confessare che già durante il primo atto non ho avuto più cuore di seguire la lettura. Victoire sedeva accanto a me, un po’ discosto rispetto alle sedie degli zelanti che facevano cerchio attorno al poeta, e incontrando il suo sguardo vi ho letto ch’essa dava del dramma il mio stesso giudizio; allora ho alzato gli occhi al cielo, ed essa per poco non è scoppiata a ridere in faccia al narratore. «Chissà», ho sussurrato, accostandomi al suo orecchio, «può darsi che l’opera guadagnerebbe a essere messa in scena; qualche direttore di gusti avanzati ne approfitterebbe per divertire gli spettatori con scenari di castelli e torri merlate, armature, cimieri e candidi mantelli svolazzanti, insomma tutto l’armamentario gotico che piace tanto alla nuova scuola.» «Certo non le giova la recitazione del poeta» ha replicato Victoire sullo stesso tono. «Ecco che ora grida come un insensato. Ma perché fa così?» «Si martirizza per mettere bene in evidenza tutte le assonanze, le allitterazioni e le terze rime, giacché non vuole che neppure una briciola del suo talento passi inosservata» ho risposto; poi, siccome ci trovavamo così vicini, ho approfittato dello schienale che offriva un’opportuna copertura, e allungando come casualmente un braccio l’ho passato intorno alla vita di Victoire.

Confesso di essere un grande ammiratore della moda odierna, della vita alta e delle stoffe sottili: una volta, quando le donne portavano corsetti rigidi e imbottiture di sughero, tanto valeva sedere col braccio attorno a un tronco di quercia; ma adesso, di rado c’è qualcosa di più della camicia sotto la veste, e la vita di una signora risulta estremamente confortevole al tatto. Victoire non si è mossa, e così allacciati abbiamo continuato a seguire la lettura del dramma, che è ancora proseguita per un buon tratto. Non mi pare il caso di riportare qui in dettaglio la trama; basti dire che nel momento culminante un suonatore di liuto, il quale in realtà non è altri che lo spettro del santo vescovo Adalberto, assassinato dai Pruteni, traveste da pellegrino Malgona, figlia di Corrado di Masovia, la quale ha sposato in segreto il pagano Samo, figlio del gran capo Waidewuth, prigioniero dei polacchi; i quali a loro volta sono assediati nel castello di Plock dai pagani, e soccomberebbero senza fallo, se non giungessero al loro soccorso i cavalieri teutonici, con gran rinforzo di trombe e canti sacri. Va da sé che il dramma gronda sangue da tutte le parti, e che l’uditorio è uscito dalla prova positivamente stomacato, e più persuaso di quanto non lo fosse un’ora prima del buon gusto di Iffland. Per conto mio, a lettura terminata ho chiesto all’autore se non gli risultava che i cavalieri teutonici fossero cattolici, e come si accordava tanto entusiasmo nei loro confronti con la sua celebrazione di Lutero; l’omaccione è rimasto per un istante interdetto, ma non ha tardato a riprendersi, e ha replicato, mettendo in mostra con un gran sorriso tutti i suoi denti guasti, che i cavalieri erano prima di tutto tedeschi, e poi cristiani, e che non si può discutere di cattolici e protestanti in un dramma che si svolge tre secoli prima della Riforma. Non mi è parso il caso di continuare la conversazione e ho accolto con piacere la comparsa delle carte, che alla buon’ora hanno messo fine agli sproloqui del drammaturgo: costui infatti, tenendo oltre misura al suo denaro, si è affrettato a prendere congedo. Aggiungerò soltanto che non c’è da sorprendersi se l’uomo è di tale pasta, poiché, come si è sussurrato subito dopo la sua partenza, il suo stesso sangue è guasto da tare ereditarie e sua madre, una cattolica, morì in un asilo per alienati, convinta di essere la Vergine Maria.

Mentre facevamo la partita mi sono messo a pensare al punto in cui erano giunti i miei affari con Victoire. Che bisogno avevo di sedurre una ragazza onesta, e che per giunta non mi piaceva neppure, quando Berlino era piena di donne che avrei potuto avere per un tallero? Cercavo di persuadermi che l’unico comportamento degno di un uomo sarebbe stato di troncar tutto immediatamente; ma poi mi bastava alzar lo sguardo all’altro tavolo, dov’essa giocava in compagnia di sua madre e del funzionario in partenza per la Polonia, per accorgermi che ormai era troppo tardi. Troppe volte Victoire si è chinata verso di me per servirmi il tè o il caffè, col vestito generosamente scollato che svelava il mobile gioco dei seni, troppe volte il suo profumo è rimasto nell’aria dopo ch’ella mi era passata accanto, generando un seguito di riflessioni una più stimolante dell’altra, perché non dovessi prima o poi sorprendermi ad accarezzare pensieri irriguardosi. Sa Dio cosa si prova a vedere tante grazie passare e ripassare davanti agli occhi senza poterle afferrare; e pensare che afferrare, e stringere, è l’istinto più naturale dell’uomo. L’altra sera, a teatro, mi sono trattenuto soltanto per riguardo al luogo pubblico in cui ci trovavamo, e alla presenza vigile di sua madre. Stasera, infine, tutto è precipitato, per concludersi fortunatamente nel migliore dei modi. Ero rimasto l’ultimo degli ospiti; tutti gli altri si erano congedati. Mi sono alzato in piedi per dare a mia volta la buonanotte alle padrone di casa; la Fortuna, che avevo così a lungo corteggiato davanti al cancello del palazzo di Charlottenburg, volle che la madre, scusandosi per la stanchezza e accusando un’emicrania, mi porgesse la mano e si ritirasse nelle sue stanze quando io mi trovavo ancora in salotto. Per qualche minuto, in piedi, io e Victoire continuammo a discorrere a bassa voce, soli. Nella semioscurità sentivo il suo profumo francese mescolato all’odore ben diverso, agro, eppure seducente del suo sudore, poiché la serata era stata afosa e nel chiuso dell’appartamento faceva molto caldo. Poi essa mi ha porto la mano dicendomi: «Adieu, caro Robert!». Caro Robert! Era la prima volta che mi chiamava così, e ho sentito un brivido giù nelle ossa. Le ho gettato le braccia al collo, ho chiuso gli occhi e l’ho baciata. Per uno spaventoso istante essa non ha risposto al bacio, e già mi attendevo di sentirla gridare, e mi vedevo scacciato con ignominia dai servi, precipitato a calci giù per le scale di casa: poi, all’improvviso, nelle sue labbra si aprì una breccia, e in essa si inserì pronta la mia lingua, incontrando la sua a mezza strada. Fu come se un muro costruito con la pazienza, con l’artificio e con l’inganno, tenuto in piedi contro ogni legge di natura con la forza, col ricatto e con l’abitudine, e guardato con terrore sovrannaturale da generazioni di sudditi, crollasse subitamente sotto la spinta di una volontà finalmente libera da ogni rispetto mondano. Un istante dopo eravamo abbracciati sul canapè, e mentre le nostre lingue si mescolavano la mia mano le rialzava la veste sul ventre e risaliva veloce fin sopra l’orlo delle calze di seta. Ma a questo punto, come spesso accade con le donne perbene, si è presentato un impedimento. Victoire palesemente ci pigliava gusto, e rispondeva ai miei baci con una prontezza che testimoniava in modo fin troppo eloquente del suo stato di agitazione, ma la buona educazione voleva che continuasse a schermirsi; sicché, non appena si trovò senza riparo, una delle sue mani corse a difendere il suo pudore, impedendomi di spingermi là dove volevo andare. Allora mi venne in mente il sistema di cui Bill Pinkney mi aveva così spesso vantato l’infallibilità, e riuscii appena a trattenere un sogghigno, tanto la congiuntura in cui mi trovavo somigliava a quella da lui prevista. Senza por tempo in mezzo decisi di metterlo in pratica, e come per goffaggine le appoggiai il braccio sinistro contro la gola, minacciando di soffocarla. Subito Victoire fece il gesto istintivo di portarvi la mano, e all’istante io presi con due dita ciò che dovevo prendere e lo condussi tranquillamente dove doveva andare, senza incontrare, peraltro, alcuna resistenza: a conferma che la mia bella non era nuova a quel gioco, e che la sua finta ripulsa faceva parte anch’essa della commedia. Quando ritroverò Pinkney debbo congratularmi con lui per il suo sistema; basta un po’ di sangue freddo, e il risultato è infallibile. Occorre però dissimulare il movimento decisivo del braccio sinistro con qualche moina, per non essere sospettati di una violenza che potrebbe alienare l’animo della paziente in una prossima occasione. Mentre mi abbottonavo le brache, Victoire si ripuliva con un fazzoletto, a occhi bassi, ed io spiavo con qualche apprensione un segno di malumore, se non di pentimento; ma anche in questa occasione ella si è dimostrata pari alla sua fama di donna di spirito. Aggiustandosi le calze, mi ha guardato con un sorriso malizioso. «Ecco!» ha detto. «La consacrazione della forza!» Ho cercato nella memoria un altro titolo per risponderle adeguatamente, ma non me n’è venuto in mente nessuno; così mi sono riconosciuto battuto, e le ho chiuso la bocca con un bacio.

Lunedì, 18 agosto

I discorsi tenuti l’altra sera alla tavola del professor Fichte, davanti al gran piatto in cui si freddavano i miserabili avanzi della testa di bue, mi sono tornati alla mente oggi, quando, avendo concordato con Victoire d’incontrarci là come per caso, sono andato a prendere il tè da Rahel Levin. Al mio arrivo la compagnia riunita nella mansarda era meno numerosa dell’altro giorno, e senza ospiti di sangue reale; oltre alla padrona di casa, non c’era nessuno ch’io conoscessi. Il tè era servito in tazze di porcellana finissima, d’un celeste addirittura trasparente; e per la mia scarsa dimestichezza con quella società, commisi l’errore di elogiarle. Non sapevo ancora che in una casa giudaica il commento più innocente può suscitare imprevedibili imbarazzi, e che insomma quando si abbia la ventura di trovarsi in una tal compagnia bisognerebbe star zitti, o discorrere della pioggia e del bel tempo. Pronunciato che ebbi il mio elogio sentii che un certo disagio s’era impadronito dei presenti, ognuno dei quali pareva intento a sorbire la sua bevanda con maggior concentrazione di prima; e ancor oggi non ne saprei la ragione, se Rahel non si fosse messa a ridere d’un suo riso agro, dicendomi poi: «Sapete, signor Pyle, da dove provenga questa porcellana?». Non potendo sottrarmi, mormorai che non lo sapevo. «Dovete sapere che Federico il Grande ebbe un bel giorno l’idea di utilizzare i suoi ebrei per favorire le regie manifatture di porcellana, che facevano concorrenza senza troppo successo a quelle sassoni. Dico i suoi ebrei, poiché non ignorate senza dubbio che quegli ebrei cui è graziosamente concesso di risiedere nel regno di Prussia sono considerati dalla legge come proprietà personale del re.» «Be’, stimatissima signorina, non è proprio così, e se volessimo rendere giustizia al nostro Codice» cominciò uno degli ospiti, che a giudicare dal linguaggio pedante doveva essere un giurista; ma Rahel non lo lasciò terminare. «Così era, in ogni caso, al tempo di Federico, ed è a quel tempo che risale la storia. Dunque il re immaginò di vendere ai suoi ebrei gli innumerevoli privilegi, perché così son chiamati, senza i quali era ed è impossibile per loro vivere come un qualsiasi altro suddito, obbligandoli a pagarli con l’acquisto di porcellana. Vuoi che i tuoi figli abbiano il diritto di ereditare? Compra trecento talleri di porcellana per ognuno! Vuoi acquistare una casa, favore eccezionale, perché a Berlino il numero di case possedute da ebrei è limitato per principio a quaranta? Ancora trecento talleri! E così via; e passi ancora, se si fosse potuto scegliere! Ma la fabbrica consegnava d’ufficio un terzo dell’acquisto in porcellana fine, un terzo in qualità media, e il resto in oggetti di scarto. Voi avete elogiato il mio servizio da tè, ma da qualche parte in cantina ci sono ancora venti scimmie di porcellana, in grandezza naturale, di cui non abbiamo mai saputo come disfarci!»

Proprio in quel momento fece la sua apparizione senza farsi annunciare un giovanetto di forse sedici anni, dall’aspetto di uno studente squattrinato. La nostra ospite, a quanto mi parve di capire, non accolse il suo arrivo con entusiasmo; lo presentò tuttavia come suo cugino, con un nome che suonava come Meno Burg. Il ragazzo accennò un sorriso e dopo essersi seduto spiegò che in realtà essi non erano proprio cugini, ma che «si sa, noialtri giudei siamo tutti un po’ parenti»: una precisazione che visibilmente non fece alcun piacere alla padrona di casa. Egli ci disse d’essere apprendista presso l’Ispettorato cittadino all’edilizia, ma la sua ambizione, dichiarò candidamente, era di diventare ufficiale di artiglieria! Rahel si congratulò con lui per quel proposito, perché allora, disse, avrebbe dovuto finalmente risolversi a farsi battezzare, senza che nessuno in famiglia potesse criticarlo; «e allora» aggiunse come celiando «ne approfitterò per battezzarmi anch’io». Il ragazzo alzò le spalle, e ribatté in tono piccato che non aveva nessuna intenzione di convertirsi. Questa risposta pronunciata con tanta leggerezza mandò in collera la nostra ospite, che non seppe trattenersi dall’aggredire il giovane scervellato. «Ah, tu non vuoi convertirti! Non vedi dunque che tutti se ne vanno? David si è battezzato, Dorothea si è battezzata, Marianne si è battezzata, perfino mio fratello Ludwig si è battezzato. Presto non resterà nessun ebreo a Berlino, non una pietra sull’altra: soltanto noi dovremmo restare? E perché poi? Perché siamo nati ebrei? Cos’ha a che fare la mia anima con l’essere ebrea? Quando sono stata gettata in questo mondo, Dio mi ha inciso in cuore queste parole: “Sii sensibile, sii capace di guardare il mondo come pochi lo vedono, sii nobile e grande”. Solo una cosa non sta scritta da nessuna parte: “Sii ebrea!”. E voi volete costringermi a esserlo per tutta la vita! Ma è vita questa? Non fatemi morire prima del tempo!»

Il ragazzo la guardò con uno sguardo doloroso, come ferito da quell’attacco inaspettato. «Io non ti ho detto nulla. È di me che parlavo. Ma se proprio vuoi saperlo, io la penso davvero così: perché mai un ebreo non può essere un cittadino come gli altri?» La padrona di casa lo aggredì ancor più furiosamente: «Gli ebrei, cittadini come gli altri! Lasciando loro il diritto di essere ebrei, e di educare i loro figli alla moda ebraica! Se almeno essi conservassero l’illusione di essere prediletti da Dio, e si sforzassero di vivere all’altezza della loro fede! Ma è forse così? Credono forse davvero di essere il popolo eletto? No, essi lo credono tanto poco quanto gli altri: sono solo una razza che non merita più il nome umano. E tu vorresti che il re concedesse ai suoi sudditi di diventare ufficiali e funzionari, restando ebrei? Ma via! È già abbastanza grave che ci siano ebrei, consenti almeno che la legge si adoperi per trasformarli in uomini!». Rosso in viso, il ragazzo ribatté valorosamente: «Eppure, ricordi ciò che disse Federico: “Le religioni deggiono essere tutte tollerate, e lo Stato non dovrà adoperarsi, se non acciocché alcuna d’esse non rechi danno alle altre, perché qui ognuno deve andare in Paradiso alla sua maniera”. E un’altra volta, richiesto se un cattolico potesse divenire borghese di Francoforte sull’Oder, rispose: “Tutte le religioni sono egualmente buone, quando coloro che le professano sono uomini d’onore, e se turchi e pagani verranno e vorranno popolare il paese, noi costruiremo per loro moschee e templi”». La piccola Levin lo guardò di sbieco, poi ribatté velenosamente: «Ma Federico disse anche: “Ho già abbastanza ebrei nei miei stati!”». Poi si rivolse a me, che avevo ascoltato sbigottito quello scambio di battute, e disse fissandomi con uno sguardo luciferino: «Sentite come discute? È il sangue che parla in lui, il sangue della razza profuga dall’Egitto e dalla Palestina. Non disputate mai con un ebreo! Aveva ragione chi scrisse: “Fuge, o fuge Judaeos!”32». Non avevo mai pensato che gli ebrei considerassero una vergogna l’esser nati tali, così come facciamo noi, ma quella sera mi accorsi che almeno per i più sensibili è proprio così; eppure faticavo a provar compassione per la tragedia di Rahel, giacché essa faceva un’esibizione così indiscreta della sua infelicità. La sua voce si era tramutata in un falsetto, come avviene agli ebrei quando sono sconvolti da un’emozione profonda, e vidi che più d’uno, benché toccato dalla sua sincerità, non poteva reprimere un sorriso constatando fino a quel punto l’impronta della razza che essa aborriva trasparisse nei suoi comportamenti.

Il ragazzo aveva le guance in fiamme, ma volle ancora tenerle testa. «So che tanti la pensano come te, anche fra noi. Sono quelli che dicono: gente come noi non può essere ebrea! Ma io voglio essere ebreo, e voglio essere un ufficiale al servizio del mio re, e lo sarò!» «Il tuo re!» lo derise Rahel, dimentica di tutto; e la sua voce assunse un tono ancor più stridulo. «Sai che cosa ha detto il tuo re? Avrai sentito raccontare anche tu che Napoleone vuole fondare un regno ebraico, in cambio di non so quanti miliardi pagati dalla gente come Jacobsohn. Ora io so da fonte sicurissima, bada, che quando la regina è tornata dalle acque, ha chiesto al re se questa frottola era vera, poiché le avevano assicurato che emissari francesi si stanno dando da fare a Berlino, per convincere i più ricchi ebrei a lasciare lo Stato. Il re si è messo a ridere, e le ha risposto che questo nuovo regno di Salomone è una favola per bambini, ma che se Napoleone vuole davvero gli ebrei, gliene regalerà volentieri qualche migliaio, perché possa divertircisi quanto vorrà!» Mentre parlava, Rahel aveva in mano un wafer che si era dimenticata di mangiare, e senza accorgersene lo aveva ridotto in briciole; quando se ne accorse, voleva a tutti i costi inginocchiarsi a raccoglierle, e credo che sarebbe scoppiata a piangere, fra la costernazione di tutti. Ma proprio in quel momento è giunto, come un vero Deus ex machina, il principe Louis Ferdinand; e ci ha fatto dimenticare ogni cosa con le straordinarie novità che aveva da raccontare.

Stanotte, a quanto pare, è giunto un altro dispaccio da Parigi, ancor più allarmante del primo; poiché secondo Lucchesini la pace tra Francia e Russia contiene un codicillo segreto, in forza del quale la Polonia prussiana sarà ceduta alla Russia, al pari di quella austriaca, per formare un nuovo regno di Polonia, di cui sarà re il granduca Costantino. «Se quel miserabile di Lucchesini è tanto spaventato da dubitare della buona fede del suo caro Napoleone, può anche darsi che qualcosa di vero ci sia!» ha concluso il principe. «Ma è mai possibile» ho obiettato «che lo zar ratifichi un tale trattato, come se gli impegni che ha firmato l’anno scorso a Potsdam con Federico Guglielmo non fossero che un pezzo di carta?» Il principe, che doveva aver già bevuto più di una bottiglia, ha alzato le spalle. «Non solo l’onore, ma la ragion di Stato dovrebbero consigliare allo zar di non accettare un tale trattato. Ma l’illusione della potenza, l’odio di qualche ministro, le speranze interessate di qualche cortigiano, gli intrighi di un’amante polacca e di un fratello ambizioso e violento come Costantino possono far tacere la ragion di Stato nel 1806 a Pietroburgo, come analoghi motivi le hanno imposto il silenzio nel 1756 a Versailles.» «Ma se è così» ha mormorato Rahel «siamo perduti!» «Non ancora», ha ribattuto il principe. «Se Sua Maestà si degnasse di ascoltare i miei consigli, gli direi di salire stasera stessa in carrozza, con poca gente e molto denaro, e andare a buttarsi nelle braccia del suo buon fratello lo zar, restituendogli la visita che Alessandro fece qui l’anno scorso; e là, a Pietroburgo, faccia a faccia, senza ministri né consiglieri, tutti gli equivoci si dissiperebbero.»

«Chi dunque Vostra Altezza vorrebbe mandare così di fretta a Pietroburgo?» ha esclamato una voce allegra; e Victoire, accaldata e ridente, è entrata nella sala, inchinandosi davanti al principe, di cui aveva inteso a metà le parole attraversando l’anticamera, e abbracciando poi affettuosamente Rahel; a me riservò un cenno del capo e un sorriso, in cui io solo fui in grado di leggere qualcosa di più di un complimento mondano. «La nostra signorina von Crayen! Siamo tutti lieti di vederla» ha esclamato il principe, sempre amabile; e con quell’imprudenza che lo contraddistingue quando parla di politica, quale che sia la società in cui si trova, ha aggiunto: «Era il nostro amato sovrano che avrei voluto far partire in tutta fretta verso oriente, poiché le notizie che arrivano da Parigi non sono per nulla incoraggianti quanto alle intenzioni di Alessandro. Beninteso, un rimedio assai più sicuro e radicale sarebbe di marciare verso occidente, e alla testa dell’esercito: ciò metterebbe fine a ogni timore; ma ho già provato troppe volte a dare questo consiglio, per aver voglia di rinnovarlo». Mentre la conversazione proseguiva ho osservato Victoire, che s’era seduta proprio davanti a me; pur senza aver preso alcun accordo evitavamo di rivolgerci la parola, ma di tanto in tanto i nostri occhi s’incontravano, e un muto sorriso si disegnava sulle sue labbra. Essa sedeva sulla sua poltrona in un atteggiamento che nessuno avrebbe potuto trovare sconveniente, e tuttavia pareva a me, che conoscevo i segreti di quelle gambe e di quei fianchi, sottilmente voluttuoso; credo anzi d’essermi perduto per un momento in pensieri poco decenti, dimenticando di prendere parte alla conversazione. Louis Ferdinand si rivolgeva soprattutto a Rahel, come se volesse distrarla e impedirle di ripensare alla scena di poco prima; è curioso che questo principe, incapace di parlar di politica senza compromettersi, dimostri poi tanta delicatezza nel trattare i cuori femminili: e credo che se ponesse nel sedurre suo cugino, il re, metà della cura che impiega per apparir seducente in un salotto, non correrebbe più il rischio d’essere esiliato a Magdeburgo.

Più tardi ho riaccompagnato Victoire a casa in carrozza; speravo che avrebbe fatto fermare la vettura davanti a qualche negozio, per mandare la cameriera a comprare aghi, o spilli, o nastri, o qualche altra mercanzia femminile, e così avrei potuto ottenere un anticipo dei piaceri che mi ripromettevo d’averne a notte avanzata. Quando le ho mormorato all’orecchio questo suggerimento, tuttavia, essa mi ha pregato d’aver pazienza, poiché fin dal mattino soffriva di emicrania, e non desiderava se non andarsene a dormire; la ragazza, seduta accanto a lei, guardava stolidamente nel vuoto, senza immaginare il tenore della nostra conversazione. «Ma non essere troppo deluso!» ha aggiunto Victoire. «Se vuoi, domani potrai accompagnarmi in un affare d’importanza.» Curioso di sapere quali affari d’importanza potesse mai avere Victoire, l’ho assicurata che ero pronto ad accompagnarla in qualunque impresa, ed essa mi ha spiegato il pretesto che domani ci permetterà di trascorrere la mattinata insieme. Come molte altre persone del bel mondo, la signora von Crayen ha deciso che a causa della grave situazione in cui versa il regno le opere di carità ch’essa ha l’abitudine di compiere regolarmente dovranno andare a profitto del pubblico, e non più soltanto a sollievo della miseria privata; sicché ha deliberato di fare un’elargizione agli Invalidi. Domani Victoire andrà a conferire col comandante, e naturalmente mi sono dichiarato molto curioso di osservare personalmente il funzionamento di questa istituzione, così necessaria in un regno bellicoso come la Prussia. «Sarai sola?» ho domandato, sfiorandole il labbro con un dito. «Ma Robert!» ha esclamato scandalizzata. «Naturalmente ci sarà maman, e tu avrai l’onore di darle il braccio.»

Il disappunto per l’occasione perduta non mi lasciava tranquillo, e la cena di Frau Kruse e il vino di suo marito non riuscirono a dissiparlo; a tarda sera, perciò, decisi di cercare la consolazione di Lenchen. Sul portone della ben nota casa mi scontrai con un ufficiale dei dragoni, che usciva fumando tranquillamente il sigaro; costui mi urtò con la spalla e passò oltre, poi si voltò e mi squadrò con quell’aria beffarda che gli ufficiali, qui in Europa, assumono così volentieri quando hanno a che fare con i civili. In un’altra occasione mi sarei risentito, ma in un luogo simile non era il caso di far questioni di precedenza; perciò gli dissi quel che si dice di solito quando non si ha voglia di battersi: «Immagino che il signore non avesse intenzione di offendermi». «Naturalmente, no» rispose, ma in tono villano; e se ne andò senza aggiungere parola. Nella sala comune si ballava al suono di un pianoforte; una delle ragazze mi disse che Lenchen era appena tornata in sala dopo esser stata occupata a lungo proprio con quell’ufficiale, e me la indicò. Era sola in un angolo, e si stava ancora ricomponendo; seduta su una sedia, si allacciava la giarrettiera, con la gonna rimboccata fino alla coscia. Ho sempre trovato eccitante la vista di una ragazza che si allaccia le giarrettiere; così mi sono accostato e le ho fatto toccar con mano la resurrezione della carne. Lenchen mi ha preso per mano, e siamo saliti in camera sua. Qui tuttavia, accostando la candela al letto per guardarla mentre si spogliava, come sono solito fare, benché queste ragazze, per un curioso avanzo di pudore, preferiscano sempre tenerla lontana o spegnerla addirittura; avvicinando la candela, dunque, ho veduto che i suoi occhi erano gonfi, e tutto nella sua espressione, che pure si sforzava d’esser gaia, tradiva la più profonda stanchezza. «Che hai?» le ho domandato. «Niente!» ha risposto; poi, constatando al tocco e alla vista ch’ero ancor sempre impaziente, si è preparata ad accogliermi, non senza aver provveduto a sciogliere quei lacci e bottoni del mio abbigliamento che avrebbero impedito la bisogna. Quando ho cominciato a prendermi ciò che desideravo, tuttavia, le è sfuggito un gemito. «Fai piano, ché mi fai male» ha mormorato. Ora un’accoglienza siffatta basterebbe a togliere il vigore a un Ercole, sicché sono tornato a sedermi sulla sponda del materasso e le ho chiesto un’altra volta che cosa aveva. «Ma niente, oggi lì mi fa male» ha risposto; tuttavia sorrideva, per non disgustarmi.

Maledicendo fra me e me le complicazioni della natura femminile, mi rassegnai a goderla nel modo in cui Catullo minacciava di godere di Aurelio, se questi gli avesse procurato certi dispiaceri. Lenchen tuttavia non si mostrò così zelante come le altre volte; anzi, dopo essersi adoperata per un poco si scostò, e cacciò un profondo sospiro. «Ma che cos’hai, dunque?» le chiesi, esasperato. «Anche in bocca mi fa male. Già prima, l’ufficiale dei dragoni…» mormorò; e non aggiunse altro, chinando il capo. Solo allora mi venne in mente che era tardi, e ch’ella doveva essere stata usata da molti uomini, a quell’ora. «Vedo che non ne faremo nulla» borbottai, e cominciai a rivestirmi. «Ma la padrona!» esclamò Lenchen agitata. «Non aver paura», la rassicurai, «non lo diremo a nessuno»; e cavando dalla borsa un tallero, glie lo misi in mano. Poi, vedendo che anch’essa si rivestiva: «Ma non sarebbe meglio se tu restassi a riposare, adesso?». «Ti accompagno» rispose Lenchen sorridendo bravamente; così la presi sotto il braccio, e tornammo insieme di sotto. Il pianoforte continuava a suonare il suo valzer, ma pochi seguitavano a ballare; i più se n’erano andati a casa. Giunti alla porta, la ragazza mi baciò in bocca e scappò via, poiché la padrona la chiamava; ed io ritornai al mio albergo, riflettendo come non vi sia comune misura fra i destini degli esseri umani e la loro felicità o infelicità. Mi chiedevo che cosa avrebbe detto Lenchen se avesse potuto ascoltare i discorsi sfuggiti stasera alla piccola Levin, lei che mentre Rahel si sfogava contro il proprio destino seduta in casa sua, in mezzo ai suoi ospiti, con una tazza di tè in mano, si spogliava in fretta davanti a un ufficiale impaziente, rabbrividendo nel fresco della sera; e per un attimo sono stato colto dall’ispirazione bizzarra di presentare quelle due donne l’una all’altra, e di osservare ciò che ne uscirebbe.

Martedì, 19 agosto

La caserma degli Invalidi sorge sull’altra riva della Sprea, oltre l’ospedale della Charité. È un edificio imponente, anche se malandato, dove ristagna in permanenza un acuto odore di latrine; abbiamo appreso nel corso della visita che in effetti queste ultime si trovano all’aperto nel cortile, e che le procedure per farle coprire sono in corso da anni, ma la burocrazia non ne è ancora venuta a capo. Sulla porta dell’istituto, Federico ha fatto apporre a suo tempo la stessa iscrizione che Luigi XIV ha collocato sul suo, “Laeso et invicto militi”;33 questa iscrizione mi è sempre parsa di cattivo gusto, e l’imitazione puerile. In vece del generale comandante, costretto a letto dall’età e dalla paralisi, ci ha ricevuti un colonnello von Eichmann; un signore anziano e cortese, anche se fin troppo pignolo. Accompagnandoci a visitare il suo stabilimento ha spiegato che solo una piccola parte dei veterani congedati dall’esercito vi è accolta; gli altri ricevono dal re uno scudo al mese, abbastanza per nutrirsi di pane raffermo e acqua. Alcuni sono sistemati come maestri nelle scuole di campagna, un metodo eccellente per garantire la qualità dell’insegnamento impartito ai figli dei contadini. Il colonnello ci ha informati che lo stabilimento ospita 524 veterani, non uno di più e non uno di meno, organizzati in compagnie al comando di dodici ufficiali, anch’essi invalidi. Tutti costoro ricevono il loro soldo come se fossero ancora sotto le bandiere e si esercitano quotidianamente in piazza d’armi, non diversamente dall’esercito regolare, anche se con un ritmo più blando. La prima compagnia, al comando di un capitano cui mancano un occhio e un braccio, è costituita dai ciechi e dai mutilati più gravi ed è alloggiata al piano terreno. La seconda, comandata appunto dal colonnello von Eichmann, è formata dagli invalidi più anziani e dai feriti gravi, e abita al primo piano, mentre la terza compagnia comprende gli uomini meno anziani e più in gamba ed è alloggiata al secondo piano.

Mentre ammiravamo la perfezione di questo sistema siamo entrati nella prima camerata, dove subito ci sono apparsi i risvolti meno seducenti dell’istituzione. Il puzzo d’orina, aggravato dal caldo soffocante, aggredisce alla gola il visitatore fin dall’ingresso; sicché le due signore hanno dovuto applicare al naso i fazzoletti per poter proseguire la visita. La camerata è piena di donne e bambini che vi si aggirano in piena libertà, senza alcun controllo: mogli e figli dei pensionati, e a volte anche qualcosa di peggio. Il colonnello è un uomo tranquillo, che ama l’ordine e la legalità, e si sforza di ridurre gli eccessi, ma la sua autorità è palesemente insufficiente, anzi la disciplina fra i suoi sottoposti è così rilassata che stentavo a credere di trovarmi ancora in Prussia. Le uniformi dei ricoverati sono misere, con brache ancor più corte di quelle dei soldati in servizio, all’evidente scopo di risparmiare sul panno, sicché gli uomini le allungano cucendovi dei ritagli di tela; ciascuno riceve un’uniforme nuova ogni ventisette mesi. Più d’uno ha perduto la veste al gioco e gira in maniche di camicia, senza alcuna possibilità di rivestirsi fino alla prossima distribuzione. Annessa alla camerata si trova un’infermeria, dove i malati giacciono su pagliericci centenari e non dispongono, estate e inverno, che di una sottile coperta di lana a testa. La mensa è data in appalto a un cuoco che riceve ogni giorno un soldo e mezzo per ciascun commensale. Il vitto, a quanto abbiamo potuto verificare, consiste principalmente di zuppa, che per lo più non è altro che acqua ben salata in cui si fa bollire qualche verdura tritata fine, accompagnandola con pane nero di pessima qualità. Il colonnello ci ha fatto notare con legittima soddisfazione che a mezzogiorno ogni uomo riceve anche due once e mezza di carne, peraltro della peggior qualità possibile. A una domanda di Victoire, ha risposto che non è prevista una dieta leggera per i malati, che pure ne trarrebbero gran giovamento. Non si distribuiscono bevande, se non due tazze di tè ogni giorno, fra le sette e le otto del mattino.

Victoire aveva le lacrime agli occhi di fronte a tanta miseria, diversamente da sua madre, che sembrava piuttosto stomacata, e si era già pentita di aver intrapreso quella visita. Anch’essa, tuttavia, non ha potuto fare a meno di asciugarsi gli occhi col fazzoletto, quando abbiamo constatato che nonostante le loro infelici condizioni tutti gli invalidi erano in agitazione alla notizia del riarmo e bramosi di combattere, al punto che qualcuno degli ufficiali ha fatto domanda per essere riassegnato al suo antico reggimento: segno che il morale dei prussiani, nonostante i dubbi del capitano von Clausewitz, è ancor sempre quello di una volta. «Non è vero, Mr. Pyle, che questo è un popolo straordinario? Non so se in America avete degli uomini così» ha esclamato Victoire, e poi, al mio orecchio, ha aggiunto: «Ma non ingelosirti, a me basti tu». «Appunto, abbiamo uomini come me, dovrai accontentartene» ho risposto sullo stesso tono, ed essa si è messa a ridere. Poi, con quell’adorabile mancanza di diplomazia che la contraddistingue, ha chiesto al colonnello se anch’egli fosse fra coloro che avevano presentato domanda per riprendere servizio, ma il brav’uomo, piuttosto imbarazzato, ha dovuto ammettere di no: il suo sogno è semmai quello di diventare comandante degli Invalidi al posto del generale, e di riformare l’istituto secondo i suoi princìpi. Per il momento, gran parte del suo tempo si disperde nell’organizzazione dei funerali, poiché soprattutto d’estate non passa quasi settimana senza uno o più decessi: lo stabilimento dispone di una cappella, il cui servizio è assicurato da un cappellano militare in pensione, e di un cimitero con tombe individuali per gli ufficiali e una fossa comune per la bassa forza. Sebbene la procedura delle esequie sia assai sbrigativa, tutto il lavoro d’ufficio che essa comporta, compreso l’invio di innumerevoli notifiche a ogni sorta di altri uffici, grava interamente sulle spalle di Eichmann, e solo la sua naturale efficienza gli permette di venirne a capo.

Il tempo libero che gli rimane è dedicato a far fronte alle istanze di soccorso che giungono da ogni parte. Alcune sono così insistenti da trasformarsi in un vero incubo, soprattutto in quanto la rigidità dei regolamenti non permette deroghe, né d’altra parte egli sarebbe uomo da concederle; ma non tutti, neppure in questo paese disciplinato, sono disposti a farsene una ragione. Dalla finestra del suo ufficio il colonnello ci ha additato un individuo, vestito di una vecchia uniforme accoppiata a cenci borghesi, in attesa con le mani in tasca fuori del portone: ho riconosciuto un uomo che avevamo incontrato all’ingresso, e che mi aveva fissato con tanta insistenza da farmi credere che volesse saltarmi addosso. Si tratta, a quanto abbiamo appreso, di un antico sergente maggiore, pensionato del reggimento del principe d’Orange, che chiede di essere fatto sottotenente, come gli è stato promesso da tempo immemorabile, tanto che porta in tasca da cinque anni un’assicurazione di pugno del re: potrebbe allora occupare un posto da ufficiale agli Invalidi, ma l’ultimo posto che si è liberato è stato dato a un altro, e l’antico sottufficiale passa le giornate davanti all’edificio, in attesa di qualcuno che possa aiutarlo. «I casi come questo» ha proseguito il colonnello «non si contano.» Ci ha mostrato la sua posta, con l’atteggiamento di un uomo che ha ormai rinunciato a ogni speranza e chiede soltanto comprensione per le difficoltà in cui è intrappolato. «La signorina von Stojenthin, orfana di un ufficiale, chiede soccorso, essendo priva di mezzi di sussistenza; ma non c’è un soldo in cassa per spese di questa natura, né il regolamento prevede alcuna forma di sussidio per i familiari dei militari. Sprinckelmann, artigliere, implora di essere accolto nell’istituto: ha servito solo quindici anni e per di più in tempo di pace, ma ha già settant’anni compiuti e non sa come vivere. Non rientra nei casi contemplati, eppure non si rassegna e continua a scrivere, scialacquando il suo denaro dallo scrivano pubblico anziché risparmiarlo per pagarsi i funerali. Il maggiore Linde, del Genio, è ancora in servizio, non è stato né congedato né riconosciuto invalido, e ciononostante pretende di essere ammesso al posto del maggiore Dockern, che è appena morto!» Di fronte a quest’ultima richiesta il bravo Eichmann era sinceramente scandalizzato. Come fare il proprio dovere e far osservare il regolamento se una così palese mancanza di ordine e disciplina proviene addirittura dagli ufficiali in servizio?

Schack, che ho incontrato all’Opera, ha riso sonoramente quando gli ho raccontato della mia visita agli Invalidi, e di come quella brava gente sia in agitazione all’idea di marciare contro Bonaparte. «Se Napoleone lo sapesse, credo che cambierebbe subito linguaggio!» ha scherzato. Il pubblico del parterre era ancor più rumoroso del solito, e dal palco in cui ci trovavamo non si riusciva neppure a sentire le voci dei cantanti; sicché il maggiore, per divertirmi, si è messo a illustrarmi la distribuzione dei palchi. «Quella che vedete laggiù, dove siedono quegli anziani signori in cui tutto, all’aspetto, rivela il dotto, con i loro occhiali e le loro mogli che spalancano gli occhi di fronte al lusso del teatro, è la loggia dell’Accademia. Quell’altra, in cui siedono quei signori vestiti di nero, in parrucca, dall’aria severa, è quella della Corte Suprema, i cui giudici si sforzano di emulare Robespierre nell’aspetto, non potendone emulare l’incorruttibilità.» «Così, ogni corpo dello Stato ha diritto a una loggia nel teatro?» ho domandato. «Senz’altro, e quelli che non meritano una loggia hanno almeno un banco nel parterre, poiché dove il re paga le spese, tutti i membri utili della società hanno diritto a entrare, ognuno al posto che gli è stato riservato. Quel banco laggiù, proprio in fondo, per esempio, è il banco delle ragazze pubbliche.» «Ma via, Schack, lei mi burla!» ho esclamato. «Non mi permetterei mai» ha sorriso il maggiore, porgendomi l’occhialino; «guardi lei stesso!» Con l’aiuto dello strumento ho scrutato nella direzione ch’egli mi indicava, e ho constatato che davvero quel banco ospitava soltanto ragazze; ciò non sarebbe stato sufficiente a provare l’affermazione del maggiore, poiché il loro abbigliamento era abbastanza decoroso, ma a fugare ogni dubbio ho osservato che vi sedeva fra le altre Lenchen, più attenta, a differenza delle compagne, a seguire la commedia che non a cercar di attirare qualche galante. Quell’incontro inaspettato ha avviato i miei pensieri lungo una strada imprevista, e quando abbiamo lasciato il teatro avrei volentieri offerto alla ragazza un passaggio in carrozza, se, con mia delusione, non fosse uscita al braccio di un giovanotto spettinato, in cui tutto induceva a riconoscere uno studente. Lenchen rideva di cuore, e il suo comportamento rivelava un’infantile, innocente allegria che non era mai stata capace di simulare con me; sicché non ho potuto nascondere un moto di dispetto. Il maggiore ha riso al vedermi così piccato, e per consolarmi mi ha invitato a cenare con altri ufficiali del suo reggimento ai giardini Georges.

Questo Georges è un francese, che ha comprato un tratto del Tiergarten e l’ha trasformato in una sorta di piccolo Vauxhall, molto piccolo in verità: non ci sono più di cinquanta tavolini, tutti apparecchiati, ma le tovaglie e il vasellame sono di gran pregio. Nonostante le zanzare, l’idea di cenare all’aperto in riva al fiume mi appariva come l’unica salvezza contro la calura, sicché ho accettato di buon grado. Erano della partita, oltre a Nostitz, il conte Pourtalés, capitano dei Gensdarmes, e i due figli del principe Reuss XIV, di cui ignoro i nomi, poiché mi sono stati presentati soltanto come “Harry” e “Shock”; il primo è anch’egli ufficiale dei Gensdarmes, mentre il secondo, chiamato così perché, a quanto pare, da bambino si gettava a testa bassa contro i muri, è studente a Gottinga. Quanto a Pourtalés, l’avevo già conosciuto a casa von Crayen, e Victoire mi ha raccontato che era stato l’ultimo giovanotto che avesse chiesto la sua mano, prima della sua malattia, «quando ero stupida e credevo che il gioco dovesse durare per sempre». Una sera a cena dai Radziwill, dopo un tableau vivant in cui Victoire aveva impersonato una delle Tre Grazie, Pourtalés l’aveva stretta nel vano di una porta. «Give me your hand»34 le aveva detto. «Il principe» racconta Victoire «aveva preso la chitarra, era uscito sul balcone seguito da tutta la compagnia, e cantava un’aria italiana. Mi girava la testa, desideravo soltanto tornare a casa. “Call my groom”35 gli dissi, e non gli diedi la mano.» In seguito, incontrandola in società dopo la sua malattia, Pourtalés aveva fatto finta di non vederla.

Con tutto questo, il conte è un giovane simpatico e regge bene il vino. Anche i due Reuss sono piuttosto divertenti e non fanno che punzecchiarsi a vicenda sulle rispettive avventure amorose. Shock ha preso in giro il fratello per il matrimonio di una signorina di diciott’anni che Harry ha corteggiato per tutta la scorsa saison, e che ha appena sposato il signor de Bray, ambasciatore di Baviera, francese di nascita, cavaliere di Malta, e quarantenne per soprammercato. «Se non ricordo male, le avevi fatto dire da Emilie Reck che ti saresti ucciso se lei ti avesse respinto.» Harry ha riso e ha ribattuto che si rifarà con la sorella, ma che questa volta non intende perdere tempo con i corteggiamenti. «Ho già cominciato a insegnarle qualcosa, e quando verrà il momento ne saprà più di quel che sua madre vorrebbe.» «Ma stai parlando di Lisinka?» ha chiesto Shock. «Certo» ha riso Harry. «Lisinka von Löwenstern.» «Ma se ha solo dodici anni!» «Ebbene?» ha chiesto Harry socchiudendo gli occhi. «Non l’hai mai guardata quando crede che nessuno la veda, come ci divora con gli occhi? Non ti sei accorto che quando la domenica va a messa con maman e noi facciamo l’esercizio sul Gensdarmenmarkt col reggimento, lei guarda noi e i nostri cavalli come non ci guardano neanche le contadine più sfacciate in campagna? Non hai mai visto come guarda sua sorella mentre balla lo shawl? Credi a me, il primo che ballerà con lei potrà metterle le mani sotto la gonna quella notte stessa, in qualche stanza di servizio, mentre gli altri cenano, e quello sarò io!»

«È vero» ha interloquito Nostitz. «Una sera a cena da Laforest io e Sophie parlavamo delle lezioni di disegno che lei e sua sorella prendono da Wachsmann, e la piccola ha fatto delle osservazioni sulla muscolatura del corpo maschile e femminile che hanno fatto arrossire Sophie, e ci hanno costretti a cambiar subito discorso.» La menzione di Laforest ha avviato la conversazione su di un’altra strada. Questo brav’uomo, che è entrato nella carriera diplomatica sotto Luigi XV, che servirebbe con lo stesso zelo Bonaparte o il re degli Irochesi, e che insomma è in tutto e per tutto un diplomatico della vecchia scuola, civilissimo e molto francese, era fino all’anno scorso uno dei beniamini della società berlinese; ora, dopo la cattiva piega presa dagli affari della Prussia, è preso di mira con un odio che non ha fatto nulla per meritare. «Andiamo a casa di Laforest, ad affilare le sciabole sotto le sue finestre!» ha proposto Harry Reuss. «Che scriva a Parigi che i prussiani non hanno paura del suo padrone!» Nostitz, che doveva aver bevuto troppo champagne, si è alzato, ha battuto il pugno sul tavolo e ha esclamato: «Andiamo invece a rompergliele a sassate, le finestre!». Il pensiero di tirar sassi contro una casa dove avevano tante volte cenato in buona compagnia, corteggiato la figlia del padron di casa e ballato con le damigelle della migliore società sembrava eccitarli fuori misura; tuttavia Schack, saggiamente, ha fatto osservare che prima bisognava comunque finir di cenare, e ha aggiunto che, se proprio si volevano spaccar finestre, avevano da essere piuttosto quelle di Haugwitz. A sentire quel nome tutti si sono messi a parlare contemporaneamente, e infine si sono trovati d’accordo per brindare alla disgrazia del ministro; quanto alle sue finestre, si sarebbe visto il da farsi in seguito.

Mentre sbucciava un’arancia, Harry si accorse che un bambino scalzo, probabilmente il figlio di un pescatore, si era arrampicato su per l’argine del fiume e stava a due passi da noi, a guardarci con gli occhi sgranati; allora gli buttò l’arancia mezza sbucciata. Il frutto rotolò giù fino al fiume, e il bambino si gettò nell’acqua per riemergerne un istante dopo, trionfante, tenendo in pugno il suo trofeo. Altri bambini uscirono dall’oscurità dietro al primo, e allora ci divertimmo a gettare nella Sprea arance e frutta candita, che i bambini cercavano di raccogliere, sebbene il buio rendesse l’impresa alquanto difficile; anche qualche barcaiolo, attirato dallo schiamazzo, si tolse la camicia e si tuffò nel fiume, per tornare a galla grondante con quelle delizie che certo non aveva mai assaggiato. La corrente era abbastanza forte e ancora adesso mi chiedo come mai nessuno sia affogato; fatto sta che allora la cosa ci fece ridere a crepapelle. Finito quel divertimento, chiamammo il padrone per pagare il conto, e per la forza dell’abitudine stavo per tirar fuori dal borsellino una moneta, quando Schack mi diede una gomitata, e mi mostrò gli altri che tiravano fuori di tasca dei biglietti di banca e li lasciavano sul tavolo. Debbo confessare di esser rimasto piuttosto sorpreso vedendo che anche quei brillanti ufficiali pagavano la loro cena in carta moneta, e a giudicare dall’espressione dell’oste anch’egli non doveva restar contento di quella novità. In strada, i servitori di quei signori ci vennero incontro, chi col cavallo tenuto per la briglia, chi con la carrozza, e stavamo già per congedarci, quando Pourtalés osservò che era un peccato andare a dormire, dal momento che l’indomani mattina presto quasi tutti avrebbero dovuto presentarsi al reggimento per l’esercizio. «Tanto vale non coricarci affatto» concluse giudiziosamente. «Dici così perché ti coricheresti da solo, ma ti prego di lasciarmi fuori dai tuoi calcoli» ribatté ridendo Harry Reuss. Ma quasi tutti si trovarono d’accordo con Pourtalés, e decisero di non andare affatto a dormire. «Prendiamo le tovaglie e travestiamoci da fantasmi, poi andiamo a spaventare le guardie sul ponte del Castello!» propose Schack. Detto fatto, tornarono nel giardino e dopo un breve battibecco con i camerieri tornarono fuori trionfanti, portando ciascuno una tovaglia candida; soltanto qualche macchia di vino dimostrava che quei fantasmi non erano immuni da debolezze prettamente umane. Per conto mio non avevo voglia di unirmi alla mascherata, sicché mi congedai dalla compagnia e mi avviai a piedi verso il mio albergo; passando davanti a casa di Victoire mi chiesi se non avrei potuto salire da lei, poi, dal momento che non ero del tutto sicuro delle finestre a cui avrei dovuto bussare, decisi di andarmene a letto.

Mercoledì, 20 agosto

Il mio programma per quest’oggi era tale che non avrebbe scontentato il più esigente dei sibariti. Schack doveva venirmi a prendere per accompagnarmi dal signor von Strehlow, presidente di corte d’appello, il quale acconsente ad appigionarmi un quartiere nel suo palazzo, in Scharrenstrasse, a un passo di qui, nella città vecchia. Il maggiore mi aveva promesso un bel salone, decorato a fresco, con vista sulla chiesa di S. Pietro, e una grande alcova ben ammobiliata, con paramenti di seta; il tutto per cinque talleri al mese. L’alloggio non si trova, è vero, nella zona più alla moda di Berlino, ma il trattamento che mi ha assegnato il ministero mi costringe a qualche economia; inoltre, mi ha fatto notare Schack, la presenza del letto rappresenta un grande vantaggio, perché è consuetudine qui che chi prende in affitto una casa ammobiliata si fornisca per conto proprio di questo articolo indispensabile. Preso possesso dell’appartamento, avremmo fatto salire il pranzo da una trattoria, che secondo il maggiore ha l’abitudine di servire il bel mondo e provvede piatti eccellenti a buon prezzo. Per finire, Victoire mi aveva fatto sapere che sua madre sarebbe partita per andare a far visita a una vecchia zia, e non sarebbe stata di ritorno prima di sera; essa non attendeva altre visite, sicché il piacere di rivederci, reso più bruciante da qualche giorno di forzata castità, non avrebbe conosciuto ostacoli di sorta. Senonché, un dispaccio recapitato questa notte, e che l’oste mi ha consegnato all’alba, ha mandato all’aria tutti questi piaceri. Bill Pinkney, a Londra, è stato informato per tempo della pace tra lo zar e Bonaparte, ed è risoluto a trarre da questa circostanza il più gran profitto, senza lasciare al gabinetto inglese il tempo di risollevarsi da questo colpo che minaccia di far rovinare tutto il sistema della loro politica; per questo, gli occorre quanto prima una relazione oculare su ciò che accade ai confini tra Prussia e Russia e sui progressi dell’armamento prussiano, ch’egli, tratto in errore dall’accavallarsi delle date, suppone rivolto in primo luogo contro Alessandro, anziché contro Bonaparte. “Un tuo dispaccio da Königsberg o da Varsavia servirà alla nostra causa più di qualsiasi novità tu possa apprendere oggi a Berlino. Sai già, credo, che Fox ha rifiutato di riceverci, a causa della sua malattia; in altre circostanze, questo comportamento potrebbe anche assomigliare a un’offesa calcolata; ma l’uomo è davvero malato, e qui si discute apertamente di chi prenderà il suo posto, non appena sarà morto. Pochi giorni fa, constatando la propria impotenza, egli si è deciso con molta riluttanza ad affidare ad altri il negoziato, e ha scelto i lords Holland e Auckland; vedi bene che non avrebbe potuto nominare uomini più favorevoli all’America e più sinceramente interessati a un accordo. Credo perciò che i negoziati cominceranno presto; ed io quel giorno voglio avere in mano notizie sicure dal continente. Ti prego perciò di ordinare i cavalli non appena riceverai questa comunicazione, e ti assicuro che Washington sarà informata dello zelo con cui adempi ai tuoi doveri. Il tuo affezionato cugino, William Pinkney.”

Insomma io ero andato a dormire nella disposizione d’animo più tranquilla che si possa immaginare, proprietario di un appartamento a Berlino e di un’amante, e mi vedevo costretto a rinunciare in un sol tratto all’uno e all’altra, per riprendere la vita incerta del viaggiatore. In un primo momento sono stato tentato di ribellarmi; ma il tono del dispaccio era tale da non ammettere repliche. Così, quando il maggiore è venuto secondo gli accordi a cercarmi, non ho potuto che annunciargli la mia repentina partenza, e pregarlo di scusarmi con il presidente di corte d’appello, della cui ospitalità mi auguro comunque di potermi giovare al ritorno. Debbo dire che Schack ha accolto la notizia con la più grande serenità, commentando che in tal caso avrebbe ancora fatto a tempo a dedicare la mattina a una passeggiata a cavallo, e si è congedato augurandomi tranquillamente buon viaggio, senza far cenno ai nove talleri che ancora mi deve dopo la nostra partita; ciò che non mi è parso il culmine della buona educazione da parte di un uomo che possiede dodicimila talleri di rendita.

Il ministro Beyme, cui ho mandato immediatamente un biglietto, mi ha assicurato che il mio passaporto sarà pronto entro stasera; sicché domattina potrò partire alla volta di Königsberg. Ho dato ordine a Will di ingrassare a dovere le ruote della carrozza, al padrone dell’albergo di prenotarmi i cavalli alla posta, e poi, in seguito alla cattiva impressione suscitata dentro di me dal comportamento di Schack, sono andato a cercare Suckow, cui devo ancora finir di pagare il conto di quella sera famosa. Sono arrivato al suo indirizzo, un decrepito isolato di alloggi in affitto dietro il ponte delle Melarance, e una donna spettinata e non più giovane si è affacciata a una finestra dell’ultimo piano, avvertendomi che il suo padrone aveva passato la notte comandando la guardia alla porta di Cottbus; così ho ripreso la vettura e mi sono fatto portare laggiù. In quel quartiere la città è molto meno popolata, e prima di giungere alla porta occorre attraversare sterminate distese di terreno non edificato. In attesa di utilizzarle per costruire, le si coltiva, e ci vuole una buona dose di immaginazione, quando si circola in mezzo ai campi di grano o di patate, per credersi all’interno della cinta muraria di una capitale.

Giunto alla porta, ho chiesto del comandante e i soldati mi hanno fatto entrare nell’ufficio, da cui provenivano gli accordi di una chitarra pizzicata svogliatamente. Il tenente era installato in una comoda poltrona, che non fa parte dell’arredo ordinario di un corpo di guardia, ma che egli suole prendere in affitto ex propriis36 quando presta servizio. Poiché si annoiava, ha accolto con piacere il mio arrivo e con entusiasmo la borsa piena di monete che ho subito tirato fuori di tasca; senza il minimo imbarazzo l’ha slacciata, ha contato il denaro, ha rimesso al sicuro le monete d’oro e ha lasciato sulla tavola il tallero rimasto, proponendomi di giocarcelo ai dadi. Naturalmente ha vinto e ho dovuto sborsare un altro tallero; messo di buon umore da questo beneficio inaspettato, il tenente ha afferrato la chitarra e si è messo a improvvisare. Uno schiamazzo insolito alla porta ci ha attirati entrambi all’aperto, dove mi si è presentato il più curioso spettacolo che Berlino mi abbia finora riservato. Alla porta e per tutta la lunghezza della strada, a perdita d’occhio, si accalcavano centinaia di uomini sudati e coperti di polvere, tutti allegri e vestiti dal primo all’ultimo del medesimo costume: pantaloni di tela bianca, una giacchetta dello stesso colore, e un berretto di cotone screziato bianco e rosso. Ognuno portava a tracolla un grosso sacco e la maggior parte di loro marciava a piedi nudi, con le scarpe appese al collo, per non rovinare inutilmente degli oggetti così preziosi. La porta era aperta e tutti chiacchieravano contemporaneamente e nella più grande animazione con i soldati di guardia, in una lingua che suonava al mio orecchio del tutto incomprensibile. Suckow sorrise e mi spiegò che quelli erano i coscritti del suo reggimento, richiamati alle armi proprio in quei giorni in seguito all’ordine del re; costoro, originari del circondario di Cottbus, sono quasi tutti dei Vendi, superstiti delle popolazioni che abitavano quelle lande prima dell’arrivo dei coloni tedeschi, e hanno conservato le usanze, il costume e la lingua della loro razza. «Nel sacco» mi spiegò «ognuno di loro tiene un pezzo di lardo e dei piselli secchi, che costituiscono il loro nutrimento favorito; e la maggior parte non sa una parola di tedesco.» Osservai che ciò non doveva contribuire a facilitare la loro istruzione, ed egli ne convenne, aggiungendo che per fortuna l’addestramento che si dà loro, come a tutti i soldati di fanteria, è assai semplice, consistendo in tutto e per tutto nell’insegnar loro l’esercizio. A partire dal giorno in cui gli uomini sanno maneggiare con rapidità la bacchetta del fucile e in cui le compagnie fanno risuonare convenientemente la terra sotto i loro passi, si giudica che le reclute posseggano un’istruzione sufficiente; «ed io ho sentito con le mie orecchie» aggiunse ridendo «un ufficiale superiore dire a un altro: “A che serve istruire il soldato? Gli si dice di fare una cosa, e lui la fa”».

Questi strani esseri avevano nel frattempo cominciato a sfilare davanti a noi, proseguendo la loro marcia verso la città, e il tenente stava a guardarli passare, con le mani sui fianchi; a un tratto cinque o sei di questi cantonisti, come li chiamano qui, gli si fecero vicino con aria festosa e gli tesero la mano, salutandolo in cattivo tedesco e dandogli senz’altro del tu. Si sa che i tedeschi hanno tre o quattro modi diversi di impiegare i pronomi quando si rivolgono al prossimo, e che si danno del tu solamente quando sono in rapporti di grande confidenza, sicché questa forma ha sempre qualcosa di amichevole; a domestici, cocchieri, osti e altra gente di tal sorta non si dà se non del voi, ma gli ufficiali danno del tu ai soldati, specialmente a quelli della loro compagnia. Agli ufficiali e ai sottufficiali, tuttavia, ci si rivolge sempre con il lei, anzi questa formalità è osservata così rigidamente che persino un ufficiale, a meno che non sia un colonnello o un generale, rivolgendosi a un qualunque sottufficiale gli darà del lei, cosa che non farebbe con un civile. Perciò rimasi non poco stupito dalla familiarità con cui i soldati salutavano il mio amico, ma notai che Suckow non se ne dava per inteso; anzi strinse le mani che gli offrivano e rispose ai saluti, e gli uomini si rimisero i sacchi in spalla e ripresero a marciare, con l’aria più soddisfatta del mondo. Il tenente mi guardò con un sorriso un po’ imbarazzato e spiegò che sarebbe inutile spiegar loro le sottigliezze dei pronomi tedeschi, sicché essi danno del tu a tutti quanti, compreso il colonnello; del resto sono dei bravi e fedeli soldati.

Eravamo appena rientrati nell’ufficio quando è giunta una sentinella con la notizia che la guardia montante era in vista. Suckow ha chiamato il calefactor e gli ha ordinato di preparare i suoi bagagli. Una vecchia uniforme sdrucita, che il tenente aveva indossato durante la notte per non consumare inutilmente quella nuova, una caffettiera, un quaderno di musica, la chitarra, una scacchiera, e molti altri parafernalia sono stati accuratamente impacchettati per poi essere trasportati all’alloggio del tenente, dove riposeranno in pace fino al prossimo turno di guardia. Nel frattempo il comandante del drappello montante ha preso in consegna gli incartamenti, il materiale appartenente allo Stato e quello di proprietà comune degli ufficiali, infine gli oggetti presi in affitto personalmente da questi ultimi, fra cui la famosa poltrona, rilasciando di tutto regolare ricevuta. Era il momento di prendere congedo dal mio amico, sicché gli ho teso la mano esprimendo la speranza di rivederlo al mio ritorno a Berlino. Il giovanotto mi ha scosso vigorosamente la mano, poi ha detto: «Permetta che le dia un consiglio: non giochi più, se potrà farne a meno. Ci sono troppe persone in Germania, e perfino dei prìncipi, che vivono del gioco, e conoscono ogni sorta di trucchi; un giocatore inesperto non ha speranze con loro».

Il congedo da Victoire non è andato purtroppo altrettanto liscio. L’ho trovata in casa sua che leggeva Emilia Galotti, mollemente abbandonata su quel canapè che risveglia in me così lieti ricordi. Portava il medesimo vestito bianco, guarnito di fiocchi rosa, che indossava il giorno in cui l’ho conosciuta. Mi ha teso la mano da baciare con un sorriso birichino, e quando mi sono piegato su di lei ha sussurrato che purtroppo sua madre era in casa, ma subito dopo ha risposto al mio bacio con gusto e mi ha morso la bocca quasi a sangue. «La zia» ha poi continuato «è indisposta, e ha scritto un biglietto informando mamma che non avrebbe pranzato; ma cionondimeno l’aspetta stasera per la partita a carte, sicché colui che saprà avere pazienza sarà premiato.» Ma quando, dopo essermi seduto e aver posato il cappello per terra, le ho detto che ero venuto a salutarla e che l’indomani sarei partito ha cambiato colore; e per un istante ho creduto che volesse cadere svenuta ai miei piedi. Non ha gridato solo per non tradirsi di fronte agli altri abitanti della casa, ma i suoi occhi si sono riempiti di lacrime ed è caduta in ginocchio davanti a me, baciandomi le mani e le ginocchia, finché non l’ho staccata a viva forza. Infine si è calmata, ha nascosto gli occhi nel fazzoletto e quando ha rialzato il capo ho visto che le lacrime erano state asciugate; ha respirato profondamente, cercando di farsi animo, e reprimendo un singhiozzo mi ha implorato di scriverle ogni giorno, cosa che ho promesso senz’altro. Poi, giacché non c’era scopo a continuare quella conversazione così dolorosa, ho ricominciato a baciarla e abbiamo continuato con piacere per un bel po’; non c’era più in lei alcuna traccia della ritrosia che aveva manifestato in principio, sicché ho potuto rendermi conto che veramente in simili faccende, come si dice “c’est le premier pas, qui coûte”.37 Ma proprio mentre cominciavo a desiderare che maman entrasse ad annunciare la sua partenza, così che il gioco potesse spingersi oltre, Victoire mi ha respinto bruscamente. «Robert» ha detto guardandomi bravamente negli occhi, ma con la voce che tremava. «Ma tu devi proprio partire domani?» Le ho spiegato che il dispaccio di Londra non mi lasciava altra scelta; essa ha stretto le labbra, e ha proseguito come se non avesse sentito: «Perché se tu mi vuoi bene veramente, non dovresti partire domani. Resta ancora un giorno! Dirai che il corriere ha tardato, o che non ti ha trovato!». Pazientemente ho spiegato che avevo già pagato l’albergo e prenotato i cavalli, e che Will stava preparando i miei bagagli. «E allora va’ ad aiutarlo!» ha ribattuto Victoire, piccata. Poiché non avevo voglia di una scenata, e d’altra parte le speranze di un premio mi parevano ormai vanificate, non mi è rimasto che congedarmi davvero. Victoire mi ha salutato un po’ più freddamente di quanto non sia solita fare, ma pur sempre con una luce di rimpianto negli occhi che mi lascia ben sperare per quando ritornerò in città.

Con questa consolazione me ne tornai all’albergo, convinto che tutte le seccature della partenza fossero ormai risolte; ma mi ingannavo, perché ne restava ancora una. Entrando in camera trovai Will che preparava il mio baule, con quell’energia e quella determinazione che in lui sono sempre segno di cattivo umore; Bärbel era stata mandata dalla padrona ad aiutarlo, e quando entrai gli voltava deliberatamente le spalle, e aveva gli occhi rossi. Questa circostanza mi fece guardare la ragazza con animo diverso; fino ad oggi mi era parsa una creatura insignificante, e certamente le sue mani sciupate dalla lisciva non sono tali da suscitare interesse in un gentiluomo, né ho mai sentito uscire dalla sua bocca più di qualche frase smozzicata in dialetto; eppure mentre si caricava una valigia sulle spalle mi ritrovai a guardare con gli occhi di Will le sue braccia, le sue caviglie, e ciò che s’intuiva sotto il grembiule e l’abito di tela. Quando Bärbel fu uscita in cortile con il suo fardello, lo affrontai e gli dissi francamente: «Di’ un po’, Will, come te la sei cavata con quella ragazza?». Will alzò le spalle, poi borbottò: «Bene, e me la sarei cavata ancor meglio, se non si dovesse andar via». «Meglio, nel senso che ne avresti ottenuto qualcosa?» «Sissignore» rispose, «e mi ha già fatto vedere la stanza dove dorme, e mi ha detto che una di queste sere non l’avrebbe chiusa a chiave; e io le ho promesso un regalo, e contavo di chiedere al signore un anticipo del salario; ma ora è andato tutto a monte.» «E perché?» gli dissi. «C’è ancora questa notte, no?» Mi guardò senza capire. «E il regalo?» borbottò infine, di malavoglia. Trassi di tasca una moneta d’oro e glie la mostrai. «Certo» osservai «sarebbe stato meglio un nastro o una cuffia, ma non credi che l’odore di questo metallo possa sostituire quelle galanterie che ormai non hai più il tempo di acquistare?» Will sorrise scoprendo i denti candidi, e afferrò al volo la moneta; poi si rimise al lavoro fischiettando. Ero un po’ sorpreso della sua sicurezza, che pure trovava nelle lacrime di Bärbel una conferma inequivocabile; dentro di me, avevo scommesso che non sarebbe arrivato allo scopo, e mi sono ripromesso di sorvegliarlo un po’ più da vicino quando saremo ritornati a casa.

Giovedì, 21 agosto

Stanotte alle quattro l’albergatore è venuto a svegliarmi, come avevo ordinato; Will, quando ho suonato per chiamarlo, è sceso in ritardo e con l’aria di aver dormito pochissimo, e Bärbel sbadigliava più del consueto, ma non aveva più gli occhi rossi. Mentre mi vestivo un inserviente della posta è venuto a portare i cavalli, e prima dell’alba ho lasciato Berlino per la porta di Francoforte. Le formalità all’uscita sono risultate più semplici del previsto, poiché la guardia apparteneva al reggimento di Suckow e il suo comandante, il tenente von Chodorowski, un polacco, aveva pranzato una volta con noi; egli mi ha anzi invitato a dividere con lui il caffè che aveva preparato con le sue mani sul fuoco del camino, e con cui si accingeva a divorare un numero incalcolabile di piccole pagnotte. Uscendo dal corpo di guardia dopo questo breakfast sono stato testimone di una scena spiacevole, triste conseguenza dei venti di guerra che spirano sul paese. Cinque o sei ussari, a cavallo, menavano davanti a sé un uomo legato, scalzo e senza cappello, vestito da soldato e con un’espressione di terrore negli occhi. Chodorowski mi ha spiegato nel suo cattivo tedesco che si trattava di un disertore, il quale era uscito da quella porta il pomeriggio precedente e non era rientrato la sera. Soprattutto in questi ultimi giorni, da quando cioè l’ordine di mobilitazione ha diffuso la convinzione che la guerra sia prossima, molti mercenari, che si sono bevuti da gran tempo il premio di arruolamento, ritengono doveroso mettere al sicuro la loro preziosa pelle prima che comincino a fischiare le palle, e non passa giorno senza che qualcuno sia catturato e riportato in città sotto buona scorta, al supplizio che lo attende. «Ma che cosa gli faranno dunque?» ho chiesto al mio conoscente. «Oh, nulla! Lui correrà nudo fra due file di soldati con nodose verghe, e lo bastoneranno per bene; ma non c’è da preoccuparsi niente del tutto, non crepano quasi mai» mi ha risposto con indifferenza.

Con questa bella rassicurazione mi sono congedato dal polacco e ho cominciato il mio viaggio. Lasciati alle spalle gli orti e i frutteti che circondano le mura, la strada maestra corre verso oriente attraverso una pianura sterile e monotona, dove la foresta, la brughiera e l’incolto hanno quasi sempre la meglio sui coltivi; solo a tratti lo sguardo incontra macchie di stoppie e, in qualche campo non ancora mietuto, rade spighe di avena, piantate nella sabbia come capelli su una testa quasi calva. I villaggi mi sono parsi miserabili; le case di legno sono più numerose di quelle di mattoni, ciò che in Europa è indizio infallibile di povertà, e i contadini hanno l’aria affamata. A ogni cambio di cavalli ho cercato di mangiare qualcosa, ma in un’osteria mancava il pane, in un’altra il burro, in un’altra ancora la carne. L’acqua è cattiva dappertutto; solo la birra è buona, amara e forte, e credo che molti contadini non vivano d’altro che di birra e patate.

Era già buio quando siamo giunti sulla riva dell’Oder e abbiamo attraversato il grande fiume tranquillo, percorso anche a quell’ora da chiatte e zattere cariche di legname. Sull’altra sponda sorge la tetra fortezza di Küstrin, memorabile per l’incarcerazione del grande Federico, allora principe ereditario di Prussia, che là fu costretto ad assistere alla decapitazione del suo migliore amico, il tenente Katt. Le memorie della margravia di Bayreuth hanno pagine memorabili su quell’evento, soprattutto quando raccontano del consiglio di guerra che si riunì a Potsdam, il giorno dei Morti del 1730, per giudicare i due giovani, colpevoli di aver voluto disertare dall’esercito e emigrare dal paese, per sfuggire alla tirannia del re. Il collegio era composto da due generali, due colonnelli, due maggiori, due capitani e due tenenti, e poiché nessuno voleva farne parte, il re aveva fatto tirare a sorte in tutti i ranghi dell’esercito. Discusso il caso, la corte si riunì per pronunciare la sentenza, e ciascuno espresse il proprio voto con un brano della Sacra Scrittura: il vecchio generale von Dönhoff lesse il passo del dolore di David quando gli viene annunciata la morte di Assalonne, e grida: «Ah, mio figlio Assalonne, mio figlio Assalonne!». Solo i due generali ebbero il coraggio di proporre il perdono, ma gli altri, per far piacere al re, condannarono il principe e Katt alla decapitazione; a gran fatica i ministri riuscirono poi a indurre il sovrano alla clemenza, cioè a far tagliare la testa soltanto al tenente.

Giunto davanti alle porte sbarrate di questa fortezza carica di così sinistri ricordi non ho esitato a chiamare a gran voce per farmi aprire, confidando nell’autorità delle mie carte; l’ufficiale di picchetto ha dato prova della solita diffidenza che invade questi signori alla vista d’un forestiero, ma quando oltre al passaporto rilasciatomi a Berlino gli ho mostrato un salvacondotto firmato dal ministro Beyme si è convinto a lasciarmi entrare e ad assegnarmi un biglietto d’alloggio presso un borghese del luogo, come si fa con i corrieri regi. Suonando il corno allegramente per le strade della città addormentata, il postiglione mi ha condotto dal mio padron di casa, il negoziante Lehmann. Costui non è parso troppo soddisfatto di doversi alzare dal letto a quell’ora per lasciarmi il posto, ma non mi sono fatto scrupolo di approfittare di quella forzata ospitalità, e sua moglie ha dovuto dar da mangiare a me, a Will e ai cavalli prima di potersene andare a dormire nel letto della serva, mentre io prendevo possesso della camera padronale. Sto cominciando a prendere gusto alle comodità del dispotismo, dal momento che mi trovo dalla parte di quelli che ne godono, anziché dell’immensa maggioranza che ne paga le spese; e mi accorgo che è pericoloso per un americano soggiornare troppo a lungo sul continente: ci si avvezza in fretta ai modi europei, e si rischia di rendersi impopolari al ritorno in patria, dimenticando che secondo i nostri padri fondatori gli agi, il denaro e la libertà non sono e non devono essere appannaggio dei felici pochi.

Venerdì, 22 agosto

L’Oder, che abbiamo attraversato ieri sera a Küstrin, segna il confine fra la Marca vera e propria e la cosiddetta Nuova Marca, che peraltro mi sembra in tutto simile all’antica. Qui la mietitura è piuttosto in ritardo e nei campi contadini e soldati lavorano da prima dell’alba a dopo il tramonto per salvare il raccolto prima delle piogge autunnali. La strada, larga e sabbiosa, costeggia le paludi della Warthe, coi loro canneti e la loro acqua limacciosa, che esala vapori spettrali nella nebbia del mattino. A mezzogiorno ci siamo fermati per cambiare i cavalli nel villaggio di Zorndorf, dove Federico annientò l’esercito di Fermor, quasi cinquant’anni or sono. Come ogni villaggio brandeburghese, anche questo si riduce a una doppia fila di case allineate lungo la strada, a un solo piano, coi tetti di tegole rosse; dietro ogni casa un basso steccato racchiude l’orto, il granaio e la stalla. Il solo edificio degno di nota è la chiesa, col suo cimitero circondato da uno spesso muro di pietra. Dal campanile della chiesa, dove mi sono arrampicato col permesso del pastore, si scorge a perdita d’occhio il campo di battaglia di Federico, leggermente ondulato, interrotto da boschi e stagni e guardato a vista dai campanili di altri villaggi, simili a sentinelle con la baionetta inastata; a distanza, gli acquitrini luccicano in mezzo alla nebbia ogni volta che un raggio di sole riesce a farsi strada fra le nuvole e a brillare sulla loro superficie.

Il pastore mi ha prestato un libriccino di memorie, dettato da un suo predecessore, che contiene una pagina proprio sulla battaglia di Zorndorf. L’autore, che ebbe la ventura di assistervi dalle linee dell’armata russa, non dubita nemmeno per un istante che la mano di Dio fosse levata sull’esercito di Federico, venuto a proteggere i sudditi prussiani, buoni luterani, dai miscredenti; e si direbbe che gli vengano le lacrime agli occhi quando scrive di aver riconosciuto, in mezzo al fragore della battaglia, gli oboi prussiani che suonavano il noto inno, “Ich bin ja, Herr, in deiner Macht!”.38 Poiché i cavalli non erano pronti e si prevedeva una sosta di almeno due o tre ore, mi sono incamminato verso i campi e con l’aiuto del libro ho cercato di riconoscere i luoghi esatti della battaglia e gli schieramenti delle due parti; ma non sono venuto a capo di nulla, sicché bisogna concluderne o che il luogo da allora ha cambiato aspetto, o che descrivere una battaglia è cosa molto più difficile di quanto non si ritenga comunemente. Il mastro di posta, interrogato in proposito, si è offerto di farmi da guida, e per un soldo mi ha mostrato i luoghi in cui, secondo la memoria degli anziani, la carneficina ha infuriato più sanguinosamente. A quanto mi ha assicurato, ancora molti anni dopo la battaglia le fosse comuni dove erano state sepolte le migliaia di soldati caduti si distinguevano dal terreno circostante per la folta e verdissima bellezza del grano, che nei campi vicini cresceva invece misero e rado, come ovunque in queste plaghe. Oggi quel concime di nuovo genere si è esaurito e l’occhio non distingue più nulla, anche se i contadini, arando, continuano ogni tanto a riesumare una canna di moschetto arrugginita o un teschio umano.

A una certa distanza dal villaggio, in un campo che i paesani chiamano da sempre il Galgen-grund, il Campo del Patibolo, è stata costruita una piccola cappella in memoria dei caduti. Dentro la cappella si conservano un po’ di ossa, chiuse in scatole di metallo e venerate come altrettante reliquie. Di questi morti i contadini, a quanto mi ha raccontato il mastro, hanno un culto di sapore pagano. Bevendo con me una birra all’osteria del villaggio, il brav’uomo ha additato attraverso la finestra il cielo carico di nuvole e spazzato da un vento gelido, in cui i corvi si inseguivano chiamandosi con la loro voce rauca, poi ha cominciato a recitare a mio beneficio una sorta di esorcismo nel suo dialetto malamente comprensibile: «Morti del Galgen-grund aprite un occhio! Morti del Galgen-grund, aprite un occhio! Dicono così i contadini di Quartschen, di Zicher e Darmietzel, di Gross-Camin e di Batzlow, di Zorndorf e di Wilkersdorf, e di tutti gli altri villaggi disseminati sull’immenso campo di battaglia, quando hanno bisogno che il cielo porti la pioggia o allontani la grandine». Il fuoco nell’osteria era quasi spento, non c’erano altri avventori all’infuori di noi, e ho accolto con sollievo l’arrivo di Will, giunto a informarmi che i cavalli erano attaccati e si poteva ripartire.

Sabato, 23 agosto

Stamattina mi è capitata l’avventura più stravagante in cui mi sia imbattuto dal mio arrivo in Prussia. Al primo cambio di cavalli tre o quattro anziani contadini, sentendomi parlare in inglese con Will, hanno offerto da bere al postiglione e si sono informati da lui sul mio conto. Quando hanno appreso che ero un ambasciatore straniero e che venivo da Berlino, si sono presentati a me in deputazione, e quello che sapeva parlare meglio degli altri, un vecchio decrepito, ma pulito e sbarbato, mi ha implorato di consegnare per loro conto una petizione al re, e di intercedere in loro favore. La carta supplicava Sua Maestà, con grande impiego di errori di ortografia, di non permettere la dannazione eterna del mondo tenendo imprigionato il Messia e impedendogli così di compiere la sua missione. Incuriosito da questo documento portentoso, ho assicurato i contadini che mi sarei adoperato per loro, purché sapessero spiegarmi un po’ più chiaramente di che cosa si trattava. Ecco che cosa ho ricavato dai loro discorsi sconnessi. Molti anni fa, almeno quaranta se non m’inganno, un tal Rosenfeld, licenziato dal suo posto di guardacaccia, ha cominciato a pellegrinare in questa provincia mendicando e profetizzando. I vecchi lo avevano conosciuto di persona e a distanza di tanto tempo erano ancora impressionati dalla sua eloquenza, dalla sua conoscenza dei testi sacri e più di tutto dalla sua lunga barba. Egli, a quanto pare, spiegò loro che Gesù non era il vero Messia: il salvatore del mondo era lui, Rosenfeld, che possedeva il libro della Vita, e aveva bisogno di sette vergini per spezzarne i sette sigilli. I contadini, conquistati, erano già pronti a riunire le ragazze necessarie, quando il profeta fu arrestato dalla polizia e rinchiuso in un asilo per alienati a Berlino. Qualcuno di loro andò a trovarlo portando con sé la propria figlia, e il sant’uomo lo ringraziò giacendo con lei sotto gli occhi di tutti, non senza averle assicurato che sarebbe divenuta la sposa di Cristo. Rilasciato, si stabilì in un quartiere malfamato di Berlino e scrisse ai suoi adepti informandoli che l’ora era venuta e invitandoli a mandargli le sette vergini di cui aveva bisogno; i contadini gli mandarono le loro figlie ed egli si comportò con loro in un modo che i vecchi non hanno voluto svelarmi, ma che provocò la morte di due di quelle disgraziate. Il profeta naturalmente venne di nuovo arrestato e condannato alla fustigazione pubblica e alla fortezza a vita: da allora i suoi discepoli non hanno mai smesso di indirizzare petizioni al re, supplicandolo di liberarlo. Molti anni fa, a quanto ho capito, è giunta da Berlino la notizia che il profeta era morto in prigione, ma essi rifiutano di credervi, e importunano i forestieri che passano dal loro villaggio, pregandoli di intercedere per il sant’uomo. Dopo aver ascoltato questo racconto mi sono allontanato da quei vecchi scimuniti, assicurandoli che non avrei lesinato gli sforzi per giovare alla loro causa, cosa di cui mi hanno ringraziato con profondi inchini; e poiché i cavalli erano pronti sono ripartito, sempre più sorpreso di dover riscontrare in queste campagne una predisposizione al paganesimo più degna dei seguaci del papa che di quelli del dottor Lutero.

A mezzogiorno sono arrivato a Ramkau sulla Drawa, un tempo posto di confine fra i regni di Prussia e di Polonia; accanto all’approdo del traghetto sorgono ancora, tra le erbacce, le baracche che un tempo ospitavano i doganieri, abbandonate da trent’anni e utili ormai soltanto ai pescatori che le usano per ripararsi dalla pioggia. Passato il fiume la strada prosegue verso oriente, attraverso un paese paludoso che dopo la prima spartizione della Polonia si chiama ormai ufficialmente Prussia Occidentale. Le strade non sono migliori né peggiori di quelle su cui ho viaggiato finora, e lo stesso si può dire dei postiglioni, che del resto sono ancor tutti tedeschi; solo l’acquavite nelle bettole lungo la strada è più a buon mercato e di peggior qualità. Per cena non ho avuto che un po’ di salsiccia e patate; è duro abituarsi di nuovo al regime delle locande, dopo i pranzi di Berlino! Per giunta mentre cenavo ho avuto qualche brivido di freddo e prima di notte mi è salita la febbre; credo che le paludi costeggiate per tutto il giorno, con le loro esalazioni pestifere, mi abbiano avvelenato. L’oste mi ha fatto mangiare e dormire in una grande stanza spoglia, col soffitto basso; come dappertutto in Germania, non c’era camino, ma una enorme stufa di porcellana, dove ho subito ordinato di accendere il fuoco. La macchina, tuttavia, ha impiegato così tanto tempo per riscaldarsi che al momento di coricarmi battevo i denti; poi, nella notte, ha cominciato a scaldare a tal punto che ho dovuto buttar via piumino e cuscini, e mi sono riassopito a fatica. Queste stufe debbono consumare una gran quantità di legname, ed è sorprendente che un popolo ingegnoso come i tedeschi non adotti un sistema di riscaldamento più economico e razionale.

Domenica, 24 agosto

Continuo a viaggiare, con la febbre addosso, attraverso le pianure della Prussia Occidentale. In questo paese abitato un tempo esclusivamente da polacchi, gli sforzi di colonizzazione intrapresi dall’amministrazione prussiana mostrano i loro benefici: i villaggi attraversati dalla strada, e soprattutto le stazioni di posta, sono in tutto e per tutto villaggi tedeschi, con le case coperte di tegole. La maggior parte degli uomini porta gli stivali e fuma la pipa, nelle locande si beve birra e si sente parlare soprattutto tedesco. La sollecitudine del governo fa sì che questi villaggi abbiano un aspetto considerevolmente più pulito e prospero di quelli che ho veduto nelle altre regioni della Prussia, come dimostra la gran quantità di vacche e cavalli al pascolo fra le stoppie. Solo a tratti, in posizione marginale rispetto alla strada, si intravedono i superstiti villaggi polacchi, con le loro capanne di assi coperte di paglia e i loro contadini scalzi, che spingono al pascolo vacche denutrite. I tedeschi dispongono del bestiame migliore e degli aratri più robusti, sicché non è difficile immaginare come si concluderà questa competizione ineguale. La terra peraltro non è generosa con nessuno, e i campi di segala e avena lasciano sempre più il posto a quelli di miglio e di patate, non solo intorno ai villaggi polacchi, ma anche a quelli tedeschi. Per rimediare alla sterilità del paese, i coloni hanno introdotto il granoturco, la cui vista mi ha ricordato le campagne americane, benché gli steli non siano neppur lontanamente così robusti né le pannocchie così grosse come da noi. Il clima, a causa delle acque stagnanti, non è sano, e per tutto il giorno non sono riuscito a liberarmi dalla febbre; ma stasera una presa di china ha fatto scemare notevolmente l’accesso.

Lunedì, 25 agosto

Il paese si fa sempre più selvatico e inospitale, e anche gli insediamenti dei coloni sono più rari e distanziati l’uno dall’altro di molte miglia. Si viaggia per ore attraverso una brughiera deserta, dove spuntano soltanto pinastri, per di più in gran parte bruciati come da un incendio recente. Sulla strada, tuttavia, c’è traffico di diligenze, vetture private e corrieri militari, i quali hanno sempre la precedenza al cambio dei cavalli. Arrivato a Tuchel vado a cercare la posta, e qui mi dicono che non ci sono cavalli. Il mastro promette di procurarmeli, ma subito dopo arrivano altre tre o quattro vetture. Il mastro comincia ad accampare scuse; in realtà è seccato perché non ho consumato niente da lui. Allora chiedo di pranzare, mi portano minestra di cavoli e birra, poi un caffè d’orzo, e intanto ecco i cavalli. Sospetto che abbiano già fatto un bel po’ di miglia, e infatti bisogna che Will e lo stalliere della posta li striglino per bene prima di poter ripartire; sono così sfiatati che lungo la strada tutti ci sorpassano. Per ingannare il tempo scrivo a Victoire, raccontandole della mia febbre dei giorni scorsi, che al momento sembra svanita, e delle altre avventure che mi sono occorse; la carrozza procede a un’andatura così tranquilla che potrei scrivere comodamente dieci pagine senza spargere una macchia d’inchiostro.

Alla stazione successiva il mastro si mette le mani nei capelli al vedere lo stato dei cavalli, e mi avverte in tono freddo che prima di sera non potrà darmi il cambio; perciò decido di pernottare da lui. Qui tutti parlano una vile lingua che dev’essere il polacco, e solo qualcuno capisce a stento il mio tedesco; da mangiare non c’è che pane nero e zuppa di miglio, e bisogna mostrare l’argento per convincere il padrone a tirar fuori dalla dispensa burro e prosciutto. Consumata la cena nella sala comune, chiedo di vedere la mia camera; e scopro che vogliono farmi dormire sulla paglia, insieme a una dozzina di braccianti di ritorno ai loro villaggi dopo la mietitura. Nonostante le mie proteste, pare non ci sia niente da fare, finché non minaccio di ripartire senz’altro; allora il mastro di posta acconsente a cedermi il suo letto, in cui ha persino la finezza di far mettere un lenzuolo pulito. Al momento di coricarmi, come al solito, si manifesta la febbre; da oggi prendo due dracme di china al giorno.

Martedì, 26 agosto

Per tutta la mattina ho viaggiato verso oriente, attraverso un paesaggio così piatto che soltanto i mulini a vento interrompevano la linea uniforme dell’orizzonte; dopo mezzogiorno, tuttavia, la pianura si è tramutata all’improvviso in un declivio e poi in una scarpata scoscesa, in fondo alla quale si scorgeva a grande distanza il greto della Vistola, ingombro di canne. Il fiume scorre pigramente verso il mare, con le sue acque limacciose in cui si riflette il grigio bluastro del cielo; attraversarlo è meno semplice di quel che si potrebbe credere, poiché non esiste ponte ed è necessario attendere il traghetto, che si è fatto desiderare fin quasi a sera. Prima di noi erano già in attesa tre o quattro carri carichi di fieno, e mi preparavo ad offrire ai loro conducenti qualche moneta affinché mi lasciassero il passaggio; ma quando la zattera è arrivata i barcaioli ci hanno assicurato che avrebbero potuto trasportare tutti quanti in un solo viaggio, sicché ci siamo imbarcati. La traversata è durata una buona mezz’ora: il vento infatti soffiava dalla direzione sbagliata; la zattera traballava pericolosamente e i cavalli, spaventati, rischiavano a ogni momento di farla ribaltare. Così almeno credevo fino a quando non ho notato l’imperturbabile serenità dei barcaioli, e allora mi sono tranquillizzato. Ma prima di giungere a riva il cielo, che fin dal mattino prometteva pioggia, si è improvvisamente oscurato e ha cominciato a tuonare; e sebbene i barcaioli lavorassero energicamente con le loro pertiche non siamo riusciti a guadagnare il porto prima dell’acquazzone. Mentre scrivo ha appena smesso di piovere, e Will e il postiglione si stanno affannando per asciugare i cavalli, che altrimenti non sarebbero in grado di proseguire. L’approdo si trova al riparo di una sporgenza naturale, che ci ha permesso di accendere un fuoco; la sponda incombe dall’alto, ripida come una montagna, e una volta sbarcati è necessario affrontare una salita sassosa; i viaggiatori, tuttavia, possono arrampicarsi a piedi su per una scala scavata nella pietra, ed è proprio quello che farò, perché non mi pare il caso di affrontare una strada in salita, resa scivolosa dalla pioggia, con i cavalli innervositi dalla traversata. Anche stasera mi sta salendo la febbre; su consiglio di un oste, dopo pranzo ho preso venticinque grani di ipecacuana e uno di tartaro, ma non ho vomitato.

Mercoledì, 27 agosto

Ieri, mentre mi arrampicavo febbricitante e di pessimo umore su per l’interminabile scala, ho formulato il proposito di fermarmi a pernottare nella prima locanda che avrei incontrato, e sebbene l’apparenza dell’osteria cui mi ha indirizzato il postiglione non fosse delle più incoraggianti non ho avuto a pentirmi della decisione. La gente della locanda, abituata a rifocillare i passeggeri del traghetto, aveva preparato un’accoglienza in grado di rimettere in piedi uomini e bestie, per quanto bagnati. Mentre Will dava l’avena ai cavalli ho trangugiato una zuppa di lenticchie bollente, insaporita da pezzetti di salsiccia e da una generosa dose di aceto, che mi ha considerevolmente risollevato il fisico e il morale. Quando è giunto il momento di andare a dormire una servetta scalza, che non parlava se non qualche parola di tedesco, mi ha accompagnato su per la scala di legno fino a una stanza umida e oscura sotto il tetto, piena di spifferi e così fredda che la stufa appena accesa non sarebbe certamente riuscita a riscaldarla. Mi sono rassegnato a questa sistemazione di fortuna, ma ho preteso che la ragazzina mi scaldasse il letto; ha riso e mi ha risposto che per lei non era ancora ora di coricarsi, ma quando, mostrandole un paio di monete, le ho assicurato che non mi sarei messo sotto le lenzuola se non in sua compagnia ha promesso che appena finite le sue faccende sarebbe tornata da me. Allora l’ho lasciata andare ed è scappata di sotto, ed io, fedele alla promessa, mi sono sistemato comodamente su una sedia davanti allo sportello aperto della stufa. Era molto tardi quando è tornata; mi sono spogliato e insieme a lei mi sono infilato rabbrividendo sotto il sacco di piume. Qui essa si schermiva e pretendeva di non aver promesso altro se non di scaldarmi il materasso; questa timidezza non sarebbe stata un delitto se solo avessimo avuto più tempo a disposizione, e in quel caso, come dice il poeta,

avrebbe potuto rifiutarsi

fino alla conversione degli Ebrei,

ma io avevo fretta e l’ho convinta piuttosto energicamente a mettere fine alla sua riluttanza, cosa di cui, credo, non ha avuto motivo di dolersi. Ben presto ci siamo addormentati pesantemente e non mi sono svegliato se non qualche ora dopo, sentendola scivolare di sotto il sacco e muoversi a piedi nudi sul pavimento. Era notte fonda e le ho chiesto che cosa mai stesse facendo; mi ha risposto con voce assonnata che per lei era ora di alzarsi, perché doveva accendere il fuoco in cucina e dar da mangiare alle bestie. Mentre parlava si è avvolta uno scialle liso attorno alle spalle e così, scalza e in camicia, si è avviata attraverso la stanza gelida verso la scala; in quel momento mi è parsa più che mai desiderabile e le ho fatto promettere che a giorno fatto sarebbe venuta personalmente a svegliarmi. Dopo la riluttanza della sera prima, doveva aver preso gusto all’esercizio, perché qualche ora più tardi il suo passo su per le scale mi ha risvegliato, nel silenzio della casa addormentata: è corsa al mio letto, è scivolata sotto il sacco di piume, portando con sé tutto il gelo del mattino, mi ha baciato in bocca e si è allungata sopra di me, mormorandomi qualcosa in polacco che non ho compreso, ma che suonava molto carezzevole. La luce del giorno filtrava attraverso gli scuri e grazie a questa illuminazione vedevo che la mia visitatrice era assai poco pulita, come si può ben comprendere in considerazione delle faccende cui aveva appena atteso; ma in simili circostanze si può passar sopra a mancanze anche più gravi. Questo passatempo mattutino mi ha messo di ottimo umore, e ho attinto alla borsa più generosamente di quanto la servetta non si attendesse, perché non finiva più di ringraziarmi e di baciarmi la mano, sotto lo sguardo indagatore di Will, entrato nel frattempo per vestirmi.

Attaccati i cavalli, siamo ripartiti sotto un cielo grigio che minacciava pioggia, attraverso una pianura resa fertile dall’immenso fiume che l’attraversa. A eccezione della strada, che corre su un terrapieno, non si vedono da ogni parte che marcite e pascoli intrisi d’acqua; solo l’aria salmastra e, di tanto in tanto, lo strido acuto di un gabbiano sperduto tradiscono la prossimità del mare. Le case dei coloni, ognuna delle quali è collegata alla strada da un piccolo ponte, sono solidamente costruite e circondate di frutteti; il tutto spira un’aria non solo di prosperità, ma addirittura di ricchezza, tanto che sentendo risuonare le voci tedesche degli abitanti si crederebbe d’essere in Pennsylvania. Nel pomeriggio siamo giunti a un altro fiume, il Nogat, che scorre largo e indolente verso il mare, in un letto coperto di canne e limo, e lo abbiamo costeggiato per un lungo tratto. Ben presto sono apparse all’orizzonte le torri di Marienburg, antica residenza dell’Ordine Teutonico; le solide mura di mattoni, costruite per tener lontani nei secoli i pagani e i cattivi cristiani, sono state in gran parte demolite dopo l’avvento di un’epoca più civilizzata, ma il palazzo in muratura del Gran Maestro ha sfidato finora il piccone dei demolitori. Attraversato il fossato su un ponte di legno, fra le strida degli uccelli acquatici disturbati dal nostro passaggio, siamo entrati nel cortile del castello, dove ha sede la stazione di posta; e lì, mentre si cambiavano i cavalli, l’amministratore signor Lemcke mi ha accompagnato a visitare gli edifici, quasi tutti destinati oggi a funzioni di pubblica utilità. In seguito alla soppressione dell’Ordine ad opera di Alberto il Feroce, o forse di Alberto il Sanguinario, o comunque di uno degli antichi marchesi di Brandeburgo, il castello è stato devoluto alla corona e costituisce oggi il centro amministrativo di un dominio regio assai esteso, da cui dipendono centinaia di servi e che produce frumento, granoturco e avena per l’esercito. Nell’antico refettorio sono stati installati telai, e ricavate dieci camere per altrettanti tessitori, che vi abitano con le loro famiglie; la sala capitolare, dalle volte inutilmente alte e impossibili da riscaldare, è stata suddivisa orizzontalmente con un tramezzo di legno: al piano di sotto c’è un magazzino di sale, a quello di sopra abita il maestro di scuola. Ancora altri magazzini, di farina questa volta, occupano gran parte del palazzo del Gran Maestro; questo tuttavia è in così cattive condizioni che si sta procedendo a sgomberarlo, e in verità dappertutto non si vedono se non calcinacci. «Fino all’anno scorso» si è lamentato l’amministratore «due compagnie del reggimento che abbiamo qui di guarnigione usavano il primo piano come caserma, ma adesso hanno dovuto andarsene, e così non c’è più nessuno in città che non debba ospitare dei soldati. Persino il signor colonnello von Viereck ha dovuto sgombrare il suo alloggio, che poi, a quanto dicono, era la camera del Gran Maestro, ai vecchi tempi. Il governo ha mandato dei muratori a demolire tutto; poi hanno cambiato idea, e adesso è tutto fermo, ma con le piogge di quest’autunno credo che quel che sta ancora in piedi crollerà da solo. Ma io dico, perché non buttano giù tutte queste anticaglie, e non costruiscono dei magazzini e delle caserme come si deve?»

In verità, tutto quel che si vede ancora in piedi minaccia rovina, tranne là dove negli ultimi tempi i muratori sono intervenuti alzando muri di sostegno e demolendo torri e merli, sicché converrebbe senz’altro buttar giù tutto quanto il sudicio rudere; pare tuttavia che il nuovo, deplorevole gusto per le vecchie pietre, già così diffuso in Inghilterra e in America, stia mettendo radici anche in Germania, con disperazione del signor Lemcke. In un angolo del cortile, infatti, un giovanotto azzimato, in marsina color pulce e panciotto verde pisello, era intento a misurare le ogive delle finestre, che erano state in gran parte murate, e a confrontarle con certe riproduzioni colorate di vetrate medievali. «Posso presentare a Vostra Signoria il signor Grimm?» borbottò l’amministratore. Costui lasciò cadere la cartella dei disegni, si chinò a raccoglierla con qualche segno di agitazione, poi mi fece un breve inchino. «Il signor Grimm» proseguì l’altro dopo avermi presentato «è l’architetto incaricato dal governo di restaurare il nostro castello.» Ottimamente, pensai, e poi Zacharias Werner potrà venire qui a rappresentare il suo dramma. «Sua Maestà ha avuto la bontà di affidarmi questo incarico» ammise il giovanotto, con gli occhi fissi sulla sua cartella. «La bontà di Sua Maestà è nota anche al di là dell’Oceano» replicai nel tono più serio. «Sua Maestà» proseguì l’architetto, che sembrava assai compiaciuto di poter pronunciare quelle due parole, «intende restituire quanto prima l’intera roccaforte alla sua forma originaria.» «Il buon gusto di Sua Maestà» ribattei «non è minore della sua bontà.» «Se un edificio come questo si trovasse in un paese straniero, andremmo tutti quanti a vederlo a bocca aperta» continuò il signor Grimm, in tono improvvisamente aggressivo; «e invece, giacché l’abbiamo qui a casa nostra, si lascia andare in rovina; eppure c’è chi viene da paesi lontani per vedere Marienburg.» «E infatti io sono venuto dall’America, e non me ne pento» confermai seraficamente. «Lei è troppo buono; per di più, viene da un paese dove non esistono antichità, e dove un edificio come questo, anche nello stato in cui è ridotto, non avrebbe prezzo. Ma c’è chi viene qui dall’Inghilterra o dalla Francia, credendo di trovare almeno delle rovine; sarebbe già qualcosa; ma che cosa trova? Magazzini di farina!» «È vero» osservai, «sarebbe meglio ridurre tutto quanto in rovina; ma immagino che appunto per questo Sua Maestà abbia pensato a voi.» «Le assicuro che farò tutto quanto è in mio potere, per mostrarmi degno del favore di Sua Maestà» replicò seriamente il giovanotto. Non so se avrei ancora potuto continuare quella conversazione senza mettermi a ridere, ma per fortuna un ragazzo venne ad avvertirmi che i cavalli erano stati attaccati, e così potei ripartire.

Finché non piovve, il viaggio proseguì senza inconvenienti; ma al primo acquazzone la strada, già in precedenza un po’ troppo soffice e sabbiosa per la mia carrozza, si trasformò in un pantano acquitrinoso, dove i cavalli avanzavano a fatica, sicché la notte ci sorprese in aperta campagna. Quando mi avvidi che non sarebbe stato prudente proseguire il viaggio nell’oscurità fra quelle sabbie mobili, ordinai al cocchiere di fermarsi alla prima osteria, e pochi minuti dopo Will batteva alla porta di una sudicia locanda, in un villaggio di pescatori. L’oste, che a quell’ora non attendeva più clienti, collocò una lanterna cieca sul tavolo della sala, dove probabilmente di giorno macellava il suo pollame, a giudicare dall’odore che lo impregnava, e mi disse in tono scortese che avrei potuto dormire lì. In un primo momento rimasi così colpito da quell’accoglienza, che mandai fuori Will a cercare un fienile o una tettoia, dove avremmo certamente dormito più comodi; ma prima ancora del suo ritorno ritrovai il mio spirito e, impugnato il bastone, procedetti a dimostrare alla canaglia che in una casa così spaziosa come la sua ci doveva certamente essere modo di sistemare un po’ più confortevolmente i viaggiatori. L’oste, cui il fischio del bastone non piaceva, cambiò subito atteggiamento: in dieci minuti mi ritrovai al piano di sopra, in una camera illuminata da due lanterne, e in mezz’ora mi portarono pane, burro, uova al tegame e birra calda. Subito dopo il furfante, divenuto inaspettatamente amichevole, si presentò sulla porta col berretto in mano per chiedere se non mi sarei accontentato di un comodo pagliericcio, poiché aveva soltanto tre letti ed erano già occupati; gli dissi che il pagliericcio sarebbe andato benissimo, e in verità non avevo più passato la notte così comodamente da parecchi giorni.

Giovedì, 28 agosto

Stamattina ho pagato il conto, che si è rivelato assai onesto, e ho salutato l’oste battendogli sulla spalla e consigliandogli di non aversela a male; al che il brav’uomo si è dimostrato così ragionevole da accompagnarmi cortesemente alla porta e augurarmi buon viaggio. Ignoro quanto fossero sinceri i suoi sentimenti, ma fatto sta che l’augurio non si è affatto avverato. Allontanandosi dall’acqua che rende così fertile la foce della Vistola, la strada si addentra sempre più in un paese deserto e sabbioso, in cui si viaggia per ore senza altra compagnia che le grida dei gabbiani. Veramente questa Prussia è una plaga desolata, e i viaggiatori che si addentrano nelle steppe della Russia non debbono provare una sensazione più spiacevole di solitudine e di abbandono. Le ruote della vettura affondano a ogni passo nella sabbia, e in certi tratti la vettura non va più veloce di quel che farebbe un uomo a piedi, sicché in più di un caso sono smontato per fare un po’ di esercizio e respirare l’aria del mare, di cui s’indovina la vicinanza senza vederlo. Nel pomeriggio, un rovescio di pioggia ha nuovamente trasformato la strada in un pantano, in cui la vettura sprofondava fino ai mozzi; non c’era più da pensare a passeggiare, e poiché saliva la nebbia, convertendo il paesaggio esterno in una specie di incubo, ho tirato le tende e mi sono assopito.

Quando mi sono svegliato era già buio. La carrozza, a quanto capivo, era ferma e fuori non si udiva nessun rumore di cavalli, ma in compenso mi pareva di sentire delle voci femminili. Chiamai Will e il postiglione, ma nessuno dei due rispose, sicché ne dedussi che non c’erano più. A fatica mi resi conto nell’oscurità che i cavalli erano troppo spossati per muoversi, e compresi che eravamo affondati nel fango; immaginai perciò che il conduttore si fosse allontanato in cerca di soccorsi, anche se non riuscivo a capire perché Will lo avesse accompagnato invece di restare di guardia. Quando lo sguardo si fu abituato all’oscurità mi accorsi che a forse dieci passi dal mio legno inchiodato nel pantano c’era un’altra vettura, e proprio da lì provenivano le voci femminili. Era un calesse coperto, affondato nella mota esattamente come il mio, e per di più senza cavalli. La curiosità e il presentimento che forse avrei potuto portare aiuto a qualche signora in difficoltà mi indussero ad avvicinarmi, affondando fino alle ginocchia; le voci ora mi invocavano, e fra di esse ne distinsi una così deliziosa che avrei attraversato a guado la palude di Lerna per raggiungerla. La prima parola che una voce femminile mi rivolse dall’interno della vettura fu un “Grazie!” che in verità non avevo ancora meritato. La voce, come la carrozza, apparteneva alla moglie di un consigliere di Königsberg, in viaggio per Berlino con figlia e cameriera; erano affondate nel fango già da parecchie ore, molto prima che la mia vettura subisse lo stesso destino, e il loro postiglione si era diretto coi cavalli al villaggio più vicino, in cerca di aiuto. A causa dell’oscurità non potevo vedere le viaggiatrici, ma la madre parlava con tanta cordialità, la figlia aveva una vocina così dolce, e la cameriera interveniva di tanto in tanto con qualche osservazione così piccante, che deliberai di meritarmi la loro gratitudine, e promisi di non abbandonarle finché non le avessi viste tratte in salvo da una situazione così poco piacevole.

Madame temeva di sentirsi soffocare e desiderava prendere delle gocce di Hoffmann, che per caso mi trovavo ad avere nel mio bagaglio, sicché fui lieto di servirla; la povera Bertha, poiché questo era il nome della figlia, e la servetta Minettchen tremavano di freddo, e offrii loro il mio mantello; insomma non ascoltavo più se non ringraziamenti. Un sorso d’acquavite che mi permisi di offrire alle viaggiatrici per finire di riscaldarle ci mise tutti di buon umore, e la nostra amicizia progredì rapidamente; io me ne stavo in piedi sullo scalino del calesse, e rifiutavo di occupare il quarto posto all’interno accanto alle tre donne, nonostante la loro insistenza, a causa dei miei stivali infangati. «È la prima volta che la signorina Bertha si reca a Berlino?» chiesi. «Oh, no!» rispose una vocina. «Ci andiamo tutti gli anni, e andiamo ad abitare da mio zio, il consigliere Schoerner, nella Mohrenstrasse. Forse lo avete conosciuto a Berlino?» Con rammarico dovetti ammettere di non aver conosciuto quel rispettabile personaggio; ma già la madre aveva tolto la parola alla figlia. «Non ci fermeremo a Berlino questa volta, ma proseguiremo per Dresda, e là soggiorneremo per qualche settimana; Bertha è pittrice, e passerà le sue giornate alla Galleria, dove il suo talento naturale avrà modo di coltivarsi.» «Oh, mamma!» protestò la voce di Bertha; ma quella della servetta la sovrastò. «Oh, la signorina è una gran pittrice; ha fatto il ritratto della nostra gatta Peluche, e scommetto che un giorno appenderanno i suoi quadri nelle gallerie!» La consigliera, senza scomporsi, continuò: «Avremmo anche voluto proseguire per Teplitz, ma abbiamo sentito dire che la stagione delle acque è ormai avanzata». «Ho paura di sì, signora» replicai; «almeno a Berlino tutti i signori e le dame che hanno passato le acque sono già tornati in città.» «Hai visto, mamma?» s’intromise Bertha. «Te l’avevo detto che dovevamo partire più per tempo!» La voce della fanciulla mi teneva sulla corda, e non stavo più nella pelle dal desiderio di vedere se l’aspetto della sua proprietaria corrispondesse a ciò che mi pareva di immaginare; di lei non sapevo se non che aveva un piedino assai ben fatto, su cui avevo disteso il mio mantello, e una manina non meno graziosa, che mi era accaduto di sfiorare nel corso dell’operazione. Questo pensiero mi teneva in agitazione, e non sentivo né il freddo né l’umidità del fango che stava attraversando i miei stivali; fra me e me calcolavo se dopo il viaggio a Varsavia non avrei potuto proseguire per Dresda, ma mi guardai bene dal farvi cenno, perché in presenza di una madre attenta è facile parlare troppo, e ci si trova intrappolati in men che non si dica.

Mentre discorrevamo così piacevolmente giunsero il mio e il loro postiglione, con dodici cavalli da tiro e una squadra di contadini, che qui sono tenuti per legge ad accorrere in simili casi in aiuto della posta; tuttavia in un primo momento quella brava gente aveva rifiutato di muoversi, con la scusa che era già buio, e solo l’arrivo del mio postiglione e la promessa di una mancia li avevano decisi. Insieme a loro comparve anche Will, stupito e spaventato di trovarmi sveglio; come mi confessò poi, il postiglione aveva insistito per essere accompagnato, e lo stupido negro aveva accettato, credendo che avrei continuato a dormire fino a domattina. Spingere fuori dal pantano i due legni, alla luce delle lanterne, fra i nitriti disperati dei cavalli e le bestemmie degli uomini, richiese un tempo considerevole, di cui approfittai per cogliere al volo il lampo di due begli occhi bruni nell’oscurità del calesse, senza sapere tuttavia se appartenessero alla padrona o alla cameriera. Infine venne il momento di separarci. Avrei volentieri baciato la mano di Bertha, se la cosa si fosse potuta fare rispettando le convenienze; così come stavano le cose, posso ringraziare il mio mantello, di cui esse rifiutarono fermamente di continuare a servirsi, poiché nel riprenderne possesso ebbi l’occasione di sfiorare quella mano e di stringerla per un istante. Infine ognuno ripartì per la sua strada; il frastuono del calesse che partiva interruppe l’ultimo addio, e per ricuperare il tempo perduto non mi rimase che proseguire il viaggio per ciò che restava della notte, rinunciando a fermarmi all’albergo. Anche così, del resto, potrò considerarmi fortunato se arriverò a Königsberg per l’ora di pranzo. Se penso che la diligenza impiega otto o nove giorni da Berlino a Königsberg, e che i viaggiatori si lamentano, giudicandolo un tempo eccessivo!

Venerdì, 29 agosto

Grazie al cielo oggi non è piovuto, e la strada, benché pessima e priva di fondo, non ha più provocato inconvenienti paragonabili a quello di ieri; e così a mezzogiorno sono giunto a Königsberg, la seconda città del regno dopo Berlino. Al viaggiatore che entra in città per via di terra l’accesso attraverso il porto offre un colpo d’occhio memorabile. Nonostante il cielo grigio e il vapore che sale dal mare, la pianura è così monotona che già a molte miglia di distanza si intravedono all’orizzonte le torri e le guglie della città. Avvicinandosi, la strada piega verso il mare e l’aria si riempie delle strida dei gabbiani; infine il fondo sabbioso della carrozzabile lascia il posto a un duro acciottolato che risuona sotto le ruote del veicolo: è il ponte che attraversa l’imponente estuario del Pregel, sbarrando il porto di Königsberg, e la cui campata centrale, mobile, viene sollevata ogni ora per lasciar passare i battelli. Sulla destra, verso la città, la vista è impedita da una foresta di alberi maestri, di sartie e vele arrotolate; sulla sinistra, dove l’estuario si allarga e si confonde col mare, nient’altro che onde grigie e voli di uccelli acquatici.

Si entra in città attraverso il quartiere degli affari, il più ricco e il più animato; ovunque vetture e carretti, facchini, militari e marinai; passano sul ponte a gran velocità equipaggi eleganti come quelli di Berlino, dai cui sportelli occhieggiano dame alla moda; sui moli i negozianti discutono animatamente fra loro o sorvegliano in silenzio, con le mani in tasca e la pipa fra i denti, il movimento dei velieri, pensando alle ricchezze che hanno appena affidato all’azzardo delle onde; più avanti, un alto funzionario fende la folla in vettura, insensibile al formicolio della moltitudine, tutto compreso delle decorazioni che gli scintillano sul petto. Non appena attraversato il ponte ho dato ordine di fermare la carrozza e sono sceso, affascinato da questo spettacolo, respirando a pieni polmoni l’aria frizzante e salmastra, e ascoltando gli scherzi dei marinai in tutte le lingue d’Europa e d’America. Sulla piazza del mercato i pescatori, in piedi accanto alle cavagne ormai quasi vuote, cercavano di smerciare gli ultimi pesci della giornata; i richiami dei venditori si confondevano con la cantilena monotona dei mendicanti che, seduti sulle spalliere del ponte o accovacciati sui gradini delle chiese, tentavano senza convinzione di attirare l’attenzione dei passanti distratti. Arrivando a Königsberg mi aspettavo di trovare il porto vuoto e i moli in disarmo, in conseguenza della guerra; invece nei giorni scorsi, a quanto ho appreso da un negoziante, il re di Svezia ha ordinato alle sue fregate di togliere il blocco dei porti prussiani, e una quantità di bastimenti, che non attendevano altro, sono salpati o entrati in porto, sicché il commercio è più animato che mai.

Tornando alla carrozza, mi sono trovato la strada sbarrata da due facchini che litigavano, credo, sulla spartizione d’una mancia, e che dopo essersi insultati con quanto fiato avevano in gola avevano creduto necessario venire alle mani. Simili baruffe, che s’incontrano a ogni passo nelle nostre strade, sono assai rare in Germania, dove i litigi fra le infime classi sono risolti di solito con qualche imprecazione borbottata fra i denti; i bravi tedeschi, infatti, sono troppo placidi e flemmatici per lasciarsi andare a vie di fatto. Anche in questo caso i due facchini si battevano così goffamente da rendere palese la loro inesperienza in quel genere di transazioni. Tre o quattro marinai americani si erano fermati, come me, per godersi lo spettacolo, ma hanno subito perso la pazienza al vedere i due contendenti che gesticolavano, scalciavano, graffiavano e si strappavano i capelli; sicché se ne sono andati, mandandoli al diavolo e giudicandoli dei bruti, che non sapevano fare a pugni da veri uomini. Il piacere di sentir risuonare in una terra così lontana gli accenti del mio paese mi ha indotto a interpellare i marinai, ed ho così appreso che facevano parte dell’equipaggio del Rising States, capitano Nathaniel Shaler, partito da New York tre mesi fa, e ormai in procinto di salpare per il viaggio di ritorno con un carico di pellicce. Ho dato loro due soldi perché bevessero alla mia salute, ch’essi hanno intascato senza nessun ringraziamento, dopodiché si sono rimessi il cappello in testa e se ne sono andati; in un altro momento tanta insolenza mi avrebbe irritato, ma in queste circostanze essa mi è apparsa nient’altro che un’ennesima prova dell’innata libertà di comportamento della nostra razza.

Risalito in carrozza, ho lasciato il quartiere del porto e giunto nella città vecchia ho preso alloggio all’Hôtel de Prusse, a pochi passi dall’Università. L’albergatore mi ha consigliato caldamente di andare a visitare la biblioteca, che a quanto pare è particolarmente agguerrita nel campo della teologia, e contiene un gran numero di preziosi incunaboli; ma me ne sono invece andato al caffè, a leggere i giornali. Le gazzette di Berlino arrivano fin qui senza fretta, tanto che l’ultimo numero di cui il caffettiere disponesse era lo stesso che avevo letto alla vigilia della mia partenza; in compenso i giornali di Parigi, viaggiando per mare, arrivano prima che nella capitale. La loro lettura peraltro resta sempre desolante, poiché non vi si parla se non della pace che il genio dell’imperatore ha assicurato alla Francia e all’Europa: secondo il “Moniteur”, gli ordini per il ritorno in patria della Grande Armata sono già partiti, ed è prossima la restituzione degli ultimi prigionieri austriaci catturati l’anno passato. Sul penultimo numero si accenna anche ai negoziati in corso a Londra, con l’annuncio che possono considerarsi falliti, e che Pinkney e Monroe sarebbero sul punto di fare i bagagli; in un altro momento mi sarei inquietato, ma ormai ho imparato a tenere nel giusto conto le notizie del “Moniteur”. Questo giornale è il foglio più bugiardo che mi sia mai capitato di leggere; dovrebbe introdurre un piccolo cambiamento nel suo nome, e chiamarsi il “Menteur”. Da quando sono in Europa non ho mai trovato un paragrafo che trattasse questioni di cui ero a conoscenza, e che non contenesse una menzogna o un errore; e tutto quel che afferma riguardo gli Stati Uniti è ridicolmente falso.

Oggi ho deciso per la prima volta di pranzare alla table d’hôte, anziché farmi servire in camera mia, giacché quello è un posto eccellente per incontrare gente e raccogliere informazioni: come in una diligenza o un traghetto, qualsiasi cerimonia è bandita per forza, e ci si trova a conversare col primo venuto senza il pericolo di apparire impertinenti. Accanto a me si è seduto un notaio o procuratore svedese, Mr. Brandt, che si trova qui per trattare gli affari dei suoi clienti: un vecchio originale, tutto vestito di nero, che non si separa mai da ombrello, bastone e una borsa gonfia di carte. Il suo carattere è composto in parti uguali di candore e formalismo giuridico; cui si aggiunge, credo, una buona dose di sensualità, evidente tanto dalla soddisfazione con cui inghiotte la minestra e beve il suo vino, quanto dagli sguardi di concupiscenza che lancia alla serva. Quando seppe che ero americano s’illuminò in viso, e volle a tutti i costi offrirmi una bottiglia di Madera. «Al principio di luglio» mi disse togliendo personalmente il tappo alla bottiglia, che aveva tolto di mano al cameriere, e versandomi con mille cerimonie un dito di vino nel bicchiere «mi recai a Memel, per certi affari, e scesi all’albergo dell’Aquila Nera; compatisca se le racconto queste cose, che potranno riuscir noiose, ma voglio spiegarle da dove nasce la mia amicizia per l’America e gli americani. All’albergo trovai una bella compagnia di viaggiatori, riuniti dal caso, e tutti costretti per una ragione o per l’altra a trattenersi a Memel per diverse settimane. C’erano due commercianti ebrei qui di Königsberg, che già avevo avuto l’onore di conoscere; due giovanotti oltremodo colti, gioviali e spiritosi, di un’educazione e una sensibilità che vorrei augurare a tutti i cristiani. C’erano poi due inglesi, dei quali il più giovane non aveva ancora, credo, un carattere ben formato, mentre l’altro era un signore di buon cuore, ma incline al mal di fegato: insomma un carattere freddo, che si riusciva a riscaldare solo a gran fatica. Con noi sedevano sempre a pranzo un’attrice francese non più troppo giovane, diretta a San Pietroburgo, dove sperava di far fortuna al teatro francese, dopo essere stata messa fuori ruolo al teatro dell’Ambigu; e soprattutto un suo compatriota, un americano, capitano della nave Washington, allora ancorata in rada. È il capitano Israel Shaw che mi ha insegnato ad apprezzare e onorare la vostra nazione. Era un vero marinaio, ruvido come il suo elemento, ma allegro nonostante i capelli grigi e una cicatrice che gli attraversava la fronte: un segno d’onore guadagnato a Saratoga, combattendo per la patria e per la libertà.» Così dicendo il vecchio alzò il bicchiere, con gli occhi lucidi, e bevve all’America, ed io mi affrettai a seguire il suo esempio. Poi, schioccando le labbra per la soddisfazione, riprese: «Potete immaginare che vita vivevamo! Alle cinque del mattino l’americano ci svegliava con un urrà e un gran pugno contro la porta. In dieci minuti bisognava essere tutti pronti e scendere al porto, dove la barca del capitano ci aspettava, con quattro robusti marinai, quasi tutti negri liberati. A forza di remi si usciva in rada, dove si alzava la vela; l’aria di mare ci entrava nei polmoni fortificandoli, e presto il fumo grigio dei sigari si confondeva con l’azzurro del cielo, e la nostra allegra conversazione copriva gli stridi dei gabbiani e lo sciabordio delle onde». Poiché mi ero permesso di esprimere la mia sorpresa all’idea che un signore già avanti con gli anni e certamente preoccupato dagli affari si lasciasse trascinare in una vita così movimentata, il vecchio rise senza rumore e disse che sì, certamente era lui l’unico della compagnia a spaventarsi quando un’onda più forte delle altre faceva tremare la barca, e più volte tutti avevano riso di lui; e tuttavia non avrebbe voluto rinunziare a quelle spedizioni per nulla al mondo. «Ma le dirò qualcosa che la sorprenderà ancor più. Dopo aver navigato per molte miglia, chiacchierando allegramente, prendevamo terra sulla costa della Curlandia, e lì, sulla spiaggia, ci spogliavamo e facevamo il bagno in mare; sì, signore, anch’io che sto qui davanti a lei! E debbo dire di non aver parole sufficienti per lodare l’agilità dei negri nell’acqua; essi erano capaci di prendermi sulle spalle e portarmi così a nuoto per un bel tratto, comodamente seduto come Arione sul delfino. Poi si tornava sulla spiaggia, e non facevamo in tempo a rivestirci, che già i negri avevano acceso il fuoco, messo a bollire l’acqua e preparato il tè, disponendo in cerchio sulla sabbia le tazze. Oh, è una razza meravigliosa, questa dei vostri negri; abili, discreti, capaci di far tutto cantando, ed è un peccato, se posso osare di esprimermi in tal senso, che la maggior parte di loro siano ancora soggetti a una condizione obbrobriosa come la schiavitù.» Non so s’egli avesse l’intenzione di avviare un dibattito su questo bell’argomento, allargandolo magari anche agli altri commensali, quasi tutti, a quel che potevo giudicare, commercianti di Brema e d’Amburgo; ma per fortuna nessuno di loro parve far caso alle sue ultime parole, pronunciate a voce un po’ troppo alta. «Vi faccio notare» osservai a ogni buon conto, per tranquillizzarlo, «che il mio domestico è un negro libero, e non uno schiavo.» «Oh, non ne dubitavo affatto!» si affrettò ad assicurarmi il vecchio; poi riprese il suo racconto. «Non voglio farvi credere che ci accontentavamo del tè; il capitano Shaw aveva sempre con sé una buona bottiglia di autentica acquavite americana, e ciò accresceva ancora il buonumore della compagnia. Infine risalivamo sulla barca e accompagnavamo il capitano a bordo del suo bastimento; una grossa nave da carico, che in passato aveva servito come fregata. Quell’eccellente amico non ci lasciava mai andare senza averci invitati nella sua cabina a una buona colazione di roast-beef, birra scura e vino di Porto: solo allora la barca ci riportava a terra, dove ciascuno aveva ancora il tempo di dedicarsi in pace ai suoi affari fino all’ora di pranzo.»

È assai piacevole, quando ci si trova lontani dalla patria, sentirne fare calorosamente gli elogi dai forestieri, e noi americani siamo così bonaccioni che anche soltanto sentir lodare la nostra birra e la nostra acquavite ci intenerisce; tuttavia mi premeva di riportare la conversazione ad argomenti più importanti, sicché quando Mr. Brandt tacque per riempirsi il bicchiere ne approfittai per interromperlo, e chiedergli se credeva che i suoi connazionali avrebbero rimesso il blocco al porto di Königsberg. Il brav’uomo sospirò: «Il capitano dell’ultima fregata che si è presentata davanti al porto ha assicurato che l’ordine è di levare il blocco, e infatti ieri e oggi i bastimenti sono entrati e usciti senza aver noie; ma il nostro grazioso sovrano è così imprevedibile, e la politica mondiale così complicata, che non mi sentirei di giurare su quel che accadrà domani». Quell’accenno al suo sovrano mi parve piuttosto comico, e in ogni caso un capolavoro di politica, poiché il re Gustavo Adolfo è notoriamente un pazzo pericoloso, e si troverebbe da anni in un asilo d’alienati se non fosse per la corona che porta in testa; lo assicurai che condividevo la sua perplessità, e gli chiesi se non aveva avuto modo di apprendere almeno qualcosa sulle intenzioni dello zar, conversando con i commercianti russi. «Non ci sono bastimenti russi in rada» rispose «e anche quando ce n’erano, non ho mai saputo nulla da loro; sono gente formidabile, ma parlano poco. Tuttavia» aggiunse, tornando a quello che sembrava il suo argomento favorito, «la loro acquavite è eccellente; oserei dire che sono inferiori a voialtri americani soltanto per la birra, ma in ogni altra cosa vi stanno a pari.» Volevo domandargli che cosa si dice fra i negozianti di Königsberg, ma proprio in quel momento la serva venne a chiederci se desideravamo ancora qualcosa; era già notte fonda, e in sala non restavamo che noi. Sbadigliando dissi che poiché lì non c’era da sperare in un boccale di birra scura, saremmo andati a dormire; la ragazza, spettinata e assonnata, portò via la bottiglia e i bicchieri, poi accese una bugia e ci fece strada. Davanti alle nostre camere ci diede la buona notte e si allontanò ciabattando verso la scala che portava alla soffitta; entrambi restammo per un istante a osservare con una punta di rammarico la sottana a scacchi bianchi e blu che si allontanava, poi, messi in imbarazzo ciascuno dalla presenza dell’altro, ci congedammo e andammo a dormire.

Sabato, 30 agosto

Stamattina sono andato a trovare il nostro console di commercio Van Opstal, un olandese di New York che traffica in cotone e tabacco. Il brav’uomo, che deve avere settant’anni suonati, mi ha ricevuto in veste da camera, accanto alla stufa spenta, e con la pipa in bocca, egualmente spenta. «Sono felice di potervi rendere servizio» ha dichiarato; ma a quale servizio si riferisse, non m’è riuscito di scoprirlo. Gli ho chiesto se i negozianti della città si aspettano, dopo la guerra con l’Inghilterra e la Svezia, anche la guerra contro la Francia. «La Francia è lontana» ha replicato, riempiendo la pipa di tabacco e rimettendola in bocca senza accenderla. «Qui i francesi non arriveranno. Ci arriveranno i russi, invece.» Osservai che questa prospettiva non pareva turbarlo minimamente. «E perché dovrebbe turbarmi? Con i russi si faranno ottimi affari. Anche loro apprezzano il tabacco e il cotone, e i loro acquisti li pagano in rubli d’argento, mica in carta moneta.» Gli ho spiegato che dovevo scrivere un rapporto per i nostri negoziatori a Londra, e che oltre alla sua opinione avrei voluto poter addurre quella di qualche autorità locale; per tutta risposta mi ha fatto portare l’almanacco cittadino. Sfogliandolo ho scoperto che abita a Königsberg il generale von Bülow, fratello di quell’originale con cui ho discusso per un’intera serata in casa di Victoire. «Ottima scelta!» ha approvato l’olandese. «Il generale è ben informato sulle intenzioni del governo, la sua parola fa salire e scendere la Borsa; per i negozianti è oro colato.» Sempre tenendo la pipa spenta fra i denti si è fatto portare l’occorrente per scrivere e mi ha fatto una lettera di presentazione, sicché dopo pranzo sono andato senz’altro a far visita al generale.

Costui è stato ben lieto di aver notizie del fratello, che a quanto pare non gli scrive troppo spesso, e sul cui conto nutre gravi preoccupazioni, conoscendo fin troppo bene la libertà eccessiva del suo pensiero e della sua lingua. Il generale von Bülow non assomiglia troppo a suo fratello, lo stratega da libreria; è un uomo posato, metodico nel parlare, fervente luterano: insomma il suo posto è proprio qui a Königsberg, dove infatti riconosce di trovarsi assai meglio che a Berlino. In passato è stato gouverneur, come dicono qui, del principe Louis Ferdinand, che a quel tempo non aveva raggiunto la maggiore età. Leva ancora gli occhi al cielo quando pensa a tutti i creditori che ha dovuto tacitare e a tutte le cambiali che gli sono passate fra le mani, ai conti dei sarti, calzolai, cuochi, vinattieri, e alle ragazze, poiché il suo pupillo lasciava a lui il compito di liquidare anche quelle. Ma racconta anche altri episodi, che fanno maggior onore al protagonista. «Un giorno Sua Altezza organizzò un concerto di beneficenza a favore di un musicista caduto in povertà, e volle esibirsi lui stesso sul palcoscenico; lei sa che è un eccellente pianista. Il cosiddetto bel mondo, che si vergognerebbe di ricevere Nostro Signore Gesù Cristo se si presentasse alla porta di servizio con i sandali ai piedi e la tunica rattoppata, ne fece uno scandalo; ma i bravi berlinesi giudicarono diversamente, e il concerto riscosse un enorme successo di pubblico.» «Suppongo» ho detto «che anch’ella si diletti di musica»; infatti un’intera parete del salotto era occupata da un pianoforte e sui tavolini si scorgevano ovunque spartiti e carta da musica. «Di tanto in tanto mi diverto a comporre» ha ammesso seccamente, senza voler aggiungere altro; e subito mi ha chiesto quali impressioni avessi riportato da Berlino, sicché la conversazione ha preso un’altra piega. Ma prima di congedarmi ho potuto gettare l’occhio su una partitura non finita e ho constatato non senza divertimento che il generale compone in realtà musica religiosa, e sta mettendo mano a un oratorio sul testo dei Salmi.

Anche la sua biblioteca ricorda quella di un religioso o di un filosofo, più che quella di un militare: poche opere di strategia e tattica, e fra queste neppure una di suo fratello; invece, diverse edizioni di pregio della Bibbia, raccolte di sermoni, e aperto su una poltrona accanto al camino il saggio Per una pace eterna di Kant. Ma nonostante queste inclinazioni apparentemente poco militari, il generale è un soldato indurito, che porta ancora i segni delle ferite di baionetta ricevute all’assedio di Magonza; il suo respiro sibilante e affannoso tradisce le lesioni polmonari mai completamente cicatrizzate. Benché parli col più grande disprezzo della politica berlinese, non è un fautore della guerra contro la Francia, che al pari di Van Opstal crede troppo lontana per poter veramente minacciare la Prussia. «Sua Maestà e il gabinetto, secondo la mia opinione, sperano che le informazioni trasmesse da Lucchesini si rivelino false» ha osservato, «o almeno che il marchese le abbia male interpretate, ed io stesso non sono alieno dal condividere questa speranza. Saprete, del resto, che Lucchesini è addirittura caduto in disgrazia per aver comunicato quelle notizie, ed è stato richiamato in questi giorni a Berlino.» Se le cose stanno veramente così, non ho parole per descrivere la pochezza, l’incompetenza e l’imbecillità del re di Prussia e dei suoi ministri; e in verità avrei voglia di salire sul primo bastimento in partenza per gli Stati Uniti, anziché continuare a percorrere in lungo e in largo questo regno disgraziato. «Eppure», ho osservato, cercando di mascherare la mia costernazione, «le truppe francesi in Germania si rafforzano ogni giorno, e finché non avranno ripassato il Reno, sarà difficile dar torto a quanti additano nel Francese il nemico mortale della libertà tedesca.» A queste parole il generale si è alzato senza una parola, mi ha preso per il braccio e mi ha condotto alla finestra. La sua casa, fredda e poco comoda, è all’interno del castello e la finestra dà direttamente sui bastioni; egli mi ha indicato l’acqua nera del Pregel che scivolava silenziosa sotto di noi, e a distanza, oltre le mura, i banchi di sabbia che si stendono a perdita d’occhio verso oriente.

«Se lei, amico mio, uscendo di qui montasse a cavallo e cavalcasse in direzione del sole che sorge, in capo a due giorni si troverebbe alla frontiera, senza aver incontrato un fiume, una montagna o una palude in grado di sbarrarle la strada. E dietro quella frontiera non troverebbe i soldati di Bonaparte, ma quelli di Alessandro. Io non sono fra coloro che si sono rallegrati come bambini per la conquista di qualche centinaio di miglia di steppa polacca. Il risultato dell’annientamento della Polonia è che la più temibile di tutte le potenze, la Russia, è avanzata fino ai confini della Prussia, e il paese che un tempo ci separava dall’impero dello zar non c’è più.» Ho obiettato che per quanto la potenza della Russia sia certo da temere, tuttavia essa non ha ancora saputo darne prova al di fuori dei suoi confini naturali, né spingere con successo le sue armate verso Occidente; e mi sono anche permesso di dubitare che lo zar abbia una qualsiasi ragione al mondo per desiderare di farlo. Il generale von Bülow non ha nascosto il suo completo disaccordo con questa opinione, e mi ha tenuto un’improvvisata lezione di politica economica, dimostrando che la politica estera della Russia deve di necessità puntare alla Vistola, poiché il suo commercio la spinge nella stessa direzione. Fin qui, le sue opinioni concordavano a puntino con quelle di Van Opstal; le conseguenze ch’egli ne tirava erano tuttavia assai più tragiche. «Il destino che i russi hanno riservato alle infelici province polacche cadute sotto il loro tallone» ha osservato in tono sepolcrale «non ci permette di conservare illusioni su ciò che accadrebbe a noi se dovessimo subire la stessa sorte. Vivono ancora a Königsberg, d’altronde, molti funzionari, ufficiali ed ecclesiastici che hanno vissuto di persona gli anni dell’occupazione russa, al tempo di Federico; e i loro racconti fanno accapponare la pelle. Ora il russo, che molti considerano poco meno che un tartaro perduto nell’immensità asiatica della sua terra, in realtà è qui, a pochi passi da noi. Il suo esercito può raggiungere la frontiera, dai quartieri d’estate, in uno o due giorni di marcia, ed è sempre in grado di piombare all’improvviso sugli acquartieramenti dei reggimenti della Prussia orientale, e ributtarli verso la Vistola prima ancora che essi abbiano ricevuto ordini da Berlino. La frontiera non è che sabbia, non offre alcun punto d’appoggio. I cosacchi potrebbero giungere a Königsberg precedendo i messaggeri incaricati di annunziare il loro attacco, disperdere i nostri accantonamenti, catturare i riservisti nelle loro case prima che abbiano avuto il tempo di riunirsi ai reggimenti, impadronirsi delle casse, dei magazzini, dei branchi di giumente coi loro puledri, portare il terrore e lo scoraggiamento in tutto il paese. Se il confine resta nella posizione attuale, può darsi che la Prussia Orientale si trovi un giorno nella posizione degli antichi Britanni che, inseguiti dai Pitti, scrivevano a Roma: “i barbari ci spingono verso il mare, il mare ci respinge verso i barbari, e non ci resta che scegliere fra queste due alternative, di cadere sotto la spada, o di affogarci nell’Oceano”.»

Mentre il generale parlava, osservavo in silenzio le sue mani sottili da musicista, che gesticolavano nel calore del discorso come quelle di un italiano; i suoi capelli bianchi pettinati in due bande lisce sulle tempie, il naso fine e adunco, gli occhi rossi e cerchiati, la bocca sottile come quella di una donna; poi, per evitare il suo sguardo acceso, guardai fuori dalla finestra, seguendo la sarabanda delle anatre e dei gabbiani sull’acqua del fiume. Respirando con affanno, il generale continuava, descrivendo quella che evidentemente era da tempo una sua idea fissa: «Per sfuggire a questo pericolo, il solo rimedio è una mobilitazione rapida, capace di mettere i reggimenti e i battaglioni sul piede di guerra in capo a cinque o sei giorni. Si potrebbe raggiungere lo scopo registrando i cavalli, in modo che ogni proprietario sappia dove deve condurre i suoi al momento della mobilitazione. I domestici dovrebbero egualmente essere immatricolati e presterebbero giuramento di presentarsi al luogo indicato. Ogni reggimento avrebbe a disposizione in permanenza il denaro necessario per le spese di mobilitazione». La tosse lo interruppe, e mentre si chinava in avanti, tenendosi con le mani il petto incavato, mi venne in mente, chissà perché, il libro che avevo veduto aperto sul suo tavolino appena un minuto prima, l’invocazione di Kant per una pace eterna. Ma già il generale aveva ritrovato il fiato, proseguiva la sua perorazione. «In ogni villaggio si dovrebbero piazzare dei fanali, destinati ad essere accesi per segnalare l’approssimarsi del nemico, e tenere in allarme dei messaggeri a cavallo dall’itinerario prestabilito, da una fattoria all’altra, di baliaggio in baliaggio. Questi messaggeri dovranno essere sempre pronti a partire e conserveranno anche in tempo di pace ordini sigillati, da aprire al momento della mobilitazione. Alla loro partenza si suoneranno le campane dei villaggi, ogni ora di giorno, ogni quarto d’ora durante la notte, per guidare il loro cammino. Ogni villaggio manderà senza indugio i suoi migliori cavalli al centro di mobilitazione; tutti i riservisti e i domestici a cavallo raggiungeranno i reggimenti. Chiunque non si sia presentato entro il terzo giorno al suo reggimento riceverà trenta colpi di bastone; colui che non si presenterà affatto e non potrà dimostrare di essere gravemente malato sarà tradotto davanti a un consiglio di guerra e fucilato.»

«A Berlino» dissi quando il generale finalmente tacque «qualcuno mi ha detto le stesse cose. Che, cioè, la Russia rappresenta per la Prussia la minaccia più immediata, e che il re dovrebbe allearsi con Bonaparte anziché permettere ad Alessandro di accrescere ulteriormente la sua potenza.» «Grazie a Dio, anche a Berlino non sono tutti ciechi» esclamò il generale. «Spero che sia stato qualcuno abbastanza influente da impedire che il paese continui a correre verso la catastrofe, come si è fatto finora.» «Ho paura di no, poiché si trattava del fratello di Vostra Eccellenza» risposi; dentro di me trovavo piuttosto divertente quell’identità di vedute fra i due fratelli, che sotto ogni altro aspetto non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro. Il generale è rimasto per un istante interdetto, poi si è voltato verso la finestra, nascondendomi il volto e impedendomi di riconoscere le emozioni che esso tradiva. Proprio in quel momento un domestico è entrato, annunciando al padrone che erano giunti i signori suoi ospiti. Il generale mi ha invitato a rimanere. «Noi qui» ha aggiunto «viviamo una vita più abitudinaria di quella di Berlino, e questi signori si riuniscono da me ogni giorno alla stessa ora.» «La ringrazio di cuore per l’invito, ma immagino che saranno già in numero sufficiente per la partita, e accettando di rimanere rischierei di privare qualcun altro del divertimento.» Il generale si è schiarito la gola, poi ha dichiarato con un sorriso imbarazzato: «Ma non si tratta di una partita, bensì del nostro concerto serale. Qui da noi i divertimenti sono semplici, e il più grande piacere è quello di riunirsi fra amici per eseguire un trio o un quartetto. Sarò onorato se vorrete restare. Solo non dovrete aspettarvi troppo; ognuno, si capisce, suona il violino o il flauto come più gli piace, senza troppo preoccuparsi delle regole, e il piacere della compagnia sopperisce a quel che manca di correttezza accademica in queste esecuzioni domestiche». Ho ringraziato il generale per la sua bontà, ma a quell’ora avevo bisogno di qualcosa di più sostanzioso d’una sonata, sicché ho declinato l’invito e me ne sono andato invece a mangiare una lepre e bere una bottiglia di champagne nella migliore birreria di Königsberg.

Qui, in un angolo del tavolo, ho scritto il primo dispaccio per Pinkney, riferendo per filo e per segno le opinioni espresse da Van Opstal e dal generale. È sorprendente che due uomini così diversi manifestino una così completa concordanza nelle loro previsioni; o, per dir meglio, è una conferma di come la geografia determini i giudizi politici, sicché quel che pare ovvio a Berlino diventa assai dubbio cinquecento miglia più a oriente. Ma è altresì vero che la conformazione d’una città, l’angustia e il sudiciume delle vie, il tanfo di muffa delle abitazioni non possono non esercitare un’influenza sui pensieri degli abitanti, e condannarli alla medesima angustia. Nonostante il traffico e l’animazione del porto, Königsberg non è nient’altro che strade strette e vecchie case; non una sola piazza aperta, non uno scenario che dia la sensazione di trovarsi in una metropoli di tali dimensioni, e che possa permettere allo spirito di dispiegarsi liberamente. Solo salendo sulla torre del Castello è possibile rendersi conto di quanto la città sia grande, un mare di case oltre il quale l’occhio fa fatica a spingersi; ma tutti gli abitanti cui l’ho domandato mi hanno risposto di non essere mai saliti sulla torre in vita loro. Alla meschinità dei luoghi corrisponde quella di una società separata in ceti, secondo l’universale uso tedesco, che solo a Berlino non è rispettato; qui il forestiero, a quanto mi ha raccontato Van Opstal, ha l’occasione di essere invitato a balli o cene di nobili, di funzionari, di mercanti o di professori, in cui tutti i presenti, dal primo all’ultimo, appartengono allo stesso ceto sociale e condividono i medesimi interessi. I mercanti, anzi, provano gusto a ritrovarsi soprattutto fra membri della stessa corporazione, sicché si può immaginare quanto sia divertente essere invitati, per esempio, a una cena di commercianti di tabacco. Insomma non stupisce che le idee, qui, siano stagnanti, assai più che a Berlino; ancora una volta, come già in Inghilterra, ho dovuto constatare che in Europa la capitale è tutto, e la provincia non è nulla. Mi pare ormai di aver cavato dal mio soggiorno a Königsberg tutto il profitto che potevo sperare, e domattina di buon’ora mi metterò in viaggio alla volta di Varsavia, dove se non m’inganno troverò lo stesso timor panico dei russi, e la stessa sciagurata indifferenza nei confronti di Bonaparte.

Domenica, 31 agosto

Sono partito da Königsberg all’alba di una bella giornata di sole, così rara in questi climi. Attraversato l’estuario del Pregel il paesaggio muta rapidamente; l’aria perde il suo sapore salmastro, i gabbiani cessano di accompagnare il viaggiatore con le loro strida, e il vento non porta più con sé la fine sabbia marina. Scompaiono le dune mobili, da cui non spunta che qualche filo d’erba secca, e i ciuffi di pinastri oppressi dalla fatica di succhiare la vita dalla sabbia ostile; al loro posto, ci si ritrova in una campagna fertile e inzuppata d’acqua, che a sua volta, tuttavia, raccoglie in sé i più forti contrasti. Ora la strada corre all’ombra di foreste di pini secolari, attraversa macchie di faggi e ontani, costeggia laghi scintillanti sotto il sole, guada canneti e paludi: e ovunque giunga lo sguardo non si scorge traccia di attività umana. Ma subito dopo ci si arrampica su un poggio, e compaiono un villaggio coi suoi tetti di tegole raccolti attorno al campanile della chiesa luterana, o una fattoria isolata, con le sue rimesse e i fienili, un mulino a vento ritto su un’altura, o ancora una casa padronale ridipinta di fresco, che nasconde dietro di sé i magazzini, le stalle e le abitazioni dei contadini; e tutt’intorno campi di segala o di avena appena mietuti, campi di granturco ancora da mietere, prati fradici d’acqua dove pascola il bestiame: e la foresta, la palude, i laghi sembrano appartenere a un altro mondo, pagano e primitivo, anteriore all’invenzione dell’agricoltura. Chi ha viaggiato attraverso gli Stati Uniti sa che dappertutto, da noi, si ritrova questo contrasto fra la più raffinata civiltà e la natura abbandonata a se stessa; ma in Europa è la prima volta che mi accade di incontrarlo, e a ciò è dovuta forse l’istintiva simpatia che ho provato per questo paese.

Nel pomeriggio sono arrivato a Bartenstein, cittadina di guarnigione, dove è acquartierato un reggimento di fanteria. Dopo essermi lavato ho preso a nolo un cavallo dall’oste e sono uscito a passeggio; nella piazza del municipio si teneva il consueto ballo domenicale, al suono di un violino scordato, e poiché non avevo voglia di trovarmi in mezzo a contadini e artigiani vestiti a festa ho deciso di avviarmi verso la piazza d’armi, sperando di incontrare qualche ufficiale con cui scambiare una parola. Lungo la strada mi sono venuti incontro tre bambini scalzi, ma con camicie di bucato e giacchette di fustagno: ho gettato loro una monetina e ho chiesto dove si trovavano i soldati. I bambini mi hanno guardato con sorpresa, stupiti certamente del mio accento e dell’abito forestiero, poi hanno risposto in dialetto che i soldati si stavano esercitando all’aperto poco lontano dal villaggio, e mi hanno indicato la direzione da seguire per raggiungerli. Attraversato un frutteto, ho seguito una stradina di campagna in mezzo al granturco, e dopo pochi minuti mi sono imbattuto in quello che cercavo. Due comandanti di compagnia sedevano sui loro cavalli fermi al margine della strada, sorvegliando i loro uomini che ritornavano straccamente dall’esercizio, sospinti a forza di imprecazioni dai sottufficiali. Faceva caldo. Mi sono avvicinato agli ufficiali e ho chiesto se un forestiero poteva avere l’onore di conversare con loro. Uno dei due portava un pince-nez che si affrettò a far scomparire nella tasca del panciotto, col suo nastro di raso nero, non appena mi vide avvicinarsi: vergognandosi evidentemente, come accade a molti, della sua miopia. Dopo avermi stretto la mano cavò da un’altra tasca un fazzolettino profumato, e cominciò a detergersi il sudore dal grosso viso butterato. Quando ebbe finito, sostituì il fazzolettino con una piccola tabacchiera metallica, offrì tabacco a me e al suo compagno e poi fiutò con visibile soddisfazione; l’altro, un po’ più giovane e un po’ meno corpulento, ma non meno rosso in viso per la calura e per la congestione provocata dal colletto dell’uniforme, tolse dal taschino la pipa e mentre discorrevamo la caricò con gesti precisi e cominciò a fumare.

Il fumatore di pipa si chiamava il capitano von Boyen, il suo collega butterato rispondeva al nome di capitano von Treptow. Entrambi, informati della mia qualità, hanno domandato avidamente le ultime notizie di Berlino, ma sono apparsi piuttosto dubbiosi quanto alla probabilità di una guerra. Certo, dopo l’ordine di mobilitazione il reggimento sta completando gli organici e anche le loro compagnie hanno richiamato tutti i cantonisti; ma essi sostengono, con buoni argomenti, che questo non prova nulla. «Già l’anno scorso il re ha ordinato la mobilitazione generale e l’esercito si è radunato in Turingia, e allora tutti eravamo certi che fosse finalmente giunto il momento di combattere; ma subito dopo siamo stati rimandati agli accantonamenti, a godere di una pace infamante!» Così, almeno, si è espresso l’ufficiale dal pince-nez; il suo camerata, fumando la pipa, ascoltava in silenzio e con una smorfia che poteva anche essere di disapprovazione. Poi, quando l’altro ha taciuto, si è tolto la pipa dai denti e ha dichiarato acidamente che sì, poteva anche darsi che il re si decidesse a dichiarare la guerra alla Francia, ma sarebbe sempre stato troppo tardi. «A tutti ormai è evidente che la Prussia ha l’acqua alla gola, e la sente così alta che comincia ad avere paura, più paura di quel che potrebbe sopportare; e così forse si deciderà alla guerra, come il vigliacco, che quando è alle strette diventa coraggioso. Perché, poi, quel che è sembrato sopportabile, se non desiderabile, per mesi e per anni, debba ora diventare all’improvviso intollerabile, ecco qualcosa che faticherei a spiegare ai miei soldati.» «Tanto più» aggiunsi «che qualcuno preferisce far confusione, e credere che questa volta la mobilitazione si rivolga piuttosto contro la Russia; a Königsberg non mi hanno parlato d’altro.» «Ma queste sono sciocchezze, cui non merita neppure far cenno» replicò seccamente il fumatore di pipa; «noialtri sappiamo bene che la minaccia per il regno viene dal Francese; ma nessuno spiega perché mai fino a poche settimane or sono ci affannavamo a pubblicare sui giornali la nostra grande amicizia per Bonaparte. C’è da augurarsi, in queste condizioni, che l’esercito prussiano abbia ancora voglia di marciare per difendere la Prussia!»

Il capitano von Treptow è parso sbalordito, ed ha assicurato che né lui né, osava crederlo, il suo camerata si sarebbero tirati indietro. Ma prima che potesse proseguire l’altro l’ha interrotto: «Ma no, non è di noi che parlo. Noi non siamo l’esercito. Nessuno di noi lo è. Essi sono l’esercito» ha esclamato, additando i fanti esausti dalla fatica, che si trascinavano nella polvere davanti a noi. «E perché, io chiedo, essi dovrebbero battersi? Per conservare il diritto di marciare affamati e malvestiti, e, quando saranno inabili al servizio, di mendicare all’angolo di una strada? Almeno qualcuno si degnasse di spiegar loro perché domani dovranno partire e affrontare la fatica, la fame, la sete, le mutilazioni e la morte!» Il suo collega, tuttavia, non si è lasciato impressionare. «Questo è un discorso che abbiamo già affrontato altre volte, e non ho niente da aggiungere a ciò che dissi allora, se non ripeterlo, perché questo signore possa giudicare. Io conosco i miei soldati uno per uno. So i loro problemi, le loro paure, le loro gioie. Conosco le loro donne e i loro vecchi. Alcuni di loro sono nati nella mia tenuta, e giocavamo insieme da bambini. Ho sempre provveduto alle vedove e agli orfani della mia compagnia. Essi mi seguiranno comunque. E in verità» ha aggiunto, rivolgendosi a me «i soldati del mio camerata faranno lo stesso, anche se egli finge di non saperlo: perché quando un capitano trascorre le sue serate insegnando a leggere e scrivere ai soldati della sua compagnia, anziché bere e giocare a carte insieme ai camerati, è ben difficile che i suoi uomini non lo seguano in battaglia.»

Il capitano von Boyen si è tolto la pipa di bocca. «Con questi discorsi finirò per passare per un rivoluzionario» ha borbottato. «Chiamo il Signore a testimone che non c’è niente nel modo in cui io tratto i miei soldati che non sia già scritto nel Vangelo, anche se c’è stato bisogno di una terribile rivoluzione perché il pubblico se ne accorgesse.» «A giudizio di qualcuno» ho riso «insegnare a leggere e scrivere a coloro che la Provvidenza ha collocato nello strato inferiore della società è degno proprio d’un rivoluzionario»; e ho raccontato della conversazione avuta a Neuruppin col principe Ferdinand, a proposito dell’opportunità di mandare a scuola i figli dei soldati. Von Boyen mi ha guardato senza sorridere. «Voi, che siete americano, vi burlate di questa opinione, e può darsi che abbiate ragione; ma qui da noi, dove il popolo non è altrettanto illuminato, essa non fa sorridere nessuno. Io stesso ne convengo; la lettura è un coltello affilato, che noi mettiamo in mano al popolo. Ma d’altra parte volerla negare non sarebbe soltanto una crudeltà, bensì anche una prova di scarsa lungimiranza: poiché lo Stato dovrà sempre più avvezzarsi a contare sul cuore e la testa, non più soltanto sui piedi e i muscoli, dei suoi sudditi. Dal che, se vogliamo» ha aggiunto rischiarandosi in volto «si potrebbe dedurre una conseguenza filosofica: quelli che di questi tempi si chiamano pomposamente diritti umani, non sono niente di più e niente di meno che i nostri doveri verso il prossimo, solo intesi in senso politico.» «Ed è proprio ciò che volevo dire, sebbene io non abbia letto Kant» ha concluso von Treptow. «Ma mi permetta di aggiungere che questo modo di ragionare finisce per dar ragione a me: i soldati oggi non sono più gli automi meccanici dei nostri padri, tremanti di paura alla sola vista di un ufficiale; essi sanno benissimo che se l’esercito mobilita, se si chiederà loro di marciare, ciò sarà per una causa nobile, che sta a cuore a ciascuno; e daranno la vita con gioia.»

Così discorrendo eravamo giunti sulla piazza del villaggio; e qui, dopo essere smontati e aver lasciato i cavalli ai servitori, ci siamo avvicinati a un gruppo di riservisti seduti a prendere il fresco su un muretto. «Se i signori sono d’accordo» ho detto «potremmo interrogare questi uomini, e chieder loro che cosa ne pensano.» Treptow è parso entusiasta dell’idea; il suo collega ha riso beffardamente, ma non ha aggiunto parola. Accorgendosi di noi gli uomini si sono alzati e si sono tolti il cappello. Erano contadini robusti, coloriti, coi capelli biondi tagliati a scodella, i tratti grossolani e l’espressione ottusa. Facendo un passo avanti li ho interrogati. «Sapete perché vi hanno richiamati, e dove vi manderanno?» Il mio tedesco, che mi aveva servito così bene a Berlino, suonava fuori posto rispetto al dialetto in cui mi hanno risposto, e che comprendevo soltanto a metà. Ha parlato per tutti il più giovane, coi capelli più lunghi degli altri e l’aria spavalda del bulletto di villaggio:

«Be’, si sa. C’è il francese che ci minaccia, si va a cacciarlo fuori.»

Gli altri richiamati hanno annuito convinti, come se davvero avessero trovato una spiegazione, qualcosa in grado di giustificare quel che stava succedendo. Al villaggio avranno raccontato le stesse cose alle ragazze, assicurando che sarebbero tornati presto, dopo aver cacciato a pedate il francese. Non sembravano afflitti: si sa che i riservisti, anche se hanno avuto fortuna e sono tornati a casa prima del tempo, possono essere richiamati dalla sera alla mattina, poiché il re può sempre aver bisogno di loro. Non è nulla rispetto a quel che capita ai soldati di mestiere, che firmano per dieci anni, ma non hanno altra prospettiva se non quella di rinnovare la ferma di decennio in decennio per tutta la vita: in confronto a costoro i soldati reclutati nel paese, cui il re consente di conservare la propria casa e il proprio lavoro, richiamandoli in servizio soltanto all’approssimarsi delle manovre di primavera, si considerano dei privilegiati. «Ma non vi dispiace dover partire, lasciare le vostre case, i vostri cari?» ho insistito. Si sono guardati l’un l’altro, poi uno di loro ha risposto a nome di tutti. «Noialtri poveri diavoli, si sa, abbiamo poco da perdere. Certo dispiace a quelli che devono lasciare la moglie, e ancor più a quelli che lasciano la ragazza, questo sì brucia; e c’è perfino qualcuno che alla partenza piange; ma io dico, vi pare ammissibile che il soldato pianga?»

Soddisfatto di questa risposta, il capitano von Treptow ha cavato dalla borsa una moneta e l’ha gettata ai soldati, ordinando loro di berla alla sua salute; poi i due ufficiali mi hanno invitato a cena all’osteria, e a tavola, fra un boccale di birra e l’altro, la conversazione è ripresa. Il fumatore di pipa non pareva troppo persuaso dei sentimenti bellicosi espressi dai soldati e si è rivolto vivacemente al suo camerata: «Non hai dimostrato niente lo stesso. Essi non fanno altro che ripetere ciò che hanno detto loro il pastore e il signore del villaggio, il giorno della partenza; ma prova a chiedere perché mai il francese dovrebbe minacciare proprio loro!». «Ebbene», ribatté Treptow, «me lo sono chiesto anch’io, e proprio in questi termini; guardavo i nostri vecchi prussiani e lituani, coi loro nasi spropositati e i loro musi contraffatti, sudare sotto il peso del moschetto, e pensavo: ma a voi cosa importa di Napoleone? Ma poi ho provato a immaginare quel che accadrebbe se una truppa straniera dovesse entrare con la forza nel paese: i buoi e i cavalli requisiti, le vacche e i maiali sgozzati, la birra bevuta, i soldati acquartierati nelle case, le ragazze forzate, i padri e i fratelli bastonati, chi si ribella fucilato; e i sacchi di farina portati via, e la carta moneta ridotta a carta straccia, e i bambini che cominciano a morire di fame; perché questo è quel che succede dove arrivano i francesi, l’esperienza dell’Austria non ci consente di illuderci. E allora ho capito che anche loro sono minacciati, e che una sola è la causa di tutti.» A questo punto mi sono permesso di intromettermi. «Se ho ben compreso, però, il capitano» e qui ho accennato a von Boyen «non nega che i soldati possano e debbano avere un’opinione in merito, per esempio, alla presente congiuntura politica, e anche molto da perdere in caso di guerra e di sconfitta, anche se forse non tanto quanto il re; ma dubita semplicemente che la società e l’esercito siano preparati a permettere loro di formarsela.» «Precisamente» ha confermato Boyen. «Il soldato è come un bambino cui manca la parola: spetta all’ufficiale educarlo con la bontà e la dolcezza, come un padre. Ma provate un po’ a chiedervi quanti ufficiali provano sentimenti paterni per i loro soldati! E così avviene che gli sforzi dei pochi siano sepolti dall’indifferenza dei più; e lo saranno sempre, finché il popolo non sarà educato.» «Eppure» ho osservato «mi pare che oggi anche nel popolo il patriottismo sia capace di far battere molti cuori, come non si sarebbe mai creduto possibile, almeno in Europa, al tempo dei nostri padri.» «Come si può parlare di patriottismo?» ha ribattuto il capitano. «Per rendere l’esercito veramente patriottico sarebbe necessario, per prima cosa, congedare tutti i soldati di mestiere. Si dirà che ciò è impossibile, perché in tal caso il re non avrebbe più abbastanza soldati; ma basterebbe eliminare le esenzioni completamente ingiustificate che sottraggono troppi individui, senza loro merito, al servizio e fanno gravare un peso sproporzionato sulle campagne e soprattutto sui poveri. Oggi soltanto i braccianti diventano soldati, quasi mai i contadini ricchi; per non parlare poi dei cittadini. Perché mai tutta la popolazione delle città, fino all’ultimo facchino, deve essere dispensata dal servizio?» «Questo è vero» ha commentato Treptow, «e non basta; occorre anche abbassare la statura minima richiesta: essa oggi è troppo elevata, come se fossimo ancora ai tempi di Federico Guglielmo I e dei suoi granatieri giganti. Basta esaminare i registri dei cantoni, per rendersi conto della quantità di uomini che, per difetto di taglia, sono perduti per il reclutamento.» «Ma soprattutto» ha concluso Boyen, facendo cenno alla serva di tornare a riempirgli il piatto «i soldati così reclutati dovrebbero restare al reggimento almeno un anno prima di essere mandati in congedo alle loro case. Allora si potrebbe formare in loro uno spirito veramente patriottico, e non soltanto quello! Oggi le reclute sono licenziate troppo presto, e non conservano del loro servizio che il ricordo dei primi giorni penosi, senza aver acquistato l’amore del loro nuovo stato; dimenticano subito ciò che hanno imparato, e manovrare con loro è tre volte più faticoso che manovrare con i veterani. Tutti riconoscono che domare un cavallo è un’arte difficile e che richiede capacità di giudizio; e addestrare un uomo dovrebbe richiedere meno talento? Un ciabattino resta apprendista per tre anni, e pretendono che il soldato impari il suo mestiere in tre mesi!»

A questa esclamazione ha fatto seguito un istante di silenzio; poi il capitano ha proseguito: «Quanto poi al patriottismo del soldato, vi voglio raccontare una storia. Qualche anno fa, durante l’ultima guerra, e precisamente all’assedio di Magonza, si decise di coniare medaglie, per premiare i soldati valorosi. Erano monete commemorative d’oro o d’argento, con l’iscrizione: “Al merito dello Stato”, e dovevano essere distribuite a quei sottufficiali e soldati che si fossero distinti sul campo. Però al tempo stesso si abbandonò l’usanza dei premi in denaro, a cui i soldati erano assai affezionati; poiché si era deciso che tutti quanti erano dei cittadini, si pensò che dovesse bastar loro come premio la gratitudine dello Stato! Gli austriaci, invece, che distribuiscono delle medaglie fin dal tempo della guerra contro i turchi, hanno avuto l’accortezza di assicurare ai premiati un soldo maggiorato. Solo presso i prussiani un uomo da tre soldi, una volta decorato, rimane un uomo da tre soldi, come mi disse una volta uno dei miei soldati!». «È vero» ha confermato Treptow, finendo di trangugiare un boccone di salsiccia. «Ma non basta! Il fatto è che molti, o forse la maggioranza, di quelli che sono stati decorati hanno ricevuto la medaglia perché erano protetti dagli ufficiali, si davano volontari per lavorare come calefactores, e sapevano lucidare gli stivali, e strigliar bene i cavalli. Il risultato è che tutti si son fatti beffe delle medaglie, e quelli che le portavano erano odiati e disprezzati; subito hanno inventato dei soprannomi sconci per indicarle, e fino a non molto tempo fa, prima che sparissero del tutto dalla circolazione, perfino le mogli dei soldati ne ridevano. Io ho sentito con le mie orecchie qui a Bartenstein una donna che diceva al suo bambino, incontrando un decorato: “Guarda, Fritzchen, un altro camerata che va a comprarsi un panino con la sua monetina!”»

Boyen finì di bere la sua birra e appoggiò sonoramente il boccale sul tavolo. «Dobbiamo però stare attenti» disse «a non sottovalutare le risposte del popolo. È facile ridere di quei soldati cui la medaglia appare uno scherzetto, se non si accompagna a una maggiorazione del soldo. Ma lo sapete voi come vive un soldato col suo soldo? In passato, molto tempo fa, il salario era stato fissato in modo tale che il soldato fosse pagato quanto l’operaio; la sua situazione era migliore di quella dei braccianti e dei giornalieri. Ma da allora tutti i prezzi sono aumentati, i salari degli operai e dei lavoranti sono stati adeguati, soltanto il soldo dei militari è rimasto lo stesso.» «Compreso» osservò Treptow «quello degli ufficiali; dico dei subalterni, e il mio camerata ricorda quanto me che prima d’esser padroni di una compagnia non si nuotava certo nell’abbondanza.» «È vero» riconobbe Boyen, «ma si suol dire che quando un ufficiale subalterno ha fame, si rilegge la sua patente, e si riempie la pancia con la frase: “E potrà godere di tutte le prerogative del suo stato”. Ora i più credono che questo sia uno scherzo, ma la verità è che la patente riempie davvero la pancia, pur che si abbia la pazienza di aspettare. Ma per i soldati occorre pane! Il re salendo al trono ne ha concesso una libbra al giorno, credendo sinceramente che si trattasse di una misura sufficiente, ma è stato ingannato. Il soldato oggi, soprattutto se è sposato e deve mantenere una donna e dei bambini, è costretto a lavorare; per lui vivere del suo soldo significa far la fame. Io ho scoperto qualche tempo fa che il mio lacchè vendeva di nascosto, dalla porta di servizio, gli avanzi dei miei pranzi, e che erano i miei stessi soldati a comprarli a credito, la domenica, quando volevano far festa! Sarebbe sufficiente assegnare a ogni soldato ancora una libbra e mezza di pane al giorno per sottrarlo al bisogno. Certamente qualcuno sarà pronto a dimostrare che nel bilancio dello Stato non si possono trovare da nessuna parte i denari necessari; ma io rispondo che poiché questa misura è indispensabile per la conservazione dell’esercito, e indirettamente dello Stato stesso, nessun proprietario si tirerebbe indietro di fronte alla domanda di contribuirvi; e in caso estremo il re avrebbe il diritto di imporre d’autorità questo carico. Certo si tratterebbe di una misura ben grave, ma è inconcepibile che in tutto l’esercito nessuno sia in grado di mangiare a sufficienza se non ha delle risorse personali, perciò si dovrebbe avere il coraggio di prenderla!» Così dicendo, il capitano batté il pugno sul tavolo; l’oste gli diede un’occhiata sfuggente, e più di un avventore si volse a fissarlo. Nonostante le sue idee giacobine, mi sarebbe dispiaciuto se il governo lo avesse spedito in fortezza; sicché gli consigliai di esprimersi con maggior prudenza, poiché non mi pareva da escludere che in quell’osteria ci fosse qualche spia della polizia. Boyen mi guardò sorpreso, poi si mise a ridere. «Vedo che lei ha imparato presto a vivere in Europa! Sì, lasciamo perdere» aggiunse, «e andiamo a dormire, ché le manovre stancano, anche quelli che le fanno a cavallo.»

Lunedì, 1 settembre

Il bel sole di ieri, com’era da attendersi, è soltanto un ricordo. Non piove, ma il cielo è basso e minaccioso e il vento di tramontana non lascia prevedere nulla di buono. Anche il paesaggio si fa più selvaggio, sicché si viaggia per ore senza incontrare indizi di una presenza umana, se non i viottoli che di tanto in tanto si dipartono dalla strada maestra e si perdono fra gli acquitrini. A mezzogiorno mi sono fermato a mangiare qualcosa in un’osteria che serve anche da stazione di posta, e dove credo non entrino in un giorno più di due o tre avventori, a giudicare dallo stato di abbandono in cui è tenuta. Ho mangiato pane nero inzuppato nell’acquavite e una fetta di lardo affumicato, che l’oste ha tagliato direttamente dalla mezzena appesa con un gancio al soffitto; poi, mentre lo stalliere abbeverava con un secchio d’acqua i miei cavalli, ho scalato un’altura di pochi piedi, cui si accedeva direttamente dalla corte dell’osteria. Sulla strada maestra passava un carro di avena appena segata, sicché campi e abitazioni non dovevano essere lontani; ma ovunque l’occhio giungesse non incontrava che una successione di stagni scintillanti, con le loro spiagge di sabbia bianca, il verde marcio dei canneti, l’acqua tenebrosa di una torbiera in cui si riflettevano i tronchi argentei delle betulle; e negli istanti di silenzio, quando i cavalli non nitrivano né sbuffavano e il cane incatenato nel cortile non abbaiava, il vento non portava altra voce se non quella delle anatre selvatiche. Allora ho ripensato alle profezie del capitano von Treptow, e mi è parso incredibile che in questi luoghi sperduti possano risuonare un giorno i tamburi di Bonaparte, e che il lardo dell’oste debba esser mangiato da qualche sergente francese.

Nel tardo pomeriggio sono arrivato alla stazione di posta di Allenstein, dove sarò costretto a pernottare, poiché con ogni probabilità non ci saranno cavalli prima di stanotte. La cittadina è composta da tre o quattro vie che s’incrociano ad angolo retto, con case dai tetti alti e aguzzi, che non sfigurerebbero in una metropoli; ma, come tutte queste piccole città, finisce bruscamente, lasciando il posto alla campagna: giri l’angolo di una casa, e ti trovi davanti i campi, coi loro covoni di paglia, che contadine scalze si affannano a caricare sui carri prima che la pioggia faccia marcire ogni cosa. Poiché calzavo stivali, come sempre quando viaggio, mi sono avventurato attraverso i pascoli fradici fino a una fattoria, coll’idea di chiedere un bicchiere di latte. Avvicinandomi all’edificio, una costruzione in pietra a due piani, col tetto di tegole, mi accorsi da qualche segnale inequivocabile, come lo stemma scolpito sull’architrave, che non si trattava di una casa di contadini, bensì di una residenza padronale; anche se i granai e le tettoie che la circondavano, e i polli e le anatre che razzolavano nel cortile, la rendevano assai diversa dall’idea che ci si fa da noi di una villa di campagna. Infatti ebbi appena il tempo di scambiare due parole con la ragazza male in arnese che era venuta ad aprirmi, quando vidi venirmi incontro un uomo robusto, vestito di un abito bruno e stivali neri, e seguito da due cani, che avrei potuto scambiare a sua volta per un affittuario agiato, se il nastrino di una decorazione che portava all’occhiello non avesse rivelato in lui il gentiluomo. Il signor von Griesborn, proprietario di tutta quella campagna, si disse quanto mai lusingato di poter mostrare i suoi domini a un ospite straniero, e volle a tutti i costi condurmi a visitare le sue stalle, dove aveva, mi assicurò, ottanta dei più bei buoi del regno. Le bestie erano di dimensioni considerevoli, ed egli mi disse che si trattava di vitelli acquistati in Polonia, e ingrassati qui; una speculazione, a quanto pare, assai redditizia. Per fortuna, come ho detto, ero vestito da viaggio, sicché potei seguire il mio ospite fra le file dei bovini senza darmi pensiero di ciò che calpestavo. In seguito quell’eccellente gentiluomo volle mostrarmi alcune macchine per tagliare insieme il fieno e la paglia, di nuova concezione, e per quanto posso giudicare assai efficaci; nonché due stanze piene di bachi da seta, da cui si ricava, mi assicurò, una seta della migliore qualità. Mentre ascoltavo le spiegazioni del mio ospite, contadini e contadine occhieggiavano dalle finestre, curiosi di vedere il padrone col forestiero, e scambiandosi ogni tanto qualche commento nel loro dialetto gutturale; il signor von Griesborn, debbo aggiungere a suo onore, faceva ogni sforzo per esprimersi in tedesco, e a un certo punto, pescando a piene mani nei sacchi del suo grano, e mostrandomi con orgoglio le dimensioni e la durezza dei chicchi, giunse perfino ad articolare una frase in francese: «Voilà, Monsieur! Dites donc, Monsieur, en avez-vous de meilleur en Amérique?».39

Più tardi, mentre assaggiavo la sua acquavite, il mio ospite ha voluto ad ogni costo parlare dell’America e di quella ch’egli chiama la sua florida situazione. «Con quale rapidità sta crescendo in ricchezza e importanza! E tutto il merito va al vostro governo, a quella sua politica di vivere in pace con tutte le nazioni; è il solo mezzo di accumulare di giorno in giorno ricchezza e potenza.» Benché compiaciuto di incontrare tanta simpatia nei confronti del mio paese, mi sentii in obbligo di disilluderlo. «Non credo purtroppo che quella pace durerà a lungo!» sospirai. «Anche fra le nazioni esiste la gelosia. Le potenze europee ci guardano con occhi gelosi. Molti fra noi credono che fino a quando agiremo con amicizia ed equanimità nei confronti degli altri popoli, nessuno minaccerà la nostra pace, ma io temo che la loro illusione sarà svelata fin troppo presto!» «È vero» assentì il signor von Griesborn. «Ci sono mille modi di provocare una guerra, e le potenze europee li conoscono tutti; una scusa non mancherà mai ogniqualvolta una di loro si sentirà in condizione di aggredirvi.» In seguito si informò di come prosperino, da noi, gli immigrati tedeschi, e rimase assai compiaciuto apprendendo che le loro comunità, soprattutto in Pennsylvania, sono fra le più industriose del paese. Incoraggiato dalla franchezza che avevo riscontrato in lui fino a quel momento, gli dissi che qui, in Prussia Orientale, incontravo per la prima volta contadini ben nutriti e proprietari intraprendenti, simili a quelli che sono partiti in così gran numero dalla Germania per venire a colonizzare le nostre terre; ma che attraversando il resto del paese ero rimasto sorpreso, poiché non trovavo che contadini miserabili e campagne arretrate. «In un primo momento credetti che ciò dipendesse dalla religione, ma in seguito ho dovuto disilludermi, perché i contadini luterani del Brandeburgo mi sono sembrati altrettanto abbrutiti di quelli cattolici della Westfalia.» Il signor von Griesborn non ha esitato a dichiararsi d’accordo con la mia impressione. «È certo che i nostri contadini sono più svegli che altrove in Prussia, e forse in Germania, e quanto a noialtri proprietari, lei ha veduto che facciamo quanto sta in noi per non lasciar andare a male la nostra roba; io credo che ciò dipenda precisamente dal fatto che questo è un paese di coloni, in cui cinquecento anni fa non viveva neppure un tedesco. Quando nessuno aveva ancora sentito parlare dell’America, i più intraprendenti, coloro che volevano far fortuna o semplicemente sfuggire alla miseria in cui era piaciuto alla Provvidenza di collocarli, andavano a oriente; per molti secoli, e si può dire fino a ieri, la Prussia Orientale è stata la nostra Pennsylvania.»

Così dicendo si volse a metà sulla sedia, e mi indicò due ritratti appesi alla parete in fondo alla sala. Il primo raffigurava un giovanotto in uniforme da ussaro, col volto bianco di cipria e rosso di belletto, come usava nel secolo scorso, e una piccola parrucca incipriata; il secondo, dipinto evidentemente dal medesimo cattivo pittore, rappresentava una damigella in crinolina, con la stravagante acconciatura in uso a quel tempo. «So che oggi è difficile riconoscermi in quel ritratto» disse il mio ospite, «eppure quello sono io, e quella è la mia Wilhelmina, che Dio l’abbia in gloria; me la portò via la febbre nel ’97, anzi nel ’96, sono giusto dieci anni, e non mi aveva dato figli. Ci dipinse un pittore venuto da Königsberg, prima del nostro matrimonio; e sa lei che anno era? Era il 1776, ed ella avrà qualche difficoltà a credermi, ma ero così entusiasta della vostra rivoluzione, quell’anno, che a pena avevo il tempo di pensare a sposarmi; non facevo altro che progetti di lasciare l’esercito e imbarcarmi per venire a combattere, e chissà se non avrei fatto fortuna. Wilhelmina mi persuase a rinunciare; lasciai l’esercito lo stesso, ma c’era abbastanza da fare qui a casa, e confido di non aver amministrato male il maggiorasco che mio padre mi ha lasciato, eppure continuo a seguire le notizie dell’America sui giornali come se quella fosse anche un poco la mia patria.» Il brav’uomo cominciava a commuoversi, in ciò aiutato dalla sua acquavite, ch’era la più forte che io abbia mai assaggiato; e parlava già d’invitarmi a cena, voleva far tirare il collo a un’oca, e mandare un servo a pescare una carpa nello stagno. Proprio allora, tuttavia, Will venne ad avvertirmi che l’oste aveva già apparecchiato la tavola nella mia camera, sicché non mi rimase che prendere commiato dal vecchio gentiluomo e guadagnare il mio quartiere.

Martedì, 2 settembre

Il tempo è molto peggiorato, e il clima si è fatto decisamente umido e autunnale; questa mattina all’alba le stoppie erano candide di brina. Poche miglia dopo che ero partito da Allenstein, una delle ruote ha cominciato a tremare così forte che il cocchiere ha strattonato all’improvviso i cavalli, a rischio di ribaltarci nel fossato; poi, saltato giù di serpa, è strisciato sotto la carrozza ed è riemerso con le mani nere di grasso, informandomi che l’asse avrebbe infallibilmente ceduto alla prossima curva, se non l’avessi fatto sostituire. Poiché la riparazione minacciava di portar via tutta la giornata, ho deciso di staccare i cavalli e ritornare con Will ad Allenstein, dove avremmo cercato un carpentiere. Il mastro di posta, al veder tornare indietro i suoi cavalli, è subito uscito di casa, con un cappotto sulle spalle e la pipa in bocca, e ha cominciato una lunga discussione col postiglione, di cui non ho capito quasi nulla; ma dal modo in cui entrambi scuotevano il capo ho intuito che non c’era da attendersi niente di buono. Mentre mi rifocillavo con un boccale di birra alla posta, i due sono entrati e mi hanno informato che un carpentiere poteva esser trovato, pagando adeguatamente, ma che in nessun caso la carrozza avrebbe potuto riprendere il viaggio prima di sera. Mi sono dunque lasciato convincere a prendere la diligenza, con l’idea di fermarmi a pernottare alla prima stazione dopo il tramonto, mentre Will attenderà che sia riparato il guasto e provvederà a raggiungermi in tempo per ripartire senza altre perdite di tempo domattina.

Quando la vettura di posta, preannunziata da un lungo assolo di corno, è comparsa all’orizzonte mi sono immediatamente pentito della mia decisione, ma non ho avuto abbastanza presenza di spirito per fermare il mastro, che confidando nella mancia si agitava già per farmi posto. Chi non ha conosciuto questo mezzo di trasporto abominevole non può immaginare di che cosa si tratta. Quanto a me, solo a ripensarci mi vengono i brividi. Immaginate un semplice carro scoperto, su cui sono accumulate balle di caffè, sacchi di pepe, barili di aringhe. Quattro assi inchiodate di traverso e munite di una specie di schienale, impropriamente decorate del titolo di panche, servono da sedili per i viaggiatori. Su una vettura di tal fatta possono trovar posto ben pigiati fino a dieci disgraziati, destinati a essere trasportati insieme nella gioia e nel dolore anche per otto o nove giorni. Il mastro di posta, dopo aver lavorato di gomiti per liberarmi un posto, mi ha offerto il braccio e mi sono ritrovato installato in mezzo agli altri viaggiatori, coi piedi sospesi su quell’ammasso di pacchi, casse e botticelle in equilibrio precario, immerso in un odore di sudore, d’aglio, di cipolla e sa Dio di cos’altro ancora. Quando sono stato così incastrato, fra un ufficiale di artiglieria che succhiava flemmaticamente la sua pipa spenta e un doganiere in pensione che sonnecchiava con le braccia conserte, mi sono reso conto con orrore che il postiglione non aveva alcuna intenzione di partire, ma si dirigeva verso la bettola in compagnia dell’uomo incaricato di occuparsi dei bagagli. Li ho richiamati promettendo a entrambi di regalarli generosamente se fossero partiti al più presto possibile; si sono tolti il cappello assicurandomi che avrebbero fatto tutto il possibile per esaudire il desiderio dell’eccellenza, poi sono scomparsi all’interno della taverna, da cui non sono ricomparsi se non dopo una buona mezz’ora. Intanto l’artigliere con la pipa, divertito dalla mia esasperazione, mi ha chiesto se non sapevo perché le diligenze di posta sono scoperte; e quando gli ho risposto con poco garbo che non lo sapevo, «non le coprono», ha concluso con un risolino, «per divertire i passanti con le smorfie dei pazienti». Così dicendo ha cominciato ad armeggiare per accendere la pipa, che a giudicare dall’aspetto fuligginoso e dall’odore che mandava doveva essergli stata trasmessa dai suoi antenati, mentre il doganiere si spiegava sulle ginocchia un fazzoletto pieno di pane, formaggio e uova sode che costituiva tutto il suo bagaglio; il formaggio puzzava non meno della pipa, sicché ho creduto di comprendere la vera ragione per cui le poste prussiane viaggiano con diligenze scoperte.

Infine siamo partiti, ma ho subito perduto la speranza di arrivare lontano, dal momento che quel veicolo rudimentale, troppo carico e trascinato da cavalli sfiancati, non andava molto più veloce di quel che avrebbe potuto fare un uomo a piedi; per giunta il postiglione e il portabagagli si fermavano, di comune accordo, a ogni locanda per bere un goccio a spese dei viaggiatori, che anziché bastonarli per ricondurli alla ragione sembravano fin troppo felici di aprire la borsa per assicurarsi la benevolenza di quei due temibili personaggi. Per conto mio non ho mai contribuito a quei rinfreschi, e alla stazione di posta di Hohenstein mi sono congedato dal vetturale e dal suo aiutante, deciso ad attendere sul posto l’arrivo della mia carrozza. L’esasperante lentezza della vettura di posta e la furfanteria del postiglione mi avevano innervosito, tanto da togliere ogni fascino al paesaggio incantato di laghi e foreste secolari attraverso cui viaggiavamo. Se Will fosse giunto quando c’era ancora luce, credo che sarei senz’altro ripartito, tanto ero furibondo per aver perduto in quel modo tutta la giornata; ma quando finalmente il suono del corno ha annunciato l’arrivo del mio legno era già notte fonda, sicché ad ogni buon conto ho preferito aspettare l’indomani prima di rimettermi in viaggio.

Mercoledì, 3 settembre

Verso le due del pomeriggio ho attraversato l’antico confine fra i regni di Prussia e di Polonia, ormai in disarmo dopo la definitiva spartizione di quest’ultima. Abbandonata la regione dei laghi e delle foreste, il mio viaggio continua attraverso la pianura polacca. La strada per Varsavia non corre più rialzata come una diga fra acquitrini coperti di canne e intrichi di ontani secolari, ma si è trasformata in un rettilineo polveroso che si snoda monotono per miglia e miglia, fiancheggiato da interminabili campi di patate, tutti accomunati da una stessa desolazione autunnale. La malinconia del paesaggio è accentuata dagli scarsi segni della presenza umana, annunciata soltanto dai crocifissi che la superstizione papista induce a piantare ai bivi e, di tanto in tanto, sul ciglio della strada. Solo raramente si attraversa un villaggio di capanne coi tetti di paglia, al cui interno uomini, donne e innumerevoli bambini vivono in tranquilla intimità con porci, vacche e cavalli, in una sporcizia indescrivibile.

Il primo contatto del viaggiatore con gli abitanti di queste plaghe non è favorevole. All’ingresso di ogni villaggio, branchi di cani giallastri si affollano famelici intorno alla carrozza, spaventando i cavalli, finché il cocchiere non li disperde a colpi di frusta; solo allora i bambini riprendono a giocare nel fango, le donne occhieggiano il nuovo venuto dalle finestre senza vetri dei loro tuguri, gli uomini riprendono le loro occupazioni, facendo finta di nulla, ma in realtà tenendo d’occhio sospettosamente l’intruso. Eppure, se non fosse per l’abbrutimento in cui li ha sprofondati una miseria secolare non si tratterebbe di una razza spregevole: i contadini della pianura sono alti, biondi, con occhi inespressivi e lunghi baffi incolti; portano camiciotti stinti allacciati alla cintola e, quando fa freddo, cappotti senza bottoni, legati alla vita con una corda, e berretti di pelliccia. Le loro donne indossano sottane a vivaci colori, che attirano gli sguardi, e non negherò che quando vedo una lavandaia china sull’acqua, con le sottane rimboccate fin sopra le ginocchia, o una serva che raccoglie patate nei campi, scalza e con i seni che traboccano dalla camicia stracciata, mi capita di desiderare di far conoscenza più intimamente con qualcuna di loro; ma non prima di averle fatto fare un bagno.

Ai margini dei villaggi più popolosi, in orgoglioso isolamento, sorgono le case dei signori, che spesso si distinguono da quelle dei contadini solo per avere un camino di pietra; ma ciò basta perché tutti quanti le chiamino pomposamente castelli. Anche qui, come in Prussia, i contadini sono servi dei signori e tutta la terra appartiene a costoro; mentre, tuttavia, la legge fissa l’entità dei servizi che il contadino prussiano è tenuto a prestare al padrone, il contadino polacco è uno schiavo i cui obblighi sono limitati soltanto dalla misericordia del padrone, e che può essere venduto senza la sua terra. Attraversando il paese è difficile rendersi conto dei benefici portati dall’occupazione prussiana, che dura ormai da oltre dieci anni. Certo, molti nobili sono stati spossessati dopo l’ultima rivolta, ma i loro latifondi sono stati assegnati come ricompensa ai generali che hanno comandato la repressione, e la condizione dell’agricoltura non è cambiata in nulla, se non per il fatto che i nuovi proprietari risiedono raramente sulle loro terre, ciò che rende possibile ogni sorta di ruberie da parte degli intendenti. Quanto all’amministrazione prussiana, essa è rappresentata soltanto nei maggiori abitati, dove si trovano, a scadenze regolari, le stazioni della posta, angusti uffici occupati da funzionari annoiati e, di tanto in tanto, un posto di gendarmi. Per la maggior parte dei contadini, l’autorità del re è rappresentata soltanto dalle pattuglie di cavalleria che periodicamente si fanno vedere ai margini del villaggio, per assicurarsi che tutto sia tranquillo, e, più raramente, dai distaccamenti di soldati che giungono a prelevare le requisizioni imposte al popolo per il mantenimento dell’esercito di occupazione.

Queste ed altre osservazioni mi sono state confermate dal signor Schroeder, referendario nella città di Mlawa, che ha avuto la cortesia di invitarmi a pernottare presso di lui. Come tutti i funzionari prussiani, il signor Schroeder abita in una casetta linda, dipinta di rosa, del tutto simile a quelle che si incontrano a ogni passo in Germania, tiene a servizio una robusta polacca, che si fa vedere spesso affacciata, scalza, sulla soglia di casa, e passa le serate a fumare la pipa, aspettando il giorno in cui sarà richiamato in patria. Al pari degli ufficiali del battaglione di fucilieri acquartierato in città, che costituiscono la sua unica compagnia, egli considera il servizio in Polonia come una punizione immeritata; si annoia e ha troppo poco da fare per prendersi la briga di imparare il polacco. Del resto è difficile dargli torto, a giudicare dalle condizioni in cui pernottano i viaggiatori alla locanda, tormentati dalle zanzare e senza altra cena che pane nero, patate e acquavite. La miseria di queste campagne mi sembra, in realtà, al di là di ogni possibile riscatto. Il cielo sempre grigio grava sugli uomini e ne appesantisce l’animo, al pari del fumo che ristagna nelle loro capanne, a stento difese contro il freddo da grami fuochi di torba, e dell’alcool che gli ebrei vendono loro al doppio del suo prezzo.

L’onnipresenza degli ebrei manda in bestia il signor Schroeder. Essi sono dappertutto; mandano avanti le osterie, smerciano ogni sorta di derrate, acquistano dai contadini i loro prodotti e li portano a rivendere in città, prestano denaro a usura a quelli che ne hanno bisogno e si arricchiscono alle loro spalle, sempre sorridendo umilmente e lamentando la propria miseria. I contadini li odiano, ma non possono far nulla per scrollarsi dalle spalle il loro giogo. Quel poco che riescono a sottrarre alle grinfie dei creditori e alle requisizioni dei soldati finisce nelle tasche dei signori, i quali non pensano ad altro che a divertirsi, trascorrono la saison a Varsavia, e quando non riescono più a trarsi dai debiti vendono le loro terre al governo, che vorrebbe incoraggiare anche qui, come nella Prussia occidentale, l’insediamento di coloni tedeschi. Il mio ospite mi è parso tuttavia alquanto scettico sull’esito di simili progetti. Secondo lui, i contadini polacchi forniscono ottima carne da cannone agli eserciti di Sua Maestà, e questo è l’unico motivo per cui a Berlino si ostinano a credere che questo paese possa essere trasformato un giorno in una provincia tedesca.

Il malumore del signor Schroeder è ben comprensibile in considerazione del luogo in cui la saggezza del governo lo ha mandato a vivere. La città di Mlawa non comprende che poche case di pietra, e alcune altre di tronchi, con tetti di tegole; la stragrande maggioranza sono catapecchie di legno con tetti di paglia o assi. Negli ultimi anni è stato costruito un sobborgo tedesco, dove abita anche il mio ospite, tutto di case in pietra a due piani, edificate secondo un piano uniforme e dipinte a vivaci colori; e questo è l’unico luogo in tutta Mlawa dove il viaggiatore ha l’impressione di trovarsi davvero in una città. Perfino i canonici della cattedrale vivono in case a un piano, per lo più di legno, e in assai cattivo stato, per nulla diverse da quelle dei loro contadini; alle cui spalle in compenso mangiano e bevono senza lavorare. In mancanza di altre distrazioni, ho impiegato la serata bevendo dal locandiere ebreo in compagnia degli ufficiali della guarnigione, cui il signor Schroeder ha avuto la bontà di presentarmi. Quei signori, annoiandosi a morte in questo buco, passano il loro tempo in un modo che ormai conosco fin troppo bene, correndo appena finito il servizio a tapparsi in una bettola piena di fumo dove bevono fino allo stordimento, per cercar di dimenticare il tedio della vita di guarnigione. All’apprendere che venivo da Berlino, mi hanno chiesto notizie sui divertimenti della buona società berlinese, ma ben presto il piacere di ascoltare le novità della capitale ha lasciato il posto a un confronto acrimonioso con la loro condizione.

«È facile divertirsi a Berlino!» ha esclamato un capitano, facendo segno nel contempo all’ebreo affinché portasse altra acquavite. «Laggiù non conoscono la fatica di allineare nella polvere centinaia di zotici malvestiti nelle loro uniformi logore e stinte, di marciare con costoro sotto il sole o nella neve, respirando l’odore d’aglio e cipolla del loro fiato!» La conversazione si è quindi soffermata sui pidocchi, questa autentica piaga d’Egitto, da cui la Polonia è afflitta in misura tale da far impallidire la terra di Faraone; e dai pidocchi delle reclute si è passati naturalmente a quelli delle donne. La mancanza di compagnia rende ancor più doloroso a questi signori il confronto col destino dei loro camerati di guarnigione nella capitale: a Berlino, dicono, gli ufficiali ballano con le dame di corte, non con qualche nobile polacca spiantata, ancora nubile a trent’anni, e vanno a letto con le ballerine, non sono costretti ad accontentarsi delle zingare o delle ragazze tremanti che fanno commercio di sé nelle botteghe degli ebrei, mai abbastanza lavate, e con cui non si può scambiare neppure una parola. «E il vino nuovo arriva ai mercanti subito dopo la vendemmia, non sei costretto a far festa per ogni cassa di champagne che un camerata riporta dalle sue licenze!» ha aggiunto qualcuno, fra le risate di tutti. Nel frattempo il capitano parlamentava col locandiere, il quale assicurava con ogni sorta di smorfie di aver terminato l’acquavite, non senza rivelare, con tutta una serie di gesti dei più sospetti, di non essere neppure lui risparmiato da quella piaga d’Egitto.

Quando ho chiesto ai miei nuovi conoscenti che popolo siano dunque questi polacchi, di cui l’America e l’Europa coltivano un’immagine così romantica, ho dovuto constatare che essi nutrono nei loro confronti un disprezzo illimitato. «Il contadino non ha voglia di lavorare, e il nobile si crederebbe disonorato a farlo»: così uno ha riassunto il pensiero di tutti. E tuttavia essi riconoscono ancora una differenza fra l’abiezione dei contadini, che una secolare servitù ha privato anche soltanto del ricordo dei propri diritti di esseri umani, e quella dei nobili. «I loro nobili hanno educazione e cultura, eppure sono i veri responsabili dell’infelice condizione in cui versa il paese» ha dichiarato il capitano, che aveva infine ottenuto a un prezzo esorbitante un secondo bicchiere di acquavite, e lo stava sorseggiando con parsimonia. «Non parlano che di libertà e di repubblica, e ai contadini impongono la più vergognosa oppressione», ha aggiunto un altro. «È loro la colpa dell’abbrutimento di questi disgraziati.» «Da quando sono giunto qui» ha osservato un terzo «ho spesso pensato al destino fortunato del suddito prussiano, che, nato sotto una monarchia assoluta, è assoggettato a tutto il potere di un governo illimitato e proprio perciò si avvezza a un’autentica libertà da cittadino. Quale suddito prussiano, con tutta la coscienza della sua sudditanza, si comporterebbe in modo così servile come un contadino polacco davanti al suo signore, quand’anche si trovasse di fronte al re in persona! E quale sovrano prussiano sopporterebbe una bassezza così spregevole, quand’anche fosse sincera e animata dalle migliori intenzioni!»

In quel momento un vociare confuso ci ha richiamati all’aperto, sulla piazza polverosa; e qui abbiamo assistito a un curioso spettacolo. Entrava in città un centinaio di richiamati, scortati da un drappello di ussari; ma la scena non era per nulla marziale come quella cui avevo assistito il giorno della mia partenza da Berlino, quando erano entrati dalla porta di Cottbus i soldati del reggimento di Suckow. I giovani erano ancora vestiti coi loro abiti di tutti i giorni, scalzi o con gli zoccoli ai piedi, e molti erano ubriachi. Una folla di donne li aveva accompagnati e non cessava di reclamare nella propria lingua, stringendosi in capannelli attorno ai cavalli degli ussari; non appena ci videro uscire dall’osteria, molte si precipitarono verso di noi e cominciarono a implorare in tono più o meno rispettoso gli ufficiali, con tanta insistenza che qualcuno dovette alzare il bastone per liberarsene. Il mio ospite e due o tre ufficiali che parlavano qualche parola di polacco mi spiegarono che le donne erano disperate perché si era sparsa la voce della guerra e che i loro uomini sarebbero stati condotti in terre lontane, a far la guerra contro i francesi; prospettiva questa che sembrava allarmarle non poco. Respinte dagli ufficiali, si raccolsero per l’ultimo addio ai richiamati; molte piangevano. A un certo punto uno dei giovani, più ubriaco degli altri, si mise a gridare qualcosa, le donne strillarono e per un attimo tutti parvero sul punto di darsela a gambe; immediatamente un sottufficiale si precipitò sul responsabile e lo colpì col bastone, insultandolo furiosamente in tedesco: «Bestia, bestia di un polacco!». A quanto pare, il ragazzo si era messo a gridare: «Arrivano i francesi!». Dopo questo incidente i soldati hanno avuto ordine di allinearsi e mettersi sull’attenti, e le donne sono state allontanate. Dopo un momento uno di loro ha cominciato a recitare una preghiera a voce alta, poi un secondo, un terzo l’hanno imitato, infine tutti hanno fatto coro; i sottufficiali non sono intervenuti, gli ufficiali hanno alzato le spalle e sono tornati a bere, ed io con loro. Ma anche dall’interno della baracca si continuavano a sentire le loro voci che ripetevano in coro l’Avemaria.

Giovedì, 4 settembre

Mi sono congedato con qualche rimpianto dal signor Schroeder e soprattutto dalla sua bella serva, con cui non mi sarebbe dispiaciuto fare una più approfondita conoscenza. Il tempo è ancor sempre triste e precocemente autunnale; da ieri sera piove a dirotto. Il paese è desolato e miserabile oltre ogni immaginazione, e per giunta disabitato; dal finestrino del mio legno non si vedono che interminabili foreste selvagge, oppure canneti e acquitrini pestilenziali. Era quasi mezzogiorno quando un santo di legno piantato sul ciglio della strada, e sfigurato dalle intemperie, ha annunziato un altro villaggio di catapecchie, abitato da cani famelici e da poche famiglie di contadini pidocchiosi; qui ci siamo fermati per dar da bere ai cavalli, e sono entrato nell’osteria a mangiare qualcosa, facendomi forza per vincere la repulsione. Il puzzo che vi regna è indescrivibile: i contadini raccolgono il letame e danno da mangiare ai porci, poi mangiano cavoli e rape, cipolle e patate, e vanno a bere all’osteria senza essersi lavati né cambiati d’abito in tutto il giorno. Né si cambieranno per andare a dormire: la maggior parte di loro si lava e si cambia d’abito soltanto la domenica, e i più poveri soltanto per la processione del Corpus Domini.

Quando entrai nell’osteria, parecchi contadini erano radunati a bere, nonostante l’ora non ancor tarda. L’oste, un ebreo in caffettano, parlava un pessimo gergo misto di tedesco e di chissà quale altro dialetto, come tutti gli ebrei di qui, che si esprimono in questa lingua fra loro, per non farsi capire dai polacchi. I contadini che bevevano erano giovani e non potevo capire perché mai a quell’ora fossero all’osteria anziché a lavorare. L’oste mi ha spiegato che l’indomani, secondo una voce sparsasi nel villaggio, sarebbero giunti gli ordini di richiamo dei riservisti, e che i coscritti degli anni precedenti, in licenza dalla primavera, erano pressoché certi di essere richiamati; sicché, bevevano in anticipo per annegare il dolore della partenza. Gli ho confermato che la voce rispondeva indubbiamente al vero, giacché all’ultima stazione di posta, come già a Mlawa, avevo potuto osservare gli uomini che aspettavano pazienti fuori dagli uffici, tenuti in riga dai soldati con le baionette inastate, mentre gli scritturali ne trascrivevano laboriosamente i nomi sui loro registri. I giovani arrivati ieri ai quartieri del battaglione provenivano dai primi villaggi dove i funzionari erano passati a compiere la loro bisogna, e quelli che bevevano all’osteria sarebbero stati a loro volta condotti ben presto, in branco, a qualche altro accantonamento.

I candidati alla partenza nell’osteria in cui ero capitato erano cinque o sei, e uno sembrava un po’ più intelligente degli altri; così ho provato a interrogarlo, usando l’oste come interprete. Nella piazza del villaggio, proprio mentre scendevo dal mio legno, era passata schizzando fango una compagnia di nobili a caccia, su certi cavalli cui si vedevano le costole, seguiti da una muta di cani rognosi, e come si usa in ogni paese civile mi ero cavato il cappello per salutarli; mi avevano risposto con sguardi così insolenti che mi ero sentito rimescolare il sangue, ed ero rimasto positivamente disgustato dal servilismo con cui i contadini, e perfino il mio postiglione, li ossequiavano. Perciò ho chiesto al giovinotto se non li infastidiva l’arroganza dei signori, che non partono per la guerra, vanno a caccia tutto il giorno e tengono il cappello in testa perfino quando vanno in chiesa, mentre i contadini, che li nutrono, si inchinano fino a terra al loro passaggio. «Come!» mi ha risposto. «Il signore è fatto per divertirsi e comandare, e il contadino è fatto per dar da mangiare a sé e agli altri.» L’oste, un’autentica canaglia, si stringeva nelle spalle mentre traduceva questa risposta, e ha aggiunto ammiccando: «Quando ce n’è bisogno, e anche quando non ce n’è, il padrone li bastona, ed essi si inchinano ancor più profondamente, e la domenica vanno in chiesa a sentire il prete che li ammonisce: “Santa è la mano che percuote”». Ho chiesto ai giovani, che nel frattempo si erano tutti avvicinati, cosa mai pensavano dei coloni tedeschi, che portano via la loro terra. Scuotono le spalle: «Oh! I tedeschi sono furbi. Hanno molto bestiame, lavorano la terra in un certo modo… meglio di quelli che ci sono nati. Il nostro contadino non terrà loro testa». Così, a quanto pare, sono fatti i polacchi: abituati da secoli a sentirsi inferiori a tutti, il sentimento della propria incapacità è ormai così profondamente radicato in loro da rinnovarsi spontaneamente a ogni occasione. L’uomo sembra essersi divertito a renderli estranei nella loro stessa terra. I signori parlano davanti a loro in francese, i funzionari in tedesco, gli ebrei nel loro dialetto bastardo, i curati in latino, e il contadino ascolta smarrito e misura la distanza che lo separa da tutti loro.

E tuttavia, scavando più in profondità, il risentimento nei confronti dei tedeschi è affiorato vivacemente. Giacché domani partiranno, e andranno a servire il re di Prussia, ho augurato loro di fraternizzare coi camerati. Mi hanno guardato spalancando gli occhi: e chi mai potrebbe fraternizzare coi tedeschi? Essi parlano fra loro nella stessa lingua degli ebrei, e chissà che una volta in Germania non li obblighino a farsi ebrei anche loro! «Ma se sono cristiani come voi» ho obiettato. «Sì», ha detto uno di loro, «saranno anche cristiani, ma la loro religione è inferiore alla nostra, poiché il loro prete ha moglie, e non pregano neppure la Vergine santissima!» Bisogna riconoscere che i loro preti li incitano alla diffidenza, anche se non troppo apertamente, perché il governo non ha esitato a farne spedire qualcuno in fortezza, pour encourager les autres.40 «Eppure il loro Dio è lo stesso del vostro» ho insistito. «Così essi affermano» mi ha risposto il più erudito del gruppo, guardandomi con un’espressione furba. «Ma io dico che il loro Dio dev’essere diverso, poiché bisogna parlargli in tedesco!»

A questo punto l’oste è intervenuto con un risolino e ha parlato al giovane, traducendomi poi subito ciò che aveva detto: «Anche se sei uno stupido, mi fai pena; coi francesi non la passerai liscia: vedrai, ti taglieranno la testa!». Il ragazzo ha preso un’aria piuttosto impressionata; si sarebbe detto che temesse i francesi come il fuoco. «Ma voi», ho interpellato l’oste, «lo sapete che gente sono i francesi?» L’oste ha schioccato la lingua. «Mah, per esempio! Che gente sono i francesi? Come dire, devono essere una specie di tedeschi, ma anche peggio.» I contadini si disperavano: «Oh, signore Iddio! Peggio dei nostri tedeschi?». Ma l’oste si era già allontanato, poiché altri avventori erano entrati nella bettola e cominciavano a spazientirsi; così mi son fatto servire quel poco che aveva in casa e mi sono seduto in un angolo a mangiare, mentre i giovani riprendevano a bere e a parlare fitto nella loro lingua, col palato già impastato dall’alcool. E tuttavia è curioso pensare che fra pochi giorni queste stesse bestie, rapate a zero, marceranno inquadrate con l’uniforme prussiana, e al comando dei sottufficiali canteranno a gola spiegata “Ein feste Burg ist unser Gott”41 senza capirne neanche una parola!

Venerdì, 5 settembre

Viaggiare in Polonia non è esattamente una partita di piacere; passi ancora per lo stato disastroso delle strade, ma il peggio è che in tutti questi giorni ho dovuto fermarmi prima del tramonto e passare la notte sulla paglia fino a ben dopo l’alba, altrimenti i postiglioni polacchi, che non sanno né attaccare i cavalli né guidarli, mi avrebbero rotto il collo cercando la strada nell’oscurità. Oggi, finalmente, sono giunto in porto: nel pomeriggio siamo arrivati alla Vistola e al di là dell’immenso fiume mi sono apparsi i tetti e i campanili di Varsavia, dominati dalla mole del Castello. Nel sobborgo di Praga, sulla riva settentrionale, ho mangiato l’anguilla in un’osteria all’aperto, mentre Will andava alla ricerca di un barcaiolo disposto a traghettarci, dato che il ponte era interamente occupato dal passaggio di un convoglio di artiglieria e sarebbe rimasto chiuso al traffico per qualche ora. Dopo aver passato il fiume su una zattera, non senza qualche difficoltà e pagando per questo servizio un prezzo spropositato, sono entrato in città e ho preso alloggio all’albergo dei Tre Re, in piazza di Sassonia. L’albergo, a quanto mi hanno assicurato, è il migliore della città; certo è immenso, deserto, e piuttosto sporco. Mi hanno dato le due camere migliori al primo piano, grandi e non troppo male ammobiliate, con le finestre sulla piazza, per dodici soldi al giorno: ma gli alberghi sudici sono sempre cari. Il mio assomiglia a un ritrovo di saltimbanchi: in una camera vicina esibiscono una donna-cannone, che è poi una ragazza di undici anni, e il suo ritratto appeso proprio sotto le mie finestre attira una perpetua folla di sfaccendati. Al piano di sopra c’è un’esibizione di statue di cera, nella camera accanto una decrepita merciaia francese che ha già tentato di vendermi della biancheria, mentre in un buco di camera nel sottoscala, vicino alla porta carraia, cocchieri e servitori giocano a carte tutto il giorno. Al pari dell’albergo, la metropoli è spopolata, poiché i nobili che hanno ancora del denaro trascorrono l’autunno a caccia in campagna, e la miseria costringe gli artigiani a chiudere bottega. Per le strade circolano pochissimi equipaggi, ciò che rende ancor più stridente il contrasto con la moltitudine dei mendicanti. A tendere la mano e infastidire il passante col loro monotono lamento non sono qui soltanto, come a Berlino e a Königsberg, contadini rovinati dalla carestia, uomini, donne e bambini scalzi e sparuti, eppur sani di corpo, che hanno lasciato le loro case perché non trovavano lavoro; ma anche e soprattutto mendicanti di professione, che ostentano piaghe e mutilazioni orribili affollandosi intorno ai fedeli sui sagrati delle chiese, come accade in ogni città cattolica, a qualsiasi latitudine si trovi.

Facevo queste considerazioni affacciato al finestrino di una vettura di piazza, che avevo comandato appena preso possesso delle mie stanze, come un turista qualsiasi, per farmi mostrare le bellezze di Varsavia; ma quasi subito lo spettacolo delle mendicanti che si affollavano attorno alla vettura, scarmigliate, molte di loro a piedi scalzi e con i bambini attaccati alle mammelle, mi ha persuaso a cambiare programma. Sull’angolo del Castello, disabitato dopo l’esilio dell’ultimo re di Polonia e alquanto spettrale con le sue finestre cieche e i vetri rotti a sassate dai monelli, ho raccolto la prima ragazza di strada che ho incontrato e ho fatto segno al vetturino di continuare la passeggiata. Con tutto l’oro che avevo in tasca, e le risorse di una grande capitale a mia disposizione, avrei potuto permettermi di meglio, ma il piacere più sublime consiste proprio nella libertà di non negarsi il capriccio di un momento. La carrozza correva lungo la Vistola e dal finestrino aperto entrava il vento freddo del fiume, odoroso di pesce e di fumo. Prima di mettersi all’opera la ragazza, che in strada gelava appoggiata al suo muro, si è scaldata le mani e i piedi; quando è stata pronta si è fatta il segno di croce, e ho riso constatando fin dove si spinge la superstizione papista in questo paese. Questo pensiero mi ha dato un’idea bizzarra e al momento culminante le ho ordinato di recitare il Padre Nostro; dapprima non voleva a nessun costo, ma con le buone o con le cattive l’ho costretta a obbedire. Questa piccante mescolanza mi ha provocato un godimento meraviglioso, e ho pensato che il piacere può assumere nei paesi cattolici un volto sconosciuto a popoli di più rigida moralità.

Prima di rientrare in albergo mi sono fermato al caffè. L’atmosfera era surriscaldata, e non soltanto grazie all’enorme stufa di porcellana dove un domestico bruciava legna senza risparmio: pur non comprendendo una parola della lingua, non potevo non accorgermi che tutti gli avventori parlavano di politica. Quando si sono accorti che non ero un tedesco, quei pochi che erano in grado di mettere in fila due parole di francese hanno fatto del loro meglio per comunicarmi il loro entusiasmo, sicché ho avuto modo di sperimentare di persona che l’inclinazione fantastica dei polacchi non si è spenta con la scomparsa della loro cosiddetta repubblica. Nessuno dubita della stella di Bonaparte, che qui chiamano senz’altro l’imperatore, e i più credono di vederlo arrivare da un momento all’altro per liberarli dal giogo prussiano. Il pubblico bada così poco a nascondere i suoi sentimenti che i prussiani non possono ingannarsi sulle simpatie dei loro nuovi sudditi. A mantenere l’ordine provvede un regolamento di polizia piuttosto severo: chiunque si trovi in strada dopo le dieci di sera, compresi gli ufficiali, è tenuto a munirsi di una lanterna accesa, e chi contravviene a questa ordinanza rischia di essere arrestato dalla ronda e menato a passare la notte al posto di guardia più vicino. La regola vale anche per i forestieri, i quali inoltre, all’ingresso in città, debbono assoggettarsi a una moltitudine di formalità assai sgradevoli, dichiarando la loro destinazione, la provenienza, le ragioni del loro viaggio, e mille altre cose le più disparate. Questo esame, a dire il vero, si passa anche alle porte di Berlino; ma qui occorre, di più, mostrare le proprie carte, dai libri e gazzette fino alla corrispondenza privata, poiché la censura è ferrea, i giornali sospetti sono soppressi, le lettere bruciate. Queste misure di polizia sono più che sufficienti a frustrare la passione del pubblico per la politica e a renderne inoffensivi i mormorii, poiché non esistono altre fonti di informazione se non quelle permesse dal governo. Pochissimi sono abbonati ai giornali stranieri, e nei giorni di posta le porte dei privilegiati sono assediate da coloro che vogliono sapere che cosa ne sarà della monarchia prussiana, sul fondamento del più curioso barometro immaginabile: e cioè del numero di articoli soppressi quel giorno dalla censura e ritagliati dalle forbici meticolose degli impiegati. Per il resto, il pubblico sfoga la sua rabbia come meglio può: le osterie sono piene di giovani che, bevendo, cantano canzoni bellicose, e i bambini gridano dietro ai funzionari e agli ufficiali prussiani per la strada. Io stesso, uscito dal caffè e scambiato per un tedesco, sono stato oggetto di sguardi poco rassicuranti, e poiché spiegare la verità alla gente del luogo nella sua lingua era al di sopra delle mie capacità, ho preferito riparare in albergo; tanto più che da una certa spossatezza delle membra e da qualche dolorino delle giunture mi sembrava di intuire l’avvicinarsi di un attacco di febbre. Prima di coricarmi ho chiesto di cenare, e a tutta prima non volevano a nessun costo servirmi della carne; in verità in tavola non c’era altro che stoccafisso, oltre a qualche piatto di pesciolini di fiume. A forza d’insistere, tuttavia, ho convinto l’ostessa a far bollire una gallina, anche se immagino che mi abbia creduto un pagano per osar presentare una simile richiesta di venerdì!

Sabato, 6 settembre

Questa mattina un poliziotto è entrato in camera mia senza bussare, col moschetto in spalla, e mi ha domandato se potevo dimostrare con documenti che la mia identità era effettivamente quella del signor Robert L. Pyle, inviato del governo degli Stati Uniti. Dietro di lui, un cameriere dell’albergo, con certi capelli unti e un grembiule sudicio, si alzava sulle punte dei piedi per spiarmi, e non dubito che fosse pronto a correre dabbasso e dare l’allarme se avessi tentato la menoma resistenza. Ho messo sul tavolo le mie carte e il poliziotto, senza tanti complimenti, si è seduto e ha cominciato a esaminarle minuziosamente, continuando a tenermi d’occhio a scanso d’imprevisti. Quando finalmente si è reputato soddisfatto, si è alzato scusandosi per avermi disturbato, con evidente delusione del cameriere, che sperava già di vedermi arrestato e doveva aver cominciato a fare i suoi progetti sui miei bagagli; infine quel cerbero si è deciso ad andarsene, dopo avermi fatto perdere un’ora e raccomandandomi gravemente di presentarmi al più presto al governatore per far firmare il mio passaporto.

Dopo aver preso la cioccolata, sono uscito per sbrigare questa incombenza; ma prima ho voluto concedermi ancora qualche ora di vacanza andando a spasso incognito per la città. Speravo di prolungare la sensazione di libertà provata ieri all’arrivo a Varsavia, con un’intensità che non avevo ancora assaporato nel corso di queste settimane di viaggio; fors’anche grazie allo straniamento prodotto dal sentir parlare la gente in una lingua affatto sconosciuta. C’è chi giudica che il viaggiatore costretto a trattenersi senza affari e senza conoscenze in una città straniera sia da compiangere come in passato lo scomunicato, poiché anche in mezzo agli uomini rimane sempre solo. Tutti intorno a lui si conoscono e si salutano, soltanto lui non ha alcuna parte nella vita della comunità; e se anche non è sfuggito, come quello, si vede pur sempre trattato con una certa freddezza. Per conto mio trovo che questa sensazione vale mille volte più della conversazione sempre uguale dei circoli e dei salotti, in cui si viene inevitabilmente introdotti non appena si tirano fuori di tasca le proprie commendatizie; e tuttavia la solitudine di cui parlo assomiglia a una vertigine, e può dare il capogiro. Mi ero trovato, ieri, quasi schiacciato da quella libertà che il viaggiatore ha di scegliere senza alcuna preclusione le strade da percorrere, i cibi da assaggiare, le ragazze da accarezzare, così dissimile dalla folla che si accalca intorno a lui e che invece percorre le stesse strade di ogni giorno, torna la sera a mangiare gli stessi cibi che conosce fin dall’infanzia, ritrova nel letto la stessa donna delle notti precedenti. Questa libertà dà talvolta al viaggiatore la sensazione di possedere la città in cui si aggira più pienamente di quanto non la possiedano e non la conoscano i suoi stessi cittadini; e tuttavia proprio essa ribadisce come una condanna la sua estraneità.

Va aggiunto che Varsavia, fra le città che ho attraversato nel corso di questo viaggio, è certo la più adatta ad esaltare le sensazioni di cui parlo. Questa sarà pure la capitale della Prussia Meridionale, ma non assomiglia per nulla a una città tedesca, e anzi si potrebbe dubitare che si trovi in Europa. Le strade sono di una larghezza imperiale, ma le ruote delle carrozze affondano nel fango fino ai mozzi; su ogni lato si allineano indifferentemente palazzi del più bel gusto italiano e capanne di legno e paglia, coperte di muschio verde e corrose dall’umidità. D’ordinario c’è poco affollamento nelle strade, ma le piazze dove si tiene mercato, o i sagrati delle chiese all’uscita dalla messa, offrono uno spettacolo che ricorda una mascherata, e credo che nessuno si sorprenderebbe se me ne andassi tranquillamente a passeggio in domino sul mezzogiorno. Già il costume nazionale polacco, indossato da quasi tutti i nobili anziani, ha del tartaro più che dell’europeo, poiché impone il cranio rasato, baffi, caffettano, sciabola e stivali; in compenso i giovani signori sono abbigliati all’incroyable secondo l’ultima moda di Parigi. E poi, ebrei barbuti in luridi caffettani con i colli di pelliccia, sotto le cui toppe si nascondono borse gonfie di scudi; monaci di tutti gli ordini, bianchi, neri, bigi e color del caffè, monache avvolte in ampi veli, turchi, greci, russi, italiani, francesi, giunti tutti a Varsavia per chissà quali loro commerci; e ancora mendicanti, mendicanti e mendicanti, di tutte le nazionalità e rivestiti nelle fogge più stravaganti. La polizia, così severa nei confronti dei viaggiatori, per la strada mostra una sopportazione inaudita, come se si proponesse a bella posta di non negare al popolo nessun divertimento innocente: nelle piazze s’incontrano teatri di Pulcinella, orsi che ballano, cammelli e scimmie, e davanti a queste meraviglie si fermano a bocca aperta moltitudini di sfaccendati, accattoni, bambini seminudi e facchini di strada, frugandosi vanamente le tasche sfondate alla ricerca di una monetina di rame che permetta loro di accedere allo spettacolo. Chi non può offrirsi neppure questo spasso, può sempre ammazzare il tempo assistendo a una qualsiasi delle messe che si celebrano a ogni ora, e con gran concorso di disoccupati, in tutte le chiese di Varsavia, e in particolar modo nella cattedrale. Questa è un edificio di cattiva costruzione, e incredibilmente sporco; i pilastri e le pareti dovevano essere un tempo di pietra bianca, ma son diventati grigi per il sudiciume. A tutti gli altari officiano monaci ben nutriti, con la tonsura appena visibile per il ricrescere dei capelli e certe espressioni pochissimo spirituali, circondati da nugoli di orridi mendicanti; nei primi banchi, dame e damigelle della buona società, abbigliate con tutta la coquetterie immaginabile, pregano con gli occhi pudicamente abbassati, e scambiano occhiate con i loro innamorati, mentre la plebaglia ammassata negli ultimi banchi si scambia ad alta voce commenti irriguardosi.

Quando ne ho avuto abbastanza di questi divertimenti ho cercato una carrozza di piazza, ma dopo molto chiamare ho dovuto accontentarmi d’un fiacre sdrucito, da cui mi son fatto portare alla residenza del governatore, von Buchholz; a questo signore ho spiegato chi ero, e l’ho pregato di vistare il mio passaporto, informandolo che mi sarei trattenuto cinque o sei giorni in città. Costui non deve aver ben compreso che cosa mai fossi venuto a fare a Varsavia, ma mi ha comunque usato la finezza di invitarmi a pranzo; e così sono rimasto, curioso di saggiare gli umori dei funzionari esiliati in provincia, così lontani da Berlino. La menzione del pranzo aveva messo Sua Eccellenza di buon umore, poiché il suo sguardo prima sonnolento e annoiato si è fatto improvvisamente vivace; approfittando di questo stato d’animo favorevole gli ho chiesto che cosa si pensava a Varsavia della pace fra Parigi e Pietroburgo, e delle pretese di Alessandro sulla Polonia prussiana. Soddisfatto di potermi annunziare una novità, egli mi ha assicurato che secondo dispacci riservati lo zar ha rifiutato di ratificare il trattato concluso dal signor d’Oubril, sconfessandone interamente l’operato; sicché, ha proseguito, tutto lascia pensare che l’amicizia fra Russia e Prussia continuerà a costituire una garanzia di pace per l’Europa. Se tuttavia quel passo non sia invece destinato a suscitare la diffidenza di Bonaparte, e magari a precipitare quella guerra cui Berlino sembra così poco incline a risolversi, egli non ha saputo dirmi, anzi credo che prima di parlarne con me non gli fosse neppure venuto in mente di porsi la questione; tutto quello che sa è che secondo il “Moniteur” le truppe francesi hanno ricevuto gli ordini di marcia, e alla fine di settembre non resterà più un francese in Germania.

Se si esclude la moglie del governatore, che è polacca, non c’erano a pranzo che prussiani, poiché la nobiltà di Varsavia non frequenta la casa del governatore e a sua volta non riceve i funzionari governativi né gli ufficiali dell’esercito. A tavola il mio vicino di destra era un alto funzionario civile, chiamato l’Oberfiskal Mosqua. Costui è un ometto rinsecchito, vestito di nero e con un grande cerotto al posto dell’occhio sinistro, una parrucca arruffata e uno smunto codino. Con lui ho discorso dei cattivi sentimenti che i nuovi sudditi del re dimostrano nei confronti dell’amministrazione prussiana. Fra una cucchiaiata e l’altra di blanc-manger, la sola portata che abbia toccato nel corso della serata e, in apparenza, l’unico cibo di cui si nutra, egli mi ha risposto tetramente che a suo modo di vedere non c’è speranza di riscattare i polacchi dalla loro abiezione. Con tono didascalico, quasi dettasse un memoriale per il suo governo, mi ha enumerato le ragioni per cui l’agricoltura della provincia vegeta in uno stato così primitivo, per non parlare dell’industria; lamentando non solo gli antiquati pregiudizi e la profonda ignoranza dei contadini, ma anche il carattere diffidente, ostinato e fantastico della nazione nel suo complesso. Poiché osservavo, per mera cortesia e senza credervi affatto, che certamente un governo illuminato non avrebbe tardato a strappare gli spiriti al loro torpore, e a ridonare prosperità al paese, ha scosso la testa, e guardandomi con l’unico occhio ha ribattuto: «Al contrario, le piaghe che ho enumerato non possono essere sradicate neppure dagli interventi più benevoli e salutari delle autorità. Voi dimenticate che questa nazione non ha mai conosciuto che cosa significhi un governo votato alla ricerca del bene comune: e perciò, ignara com’è della felicità che un sovrano bene intenzionato prepara per lei, fraintende anche le intenzioni più onorevoli e vede i decreti più benefici in una luce falsa». Curioso di sapere fin dove lo avrebbe condotto questo modo di ragionare, gli ho domandato come pensava di poter uscire da una simile impasse. Sorridendo, Mr. Mosqua mi ha risposto, con la bocca piena e il cucchiaio a mezz’aria: «Per quanto ciò possa apparire contrario alla ragione, e suscitare le proteste di qualche filosofo accecato dalla sua filantropia, non resta che concludere che i polacchi dovranno essere costretti ad accettare il proprio vantaggio con la forza. Perciò» proseguì, dopo aver inghiottito ed essersi succhiato disgustosamente le gengive «è stato necessario emanare numerose regole di polizia, che tuttora, in attesa di tempi migliori, regolamentano il rapporto dell’amministrazione con i sudditi. Ed io ho fiducia che nel corso del tempo essi apprenderanno a riconoscere ciò che è meglio per loro, e si lasceranno guidare, come bambini fiduciosi, dalla mano paterna di chi li governa».

A questa uscita si è inserito nella conversazione un gentiluomo piuttosto pingue, il signor von Beschwitz, che sedeva in faccia a noi, e che doveva essere un consigliere dell’amministrazione provinciale, a Varsavia per motivi d’ufficio. Sorbendo a piccoli sorsi l’eccellente Borgogna del governatore, egli ha espresso l’opinione che mai i polacchi si rassegneranno a uscire dalla loro ignavia sarmatica per acconciarsi alle norme di vita dell’Europa civilizzata, e che mai, soprattutto, la loro nobiltà accetterà di essere governata da Berlino. «Passeranno cent’anni» sono state le sue parole «e ancora la nobiltà polacca si ribellerà, se ne avrà l’occasione.» Gli ho chiesto allora quale soluzione avesse in mente per risolvere un problema che egli stesso dichiarava insolubile. Mi ha guardato negli occhi e ha risposto gravemente: «La sola soluzione, a mio modo di vedere, anche se il mio cuore trema a proporla, è l’annientamento della nobiltà, e la germanizzazione dell’intera provincia». Mentre il signor Mosqua alzava le spalle con un ghigno, ho provato ad informarmi «con che mezzi intendeva il signor consigliere realizzare tale annientamento». Ma quell’eccellente uomo aveva la risposta pronta, come se si trattasse di riflessioni che aveva da gran tempo sviluppato in privato e che solo ora, grazie all’incoraggiamento prodotto dal vino, si risolveva a rendere pubbliche. «I nobili polacchi sono strangolati dai debiti: sarà sufficiente che il governo abolisca le esenzioni, e inasprisca il sistema fiscale, perché essi siano costretti a vendere le loro proprietà, che potranno essere acquistate da nobili e borghesi tedeschi. Così sarà spazzata via la nobiltà polacca, e non ne sentiremo più parlare.» «Udite, udite!» proclamò qualcuno, battendo i pugni sul tavolo per attirare l’attenzione del pubblico. L’oratore bevve un’altra volta e proseguì, col vento in poppa: «Quanto al popolo, il mezzo sarà altrettanto semplice: essi debbono diventare tedeschi, e lo diverranno, se saranno educati in tal senso fin da bambini. In fondo non si tratta di una razza inferiore; sono biondi, e di pelle chiara, e naturalmente vigorosi, sicché la loro indolenza è da attribuirsi unicamente all’effetto radicato della lingua, delle tradizioni e della religione. Non sarebbe affatto difficile cancellare tutto ciò; le più semplici misure amministrative produrrebbero in pochi anni l’effetto desiderato. Nessuno, per esempio, dovrebbe potersi sposare né ottenere un impiego senza provare di conoscere il tedesco».

L’idea che per civilizzare i sarmati fosse sufficiente insegnar loro il tedesco mi parve così comica che credo di essermi messo a ridere; ma i commensali più vicini, i soli che avessero ascoltato fino in fondo il discorso del consigliere, lo giudicavano un capolavoro di politica. Esclamazioni d’incoraggiamento ne salutarono la conclusione; il signor von Beschwitz aveva abbassato modestamente gli occhi, e rigirava fra le mani il panciuto bicchiere, con visibile compiacimento. Proprio allora, tuttavia, il governatore intervenne nella conversazione, e dimostrò che non era senza ragione se occupava quel posto, poiché dopo tutto era la persona più ragionevole della compagnia. «Signori miei» cominciò, «tutti quanti sappiamo che qui si gioca una partita mortale fra due razze, e che presto o tardi una nazionalità dovrà completamente rimpiazzare l’altra; ma ciò accadrà quando gli abitanti riconosceranno spontaneamente la superiorità dell’Europa sull’Asia, non certo per decreto del governo, come vorrebbe il mio amico, il signor von Beschwitz. Finché i nobili polacchi continueranno a sognare il loro regno millenario, nessuno di loro sarà un buon servitore per Sua Maestà; ma non è di loro che dobbiamo curarci. Noi siamo stati mandati qui per risvegliare un popolo asservito e trasformare una moltitudine di schiavi in fedeli sudditi del re; per far ciò non è necessario obbligarli a parlare tedesco, questo sviluppo verrà da sé: è invece indispensabile, e urgente, strappare il contadino all’influenza dei suoi preti.» Un mormorio di approvazione ha accolto questa osservazione, e il governatore ha proseguito illustrando la difficoltà di addomesticare il clero cattolico. «Io ho seminato in questo suolo ingrato per anni e non ho raccolto altro che cardi. Tutti i miei semplici sforzi per convertire i preti polacchi in maestri di scuola, e per far crescere i bambini nella civiltà tedesca, introducendo nuovi metodi di istruzione, sono stati frustrati dall’alto clero, che si è adoperato così a lungo contro di me da farmi perdere ogni desiderio di lottare: sicché ho dovuto concludere che è proprio dello spirito papista mantenere il popolo in un’oscurità egiziana.»

A queste parole Mr. Mosqua ha manifestato vivacemente il suo assenso, poi s’è inclinato verso di me, a tal punto che la sua parrucca, mal calzata su un cranio rasato, ha cominciato a scivolare pericolosamente verso il mio piatto, e ha esclamato: «Il clero, mio caro signore, pesa su questo paese e ne succhia il sangue, ancor più avidamente della nobiltà. I numeri da soli bastano a dare la vertigine, e a far capire in che terra siamo capitati. La città di Plock, dove ho l’onore di prestare servizio, conta duemila e cinquecentosettantotto anime, senza contare i militari; e fra i cittadini si trovano settecentotrentuno ebrei, sicché i cattolici non sono più di milleottocentoquarantasette» (egli sapeva tutte queste cifre a memoria, e le elencava senza inciampare). «In compenso ci sono un vescovo, che per fortuna trova più comodo abitare a Varsavia, sicché possiamo anche non contarlo; un capitolo di trenta canonici, una collegiata agostiniana con un priore e sette canonici, un convento di domenicani con ventiquattro monaci, un convento di riformati con diciannove monaci, un convento femminile di premostratensi con trentotto monache, e potrei continuare! Credo che neppure a Napoli si troverebbero tante teste rasate; e chiamo Dio a testimone che le ricchezze del regno di Polonia non possono certo paragonarsi con quelle delle Due Sicilie.» «Si può dunque vivere in un luogo simile?» gli ho chiesto, figurandomi le smorfie di disgusto con cui doveva rispondere agli ossequi di tutti quei preti e quei monaci pezzenti, incrociandoli nel fango delle stradine non selciate; il signor von Beschwitz tuttavia fraintese il senso della mia domanda, e s’incaricò di rispondere per lui. «Chi non l’ha provato non può figurarselo!» esclamò. «Tutte queste cosiddette città polacche si assomigliano, è la stessa miseria dappertutto. Grazie agli ebrei, chi ha denaro da spendere può trovare tutto ciò che desidera: birra inglese, ottimo arak, stoffe francesi, seta, pellicce, ogni cosa, s’intende, al doppio o al triplo del suo prezzo; ma chi non voglia buttar via il suo denaro non trova se non pane cattivo, birra imbevibile, niente ortaggi né uova, e quanto alla carne, è carne di carogna!»

Confrontando i discorsi ascoltati ieri sera al caffè con quelli che ho udito alla tavola del governatore, non posso fare a meno di trovare piuttosto comico il contrasto fra questi due mondi che convivono a Varsavia senza sfiorarsi, l’uno ignorando tutto dell’altro; e non so chi sia maggiormente degno di compassione, se i nobili, i mercanti e gli studenti che tracannano birra nei caffè sognando il giorno in cui Bonaparte caccerà i tedeschi dal paese e si proclamerà re di Polonia, o i funzionari e gli ufficiali che nei palazzi e negli uffici, sorseggiando vino e fumando il sigaro e la pipa, discorrono di come cancellare perfino il nome e il ricordo della razza polacca dalla provincia della Prussia Meridionale. Il vecchio Federico, che la sapeva lunga, diceva che la Stupidità contempla la Polonia con piacere, e scrisse un poema per dimostrare che i suoi abitanti discendevano dall’orangutan; ma si direbbe che la colpa non sia soltanto dei disgraziati polacchi, bensì dell’aria o dell’acqua del paese, poiché chiunque cerchi di mettervi radici finisce per esser contagiato dal clima fantastico che regna in tutte le teste.

Quando la compagnia si è sciolta, ho chiamato un vetturino e gli ho ordinato di portarmi all’Opera. La corsa, a rompicollo come di consueto, è durata pochi minuti, durante i quali abbiamo corso il rischio di schiacciare più di un passante; il cocchiere si è fermato davanti a un edificio di ridicola architettura, col tetto incoronato da almeno dodici camini, e nonostante le mie rimostranze mi ha assicurato che quello, e nessun altro, era il teatro dove volevo andare. Chiedendomi che razza di spettacolo mi attendeva, sono entrato e ho preso posto nella loggia dei forestieri, accanto al palco reale da tempo deserto e dove solo il governatore osa talvolta mostrarsi, accolto dal parterre con glaciale freddezza. Il pubblico era molto scarso e mi ha rammentato le sale vuote che si vedono spesso a New York. Nei teatri di Varsavia si danno soprattutto operette e commedie francesi, ma all’Opera si esibiscono solamente compagnie italiane, che di questi tempi, tuttavia, raggiungono di rado l’organico sufficiente per mettere in scena un’opera intera. Lo spettacolo di stasera comprendeva in apertura scene dal Portatore d’acqua, di Cherubini, rappresentato secondo il gusto scita; per cui il conte Armando picchiava senza pietà sua moglie, all’uso dei nobili polacchi del buon tempo antico, e la poveretta si torceva le mani e cantava un’ottava troppo in su, senza dubbio per timore delle busse. La Guardia Nazionale è comparsa in uniformi russe, suscitando i fischi patriottici del parterre; in compenso i parigini di ritorno dalla passeggiata domenicale in campagna facevano delle profonde genuflessioni alla polacca alle porte della città, abbracciando le ginocchia dei militari che controllavano i loro passaporti. Nel bel mezzo di un’aria uno dei musicisti dell’orchestra ha avvertito un collega, a voce alta, che stava sbagliando nota, e questi si è scusato amabilmente, indicando con un gesto espressivo che la colpa era tutta del direttore d’orchestra.

A questo punto avrei anche potuto andarmene, ma un più attento esame del programma mi ha persuaso a rimanere, poiché la seconda parte dello spettacolo consisteva in arie di Paisiello, interprete la Orofino. La cantante ha fatto del suo meglio, anche se l’orchestra, ormai stracca, eseguiva i pezzi più ardenti con un’indolenza sufficiente a strappare qualche sbadiglio allo spettatore meno assonnato. Dopo il concerto, monsieur Charles, privilegiato di Sua Maestà il re di Prussia e di S.A. il principe di Mecklemburg-Strelitz, artista ventriloquo, si è esibito sul palcoscenico davanti al distinto pubblico, munito di un naso finto e baffi di stoppa; per conto mio ho trovato più di mio gusto salire a far la conoscenza della cantante. La famosa Orofino è una biondina di piccola statura, spiritosa, meno giovane di quanto appaia a prima vista, con un viso tirato che il trucco non riesce a mascherare, e un gran bisogno di soldi, circostanza che mi è parsa favorevolissima; grazie ad essa, mentre il ventriloquo intratteneva coi suoi giochi il pubblico dell’Opera, io e la cantante abbiamo fatto un pas à deux nel suo camerino.

Domenica, 7 settembre

Oggi per la prima volta il frastuono incessante dei carri di farina, delle mandrie di porci, delle venditrici di erbe che passano sotto le mie finestre diretti al mercato della Città Vecchia si è acquietato; ma l’illusione di poter riposare non ha tardato a dissiparsi, poiché a quel concerto si è sostituito di buon mattino quello delle campane della chiesa di S. Anna, del convento di S. Croce, della chiesa evangelica, accompagnato dall’abbaiare di tutti i cani del quartiere. Ieri sera, al momento di coricarmi, avevo un po’ di febbre, e non appena ho provato a levarmi dal letto mi sono subito accorto che l’accesso persisteva; sicché ho deciso di restare in camera finché non mi fossi sentito meglio, e ho chiesto all’albergatore di mandare uno dei suoi garzoni dallo speziale. Per passare il tempo ho chiesto i giornali, ma in tutto l’albergo non c’era che una copia del “Times” vecchia di sei settimane, e ritagliata per bene; sicché ho trascorso un’ora buona cercando di indovinare quali pericoli per lo Stato potevano mai celarsi nelle notizie soppresse, e grazie a questo esercizio ho forse cominciato a comprendere il modo di ragionare polacco. All’arrivo del garzone ho preso una medicina a base di tamarindo, cassia e senna, e finalmente sono riuscito a vomitare; sicché ho potuto vestirmi, e dopo aver chiamato una carrozza sono andato a far visita a quelle case per cui avevo in tasca delle lettere di presentazione.

Il vetturino conosceva tutti gli indirizzi e mi ha condotto ai palazzi del principe Sapieha, del conte Potocki, del principe Poniatowski e di altri magnati, consentendomi di vedere con i miei occhi come siano governate le più grandi case di Varsavia; spettacolo che avrebbe stupito anche un visitatore più smaliziato di me. Non c’è neppure uno di questi palazzi che non sia stato disegnato da un architetto italiano, e edificato senza badare a spese; tuttavia gli scaloni sono così ingombri di masserizie, ripostigli e capanni di legno, o semplicemente macerie e calcinacci dimenticati dai muratori, che la luce del giorno arriva a stento a illuminarli. Le anticamere non sono meno luride degli scaloni; in compenso ci si affolla una moltitudine di lacchè sfaccendati, vestiti spesso sfarzosamente, ma mai in modo uniforme, poiché ciascuno ritiene suo diritto aggiungere alla livrea un gallone o un nastro o qualche altra galanteria, salvo rivendersi le fibbie delle scarpe, pagate dal padrone, al momento del bisogno. Ovunque si tocca con mano l’impoverimento della Polonia, poiché tocca vagare per sale disabitate e deserte, da cui sono stati smontati fin gli specchi, prima di giungere agli appartamenti abitati; dopo aver percorso tre o quattro volte una simile trafila non si stenta a credere che i costruttori di queste dimore vivessero con ben altra larghezza rispetto agli attuali residenti. Ho avuto tempo di esaminare minutamente questa e altre mancanze dei palazzi di Varsavia, poiché in nessuno di essi ho trovato il proprietario; infatti tutti i nobili che se lo possono permettere villeggiano in campagna, e in casa non si trovano che segretari e domestici. E questi sono ancora i casi più fortunati, perché più di una volta mi è capitato di entrare nel portone di qualche dimora dall’apparenza sontuosa e trovare i cortili invasi dalla gramigna, con piccioni e oche che pascolavano, fontane inaridite, statue e urne sbriciolate, finestre dai vetri rotti e sostituiti da brandelli di carta, vestiti vecchi e stracci appesi ad asciugare; per rendermi conto infine che i proprietari non vi abitavano più da chissà quanto tempo, e che tutta una popolazione di miserabili si era sostituita loro, accampandosi nei saloni deserti e bruciando il parquet per riscaldarsi.

Alla conclusione di questo giro infruttuoso ho voluto procedere all’esame critico di un’altra attrattiva della città, e ho ordinato al vetturino di condurmi in un bordello. Senza esitare l’uomo mi ha accompagnato in via del Nuovo Mondo, nel sobborgo di Cracovia, facendomi tanti elogi della casa, frequentata a sentir lui soltanto dai principi polacchi, che ho deciso di fermarmi là a passare la serata e mi sono fatto portare una bottiglia di champagne, invitando una delle ragazze a sedersi con me. La ragazza, che la padrona chiamava Louise, era molto pitturata e discretamente sfacciata nel comportamento, sicché non ricordava che alla lontana Lenchen e le sue consorelle berlinesi; eppure era ben fatta, parlava tedesco, e insomma tutto lasciava pensare che non mi sarei pentito della scelta. Non avevo ancora finito la bottiglia, tuttavia, e la ragazza aveva appena cominciato a sbottonarsi la camicia, quando uno strano personaggio si è avvicinato al mio tavolo e ha chiesto se gli avrei fatto l’onore di berne una seconda a sue spese, poiché dai discorsi degli altri ospiti aveva indovinato che c’era in casa un forestiero di qualità e gli sarebbe troppo dispiaciuto perdere l’occasione di conversare con me. Prima ancora che avessi potuto acconsentire, Louise lo aveva fatto sedere al proprio posto e gli si era accomodata in braccio, trattandolo come una vecchia conoscenza; sicché è stato giocoforza accondiscendere al suo desiderio.

Il nuovo venuto, che si è presentato come il signor Hoffmann, consigliere di corte d’appello, era un ometto di piccola statura, tutto vestito di nero dalla testa ai piedi: nera la marsina, nero il panciotto, neri i calzoni, nere le calze di seta, neri gli scarpini di vernice. Con questo severo abbigliamento contrastavano però l’espressione astuta del viso e la piega comica della bocca, sicché a giudicare soltanto dai lineamenti lo si sarebbe detto un attore, e magari anche un predicatore, piuttosto che un funzionario di tribunale. Battendo le mani, si è assicurato che lo champagne fosse servito al più presto e ghiacciato al punto giusto; poi, nell’attesa, si è riempito il bicchiere con quanto restava della mia bottiglia e l’ha scolato gagliardamente. Non sapevo bene come intendesse avviare quella conversazione da cui si riprometteva tanto piacere, né se Louise ci avrebbe mai consentito di condurla a termine, poiché la ragazza, che come ho detto si era affrettata a sedersi sulle ginocchia del funzionario, aveva già cominciato a dimostrargli il suo affetto nel modo più inequivocabile; circostanza questa, debbo confessarlo, che mi ha provocato una punta di dispetto. Tuttavia al tirar delle somme non ho avuto da pentirmi dell’incidente, poiché il signor Hoffmann si è rivelato un conversatore quanto mai umoristico e bizzarro. Avendomi chiesto come mi piacesse Varsavia, non è parso punto sorpreso di udire che la giudicavo in tutto inferiore a Berlino. «Anch’io dapprima la pensavo così» ha cominciato mangiando le parole, e con una voce rauca e saltellante. «Del resto sono stato nominato qui per punizione, grazie agli intrighi di qualcuno che ho offeso. Non appena ho messo piede in questo paese disgraziato, ho cominciato a soffrire di un indurimento del fegato che non ha più voluto andarsene. E ciò nonostante le ricette più sottili che i medici hanno saputo escogitare. Ah! La colpa, a dire il vero, è certamente della cucina polacca, che lo stomaco di un tedesco non può assolutamente digerire. Per fortuna mia moglie ha imparato a cucinare alla tedesca, altrimenti non starei qui a servirla. Quanto ai medici, ho smesso di ascoltarli: mi curo io stesso con rum e cognac, e non sto peggio di prima.» Gli ho detto che al mio paese rum e cognac non erano di solito consigliati come rimedi per i dolori di fegato, ma mi ha guardato con compatimento. «Mio caro, anche a Federico il Grande i medici volevano far credere che il caffè fosse un veleno. Eppure ne beveva a ogni ora del giorno e della notte, ed è vissuto fino a tarda età! Credete a me, il rum e il cognac sono la miglior cura per i dolori di fegato e per quelli di stomaco, ed io ne so qualcosa; e anche l’arak, sì, non dimentichiamo l’arak.» Così dicendo il consigliere ha offerto a Louise un sorso di champagne, l’ha baciata in bocca, ha tracannato il resto del bicchiere e ha continuato con una smorfia: «Dunque mi chiedevate di Varsavia. Mah! A Varsavia si può vivere assai piacevolmente. Io per esempio ormai ci starei benone, se non ci fosse il maledetto ufficio. L’inverno scorso, per fortuna, abbiamo avuto pochissimo lavoro. Ho passato il tempo a comporre e a dipingere, e ho imparato abbastanza bene l’italiano. Ora capisco perfettamente il romanesco e lo parlo passabilmente. Che, nun ce credi?». Ho osservato che doveva certo conoscere bene l’Italia per essere così padrone della sua lingua; per tutta risposta mi ha guardato con esagerato terrore. «L’Italia? Guai se un regio funzionario prussiano dovesse lasciarsi attirare in quella sentina di corruzione! No», ha proseguito ridiventando serio, «non ho mai veduto l’Italia, e chissà se la vedrò mai… Mi consolo studiando la lingua: il prossimo inverno conto di perfezionarmi negli altri dialetti, come il piemontese, il veneziano e il napoletano; ma i russi probabilmente non mi permetteranno di restare qui.» Gli ho detto che per quanto ne sapevo lo zar era ora in buonissimi rapporti col suo re, e che quindi c’erano per lui ottime probabilità di restare ancora a lungo a Varsavia. «Bene» ha commentato distrattamente, «ma ciò che più conta è che torni presto l’inverno. Io, caro signore, sono giurista, sì, ma non certo per vocazione. Mi trascino dietro la mia vita di funzionario come un forzato la sua palla di ferro! Negli ultimi tempi ho dovuto lavorare come una bestia da soma. La camera criminale, come succede sempre nei mesi caldi, si è vista ridotta di metà del suo personale in seguito a malattie e congedi. Pensavo che avremmo potuto mettere il catenaccio alla porta e scriverci sopra, in lettere alte sei piedi: “Siamo tutti alle acque”; e sotto, più in piccolo, avrei aggiunto: “Chiunque abbia un processo, abbia commesso un crimine o intenda commetterlo si ritenga avvertito”. Invece, tutto il lavoro è finito sulla scrivania del suo umile amico. Ho dovuto dibattermi fra ogni sorta di affari sgradevoli, e mandare in fortezza tre assassini. Mi consolo pensando che fra un assassino e l’altro ho aiutato la nostra brava Louise a venir fuori senza danno da una causa intentata ingiustamente da un mascalzone, il quale pretendeva di essere stato derubato da lei, e questo è il motivo per cui la poverina mi dimostra tanta gratitudine.»

Nel frattempo anche la seconda bottiglia di champagne era finita, e mentre l’amico ne scolava le ultime gocce nei bicchieri ho osservato che quella gratitudine era comunque una ricompensa più che adeguata per i fastidi del servizio. La ragazza a dire il vero non ha afferrato il complimento e non mi ha neppure guardato, ma il consigliere, strizzandomi l’occhio, ha mostrato di interpretarlo nella luce più equivoca. «Debbo dirvi molto francamente, caro amico, che una serata passata in questo luogo dove abbiamo avuto la fortuna di incontrarci rappresenta un elemento equilibratore indispensabile dopo un pomeriggio trascorso in ufficio. E pensare che molti dei miei colleghi rifiuterebbero con vero orrore la proposta di accompagnarmi qui, se mai fossi tanto scervellato da rivolgerla a qualcuno di loro. Che farci? La maggior parte degli uomini, dice l’abate Mably, sono infelici, perché sono tanto stupidi da disprezzare la felicità offerta loro dalla natura (id est:42 una puttana nuda!) per inseguire le chimere delle loro passioni. Io direi, piuttosto, che precisamente il sollievo offerto al corpo dalle cure di una sgualdrina è necessario per permettere al cuore e alla mente di seguire le proprie strade senza impaccio. E non crediate, caro amico, che io disprezzi queste ragazze per il lavoro che fanno. Al contrario, io acquisto i loro servizi e li pago per quello che valgono, esattamente come faccio con un domestico o con un barbiere, le cui cure sono altrettanto indispensabili al benessere del mio corpo.»

«Ah! Parli come un angelo, consigliere!» esclamò estasiata Louise; e per provargli la sua riconoscenza gli aprì i pantaloni, introducendovi destramente la manina. Poiché mi accorgevo che essa intendeva suonare un preludio, volli lasciarli soli, ma il consigliere allontanò delicatamente la ragazza, si abbottonò, si alzò in piedi, la baciò in fronte e mi chiese se non volevo piuttosto accompagnarlo al caffè, poiché gli capitava assai raramente l’occasione di scambiare qualche parola con un forestiero bene informato, e non intendeva sciuparla. Poi, senza ascoltare la mia risposta, ha affondato le mani nelle tasche del frac, come per aiutarsi a tenere in qualche modo diritta una schiena altrimenti mirabilmente incurvata, e si è avviato a piccoli passi saltellanti verso le scale. Louise ci ha lasciati partire con una smorfietta di disappunto, che tuttavia si è trasformata in sorriso quando, sulla porta, il consigliere ha cavato dalla borsa una moneta, ch’essa ha afferrato al volo con destrezza. Così siamo scesi al caffè, ci siamo seduti in un angolo della grande sala fumosa e abbiamo ordinato un punch, dopodiché la conversazione è ripresa. Poiché il mio nuovo conoscente aveva accennato di aver trascorso l’inverno a comporre, gli ho chiesto di che musica si dilettasse, e così ho appreso che non è soltanto un dilettante, ma un compositore di teatro, e che a Varsavia si sono date messe e opere di sua composizione; «ciò che peraltro non mi ha guadagnato alcuna notorietà, perché qui a nessuno importa un fico secco dell’arte». Mentre il consigliere musicista beveva a grandi sorsi il suo punch, gli ho chiesto se l’indurimento di fegato provocato dalla cucina polacca e le eterne noie dell’ufficio non lo scoraggiassero dalla composizione. Mi ha guardato con un gran sorriso. «Avete messo il dito sulla piaga. L’arte della composizione esige il benessere fisico! La malattia, ma che dico, il più banale mal di denti, produce uno sconquasso che si traduce non solo nelle idee, ma anche nella loro concatenazione, che è un fattore essenziale per la composizione. La cattiva alimentazione, la privazione momentanea di questo o quel godimento cui si è fatta l’abitudine, per esempio un bicchiere di buon rum la mattina, agiscono sull’anima e la portano non solo alla malinconia, ma all’incapacità assoluta di comporre qualcosa di buono. Me ne sono ben reso conto in questi ultimi tempi, e ho bruciato un Salve Regina che avevo composto in un periodo di infelicità; in cambio, appena l’altro ieri, ho ben mangiato e ben bevuto, e la sera ho cominciato un nuovo Salve Regina, che fin d’ora mostra tutto un altro andamento. Medito perfino di rimettere mano al Gigante Gargantua, opera comica, che per adesso giace sotto ventotto volumi d’incartamenti per fallimento e bancarotta, ma se piace a Dio che sia completato nel 1888, sorpasserà tutto ciò che quel perdigiorno di Goethe ha mai scritto nel genere.» «Vedo che l’ufficio, nonostante tutto, la lascia sufficientemente padrone del suo tempo; ma la sua carriera non ne risentirà?» A questo interrogativo il consigliere ha alzato le spalle. «Oh, amico mio, la mia carriera giuridica va molto pianissimo. Del resto che importa, finché c’è la musica, e quell’angelo di Mischa, mia moglie, ha la pazienza di sopportarmi? Già, mia moglie… Vi dirò in confidenza che la più inadatta di tutte le condizioni, per chi voglia dedicarsi seriamente all’arte, è quella dello scapolo. Se ripenso ai tempi in cui anch’io mi trovavo in una condizione così infelice, brividi freddi mi corrono giù per la schiena. O ch’affanno, o che smania! Per fortuna mi sono sposato! Un celibe non può vivere da solo in un paese straniero, dove non può nemmeno permettersi di essere malato. Nei primi tempi stavo spesso male, e non potevo soddisfare la più piccola delle mie necessità, nemmeno avere un piatto di minestra!»

Così dicendo il consigliere, ratto come un tagliaborse, aveva afferrato per il braccio un cameriere e indicando i due bicchieri vuoti gli aveva ordinato di portarci un bischoff, senza dare ascolto alle mie proteste; poi, non appena l’uomo fu arrivato col vino ghiacciato, in cui nuotavano fiori d’arancio e fettine di limone, riempì entrambi i bicchieri e bevve il suo con avidità, tornando immediatamente a riempirlo. Non sapendo cosa dire, gli chiesi se qui a Varsavia si trovavano buoni librettisti. «Per nulla!» gridò strabuzzando gli occhi. «Ma in confidenza, la cosa non mi dispiace troppo. Per me, niente libretti italiani, coi loro personaggi dai nomi mirabolanti, e il loro falso sentimento! Chi può ancora commuoversi alle sventure di Artaserse imperatore di Babilonia? Mi piacerebbe scrivere io stesso, invece, una storia tratta dalle fiabe popolari, per esempio da quelle polacche. Fin da quando sono capitato in questo paese le ho ascoltate col più grande godimento, e Mischa ne conosce di memorabili. Quali personaggi straordinari, fin dai nomi: l’Uomo dell’Acqua, la Signora del Mezzogiorno, il Bis! Ma la mia favorita è la storia della torre dei topi di Kruszwica, e del malvagio re Popiel, che finì divorato da quegli animaletti per aver rinnegato i suoi genitori, benché si fosse fatto rinchiudere nella torre, con una provvista di pane e acqua, appunto per sfuggire alla punizione. Non è un soggetto meraviglioso? Pensi che cosa potrebbe cavarne un impresario senza pregiudizi!»

Il rimbombo degli zoccoli di molti cavalli sull’acciottolato coprì le sue ultime parole: per la strada, a pochi passi da noi, passava una ronda di ussari neri, con le loro divise funeree e le gualdrappe dei cavalli ornate di teste di morto. Il consigliere, improvvisamente di malumore, accennò cupamente in direzione dei soldati. «Ma io la annoio parlandole della mia musica. Oggi si danno le grandi opere con orchestra di cannoni, e assorbono tutto l’interesse del pubblico. Pensi un po’! A volte, la notte, mi sveglio di soprassalto, dopo un incubo in cui un flauto o un insopportabile fagotto mi tormentavano spietatamente, entrando al momento sbagliato e irridendo a tutti i miei sforzi per rimetterli in riga; e al mattino non so se ridere o piangere, al paragone fra i miei fastidi e le disgrazie dell’epoca in cui ci tocca vivere. Ha sentito quel che è successo al libraio Palm?» «Non ho sentito nulla», risposi, «e non so neanche chi sia.» «Palm» ha spiegato il consigliere «era libraio a Norimberga, e ha avuto la sventatezza di stampare qualche opuscolo in cui si parlava di Bonaparte in termini irrispettosi. Da Parigi gli fecero sapere che avrebbe fatto meglio a smettere quel commercio. Il brav’uomo, credendo che nulla di male avrebbe potuto succedergli finché fosse rimasto tranquillo sotto la protezione delle leggi tedesche, non se ne dette per inteso. Pochi giorni fa è giunta la notizia che truppe francesi sono entrate illegalmente nella libera città imperiale di Norimberga, violandone la neutralità, hanno rapito Palm a casa sua nel cuore della notte e l’hanno trascinato in territorio francese, dove è stato processato, condannato e fucilato in meno di dodici ore.» «Bene» ho commentato, «non c’è da sorprendersi se un brigante che ha già violato ogni legge umana e divina e si è aperto la strada fino al trono spargendo a ogni occasione sangue innocente continua sulla stessa strada anche ora.» «Forse lei ha ragione, ma non può immaginare quanto scandalo la sorte del libraio ha provocato fra i tedeschi di Varsavia; e non a torto, debbo dire, poiché è stata veramente un’impresa ripugnante. E tuttavia» ha proseguito Hoffmann in tono sarcastico «non posso sopportare neppure quelli che si aggirano con aria offesa, proclamando che il sangue di dieci, cento, mille francesi dovrà essere versato per vendicare l’innocente, e che solo il pianto delle loro donne e le urla di terrore dei loro bambini potranno placare Palm nella tomba. Caro amico, i tempi cambiano, ed è una frottola ch’essi cambino sempre in meglio! Non più tardi di ieri sentivo i miei colleghi al tribunale dichiarare in tono sdegnoso, fra una presa di tabacco e l’altra, che il secolo diciottesimo era un imbecille presuntuoso, che si è chiacchierato abbastanza sulla tolleranza universale, e che è ora di dichiarare a fronte alta il diritto della razza tedesca di schiacciare i suoi nemici; e il referendario Kropf, che ha appena passato l’esame a Berlino ed è il più giovane dei nostri colleghi, si è vantato davanti a me di non aver rivolto la parola a un solo studente francese, polacco o giudeo quando era iscritto all’Università di Halle. Vede che fra questi Teutomani e Bonaparte la scelta non è davvero piacevole: quod Deus bene vertat!43 Come dar torto a quei polacchi che si vergognano di essere tali, e cercano di farsi passare per tedeschi? Prenda mio suocero, Trzinski, antico presidente della città di Posen; ora si fa chiamare Rohrer, e pretende che mia moglie Mischa si presenti come née Rohrer; è già molto se non si è fatto luterano e le ha permesso di restare cattolica. Eppure lui è stato cacciato dal suo ufficio perché non padroneggiava a sufficienza la lingua tedesca! Ecco, carissimo, com’è ridotta l’Europa, in questo secolo di illuminismo e progresso… Quando penso alla storia del mondo, vorrei prenderla a calci!»

A un tratto il consigliere si rizzò a metà sulla sedia, come un gatto quando adocchia la preda, e sbattendo più volte le palpebre fissò qualcosa, o qualcuno, che evidentemente lo infastidiva. Seguii il suo sguardo fino a un gentiluomo in parrucca e codino, che sedeva a un tavolino non lontano dal nostro, e che doveva aver provocato la sua ira osservandolo attraverso una lorgnette. L’uomo proseguì il suo esame senza scomporsi, poi, evidentemente soddisfatto del risultato, dispiegò un giornale che teneva sulle ginocchia e cominciò a leggere senza più darsi pena di noi. «Che cosa ne pensa lei, mio caro, della stupidità?» mi apostrofò il consigliere a voce esageratamente alta, continuando a fissare lo sconosciuto. «Io ne vado addirittura pazzo!» Poiché l’oggetto della sua derisione non si scomponeva, Hoffmann continuò, in tono ancor più sonoro: «Lei crede che in un luogo come questo, dove si tengono discorsi gioviali e istruttivi, possano trovar posto anche esseri nauseanti, insulsi e superficiali?». Questa volta l’uomo in parrucca abbassò il giornale e fissò freddamente il suo avversario, mentre qua e là nel caffè si udivano i risolini degli avventori, evidentemente avvezzi a simili scene. «Ma sedete un po’ dunque!» sussurrai al mio amico, e afferrandolo per le falde del frac riuscii a rimetterlo al suo posto. «Chi è quel signore?» chiesi. «Non lo so» fu la risposta, «ma non mi piace la sua faccia.» Mentre borbottava queste parole, il consigliere si impadronì con un gesto improvviso di un piatto e una forchetta dal tavolo di servizio che stava proprio accanto al nostro, e cominciò a compitare con voce sufficientemente alta per essere inteso in tutto il locale, mentre impugnava la forchetta come se stesse scrivendo sul piatto: «Mio caro, là nell’angolo a sinistra, lei non sa quanto io la rispetti, sebbene lei sia un asino; ma mi farà un piacere infinito se avrà la bontà di andarsene!».

Il mio amico aveva bevuto un po’ troppo. Con un cenno chiamai il cameriere, pagai, e cercai di farlo alzare per condurlo via. «Suvvia» gli dissi, «signor consigliere, si lasci riaccompagnare a casa.» Mi guardò storto, quasi l’avessi offeso. «Consigliere? Di che consigliere andate cianciando? Il consigliere è secco e stecchito nel suo studio, col berretto da notte tirato in capo e la candela ancora accesa. Voleva andarsene a dormire, e batté due volte sul pavimento per scacciare un topo che cenava rosicchiando una pantofola sdrucita; poiché quel rumore fastidioso non cessava, cercò di ammazzarlo col Diritto civile del 1721, col nuovo Codice generale rilegato in un solo tomo, col tampone e col calamaio. Nulla di nulla; allora si alzò, andò a vedere, e trovò il Re dei Topi che rodeva in un angolo della stanza, con la corona d’oro in testa, e per lo spavento cadde morto d’un colpo.» Mentre parlava, ero riuscito a farlo alzare e insieme ci eravamo avviati all’uscita. «Ma allora, se il consigliere è morto, con chi ho il piacere di parlare?» gli chiesi. «Io?» rispose strabuzzando orribilmente gli occhi e alitandomi in faccia il suo fiato vinoso. «Io sono il pittore Molinari! Ho forse la faccia di un consigliere di corte d’appello? E se anche dovesse parerle di sì, vorrebbe dire che me l’hanno cambiata! Sono il pittore Molinari, Molinari…» Poiché vedevo che non c’era che assecondarlo, gli chiesi il più dolcemente possibile: «E dove abitava, di grazia, il defunto consigliere?». La strada era buia, perché a Varsavia non c’è illuminazione; se il mio ubriaco non mi avesse risposto a tono non avrei saputo come cavarmi d’impaccio. Ma per fortuna borbottò macchinalmente: «In via dei Senatori, al secondo piano della casa Rœssler!». Era vicino al mio albergo; sicché chiamai un fiacre, ci salii col consigliere, che cominciò immediatamente a russare, e diedi l’indirizzo di casa sua.

Il portone si aprì alla prima scampanellata e ne uscì una brunetta di forse venticinque anni, non alta, ma ben fatta, a quanto potei giudicare, con certi capelli neri da italiana che mettevano in risalto gli occhi cerulei, proprio come la Louise che avevamo appena lasciato in via del Nuovo Mondo. La sua espressione allarmata si mutò subito in sollievo quando constatò che le riportavo sano e salvo, benché un po’ addormentato, il suo uomo. «Buona sera, Mischa» borbottò il consigliere. «Questo eccellente amico mi ha salvato stasera dalla perdizione; e ti prego di rendergliene merito.» «Grazie a Dio» mormorò la giovane, rivolgendomi un sorriso; «ho sentito bussare a questo modo e mi sono spaventata, credevo che lo zio fosse tornato un’altra volta!» Con sforzo Hoffmann si girò verso di me, aprì gli occhi e con una smorfia di derisione borbottò: «Il signore forse si degnerà di apprendere che qualche tempo fa è morto d’infiammazione polmonare un mio carissimo zio di Berlino. Pochi giorni prima che ricevessi la notizia, qualcuno ha bussato la notte alla nostra porta, e mia moglie è convinta che lo zio sia passato a prendere congedo». Mi offrii di aiutare la signora a riportare il consigliere nel suo letto, ma l’offerta venne declinata con un grazioso sorriso, sicché rimasi ad attendere finché non vidi accendersi una luce al secondo piano, e risalii in carrozza per tornare in albergo. Mentre me ne andavo sentii una finestra che si apriva, e subito dopo una musica indiavolata, come se qualcuno stesse pestando con tutte le sue forze sui tasti del pianoforte; e non ebbi alcun dubbio sull’identità del suonatore notturno.

Lunedì, 8 settembre

Poiché in questa capitale occupata da ufficiali e burocrati prussiani non c’è modo d’incontrare in società un magnate polacco, oggi ho preso la carrozza e sono andato a trovare nel suo castello di Willanòw, sulla Vistola, il conte Stanislao Potocki, uno degli uomini più notevoli della Polonia, membro eminente del Grande Oriente di Varsavia. Il corriere per Londra non parte fino a domani, e prima di allora spero di apprendere qualche notizia interessante sugli avvenimenti che si preparano in questa parte d’Europa. Non è stato facile trovare i cavalli per la gita, benché assicurassi che sarei rincasato in giornata, ma infine l’albergatore mi ha esibito per la bagattella di due talleri certe brenne piagate, condotte per la cavezza da un furfante che le bastonava senza pietà per farle camminare; e con questo bell’equipaggio sono partito. La campagna lungo il fiume è piatta e monotona, sicché la principesca residenza dei Potocki appare all’orizzonte fin dal momento in cui il viaggiatore si lascia alle spalle le mura della città, in contrasto fiabesco con le catapecchie miserabili e il fango dei sobborghi, attraverso cui si fa strada a fatica la carrozza.

Sapevo che la nobiltà polacca ama impiegare le sue ricchezze edificando sontuose residenze suburbane, il cui mantenimento divora ogni anno tutto il profitto che i disgraziati contadini riescono a strappare alle loro zolle, magari col rinforzo di qualche buon sacchetto di scudi uscito dalle tasche capaci dei caffettani ebraici; tuttavia debbo egualmente confessare il mio stupore di fronte al fasto di Willanòw, dove ogni sala e ogni passaggio sono arredati con specchiere, marmi e boiseries degni di Versailles. Willanòw è il primo castello di gusto italiano costruito in Polonia, al tempo di Giovanni Sobieski, che proprio qui è vissuto e morto; e il conte Potocki mi ha mostrato con orgoglio gli appartamenti del re, in cui ogni cosa, evidentemente, è stata lasciata com’era al momento della sua morte. Per mio conto comincio ad annoiarmi di questa abitudine europea, e mi consolo pensando che non c’è pericolo che essa attecchisca anche da noi; gli Americani si metterebbero a ridere se a qualcuno venisse in mente di mostrare ai visitatori lo studio o la camera da letto di Washington, o magari quella di Jefferson, con tanto di lettere incominciate sullo scrittoio, e lenzuola sudicie nel letto! Fra i polacchi, questa infatuazione produce effetti particolarmente deprecabili, come ho avuto modo di constatare: poiché inchinandosi al ricordo di Giovanni Sobieski, toccando con adorazione i suoi tavoli e le sue sedie, ognuno di loro crede di essere diventato egli stesso un grand’uomo, e intanto non fa nulla per riscattare il suo paese dall’abiezione in cui è caduto.

Sebbene anch’essi condividano il vacuo entusiasmo e la leggerezza di carattere propri dell’intera nazione, non posso negare di essermi trovato a mio agio in compagnia dei Potocki. Il conte, durante la villeggiatura, tiene tavola imbandita per tutti i nobili del vicinato, e non ha mai a pranzo meno di venti o trenta persone. Le maniere di questa società sono più raffinate di quelle dei tedeschi, la vivacità della conversazione e la grazia delle donne reggono il paragone con il gran mondo di Berlino. La qualità del pranzo a dire il vero lasciava alquanto a desiderare, anche se il padrone di casa ha al suo servizio un cuoco francese; ma si dice che in tutta la Polonia oggi sia difficile mettere insieme gli ingredienti per un pranzo come si deve, a maggior ragione per così tanti ospiti. Il conte Potocki è stato a suo tempo uno dei prìncipi più influenti del regno, e nonostante l’età avanzata è tuttora guardato con sospetto dal governo per la parte da lui avuta nei fatti del ’95. Prendendo il caffè, ha discorso della situazione politica con un buon senso che non mi aspettavo più di trovare in Polonia; a suo giudizio, apprendendo che lo zar rifiuta di ratificare il trattato di pace Bonaparte si persuaderà che una nuova coalizione si sta formando contro di lui, e com’è sua abitudine colpirà subito e spietatamente. «La guerra è sicura, e non resta al re di Prussia che armarsi in gran fretta» ha concluso. E tuttavia questo politico consumato, quest’uomo di gusto che ha nella sua collezione sei disegni di Raffaello, questo gran signore le cui maniere si farebbero notare favorevolmente in tutte le corti d’Europa perde ogni padronanza di sé durante il gioco, e l’ho visto coi miei occhi gettare carte e gettoni in faccia al suo sfortunato compagno, colpevole di avergli fatto perdere una partita di whist. Eppure gioca un soldo al punto, e non si fa mai pagare! Cinque minuti dopo, si era ricomposto e non trovava parole abbastanza amabili per scusarsi con la vittima, un nobiluccio dei dintorni, che da un Potocki avrebbe accettato anche delle bastonate.

Al tavolo da gioco mi sono trovato in coppia con la suocera del padrone di casa, la principessa Lubomirska, che chiamano la marescialla, e che compare assai raramente a Varsavia dopo la deposizione del re Stanislao. Al suo cospetto si potrebbe credere che il tempo si sia fermato, poiché essa veste alla moda del tempo di Luigi XV, a costo di sacrificare ogni mattina quattro o cinque ore a un’interminabile toilette, fra ciprie, rossetti, nèi finti, bretelle e lacci tirati sulla carne molliccia, e non so quali altri segreti innominabili. La sua conversazione, peraltro, è la più spiritosa della compagnia, e il suo francese, benché manchi da tredici anni da Parigi, non smentisce il complimento di Marmontel, secondo cui essa parla quella lingua meglio dei tre quarti dei membri dell’Institut. Ben protetta dalle sue trine ingiallite, la principessa non nasconde il suo disprezzo per la nuova epoca, per la sua famiglia, che tiene a distanza giungendo perfino a rifiutarsi di ricevere i propri figli, e per la Polonia, che giudica irrimediabilmente noiosa: tanto che non cessa di viaggiare, spostandosi da un soggiorno all’altro alla ricerca di un sollievo per il proprio spleen. Bonaparte, che tutti i polacchi venerano come un Dio, non è per lei che un miserabile, elevato dai capricci della Fortuna a una posizione in cui non potrà mantenersi; essa evita peraltro di parlare di lui, e quando vi è costretta non lo chiama mai l’imperatore, come gli altri, ma soltanto “le petit Buonaparte”.

Come si può immaginare, la mia qualità di Americano non era fatta per assicurarmi la benevolenza della marescialla, ma non appena ne ho avuto l’occasione ho raccontato l’aneddoto della mia udienza a San Giacomo, quando Giorgio III mi chiese se tutti i Pyle provenivano dal Maryland: e ciò è servito a guadagnarmi la sua simpatia. Con l’occhio cisposo fatto improvvisamente vivace, questa vecchia che afferma di non trovare più al mondo un solo motivo di interesse al di fuori delle carte ha cominciato a informarsi dell’etichetta in uso alla corte di Londra, e a paragonarla con la vecchia etichetta della corte di Francia, istituendo i più sottili confronti e svelandomi il significato riposto di usanze che mi erano parse a suo tempo non meno incomprensibili che ridicole. «Vous, Monsieur, qui lisez les journaux», ha poi proseguito come toccata da un ricordo improvviso, «vous pouvez sans doute me donner des nouvelles de la santé de ce pauvre Fox»;44 spiegando poi alla compagnia incuriosita che ricordava benissimo di aver giocato al faraone, in altri tempi, con quel degno gentiluomo, e di avergli vinto parecchie ghinee. «Sono felice di poterle assicurare, Madame», ho risposto inchinandomi, «che il signor Fox ha ricevuto gran giovamento dall’operazione della puntura, e che la sua salute migliora di giorno in giorno.» Soddisfatta di questa notizia, la vecchia principessa ha voluto informarsi delle ragioni che mi avevano condotto così lontano dall’America. Mi ha chiesto come mi piacesse Varsavia, e quando ho risposto, per cortesia, che mi ci trovavo benissimo, è scoppiata a ridere maliziosamente. «Alors! Ne me parlez pas des amusements de Varsovie! Il n’y a que Paris où l’on savait se régaler; mais je n’y ai remis le pied depuis le changement de dynastie»;45 poiché essa chiama così la Rivoluzione, la decapitazione di Luigi XVI, l’usurpazione di Bonaparte e altre bagattelle. «È vero», ha proseguito, «ogni inverno faccio il viaggio di Vienna, e anche laggiù, lo ammetto, qualche volta ci si diverte; ma qui! Giuro che mi basta sfogliare la “Gazzetta elegante” e l’elenco degli spettacoli, per sentirmi sprofondare nella noia.» Qualcuno, per compiacere la marescialla, ha commentato che certo ai vecchi tempi tutto era diverso; essa tuttavia, con un guizzo di malizia, ha voluto contraddire lo sprovveduto adulatore. «Mio caro, non creda che al tempo dei nostri padri fosse tutt’oro. In società, almeno, oggi si può parlare con persone di spirito. Noi, invece, eravamo di una credulità tale che oggi potreste difficilmente figurarvela. Ai miei tempi si credeva a tutto! Proprio per questo, d’altronde, eravamo più felici di oggi.» «E a che cosa si credeva dunque?» ho chiesto con un sorriso. La vecchia principessa mi ha guardato ancor più maliziosamente. «In primo luogo, si credeva alla Provvidenza, il che semplifica molte cose; poi si credeva al Paradiso, e ciò permette di sopportare molti dispiaceri. Si credeva alla virtù e alla capacità di resistere alle tentazioni, perché i romanzieri non avevano ancora decretato che una tale resistenza è superflua, e che la passione giustifica ogni follia. Si prestava fede ai miracoli, si credeva all’amore disinteressato, alla fedeltà in amicizia, si credeva perfino alla riconoscenza!» La principessa si interruppe, fiutò una presa di tabacco, poi vedendo che tutti la circondavano in attesa riprese con gusto: «Poi, dopo le credenze serie venivano le credenze amabili e superflue, quelle di cui ci si vergognava e che era de rigueur denunciare al prete in confessione. Si credeva ai filtri, agli oroscopi, ai presentimenti, alle zingare che leggono la fortuna, agli astrologi, ai fantasmi… Come ci si divertiva! Oggi le teste fortemente organizzate, gli spiriti profondi e positivi, non vogliono più credere a niente, o tutt’al più credono alle salite e alle discese in Borsa: e sa Dio se sia una credenza meglio fondata!».

Quando la principessa marescialla si è ritirata nei suoi appartamenti, il figlio del padrone di casa, il conte Alessandro, e sua moglie, la contessa Anna, mi hanno accompagnato a visitare il giardino. La loro conversazione era assai meno gaia di quella della vecchia signora, giacché la contessa, che passa per una delle belle donne di Varsavia, è, temo, un’ardente patriota polacca, e neppure in presenza di un forestiero proveniente da Berlino ha saputo trattenersi dallo sfogare i suoi sentimenti. «È vero», ha detto con un sorriso adorabile, «è vero, signor Pyle, quello che scrivono i giornali, che i negoziati di pace tra l’Inghilterra e la Francia si danno per falliti, e che anche lo zar ha rifiutato di ratificare il trattato di Parigi?» «È vero, signora», ho risposto, «o almeno tutto lascia credere che lo sia.» «Che la Santa Vergine sia ringraziata! Se sapeste quanto ho temuto che Napoleone s’intendesse con la Russia, e che la Polonia diventasse il regalo destinato a garantire il buon accordo dei due imperatori!» «Credete dunque che il dominio russo sarebbe più duro di quello prussiano?» La contessa ponderò seriamente la risposta; poi dichiarò che il dominio prussiano le appariva semplicemente spregevole, ma che non riusciva ad averne paura. «Come si può aver paura di ufficiali e funzionari che ricevono dal loro re uno stipendio meschino, che si mostrano in pubblico con gli abiti lisi, che non osano ricevere per non mostrare la povertà delle loro abitazioni, e che debbono contare ogni tallero per esser sicuri di arrivare alla fine dell’anno senza indebitarsi?» «Ciò dipende, mia cara», s’intromise sardonicamente il conte, «dal fatto che tu sei stata abituata fin da bambina a vivere nello sfarzo senza preoccuparti del denaro per pagarlo.» «Ma niente affatto! Dipende invece dalla meschinità e miseria di questi signori. Se vi dico che ho trovato dei capelli nella minestra ogni volta che per mia disgrazia sono stata costretta a pranzare alla residenza del governatore!» dichiarò allegramente la contessa. «Ecco dunque messi a posto i prussiani. Ma i russi?» la stuzzicai. Inaspettatamente, la sua espressione divenne grave. «Quelle horreur!» esclamò. «Ho veduto i russi una volta soltanto in vita mia; dico i russi veri, del popolo, e in molti tutti insieme. Ero ancora una bambina, e il povero re Stanislao era prigioniero al castello di Grodno, dove abitavo con la mia famiglia. Ricordo ancor oggi lo spavento che mi incutevano i soldati russi incaricati di sorvegliarlo! Mi pareva, ecco, che non fossero neppure uomini, ma automi, animati da chissà quale volontà malvagia; nei loro volti brutali si leggeva ch’essi non conoscevano altra legge se non lo knut né altro scopo nella vita se non il vino. Quelle guardie sconvolgevano a tal punto la mia immaginazione infantile che avrei voluto chiudermi a chiave in camera mia, e nascondermi sotto il letto per non incontrarli; ci voleva tutta l’autorità di mia madre per costringermi a uscire in giardino, e ancora ciò non accadeva mai senza resistenza e senza lacrime!»

«Ecco, dunque», riepilogai «sistemati al primo punto i prussiani, e al secondo i russi; i conti tornano. Ma non pensa la signora contessa che potrei riferire queste sue opinioni a Berlino?» A queste parole la poverina ha spalancato gli occhi con tanta sorpresa e costernazione che ho dovuto affrettarmi a confessare di aver scherzato. «Al contrario» ha interloquito il conte Alessandro, «qualche mese di fortezza non potrebbe farle male, e del resto è nella tradizione della famiglia. Papà» ha proseguito rivolto alla moglie «ha soggiornato nella fortezza austriaca dello Spielberg; è ora che la nuova generazione sperimenti le fortezze prussiane, Spandau per esempio. Che ne dici?» «Che spavento! Davvero mi lasceresti tutta sola nelle segrete di qualche fortezza, al freddo e al buio, con soltanto i ragni a farmi compagnia?» esclamò la contessa, ingenuamente impressionata. «Ma mia cara», replicò in tono cortese il conte, «ciò non dipenderebbe affatto da me, bensì dal governo.» «Ma io non potrei mai vivere così lontana da te! Morirei di struggimento!» «In un romanzo, forse» replicò il conte, ancor sempre sullo stesso tono di freddo umorismo. Poi guardò l’orologio, e dichiarò che s’era fatto tardi, aggiungendo con un piccolo inchino che l’umidità della sera non giovava alla sua salute. «Signor Pyle», esclamò la contessa rivolta verso di me, «la prego di credere che mio marito non si comporta sempre così con me, ma solo in presenza di estranei, giacché ha orrore di lasciar trasparire i suoi sentimenti. Anche la sua salute» proseguì poi, dopo aver risposto con un sorriso innamorato al marito che si congedava «esige ch’ella rientri?» Naturalmente ho risposto di no, e così abbiamo proseguito la passeggiata sotto le volte dell’Orangerie, nel profumo intenso delle arance e dei limoni.

Nel parco, nonostante l’ora avanzata, si aggirava un gran numero di visitatori; e poiché mi pareva impossibile che tutti costoro fossero ospiti al castello, ne ho chiesto spiegazione alla contessa. Con orgoglio, essa mi ha informato che suo suocero ha voluto aprire il parco al passeggio di tutti i cittadini. «È una decisione che gli fa onore» ho osservato «e veramente regale, poiché so che qui da voi in Europa i palazzi e i giardini dei re sono quasi sempre aperti al pubblico; temo che ben pochi, in America, sarebbero così liberali da lasciar entrare in casa propria chiunque ne abbia voglia.» «Certo» ha convenuto la contessa, «questa potrebbe apparire una specie di servitù, perché in fondo quale libertà è più desiderabile di quella di stare in pace in casa propria? Non avere una vita privata è la condanna dei re, ed è vero che aprendo i cancelli di Willanòw agli abitanti di Varsavia mio suocero ha in qualche modo rinunciato alle comodità di un privato cittadino, dimostrando che nelle sue vene scorre il sangue dei re di Polonia; se il governo prussiano non fosse così stupido, dovrebbe esser messo in allarme da un gesto cosiffatto. Eppure, quanto a me, non lo avverto affatto come una costrizione; anzi, mi dà un senso di libertà sapere che il luogo in cui passeggio è aperto alla ricreazione del pubblico. Anche il soggiorno di Varsavia mi sarà tanto più grato quando la cinta muraria verrà finalmente abbattuta; ma ciò potrà accadere solo quando i polacchi saranno liberi e forti, e non dovranno più aver paura dei tedeschi o dei russi.» «È vero» ho osservato «che abitare una città cinta di mura, e dover presentare il passaporto alle guardie ogni volta che si esce, non foss’altro che per una passeggiata, è opprimente, e credo che nessuno più ne tragga una sensazione di sicurezza, come immagino accadesse nei tempi andati. Da noi, in America, nessuna città è murata, e chiunque può andare liberamente dove più gli piace; ma i governi europei hanno troppa paura l’uno dell’altro.» «Eppure anche qui in Europa abbiamo imparato a non ragionare più come i nostri antenati» ha replicato la contessa. «Queste mura, queste porte guardate a vista dai soldati non fanno più per noi. Già non riusciamo quasi più a farci un’idea del tempo in cui ogni piccola città doveva avere le sue mura e i suoi fossati, ogni maniero veniva costruito in mezzo a una palude e ai più piccoli castelli si accedeva solo per un ponte levatoio. Là dove la libertà fa sentire il suo influsso benefico, le grandi città demoliscono i loro bastioni, i fossati dei castelli vengono colmati, le città non sono più che grandi borgate; così è accaduto in Francia, come assicurano tutti i viaggiatori che provengono da quel paese; e chissà che i francesi non portino quest’usanza anche da noi.» «È forse per lo stesso motivo» ho aggiunto «che i giardini alla francese o all’italiana non sono più di moda, e che chiunque oggi preferisce passeggiare in un bosco, piuttosto che nel più bello dei giardini di Lenôtre.» «È vero!» ha esclamato la contessina. «Nessuno si sente più a suo agio in un giardino che non abbia l’aspetto dell’aperta campagna; nulla deve far pensare a un artificio o a una costrizione, vogliamo respirare in assoluta libertà.» Così dicendo, la contessa accarezzava con le dita un medaglione che portava al collo; col pretesto di osservarlo da vicino mi sono chinato su di lei e ho annusato il profumo che saliva dai suoi seni, e in quel momento avrei potuto dire, col Salmista, “lumbi mei impleti sunt illusionibus”.46 Essa ha riso e ha aperto il medaglione, mostrandomi il suo contenuto: una miniatura in cui ho dovuto riconoscere il ritratto del marito, e una ciocca di capelli che, come essa mi ha confermato, appartenevano al medesimo gentiluomo. «Vedo, signora» ho mormorato «che amate molto vostro marito.» «Oh, sì!» ha esclamato sgranando gli occhi, con un’ingenuità così disarmante che non ho potuto insistere seriamente a farle la corte, come pure non mi sarebbe dispiaciuto. «Ebbene, io ho avuto spesso fortuna nella mia vita, sopporterò meglio che potrò questa disgrazia» ho concluso scherzosamente; poi le ho baciato la mano e sono andato in cerca del padron di casa, poiché era ormai tempo di congedarmi e riprendere la via di Varsavia.

Martedì, 9 settembre

Stamattina il mio domestico di piazza, cui avevo comandato fin dal primo giorno di portarmi tutti i giornali su cui avesse potuto mettere le mani, è arrivato trionfante con il “Moniteur” del 28 agosto, già tagliuzzato dalla censura, e tuttavia sufficiente a risvegliare la mia curiosità, poiché è ben raro che i giornali stranieri giungano qui con tanta tempestività. Dal giornale ho appreso che Pinkney e Monroe hanno avuto il loro primo colloquio con i lords Holland e Auckland; notizia di nessun interesse per il censore prussiano che l’ha lasciata passare, ma preziosa per me, poiché significa che il nostro affare è bene avviato. Letto e riletto questo articolo, mi stavo dedicando al passatempo ormai consueto, di cercar d’indovinare cosa mai poteva essere stato stampato nei riquadri lasciati vuoti dalle forbici, quando la mia curiosità è stata soddisfatta nel modo più inaspettato. Il domestico, infatti, è venuto ad annunciarmi che un signore chiedeva di me, e subito dopo è entrato il conte Potocki, l’anziano voglio dire, ancor più cordiale di ieri all’aspetto; tanto che mi sono chiesto perché mai dovesse mostrarsi così contento di vedermi. Accennando al giornale che avevo lasciato abbandonato sulla poltrona, il conte si è fregato le mani, e ha esclamato: «Mio caro, le ho portato un regalo!». Ha cavato di tasca una carta spiegazzata, e, meraviglia!, era per l’appunto uno degli articoli mancanti, contenente la notizia che il plenipotenziario prussiano, barone Jacobi, dopo molto inutile temporeggiare ha lasciato Londra fin dal 14 agosto. «Oh, gran Giove!» ho esclamato. «Ma allora, la buona volontà inglese, il progettato invio di lord Moira, o di lord Morpeth, non ricordo più, insomma la decisione da entrambe le parti di porre fine a questa ridicola guerra fra Inghilterra e Prussia, ora che si profila all’orizzonte la guerra vera, tutte parole al vento?» «Non ne so più di lei», ha ribattuto il conte, «ma ho comunque pensato che le avrebbe fatto piacere saperlo, e così glie l’ho portato.» «Grazie! Ma a proposito, come mai…» Mi interruppi, parendomi indelicato chiedere di svelarmi per quali vie egli entrava in possesso degli articoli censurati; ma il conte mi aveva già prevenuto. «Direttamente dall’ufficio della censura, mio caro. Sa, abbiamo i nostri mezzi. Ma non vada poi a raccontarlo!» esclamò sorridendo, e dimostrando così di non avere più senso politico della sua deliziosa nipote. Dopo aver reiterato i ringraziamenti m’informai della salute della contessina; e scoprii che il vecchio gentiluomo era venuto a parlarmi proprio di lei.

«Mio figlio, sventatamente, le ha detto che io sono frammassone e membro del Grande Oriente» cominciò. «E Anna, che è naturalmente curiosa, ha una gran voglia di penetrare i sacri misteri. Con le sue moine mi ha costretto a descriverle il rituale d’iniziazione, di cui ho volutamente esagerato l’orrore, nella speranza di disgustarla; le ho parlato delle tenebre e delle fiamme attraverso cui bisogna aprirsi il cammino, delle finestre per cui si è costretti a gettarsi nell’abisso, dei chiodi su cui si è obbligati a camminare scalzi, ed essa beve ogni cosa fremendo di paura, ma bruciando di curiosità. Infine mi sono risolto a tenderle una trappola che la guarisca per sempre da queste smanie, e il suo arrivo a Varsavia, mio caro, è ciò che aspettavo per mettere in atto il mio piano, se vorrà aiutarmi.» Deliziato da ciò che quell’inizio prometteva, l’ho pregato di continuare. «Non è stato difficile far credere ad Anna che da qualche tempo si tengono riunioni straordinarie per ascoltare un celebre illuminato giunto qui in segreto, e che nel timore che il governo ci scopra è necessaria la più assoluta discrezione. Mia moglie, che ha fatto sembiante di raccontarle tutta la storia col più grande segreto e a mia insaputa, le ha imposto di non dire una parola a questo proposito, neppure a suo marito.» Mi sorpresi a chiedermi se quei degni genitori avessero fatto bene o male insegnando a una sposa così giovane ad aver dei segreti per suo marito, ma non ebbi agio di concludere questa speculazione morale, poiché il conte proseguiva, con la malizia nello sguardo: «Ogni mattina io faccio un giro in carrozza chiusa, sempre alla stessa ora, seguendo il consiglio dei medici, poiché la mia salute si è fatta delicata. Stamattina Anna mi ha accompagnato, ed io ho fatto le viste di essere immerso in pensieri profondi e gravi preoccupazioni; essa non ha resistito e mi ha interrogato, facendomi capire di essere al corrente delle mie angustie. Ho mostrato di non crederle, e ho aggiunto con tono casuale: “Se non foste così giovane, e se potessi contare su una discrezione assoluta, vi racconterei delle cose sorprendenti!”. Essa ha pregato, ha supplicato, si è spinta fino a giurare, cosa di cui a quest’ora, credo, avrà provveduto a confessarsi, ed io l’ho informata che un illuminato esperto nelle scienze occulte si trova nascosto in uno dei sobborghi; e che ogni sera io e molti altri confratelli ci riuniamo per ascoltare dalla sua bocca i segreti più straordinari». Poiché cominciavo a vedere dove la faccenda avrebbe condotto, mi permisi un breve sorriso. Il conte sorrise a sua volta e proseguì: «Per farla breve, mia nuora mi ha assicurato di essere disposta a qualunque sacrificio pur di essere accolta nel nostro cenacolo; e con gran fatica mi ha strappato l’ammissione che mediante un forte esborso di denaro, necessario all’illuminato per le sue attività filantropiche, potrebbe sperare di essere ammessa a oltrepassare la soglia del santuario, se non a essere iniziata a tutte le meraviglie che solo gli adepti sono degni di conoscere. Prima di pranzo essa è venuta nel mio gabinetto con una borsa contenente tutti i suoi risparmi, e ha ottenuto in cambio una mezza promessa che stasera la condurrò con me, sotto la mia responsabilità. Ora, amico mio, dipende da lei far sì che la sua attesa non venga delusa!». E dopo questa esclamazione procedette a mettermi al corrente di un piano così graziosamente architettato che non potei assolutamente negargli la mia collaborazione.

La sera, secondo gli accordi presi, l’intera famiglia venne a prendermi all’albergo, apparentemente coll’intenzione di andare a teatro. La contessina era vestita da sera, ma con uno sfarzo degno piuttosto di una presentazione a corte, e portava i suoi gioielli più sontuosi. Andai nella loro carrozza fino al Teatro francese, e salii nel loro palco, dove restammo per forse un’ora, senza che nessuno di noi badasse minimamente allo spettacolo. Finalmente il conte fece alla nuora il segnale convenuto, ed essa cominciò a lamentarsi del caldo, pretendendo di voler tornare a casa. Subito il suocero si offrì di ricondurla, e le diede il braccio per uscire. Nel cortile del teatro era già in attesa una carrozza con le lanterne spente, condotta da un cocchiere senza livrea, per dare alla messinscena la maggior verosimiglianza d’intrigo. Mentre il conte e la contessina partivano per un lungo e inutile giro per le strade di Varsavia, destinato a ingannare la donna, tremante d’impazienza dietro le cortine tirate, sulla reale meta della gita, io uscii a mia volta da teatro e mi feci condurre al palazzo del conte, dove gli altri congiurati avevano preparato la scena secondo l’accordo. Al secondo piano, negli alloggi dei domestici, era stata allestita una grande camera disabitata: al centro, una tavola coperta da un panno nero; una piccola lampada appoggiata sulla tavola costituiva la sola illuminazione. Fra le risate degli iniziati vestii una lunga palandrana ricamata, che il conte doveva aver riportato da qualcuno dei suoi viaggi d’Oriente, calzai una parrucca bianca generosamente incipriata, e inforcai un enorme paio di occhiali. Si sentiva già il rumore della carrozza sull’acciottolato del cortile quando un domestico portò di corsa uno scrittoio di legno, una pila di enormi in-folio e una testa di morto, per completare l’arredamento. Presi posto al tavolo, mentre tutti si ritiravano nella sala adiacente e già si sentiva lo scricchiolio della porta d’ingresso che si apriva. «Silenzio!» disse una voce a pianterreno, che riconobbi per quella del conte. «La minima indiscrezione ci perderebbe tutti!» «Ah!» replicò la vocina della contessa, «quanto sono assurdi i governi, a perseguitare così la scienza!» Il conte la zittì e si allontanò, lasciandola sola nell’anticamera buia. Quando giudicò che la povera donna fosse rimasta abbastanza a lungo a tormentarsi, tornò da lei accompagnato da un domestico in livrea nera, che portava una lanterna cieca; e con quell’insufficiente aiuto cominciarono a salire la scala. La salita era faticosa, la scala stretta e ripida, ma infine i tre giunsero nel vestibolo; qui il domestico si inchinò in silenzio e scomparve, lasciandoli al buio. «Ora» disse il conte «darò il segnale convenuto»; e bussò tre volte alla mia porta. Lasciai passare qualche istante, e risposi, sforzandomi di rendere la mia voce il più possibile sepolcrale: «Entrate, fratello!». La porta si aprì, e i due postulanti entrarono. La contessa tremava come una foglia e si aggrappava al braccio del suocero. Io feci le viste di leggere, senza nemmeno alzare gli occhi su di loro. «Maestro!» disse infine il conte, ed io alzai la testa, muovendomi con fatica, come un vecchio decrepito. «Ecco la giovane donna che le ho annunciato; il suo cuore trabocca di carità, e il suo spirito è avido di luce; ma poiché non sa ancora né il greco né il latino, che il Maestro si degni di parlarle in francese.» Allora mi volsi verso la contessa e la fissai a lungo attraverso gli occhiali. «Qu’est-ce que vous désirez, ma soeur?»47 chiesi infine, in tono grave. Credo che in quel momento essa non desiderasse altro se non di ritrovarsi nel suo salotto, con i candelabri accesi, e circondata dai suoi amici; ma cercò di non lasciar trasparire la paura, e gettò uno sguardo di supplica al suocero. «Ella sa che il Maestro domina la natura, che la sua profonda scienza gli consente di tutto conoscere, e che gli spiriti sono ai suoi ordini. Ella vorrebbe dunque intravvedere uno di quei prodigi che sono familiari a Vostra Sublimità» mormorò umilmente il conte. Io chinai il capo, e finsi di immergermi nella meditazione. La contessa, che si era avvicinata fino al tavolo, allungò la mano per aprire uno degli in-folio. «Non toccate!» ruggii. «Vedreste là delle immagini tali da agghiacciarvi il sangue; i profani non possono conoscere senza pericolo ciò che rinchiudono i miei libri.» La frase era un po’ lunga, e sentii con sgomento che essa si chinava all’orecchio del suocero e sussurrava: «Ma questa voce, mi pare di conoscerla!». «Io credo che anche voi, come me, l’abbiate già udita in sogno» rispose il vecchio, con una semplicità che mi riempì di ammirazione. «Che cosa dice la sorella?» chiesi. «Ammira il suono grave e maestoso della voce del Maestro» rispose il briccone, ed io mi trattenni a stento dal ridere. Mi inchinai e proseguii: «Poiché il fratello lo esige, e risponde di voi, sorella mia, parlate arditamente: che cosa desiderate vedere? Le bestie dell’Apocalisse, i morti, o gli amici assenti?». «Gli assenti» si affrettò a rispondere la poveretta, come avevamo previsto. «Vi avverto» ripresi «che il mio potere non si estende al di là dei mari, e non agisce che a una distanza di dodicimilaseicentoquaranta leghe. Chiedete dunque ciò che volete veder comparire!» La poveretta, poiché tutti i suoi conoscenti si trovavano riuniti in un solo punto del globo, mi fece grazia di oltre dodicimila leghe, e chiese di vedere sua madre, suo marito e un’amica. «Va bene», ripresi, secondo l’accordo, «ma poiché non siete ancora un’adepta, non potete assistere alle cerimonie preparatorie. Ritiratevi dunque per il momento nella camera vicina.» Il conte la ricondusse, benché riluttante, nel vestibolo freddo e buio, e lì la lasciò sola per dieci minuti, nel corso dei quali credo che essa si sia dapprima appoggiata contro la porta nel vano sforzo di intendere qualcosa, e poi abbia pregato il suo angelo custode di proteggerla. Nel frattempo si finiva di preparar la mistificazione. La parete di fondo della sala era interamente coperta da una tenda nera, e accanto ad essa era stato collocato un enorme specchio convesso, montato in una gran cornice di legno. Dietro la tenda si apriva una seconda saletta, dove erano in attesa gli altri congiurati; e fra una sala e l’altra, su un piccolo rialzo egualmente dissimulato dalle cortine, era stato costruito un palco tappezzato di raso rosso, che ricordava quello del Teatro francese da cui eravamo partiti poche ore prima. In fretta sollevai la tenda e avvertii la contessa madre, il conte Alessandro e la damigella della parte che erano chiamati a impersonare. Subito i tre presero posto nella loggia, mentre si accendevano bracieri colmi d’incenso; la tenda ricadde e il conte Stanislao andò ad aprire la porta e introdusse la nuora. «Sorella» dissi con voce grave, dopo essere tornato sul mio scranno, «il vostro desiderio sarà soddisfatto! Ma vi avverto che se solo fate un passo, se profferite un motto, l’incantesimo sarà spezzato, e tutto si dissolverà. Ora guardate attentamente nello specchio, vedrete coloro che vi sono cari, e nel luogo medesimo in cui sono a quest’ora.»

Pronunciando queste parole battei le mani tre volte. La cortina nera si aprì e la contessina vide riflessi nello specchio, in mezzo ai vapori d’incenso, il palco che aveva appena lasciato, e le tre persone evocate, che avevan l’aria di ascoltare attentamente, come se la commedia non fosse ancora terminata. Per la sorpresa non poté trattenere un’esclamazione. La tenda ricadde, e in quel momento si udirono distintamente, dietro di essa, delle risa soffocate. «Ebbene!» disse il conte, senza perdere la sua presenza di spirito, «vi siete mostrata così valorosa, che non c’è più modo di rifiutarvi un’iniziazione completa a tutti i sortilegi esercitati in questa casa. Venite!» E prendendola per un braccio la trascinò verso la tenda misteriosa, aprendola d’un colpo. Allora si vide, non più attraverso i vapori, ma alla luce dei candelabri, una tavola apparecchiata, attorno alla quale la compagnia riunita cenava allegramente. Tutti si alzarono, circondarono la poveretta e le chiesero cosa pensava di quelle meraviglie. La contessina non poteva rispondere, e si vedeva che non sapeva discernere la verità dalla finzione. «Ma dove siamo?» chiese infine. «A casa, nelle stanze dei domestici!» rise suo marito. «Ti hanno fatto fare mille giri, siete perfino usciti dalla città.» «E questo ingresso misterioso?» «La scala di servizio, da cui non sei mai passata.» «E l’illuminato?» proseguì la giovane disperata, come a cercare un’estrema conferma dell’illusione che andava sgretolandosi sotto i suoi occhi. Allora mi strappai la parrucca, gettai via gli occhiali e la zimarra, e mi inchinai profondamente. «Il signor Pyle!» esclamò la contessa, portandosi le mani alla bocca. «Ma allora! E il vapore?» «Incenso.» «E il palco?» «Cartapesta.» «E i grossi in-folio che era proibito toccare?» «Gli Acta Sanctorum dei Bollandisti.» «E questa cena?» «I vostri cento ducati destinati alla beneficenza dell’illuminato» concluse il suocero, con un inchino crudele. Confesso che mi aspettavo una sfuriata, o almeno un attacco di nervi; ma con mio gran sollievo la contessa Anna, dopo essere rimasta un istante in silenzio, scoppiò a ridere con una risata così argentina da dissipare all’istante tutti i miei timori, e dichiarando che dopo tutti quegli spaventi le era venuta una gran fame sedette allegramente a tavola con noi.

A cena, esauriti gli scherzi alle spalle della nostra vittima, non si è parlato che di politica, e ognuno ha cercato vanamente di indovinare quali temporali si preparino ancora nel cielo d’Europa. «Lo zar, avendo rifiutato di ratificare il trattato di pace con la Francia, pare ora intenzionato a mandare un nuovo esercito in Occidente, né si sa se otterrà il passaggio attraverso la Galizia o la Prussia polacca» ha osservato il conte Stanislao. «Anche i negoziati di lord Yarmouth a Parigi sono falliti», ho aggiunto, «perciò è da attendersi un ravvicinamento fra Russia e Inghilterra; in queste circostanze, se a suo tempo si fosse posto fine allo stato di guerra fra Inghilterra e Prussia, il re Federico Guglielmo non avrebbe motivo di non concedere il passaggio alle truppe dello zar, e anzi di unirsi ad esse.» «Tanto più» ha aggiunto un bene informato «che la canaglia di Berlino tumultua per spingerlo alla guerra; sapete che una notte, mentre Haugwitz era a cena, tutte le finestre di casa sua sono state infrante a sassate, da gente pagata, a quanto si dice, da quel degno principe Louis.» «Senonché al contrario» ho proseguito «le relazioni fra Londra e Berlino non sono mai state così gelide, e questo mi fa credere che la Prussia, premuta da due parti, finisca per scendere in campo al fianco di Bonaparte.» «Dio non voglia!» ha esclamato la contessa. Sorpreso da quell’uscita, ho obiettato che conoscendo i suoi sentimenti, mi sarei aspettato di trovarla piuttosto partigiana dell’alleanza con la Francia. «Ma non è questo!» ha esclamato la contessa. «È che in tal caso Napoleone non potrebbe più togliere al Prussiano la Polonia e ridarle la sua indipendenza, senza macchiare il suo onore!» «E Napoleone, lo sappiamo, è un uomo d’onore» ho mormorato, ma nessuno mi ha ascoltato. «Preferiresti forse» ha ripreso il conte Alessandro, rivolto alla moglie «che Napoleone si accordasse con la Russia per schiacciare la Prussia, e regalare Varsavia al Moscovita?» «Naturalmente no!» ha ribattuto la donna con vivacità. «Quel che desidero, è che il re e lo zar facciano la guerra insieme contro Napoleone, e vadano incontro a un’altra Austerlitz, e allora vedremo se l’Europa avrà cuore di non prestare ascolto alle nostre legittime richieste!» Il conte, che possiede evidentemente un altro concetto del buon cuore dell’Europa, ha sorriso, abbassando il capo sul piatto; e suo padre, come per distrarre la mia attenzione da quei discorsi arrischiati, mi ha rivolto la parola. «Signor Pyle, poiché viaggiare non la spaventa, se prima di ritornare a Berlino lei volesse concedersi un piccolo détour, a nemmeno due giornate di viaggio da qui potrebbe discorrere delle intenzioni della Russia col principe Czartoryski in persona.» La prospettiva di un abboccamento con l’uomo che fino a pochi mesi fa era il più potente fra i ministri dello zar mi è parsa un’occasione da non perdere, e ho pregato il conte di spiegarsi meglio. «A due giornate di viaggio da qui» ha ripetuto, «oltre il confine austriaco, sorge il castello di Pulawi, che appartiene al vecchio principe Czartoryski, padre del principe Adam; e ho notizia che quest’ultimo, dopo aver rassegnato le dimissioni dal ministero, ha lasciato Pietroburgo e si trova ora in famiglia. Col suo permesso, sarei lieto di offrirle una lettera di presentazione per quei signori.» Poiché il soggiorno di Varsavia non mi pare poi così fruttuoso, ho deciso su due piedi di seguire il consiglio del conte, e così stasera sono tornato all’albergo avendo in tasca le lettere che mi apriranno le porte del palazzo di Pulawi, e i misteri della politica russa.

Mercoledì, 10 settembre

Oggi sono andato a chiedere i passaporti al signor von Buchholz, che ha promesso di farmeli avere domani; poi mi sono fatto portare dai miei banchieri, Messrs. Grossman e Loewenthal, per incassare una lettera di cambio. Come avrei dovuto immaginare considerando la ragione sociale della ditta, costoro hanno i loro uffici nel quartiere degli ebrei, dove del resto risiedono tutti i banchieri e i cambiavalute di Varsavia; anche se a giudicare dalla miseria che si scorge da ogni parte si potrebbe credere che mai, neppure per sbaglio, una moneta d’oro sia capitata in quel luogo. Non si può passare a piedi sull’acciottolato senza esser costretti a farsi largo con la canna tra innumerevoli bambini pidocchiosi, cani, porci e capre; e le ragazze di strada, affacciate a ogni finestra e appoggiate a ogni cantone, quando ne hanno voglia pisciano in pieno giorno negli scoli, come non ho visto fare nemmeno nelle strade più lerce di Londra o di Berlino. I miei banchieri hanno i loro uffici in una delle case meno indecorose del quartiere, e alla loro porta un lacchè armato di una mazza poderosa tiene lontani cani, bambini e mendicanti, permettendo ai visitatori di smontare dalla carrozza senza essere circondati da una folla molesta. Poiché manco da casa da tre mesi, mi ero quasi aspettato di trovare lettere dei miei amici; ma sono rimasto deluso, non trovandone alcuna. Il seguito dell’incontro si è rivelato ancor più deludente, poiché farsi pagare in oro è impossibile, e per avere l’argento bisogna rassegnarsi a pagarlo più del suo valore; del resto qui tutti i commerci, anche i più sordidi, si svolgono a forza di carta moneta. Fatti i conti col banchiere, Mr. Grossman, sono ripartito con una borsa di monete in tasca, con un fascio di biglietti di banca prussiani e austriaci nel taschino del panciotto, e con qualche inquietudine in più sullo stato delle mie finanze, cui dovrò dedicare maggior attenzione di quanto non abbia fatto finora. Trovo veramente meschino che il governo, anziché accordarmi i 4.500 dollari che costituiscono il trattamento ordinario di un ministro residente, me ne abbia concessi soltanto due terzi, con la scusa che nella mia qualità di inviato straordinario non dovrò andare incontro alle stesse spese di rappresentanza: sicché se non fossi rassegnato a spendere del mio mi toccherebbe vivere con una somma non superiore alla rendita annua di un qualunque capitano prussiano.

Rimuginando questi pensieri sull’avarizia del governo, stavo per ordinare al cocchiere di condurmi fuori dal ghetto quando mi sono sentito sprofondare, e ho urtato dolorosamente la nuca contro il legno; l’uomo, bestemmiando, è saltato giù di serpa e mi ha aiutato a scendere, poi si è chinato sotto il veicolo e mi ha comunicato che l’asse posteriore si era rotto. Maledicendo, questa volta, la mia avarizia e non più quella del governo, ho giurato che la prossima volta non mi lascerò più convincere a comprare una macchina usata, a costo di spendere il doppio. Frattanto Mr. Grossman, richiamato dal trambusto, è accorso e vedendo che sanguinavo leggermente ha preteso a tutti i costi che lo seguissi nel suo ufficio, dove un commesso mi ha medicato con acqua canforata. Poiché, a giudizio del cocchiere e di un falegname subito mandato a chiamare, sarebbero occorse non meno di tre o quattro ore per la riparazione, volevo prendere una vettura di piazza e farmi riportare all’albergo; ma il banchiere, che a dire il vero mi pareva un vecchio pulito e rispettabile più di quanto non siano di solito quelli della sua razza, ha insistito affinché salissi a casa sua, al piano di sopra, a prendere un cordiale, e dal momento che ero alquanto scombussolato per la contusione ho finito per accettare.

Mr. Grossman abita una decorosa casa borghese, ed è servito in tutto da due belle figlie, modeste e silenziose come, credo, nessun’altra ebrea di Polonia. Ogni pregiudizio che potevo nutrire al momento di varcare la soglia, dopo aver sperimentato la sporcizia e l’ignoranza in cui vivono in questo paese i figli di Israele, si è dissipato di fronte alla cortese accoglienza che vi ho ricevuto. D’altronde lo stesso padrone di casa non ha esitato a riconoscere che gli ebrei, per la triste condizione in cui vivono, sono forse la razza più da compiangere in terra polacca, ma certo quella che meno si rende gradita alle altre. Essi soli esercitano il commercio, sono osti, cambiatori, medici, fornai, fabbricanti e venditori di birra, d’acquavite e d’idromele; essi soli sanno gestire in veste di affittuari le terre dei nobili, non però quelle della Chiesa: «Le Loro Eminenze» mi ha spiegato sorridendo benignamente «ritengono peccato nutrire un ebreo, e quindi affidano piuttosto i loro fondi ai contadini; e sebbene ne subiscano le conseguenze economiche, preferiscono sopportare ciò con pazienza cristiana». Il risultato di ciò è che gli ebrei, pur essendo in questo paese quasi i soli uomini di cui ci si può servire, sono odiati da tutti e ricambiano a loro volta questo odio con una cordiale, anche se mascherata, avversione per i cristiani fra cui, dopo tutto, sono ospitati. «Dio non voglia» ha sospirato Mr. Grossman «che la guerra raggiunga la Polonia, poiché non so che cosa sarebbe degli ebrei, se i soldati prussiani non fossero più in grado di mantenere l’ordine nelle strade, e la plebaglia dovesse sollevarsi!»

Mentre bevevo il mio cordiale il padrone di casa mi ha raccontato per sommi capi la storia della sua vita. Nato in un villaggio miserabile di ebrei lituani, educato nelle loro scuole per divenire rabbino, ha saputo con le sue sole forze, per citare le sue parole, «sottrarsi alle mistificazioni dei talmudisti e aprire l’animo alla vera filosofia»; fuggito dal paese natale e da un matrimonio combinato con la figlia del rabbino, ha vissuto a Dresda e a Berlino, impiegandosi presso Mr. Loewenthal, il vecchio, padre dell’attuale, e guadagnandone la fiducia fino a diventare il suo socio. Fra questi e altri discorsi è passato il mezzogiorno e l’ebreo ha creduto suo dovere di invitarmi a pranzo. Ho accettato per curiosità, ma debbo dire che me ne sono tosto pentito, perché di rado ho mangiato così male in vita mia. Il pranzo si componeva di una minestra sciapa, in cui nuotavano polpettine di carne dal sapore indefinibile; a ciò è seguito quello che essi chiamano nel loro tedesco storpiato il gefilte fisch, e cioè una carpa ripiena di non so quali misteriosi ingredienti, affettata e servita fredda: un cibo ripugnante di cui ho trangugiato con fatica una fetta, per non dispiacere alle belle figlie del mio ospite, che l’avevano preparato con le loro mani. I dolciumi levantini serviti col dessert, a base di miele e frutta secca, mi hanno almeno permesso di saziare la fame prima di alzarmi da tavola e congedarmi. Per quanto mi sforzassi di non lasciar trapelare la mia scarsa inclinazione per quelle vivande, Mr. Grossman se n’è accorto, e senza averne l’aria ha portato il discorso sulle difficoltà che gli ebrei incontrano per conservare le loro abitudini, dopo duemila anni di convivenza non sempre facile con i cristiani. «Come non comprendere» ha osservato con distacco filosofico «chi decide di farsi battezzare? Sempreché, beninteso, si tratti di una scelta motivata da un rovello sincero, non come quella di un certo ebreo di Lublino, di cui si è parlato non molto tempo fa… Non conosce la storia? Oh, è molto istruttiva. Questo ebreo si era convinto della verità della religione cristiana, e si era fatto battezzare. Ma la cosa era appena accaduta, che il nostro cominciò a essere visitato ogni notte dallo spettro della moglie, morta poco tempo prima. Essa appariva davanti al suo letto, tendeva le mani, lo guardava con i suoi occhi vuoti, e si lamentava di non aver pace nella tomba, poiché non era stata anch’essa battezzata. L’uomo cambiò abitazione, ma la defunta lo seguì, e continuò a svegliarlo ogni notte implorando di poter ricevere a sua volta il santo battesimo. Finalmente, per concedere all’infelice di riposare in pace, e per liberare il vivente da quelle spaventose apparizioni, le autorità civili e religiose decisero di aprire la tomba e battezzare sul posto il cadavere, ciò che in effetti avvenne. A partire da quell’istante lo spettro non si fece più vedere, e la defunta trovò l’eterno riposo.» «Mi sembra» dissi «una storia straordinaria.» L’ebreo mi guardò maliziosamente. «Oh sì, ma lo è ancor più il seguito! Poco tempo dopo il nostro uomo entrò in lite con la famiglia della moglie, che voleva rimettere le mani sull’eredità della defunta; ma il vedovo dimostrò trionfalmente in tribunale che poiché anch’essa era stata battezzata l’eredità spettava a lui, e vinse il processo!»

Mr. Grossman ha ragione, comunque, quando osserva che in questo paese non si può far nulla senza gli ebrei, neppure andare a teatro: stasera alla commedia si dava un melodramma francese, ma il soggetto era La rovina di Babilonia. La compagnia mi è parsa di terz’ordine, e sono rimasto sorpreso osservando che il pubblico approvava calorosamente la rappresentazione; tanto più che gli spettatori dei palchi, molti dei quali dovevano aver formato il loro gusto nei teatri di Vienna e di Parigi, non apparivano meno entusiasti di quelli del parterre. All’ingresso di Ciro il Grande gli applausi sono diventati assordanti, e il pubblico, in delirio, si è alzato in piedi, riservando una vera ovazione allo stupefatto attore che in scena, paludato con piume di struzzo e corazza dorata, impersonava quel gran personaggio; allora mi sono reso conto che nel fortunato conquistatore il pubblico riconosceva senz’altro Bonaparte, venuto a liberare i polacchi, come altrettanti ebrei, dalla loro cattività. Per la stessa ragione, il disgraziato re Nebonedo è stato fischiato senza pietà, come se fosse stato Federico Guglielmo in persona; ed è una fortuna che il copione non prevedesse al suo fianco una regina, perché non so di che cosa quella gente sarebbe stata capace. Molti ufficiali prussiani erano presenti in teatro, e anch’essi, come me, hanno tardato a rendersi conto di ciò che accadeva; quando finalmente l’hanno compreso, non sapevano però come dovessero comportarsi, e mentre i più si sono alzati e hanno senz’altro lasciato il teatro, qualcuno è rimasto al suo posto, sforzandosi di zittire i fischi e gli applausi, e gridando vanamente, in tedesco, che era una vergogna disturbare così lo spettacolo. Proprio sotto al palco in cui mi trovavo, un capitano dei dragoni, von Manstein, che avevo conosciuto in casa del governatore, era seduto accanto a un nobile polacco, fra i più scalmanati nell’applaudire Ciro e nell’ululare a ogni apparizione del sovrano babilonese. Nell’intervallo fra il terzo e il quarto atto il capitano, che fino a quel momento aveva fatto le mostre di non accorgersi di quel che accadeva attorno a lui, ha affrontato il suo vicino e gli ha chiesto a muso duro, in tedesco, che cosa significavano quei fischi. Il polacco gli ha risposto in tono canzonatorio nella propria lingua, come sono soliti fare costoro per beffarsi dei funzionari e degli ufficiali tedeschi; i polacchi infatti hanno una grandissima facilità per le lingue, sicché tutti i nobili parlano un eccellente francese, e quasi sempre, quando si degnano di farlo, anche un buon tedesco. Il capitano stava per togliersi un guanto e colpire in faccia l’insolente, quando una signora che si trovava nel mio stesso palco, sporgendosi sul parapetto a rischio di precipitare nel parterre, gli ha gridato che per carità la smettesse di comportarsi come un bambino, e venisse a raggiungerla; Manstein, riconoscendola, ha esitato un istante, poi senza una parola ha lasciato il suo posto ed è salito a raggiungerci. Quando è entrato nel palco, la signora, che evidentemente doveva tenere non poco a che il capitano non si facesse ammazzare, lo ha rimproverato aspramente per il duello che stava per provocare; e il marito della signora, un grosso funzionario col nastrino di una decorazione all’occhiello del frac nero, ha aggiunto i suoi rimproveri a quelli della consorte. Bisogna sapere che il governatore ha proibito qualsiasi duello fra gli ufficiali della guarnigione e i nobili polacchi, e benché il comandante della piazza, a quanto si dice, incoraggi tacitamente i suoi ufficiali a far fronte alle provocazioni senza timore delle conseguenze, il divieto è generalmente rispettato. Se così non fosse, del resto, ogni mattina si raccoglierebbe qualche morto nel parco Lazenski, abbattuto a sciabolate o trapassato da una palla, poiché lo scopo dei polacchi è visibilmente quello di provocare i tedeschi senza darsi pensiero delle conseguenze.

Il capitano è rimasto nel nostro palco fino alla fine dello spettacolo, essendo prevalsa l’opinione, fra gli occupanti, che sarebbe stata una dimostrazione di pusillanimità abbandonare il teatro a quel punto; più tardi, uscendo, gli ho chiesto se simili incidenti fossero già accaduti in passato. «Mai!» ha risposto, ancora pallido per la provocazione ricevuta; «mai! e se fossi il governatore, questi signori attori domani stesso sarebbero in viaggio per la fortezza di Graudenz.» «Ma via, caro amico!» ho ribattuto. «Quei disgraziati non hanno nessuna colpa, e son sicuro che nessuno di loro, nello scegliere il dramma per la rappresentazione, ha pensato al significato recondito che questi esaltati di polacchi avrebbero creduto di trovarci. Altrimenti, potete star sicuro che il censore non l’avrebbe lasciato passare!» «Può darsi» ha ammesso Manstein, dopo un istante di meditazione. «Ma quanto è avvenuto stasera non fa che confermarmi in quella che è diventata, da quando ho messo per la prima volta piede in questo disgraziato paese, la più ferma delle mie convinzioni; e cioè che se solo la Prussia potesse ottenere in cambio qualche compenso a occidente, sarebbe meglio cedere all’istante queste steppe ai russi, che almeno saprebbero come governarle.» «Voi servite qui da molto tempo?» «Cinque anni; e ancora non mi sono avvezzato all’arroganza e all’impertinenza puerile, meschina e indescrivibile dei nobili polacchi nei nostri confronti.» Ho osservato che di ciò avevo avuto ben modo di accorgermi io stesso, benché la mia nazionalità, non appena fatta palese, mi guadagnasse la più fraterna simpatia da parte loro. «Si capisce!» ha proseguito il capitano; «e ancora, qui a Varsavia debbo ammettere che queste canaglie hanno del fegato, e cercano briga a viso aperto; ma i nobili di campagna sono di una bassezza inimmaginabile. Io posso ben dirlo, perché sono stato di guarnigione due anni a Rogowo, un buco dove ci sono più ebrei che cristiani, e là il Signore deve avermi tenuto la mano sul capo, perché non ho ammazzato nessuno, ma sono andato cento volte a un passo dal farlo. In campagna i nobili non osano manifestare la loro ostilità a parole, perché sanno bene che dovrebbero risponderne con la spada, e là non ci sono editti del governatore che valgano, il comandante del reggimento è la più alta autorità dopo Dio; allora s’ingegnano di esprimere quel che pensano con certe smorfie e dei giochi di fisionomia, insomma con un modo di fare così villano come non ho mai incontrato altrove. Mai in vita mia, dico, sono stato trattato in maniera così insultante come da questi nobilucci polacchi, che mi guardavano dall’alto come se fossi stato una creatura di ordine inferiore, nel momento stesso in cui, a parole, dichiaravano la più servile devozione a me e al sovrano che servivo.» «Trovo poi comico» ho aggiunto «quest’incessante vantarsi di glorie trascorse, come se i polacchi fossero ancor oggi il terrore del mondo; allo stesso modo qualche contadino greco, che muore di fame con le sue capre e puzza quanto loro, potrebbe vantarsi con i suoi padroni, i turchi, delle glorie di Pericle.» «Apprezzo il paragone» ha sogghignato Manstein. «Ma forse è vero che, come sostiene qualcuno, dobbiamo perdonare a questi disgraziati la loro villania, come si fa con un bambino, che non ha ancora imparato a stare al mondo. Se si osservano i villaggi su cui essi regnano, questa umanità grigia e sporca che prolifera nelle sue capanne di fango come pidocchi sulla testa di un bambino tignoso, si dimentica il malumore e si è presi da pietà alla vista di un orgoglio così puerile.» «Ed è vero, come mi si dice» ho soggiunto «che questi stessi nobili così arroganti sono tutti, dal primo all’ultimo, indebitati con gli ebrei?» «È così, e non solo i nobili; credo che non ci sia un polacco che in vita sua non abbia dovuto almeno una volta presentarsi all’ebreo col cappello in mano, per farsi prestare qualche scudo, a un interesse vergognoso. L’intera esistenza dei polacchi è imprigionata in una rete di stracci e corde sfilacciate, i cui capi sono in mano agli ebrei: e quali ebrei! Sudici ebrei tedeschi, che pullulano come larve nella sporcizia e nella miseria, e che sono i veri padroni del paese.» «Eppure» osservai, ricordandomi dell’entusiasmo di Victoire, «si dice che in passato i polacchi siano stati un popolo nobile e bellicoso, capace di soggiogare la Russia e l’Ucraina e di salvare Vienna dai turchi.» «Così si legge nelle cronache» replicò il capitano; «ma ciò dev’essere accaduto prima che questi miserabili ebrei, cacciati dalla Germania come bestie nocive, venissero a vivere fra loro. Con gli ebrei, una sozzura senza rimedio si è impadronita della Polonia, e nessuno sforzo del governo servirà mai a nulla finché non si sarà posto un termine a ciò. Ho pensato mille volte che un fuoco purificatore dovrebbe distruggere l’intero formicaio, così che questo sudiciume infinito sia tramutato dalla fiamma in pura cenere.» «Per carità!» scherzai. «Pensate a che cosa vorrebbe dire, bruciare tutti quei materassi fradici, e quelle coperte impestate, e quegli stracci! Il puzzo del fumo arriverebbe fino in America»; e così ridendo lo salutai per salire in carrozza.

Giovedì, 11 settembre

Era ancora buio quando sono partito da Varsavia diretto a Pulawi, il castello del principe Czartoryski in Galizia. La stagione volge decisamente al freddo. Le paludi che costeggiano la strada fumigano sinistramente, impedendo la vista con le loro esalazioni. Al mattino la pianura è immersa nella nebbia, e l’umidità è così densa che sporgendo un dito fuori dal finestrino della carrozza sembra di toccare qualcosa di solido e bagnato. Viaggiare con questo tempo non mette certo allegria, e ancor meno allegro è l’incidente in cui mi sono imbattuto nell’ultima stazione di posta prima della Galizia austriaca. Appena entrati nel villaggio Will ha notato un assembramento in una viuzza fuori mano, e siamo andati a vedere. È risultato che un pazzo si era buttato dalla torre dove lo tenevano rinchiuso da anni, un vecchio rudere annesso un tempo a una casa signorile; il corpo giaceva lì sulla nuda terra, in attesa che le autorità provvedessero alle formalità necessarie. La gente raccoltasi ad assistere era ancor più misera del solito, i muri della torre diroccata si ergevano muti e freddi, le banderuole stridevano al vento, e insomma la tristezza era così intollerabile che si poteva ben capire il gesto del pazzo.

Al confine austriaco mi hanno chiesto il passaporto, ma si sono accontentati di dargli appena un’occhiata, domandandomi il mio nome e da dove venivo. Invece, poiché a Varsavia avevo dimenticato di far sigillare i bauli, hanno assolutamente preteso di perquisirli, ma un fiorino di mancia li ha convinti a sbrigarsi, senza disturbare troppo i miei abiti. Subito dopo la barriera la strada è diventata, se possibile, ancor più infame e il cocchiere più miserabile; diversamente dalla maggior parte dei cocchieri in Polonia, che sono nativi del paese e ad ogni istante si piegano in due davanti al viaggiatore, costui era tedesco e un giovinastro irrispettoso sotto ogni aspetto. Poiché un villano tardava a sgombrare le sue due vacche dalla strada per far passare la carrozza, gli ha dato una frustata in faccia, benché per parte sua si fosse ben guardato dal suonare il corno per avvertire; e ha sbuffato con disprezzo quando, indignato da quel procedimento, ho ordinato di fermare, mi sono affacciato allo sportello e ho buttato una moneta al contadino. Questo stesso galantuomo ha cercato di imbrogliarmi al momento di pagare il conto, credendo che non conoscessi la differenza tra fiorini d’argento e fiorini di carta, su cui invece il bravo Mr. Grossman mi aveva informato a Varsavia; e se n’è andato coi suoi cavalli solo quando l’ho minacciato col bastone.

A notte fonda sono giunto a Pulawi. Fin dal tramonto pioveva a dirotto, e nella notte senza luna il castello mi è apparso come un’immensa mole tenebrosa; l’edificio ha centinaia di finestre, ma neppure una aveva la luce accesa. Il postiglione ha suonato il corno con tutto il fiato che aveva in gola, e quasi subito tre o quattro domestici assonnati sono venuti ad aprire, facendomi strada con una lanterna cieca attraverso i saloni. Alla fine di questa passeggiata ho incontrato un ometto vestito di nero, che a giudicare dal panciotto sbottonato e dalle calze cascanti doveva essersi vestito in gran fretta; costui era il segretario del principe, e mi disse che il suo padrone era onorato di accogliermi sotto il suo tetto, ma poiché a quell’ora dormiva egli non si sentiva di svegliarlo; aveva già dato ordine di prepararmi un appartamento e accendere il fuoco nella stufa, e gli stallieri, insieme a Will e al postiglione, si stavano già occupando dei miei cavalli. Un domestico mi condusse su per lo scalone, attraverso un’altra successione interminabile di corridoi, fino all’alloggio che mi era stato riservato; erano due stanze immense, collegate da uno spogliatoio, ma non c’era che una candela accesa, nella prima delle due, e la stufa, benché al suo interno si sentisse già crepitare il fuoco, era ancora gelata. Chiesi al domestico di portarmi qualcosa da mangiare, ma l’uomo non capiva il francese né il tedesco, o forse in cucina non avevano nulla di pronto e non volevano prendersi il disturbo di mettersi al lavoro per me; fatto sta che non riuscii a ottenere niente, e non mi restò che andare a coricarmi fra le lenzuola fredde, che odoravano di muffa, mentre Will si sistemava alla meglio nell’altra camera.

Venerdì, 12 settembre

Stamattina un domestico è venuto a svegliarmi con una cioccolata bollente, refezione quanto mai necessaria dopo tutto il freddo e l’umidità che ho patito durante la notte. Mentre facevo colazione in veste da camera, il padrone di casa in persona è venuto a darmi il buongiorno. Il principe Czartoryski è un vecchietto magro e incipriato, meticolosamente pulito e ben tenuto, vestito in uniforme austriaca: poiché l’imperatore Giuseppe, non si sa per quale benemerenza, lo ha nominato feldmaresciallo, sebbene non abbia mai sentito l’odore della polvere in vita sua. In tono cerimonioso si è detto onorato di ospitare nel suo castello il rappresentante di un paese così lontano, ed io, ricordando che il principe passa per un orientalista consumato, conoscitore di molte lingue e letterature d’Oriente, ho temuto per un istante che mi scambiasse per un inviato del Gran Turco; sicché mi sono affrettato a spiegargli la mia situazione, aggiungendo che mi trovavo lì nella speranza di poter apprendere dal suo illustre figlio qualcosa sugli orientamenti della politica russa. Il principe Czartoryski ha aggrottato le sopracciglia, come se non avesse ben compreso quel che gli dicevo, poi ha borbottato che gli dispiaceva dovermi informare che suo figlio non si trovava affatto lì! Ho così appreso che il principe Adam, contrariamente a quanto mi avevano assicurato a Varsavia, non si è mosso da Pietroburgo, dove spera di riacquistare il ministero, sicché il mio viaggio attraverso la steppa è stato perfettamente inutile. Poiché leggevo sul volto del vecchio la delusione provocata dal mio disappunto, mi sono affrettato a rassicurarlo, affermando che la speranza di avere con lui colloqui proficui sul futuro dell’Europa era la seconda ragione del mio viaggio, e bastava comunque ampiamente a giustificarlo. Questa adulazione gli ha fatto piacere, e come sempre avviene con questi magnati polacchi, egli mi ha fatto capire di considerarsi in effetti uno degli arbitri della politica mondiale; «ma avremo tempo» ha aggiunto «di parlare di politica; ora voglio mostrarvi il mio castello!».

Mi sono affrettato a vestirmi e l’ho seguito sulla terrazza, dove ho trovato ad attendermi anche la padrona di casa, principessa Czartoryska. Insieme i due degni coniugi mi hanno illustrato con soddisfazione la bellezza del luogo, gli sforzi già compiuti per edificarvi una residenza degna della sua cornice naturale, e i loro progetti per i futuri miglioramenti. Il castello di Pulawi è costruito sulle rocce che dominano la Vistola, in posizione piacevolissima, circondato da dolci colline, che qui chiamano senz’altro montagne; anche se non direi, con Delille, che in questo paese di Sarmati esso possa considerarsi un’Atene sulle rive della Vistola. Concluso il tour d’horizon dalla terrazza, i padroni di casa hanno voluto a tutti i costi accompagnarmi a visitare il parco del castello, dove spicca, fra molte costruzioni di buon gusto, una copia fedele del tempio della Sibilla a Tivoli. L’architetto ha soggiornato in Italia a spese del principe per poter realizzare l’opera con la massima precisione, e ha disimpegnato il suo incarico con onore, permettendosi una sola trasgressione rispetto all’originale: una cupola di cristallo, destinata a trasfigurare le brume nordiche in un cielo italiano. All’interno del tempio, il principe ha riunito una collezione di reliquie della storia polacca: le insegne dei re, i gioielli delle regine, le armi dei generali e i trofei presi al nemico, in un tempo, beninteso, così lontano da essere ormai sprofondato nell’oblio. Egli va enormemente fiero di questa raccolta che gli appare la testimonianza vivente della grandezza del suo paese; grandezza che al pari di tutti i suoi connazionali è ben lontano dal considerare passata e conclusa. Sul frontone del tempio, a conferma di questo pregiudizio, si legge l’iscrizione fiduciosa: Il passato all’avvenire. Se poi lo si interroga sulla prossimità di tale radioso avvenire, il principe ha il buon senso di ammettere che nulla per il momento ne preannunzia ancora l’avverarsi, e che egli sarebbe già contento se i suoi pronipoti dovessero venire un giorno ad affilare le loro sciabole sugli scalini di questo tempio.

A poca distanza da questo edificio patriottico sorge un secondo padiglione, chiamato la Maison gothique, e che mi sembra una curiosa mescolanza di stile fiammingo e moresco: questa bizzarria architettonica è il regno esclusivo della principessa, che non si considera da meno del marito come collezionista e che vi ha adunato gli oggetti più disparati. Qui ho potuto ammirare una ciocca di capelli di Agnés Sorel, conservata in un medaglione di cristallo di rocca; un ritratto di Raffaello, che qualche intenditore prezzolato assicura sia in realtà un autoritratto; la poltrona di Shakespeare, il cui legno tarlato è piamente ricoperto di bronzo e di velluto; infine una scrivania appartenuta a Voltaire, e che come tutti gli oggetti di quel grande è stata portata via da Ferney immediatamente dopo la morte del proprietario per essere venduta al miglior offerente, sicché oggi soltanto le impronte dei mobili sulle tappezzerie permettono al visitatore di ricostruire l’aspetto originario della casa. Ma la visita non è finita qui, poiché la principessa, con un sorriso malizioso, ha aperto con una chiave d’oro uno dei segreti della scrivania per mostrarmi i tesori di cui traboccava: una collezione di lettere dei grandi uomini del secolo di Luigi XIV, fra cui una lettera del maresciallo di Turenna, scritta interamente di sua mano poco prima della morte; un quaderno rilegato contenente dei disegni di fortificazioni di mano del Vauban; il libro di preghiere di madame de la Vallière, e infine una collezione di lettere autografe di tutti i re di Francia da Francesco I a Bonaparte! Debbo confessare che quest’ultimo tratto mi ha lasciato di sasso, ed ero così sorpreso che non ho pensato di interrogare la principessa sul modo in cui era venuta in possesso dell’ultimo esemplare; in ogni caso non c’è bisogno di ulteriori indagini per accertare che essa non condivide gli scrupoli legittimisti di sua cognata la marescialla Lubomirska. Essa stessa mi ha confessato che gli oggetti più preziosi della Maison gothique sono stati acquistati all’asta a Parigi direttamente nei giorni della Rivoluzione, quando i palazzi erano messi a sacco e di ogni cosa si faceva libero commercio: mentre la principessa marescialla piangeva sulle spoglie ancor calde della signora di Lamballe, insomma, la sua parente si aggirava nei negozi degli antiquari, approfittando senza rimorso di quell’insperata abbondanza.

La principessa Czartoryska è una piacevole conversatrice, e quando, dopo pranzo, i domestici hanno preparato i tavoli per giocare, ha intrattenuto la compagnia raccontando con vivacità e malizia i suoi viaggi e i suoi incontri con i grandi uomini del passato. Presentata alla corte di Federico il Grande, aveva trovato il modo di introdursi un giorno nel suo gabinetto privato, subito dopo che il re ne era uscito. Su un bureau carico di carte e documenti, un piatto di ciliegie portava un’etichetta scritta di suo pugno dal re: «Ne lascio diciotto». Una vecchia uniforme da ussaro, abbandonata su una causeuse, attendeva di essere riparata con poca spesa. Accanto a una lettera di Voltaire ancora aperta, il conto di uno speziale, fornitore della corte. Un quaderno di musica aperto su un leggìo e, proprio accanto a questo richiamo all’armonia, una sedia curule simile a quella che si trova in Campidoglio, «con questa differenza», aggiungeva la principessa, «che l’una è in lacca antica, mentre l’altra era in legno volgare, e niente dissimulava la sua funzione abbietta!». La narratrice ha poi raccontato che a quel tempo il viaggiatore doveva essere munito di molto tatto e destrezza per trarsi d’impaccio, a Berlino, fra le due corti rivali. Il re aveva la sua, tutta composta di militari e di dotti. La regina, che non lo vedeva mai, riuniva le dame alla moda e la crème dell’aristocrazia. Frequentare l’una significava essere malvisto all’altra. Quando il re parlava di sua moglie, ciò che accadeva del resto assai raramente, non la chiamava mai se non “la vieille sotte”:48 viceversa, essa lo chiamava “le vieux fripon”49 o “le vieux ladre”.50

Così dicendo la principessa ha posato le carte per prendere una presa di tabacco, e nell’aprire la tabacchiera ne ha versato l’intero contenuto sul piccolo mops che aveva in braccio. Il cagnolino ha preso a guaire disperatamente, mentre la sua padrona si lamentava: «Ah, che fatalità, carino, poverino!». Con il suddetto mops, infatti, essa parla soltanto in italiano, perché è venuto da Padova. Una cameriera è immediatamente accorsa a prendersi cura della bestiola, e la principessa, tranquillizzata, ha ripreso a giocare, proseguendo nel frattempo il suo racconto. «Vi ho raccontato delle miserie della corte di Berlino, ma non crediate che fosse molto più piacevole il soggiorno alla corte di Vienna! Qui, fra gli altri, il principe Kaunitz, il famoso ministro, aveva la reputazione di essere assai impertinente. Avendo dei bei denti, li curava a tavola senza il minimo riguardo per i commensali. Non appena sparecchiato, il suo cameriere personale posava davanti a lui uno specchio, una bacinella e degli spazzolini, e là il principe ricominciava la sua toilette del mattino, come se fosse stato solo nel suo gabinetto, mentre tutti i presenti attendevano che avesse finito per alzarsi da tavola. In un’altra occasione, in cui ero egualmente presente, si trovava a pranzo dal principe un nobile veneziano, chiamato Gradenigo. Il principe, che era un grande canzonatore, si rivolgeva a lui ad alta voce, e non lo chiamava mai altrimenti che grand nigaud.51 Il povero forestiero, che non sapeva il francese, era assai sorpreso delle risa smodate di tutti i presenti, e finì per smettere del tutto di mangiare. Allora il ministro, accortosi che col suo digiuno l’ospite imbarazzava il servizio, disse forte al maggiordomo: “Perché non gli dai un pugno in testa?”» Ascoltando tali racconti, si resta sorpresi al pensiero di quanto la società abbia progredito in così pochi anni: e non si può fare a meno di pensare che gli europei contro la cui prepotenza i nostri padri si sono ribellati dovevano essere molto più maleducati di quelli di oggi, e che se le buone maniere si fossero imposte qualche anno prima forse la Rivoluzione non ci sarebbe stata.

Sabato, 13 settembre

Stamane un postiglione con l’aquila bicipite dell’imperatore cucita sulla giubba ha portato la posta, e nel pacchetto si è trovata anche una lettera di Victoire, spedita dieci giorni fa al mio banchiere di Varsavia, palesemente aperta dalla polizia, letta, riletta e infine giudicata inoffensiva. La poverina chiede a me se ci sarà la guerra, perché a Berlino, dice, è impossibile capire che cosa sta per succedere. I reggimenti della guarnigione partono uno dopo l’altro, ma sui giornali si fa pubblicare che i sentimenti del re verso Bonaparte sono di amicizia e che la salvaguardia della pace fra i popoli è la sola preoccupazione di entrambi i regnanti. Il principe Louis Ferdinand, il principe August, il principe d’Orange, i generali Rüchel e Schmettau, e perfino i fratelli del re, hanno presentato a Sua Maestà un memoriale, pregandolo di licenziare Haugwitz e tutto il gabinetto, e rappresentandogli la sfiducia nutrita dall’esercito e dal pubblico nei loro confronti. “Il re” scrive Victoire “se ne è andato senza rispondere, e poi ha mandato a tutti quanti l’ordine scritto di raggiungere immediatamente i loro reggimenti, e non ha voluto salutarli.” A giudicare da questo comportamento, direi che il re spera ancora di salvare la pace; trattare così generali e principi del sangue, solo per ingannare Bonaparte sulle sue vere intenzioni, mi parrebbe un po’ forte, e non credo che il re sia così buon politico; il suo prozio, le vieux fripon, ne sarebbe stato capace. “Sai” aggiunge Victoire “che il povero Bülow è stato arrestato? E che in casa sua hanno trovato una corrispondenza assai compromettente? Io non so più cosa pensare; Dio voglia che vada tutto a finir bene! Oggi è arrivato un corriere da Parigi, ma non si sa che notizie abbia portato. La partenza del re non è ancora decisa, ma il suo equipaggio è pronto a mettersi in strada con un’ora di preavviso. Mi manchi, Robert, e mi dispiace saperti solo laggiù. Tempi come questi rendono gli uomini egoisti, ciascuno è tanto più occupato nei piaceri del presente, quanto più il futuro appare triste. Adesso, comunque, tutti parlano bene del governo, e il re con le sue ultime misure si è riguadagnato il rispetto del pubblico.”

A pranzo ho comunicato al principe Czartoryski le notizie di Berlino, credendo di svelargli una novità; ma il vecchio, con un fine sorriso, mi ha mostrato una lettera che gli era giunta con la posta del mattino. «La mia cara amica Annette, la baronessa Hardenberg, mi scrive da Berlino al medesimo proposito, e le nostre lettere non vengono aperte, sicché essa può permettersi d’essere un po’ meno riservata della sua petite amie.» Così dicendo il principe ha inforcato gli occhiali e ha letto la notizia del memoriale presentato al re, interrompendosi di tanto in tanto per guardarmi al di sopra delle lenti: «“Le Roi”… aspetti, ecco: “Le Roi a pris la chose pour une démarche révolutionnaire, l’appelle ‘Meuterey’. La Reine, avec laquelle il était lorsqu’il reçut le mémoire et avec laquelle il s’est enfermé, aurait dû rectifier cette idée et l’adoucir, travailler plutôt à favoriser le but. Toutefois, c’était une très fausse démarche d’envoyer, comme on l’a fait, cette pièce par l’aide de camp de Rüchel. Il aurait fallu qu’un ou deux qui eussent eu de la confiance eussent parlé et représenté les arguments avec douceur et attachement”… 52 Se lo figura lei? Un memoriale di tanta importanza, ed essi lo mandano al re per mezzo di un aiutante di campo! Veramente questi tedeschi restano sempre dei bambini, con tutto che siano principi e generali. “Le coup a été entièrement manqué”,53 e come stupirsene?» ha concluso, ripiegando il foglio e guardandomi con aria trionfante. «Il re, a quanto pare, ha ben poca voglia di fare la guerra; avevo già avuto modo di accorgermene a Berlino; e chissà che non riesca ancora a cavarsi d’impaccio» ho osservato; ma il principe ha scosso la testa. «Le cose ormai sono andate troppo avanti, e il re di Prussia non è più padrone di decidere se fare la guerra o no. Bastano le notizie di Pietroburgo per dimostrare che gli eventi sono destinati a precipitare. Se conosco Napoleone» ha soggiunto, manifestando senza saperlo una perfetta identità di vedute col conte Potocki, «egli sommerà il rifiuto dello zar di fare la pace, le difficoltà ogni giorno maggiori che incontrano le sue trattative con l’Inghilterra, e la mobilitazione dell’armata prussiana, e concluderà che una quarta coalizione è sul punto di scendere in campo contro di lui.»

Un altro corrispondente ha informato il principe, pochi giorni or sono, che l’elettore di Sassonia intende mettere al più presto il suo esercito sul piede di guerra, e che le truppe prussiane hanno già cominciato, col suo permesso, a entrare nei suoi stati; a questa notizia, ch’egli mi ha comunicato con indifferenza mentre bevevamo il caffè, anch’io ho dovuto riconoscere che difficilmente Bonaparte assisterà senza batter ciglio a simili manovre. «Sono desolato di approfittare così poco della sua ospitalità, ma è necessario ch’io torni a Berlino prima che la guerra sia dichiarata; sicché ella mi perdonerà se domani stesso prenderò congedo da questa casa così ospitale» ho annunciato. «È un peccato» ha replicato il principe, «perché, come vede, io sono ancora piuttosto informato sugli affari d’Europa, e se lei fosse rimasto, avremmo potuto trascorrere molte piacevoli mattinate aprendo le lettere davanti al fuoco, e seguendo sulla carta gli spostamenti degli eserciti. Ma capisco ch’ella desideri trovarsi, al momento supremo, là dove si troverà il sovrano presso cui è accreditato. Mi permetto tuttavia di consigliarle di rientrare per la via di Dresda, poiché tutto indica che l’armata prussiana intende riunirsi appunto in Sassonia. Se laggiù apprenderà che il re si trova ancora a Berlino, avrà allungato di qualche giorno appena il suo viaggio; se invece sarà già partito dalla capitale per andare a prendere la testa delle sue truppe, potrà raggiungerlo direttamente al campo, risparmiando tempo e fatica.» Questi mi sono parsi degli ottimi argomenti, tanto più che l’itinerario proposto mi permetterà di visitare un’altra fra le metropoli della Germania. Se poi, a Dresda, mi capiterà d’incontrare quella signorina Bertha che era rimasta arenata nelle sabbie mobili vicino a Königsberg, con madre, cameriera e carrozza, e di approfondire la conoscenza iniziata in quella notte memorabile, ebbene, avrò una ragione di più per non pentirmi della scelta.

Nel pomeriggio, poiché la pioggia impediva di uscire, ci siamo riuniti attorno al fuoco che il padron di casa si è finalmente risolto a far accendere nel salone, e qui ho conversato a lungo con un altro ospite di Pulawi: il conte Jan Potocki, cugino dei Potocki di Willanòw, genero della principessa Lubomirska, e attualmente impiegato a Pietroburgo. È un uomo adiposo, di temperamento melanconico e incline alla cattiva digestione, cui contribuisce non poco la cucina di Pulawi. «Se voi siete stato a Varsavia» mi ha detto «avrete osservato che il lusso polacco è il medesimo dappertutto. Ovunque colonne di marmo, tendaggi d’oro, velluti, porpora, lapislazzuli e profumi d’Arabia, ma poche porte e finestre che chiudono, e a tavola, mauvaise chère54 Guardandolo e ascoltando i suoi lamenti si potrebbe pensare che passi le sue giornate a Pietroburgo a fare anticamera dai ministri e pranzare dai migliori restaurateurs, e che la sua unica fatica sia quella di tenere ben lustra la stella di San Vladimiro, che ieri sera a cena non ha mancato di appuntarsi sul frac. Con quale stupore non ho appreso che si tratta invece di un viaggiatore instancabile, che ha visitato il Marocco, la Turchia, la Grecia, l’Egitto e la Circassia, ed è tornato or ora dalla Cina! Il racconto di quel viaggio m’interessava; ricordo che ero a Londra quando partì la disgraziata spedizione di lord Macartney, con due preti cinesi che avevano studiato latino a Napoli come soli e unici interpreti. La spedizione russa, a quanto pare, era meglio organizzata, benché si sia conclusa anch’essa con un miserevole fallimento, e per le medesime ragioni.

«L’ambasceria» ha raccontato il conte «era stata affidata al conte Golovkin, e il ministro mi nominò capo della missione scientifica che doveva accompagnarla. Lo scopo della spedizione era di avviare trattative con l’imperatore della Cina per fissare la zona d’influenza della Russia nella steppa siberiana; per conto mio, contavo di interrogare i dotti di Pechino così da estendere alla storia di quel paese le tavole sinottiche della mia Chronologie, stampata a Firenze nel 1803. Occorsero molti mesi per metterci d’accordo con i cinesi circa il numero dei componenti l’ambasceria, un dettaglio cui essi, e di conseguenza noi pure, avevano deciso di attribuire la massima importanza.» «Vedo» osservai «che i diplomatici, sotto tutti i cieli, parlano il medesimo linguaggio; dopo tutto è un vantaggio, poiché si sa quello a cui si va incontro; immaginate cosa potrebbe mai concludere un ambasciatore europeo, se dovesse trattare con qualche potenza cui non importi nulla delle precedenze, del protocollo e delle decorazioni!» Il conte sorrise e proseguì il suo racconto. «Avevamo lasciato Pietroburgo a maggio, e solo il 18 dicembre riuscimmo a passare il confine mongolo. A Urga il tè gelava nelle tazze, e i cinesi ci ricevettero con festeggiamenti di fuochi d’artificio, in cui sono maestri, e con mille formalità ci impedirono di proseguire oltre finché non fosse giunto un dignitario che attendevano da Pechino. Quando costui giunse, il conte Golovkin gli consegnò i regali che lo zar mandava all’imperatore, accompagnandoli con un’illustrazione assai tronfia della potenza della Russia, e dimostrando la più imperdonabile ignoranza degli usi del luogo; il cinese rispose tramite l’interprete mongolo che accettava volentieri il tributo di sottomissione del nostro capo, aggiungendo che Alessandro avrebbe potuto contare d’ora in poi sulla benevolenza del Figlio del Cielo, come tutti gli altri vassalli. Come potete ben immaginare, l’ambasceria non proseguì per Pechino. Il conte Golovkin, persuaso di essere stato mortalmente offeso, si lasciò convincere con gran fatica a non sfidare a duello il dignitario cinese; ad ogni buon conto gli presentò una nota stravagante e offensiva, cui i cinesi risposero con una lettera insolente, accompagnata dalla restituzione di tutti i regali. L’ambasciatore rifiutò di riprenderli e fece gettare ogni cosa fuori dal campo, orologi d’oro, smalti, tappeti e pietre preziose; poi ripartimmo. In undici giorni di marcia a dorso di cammello giungemmo a ripassare il confine siberiano; i cinesi ci seguivano a una giornata di marcia, e quando giunsero a loro volta al confine ci buttarono dietro i regali, che a nessun costo volevano conservare.» «Mi pare» osservai «che nessuna delle due parti abbia tratto grande giovamento dall’impresa.» Il conte sorrise malignamente. «Proprio così, almeno per quanto riguarda l’interesse pubblico, che non sempre, come voi inglesi e americani sapete bene, coincide con quello privato. Per quanto mi riguarda, ho riportato dalla Mongolia tre casse di bronzi e porcellane, acquistati per pochi rubli, e che ornano adesso il mio palazzo di Pietroburgo. E anche qualche dignitario cinese deve aver trovato il suo tornaconto, poiché quando infine il conte Golovkin si decise a far raccattare i regali rifiutati, si vide che molti gioielli, e preziosi, e tappeti mancavano all’appello!»

Così dicendo rise di un riso freddo e sgradevole, come di chi conosca troppo bene gli uomini per stupirsi ancora di qualsiasi bassezza; poi aggiunse: «Del resto credo che gli incontri tra popoli diversi saranno sempre condannati a questo stesso esito, fino a quando non avremo imparato a studiare i costumi e le idee di ciascun popolo, e a rivolgerci a ognuno nel modo più adatto secondo le sue, e non le nostre, costumanze». Mi tornò allora alla mente il presidente Washington che fumava la pipa con i capi Creek, e ripetei quel racconto al conte Potocki, che ne fu assai colpito, e volle prendere carta, penna e calamaio per trascriverlo. «Certo» mormorò pensoso, «come escludere che proprio quando crediamo di esser penetrati negli usi di un popolo straniero, e ci vantiamo di aver saputo adattare le nostre usanze alle loro, proprio allora ci troviamo senza saperlo più che mai lontani dalla verità? E chi sa che quando noi interroghiamo gli abitanti di paesi lontani sui loro costumi essi non ci ingannino deliberatamente, così come, a quanto si dice, gli egiziani ingannarono Erodoto?» «Trattandosi dei nostri indiani» interloquii «non ne sarei per nulla sorpreso.» Il conte mi guardò fisso. «Già, voi americani e noi russi, se posso esprimermi così, abbiamo molto in comune, confiniamo con steppe inesplorate e popoli selvaggi, di cui ignoriamo tutto… Anche noi, sapete, abbiamo la nostra frontiera indiana.»

«Con la differenza» ribattei «che sulle vostre frontiere si affollano i discendenti di quegli stessi sarmati e sciti e unni che gli antichi conobbero assai bene, pur restando ogni volta increduli della loro barbarie, mentre solo Iddio sa da dove siano nati i nostri selvaggi; a meno che non siano i popoli di Gog e Magog, o le tribù perdute d’Israele.» «Quel che dite è molto giusto, amico mio» acconsentì Potocki. «E non è raro che proprio gli antichi ci siano di guida per comprendere le costumanze di questi popoli. Voglio raccontarvi un esempio che riguarda i più fieri fra i nostri nemici, i montanari del Caucaso. Io ho avuto la fortuna di viaggiare a lungo in quelle plaghe, ho fatto il periplo del Mar Nero, che gli antichi chiamavano Ponto Eusino, ho visitato la Circassia, l’Armenia e la Tauride. Ora ecco che cosa vi ho appreso. Verso i primi giorni di settembre, ogni principe circasso lascia la propria casa, si ritira su qualche montagna o nel cuore di una foresta e vi costruisce una capanna di frasche. Lo seguono i suoi gentiluomini fidati, mentre nessun membro della famiglia osa avvicinarsi, neppure un fratello. Tutti quanti sono mascherati, e non parlano circasso ma un dialetto segreto che si chiama “chakobza”. Là si recano gli amici segreti del principe, che hanno rubato e rapinato insieme a lui, di qualunque nazione essi siano, abkhazi, osseti, eccetera; anche loro sono mascherati, perché potrebbero incontrare persone con le quali sono in rapporti di vendetta e che li assassinerebbero. Solo il principe li conosce tutti, ed egli è il centro di tutti i misteri. Questo ritiro dura sei settimane, durante le quali piccoli gruppi di persone mascherate si allontanano per andare a rubare nei dintorni, e poiché tutti stanno bene in guardia, ci sono molti morti e feriti, anche fra i principi: essi, infatti, si mascherano per non farsi riconoscere, altrimenti sarebbero risparmiati. Io conosco già molte parole del dialetto “chakobza” e mi propongo di completare il mio vocabolario al prossimo viaggio.» «È strano» dissi. «Ho letto, se non erro, qualche cosa in Luciano che rassomiglia a codesta costumanza.» «Infatti» completò il conte trionfante. «Luciano, e più precisamente il “Dialogo degli Sciti”! Vedete ciò che vi dicevo? E, del resto, non ci raccontano Platone e Senofonte che i giovani spartani avevano il permesso, e l’obbligo, di uscire la notte a uccidere gli iloti, e che precisamente in quegli assassinî e quei pericoli condivisi trovava il suo fondamento la comunità degli Uguali?» «La krypteia» dissi, per mostrare che sapevo di che cosa parlava. «Già, la krypteia… E il dialogo che chiamiamo di solito degli Sciti, non s’intitola forse anche, e non volge la sua attenzione, all’“Amicizia”?» Dopo tanti polacchi esaltati conosciuti in questo viaggio, persuasi che non vi sia al mondo onore più grande dell’esser polacco, e che mai da quando sono nati hanno lasciato il loro triste paese, trovavo quanto mai piacevole la conversazione di questo, che senza batter ciglio parlava di sé come un russo, e che discorreva con egual familiarità di greci e di cinesi; sicché sono rimasto a parlare con lui per tutta la serata, nonostante le sollecitazioni del principe che ci invitava a unirci alla partita, e sono andato a coricarmi più tardi del consueto.

Domenica, 14 settembre

A mezzogiorno ho lasciato Pulawi per la strada di Dresda, già percorsa da nobili equipaggi e da corrieri frettolosi, al tempo in cui Polonia e Sassonia erano unite sotto la stessa dinastia, e ora pressoché abbandonata. Le stazioni di posta offrono un servizio assai più scadente di quello cui mi ero abituato sulla strada maestra prussiana, giacché le bestie migliori sono state requisite dall’esercito imperiale, per riparare la gran perdita di cavalli che l’impero ha subito l’inverno scorso. I postiglioni sono per lo più contadini del luogo, che salgono a cassetta mezzi nudi, e rischiano a ogni curva di ammazzare cavalli e viaggiatori; perfino degli ebrei barbuti svolgono qualche volta questo ufficio, e sono i migliori, anche perché con loro si può parlare in tedesco. Si capisce perché la posta, in Austria, costa meno che in Germania; con tre fiorini qui si hanno quattro cavalli, sicché non ho mai viaggiato spendendo così poco. Il paesaggio è piacevole e pittoresco; foreste magnifiche e grassi pascoli, accanto a vasti campi di stoppie, rallegrano l’occhio del viaggiatore e mostrano ciò che si sarebbe potuto fare della Polonia se gli abitanti, o i loro governanti, avessero saputo trarne un miglior partito. Ma nel bel mezzo di un paese così fertile, chi non viaggia portando con sé le proprie provviste può benissimo morire di fame: si può correre per ore senza attraversare un luogo abitato, e in tutto il giorno ho incontrato un solo mulino. È difficile perfino trovare l’avena per i cavalli; gli ebrei, i soli disposti a venderne, sono ladri oltre ogni immaginazione, tanto da ispirare il desiderio di pagarli a bastonate anziché in carta moneta. Per fortuna il principe, ben sapendo a quali tribolazioni sarei andato incontro, ha fatto caricare sul calesse dai servi un grosso canestro quadrato, traboccante di trote affumicate, roast-beef, polli arrosto e pasticci freddi, oltre a quattro bottiglie del miglior Madera, sicché sono ben equipaggiato contro ogni difficoltà.

Lunedì, 15 settembre

Oggi una tragedia domestica ha movimentato la giornata, altrimenti noiosa oltre ogni dire. Bisogna sapere che fin dalla partenza da Amsterdam avevo consegnato a Will del denaro, con l’incarico di pagare la posta. Oggi, poiché piove a dirotto, l’ho preso con me in carrozza, e per ammazzare il tempo gli ho chiesto i conti, che non avevo mai controllato finora. Senza esitare, Will ha cavato da non so quale tasca del pastrano un quadernetto, con la copertina che cominciava ad ammuffire per l’umidità, e un mozzicone di matita, e me li ha messi in mano. Aperto il quaderno, mi sono immerso nello studio delle colonne di cifre che Will aveva faticosamente impilato con la sua grossa calligrafia, simile a quella di un bambino. Trascorsa così quasi un’ora, gli ho chiesto la borsa, e ho contato il denaro che conteneva, poi ho confrontato la cifra con quella che risultava dai conti: mancavano diciassette talleri. «Will!» gli ho detto. «Mancano diciassette talleri!» Se fosse stato bianco, sarebbe impallidito; ma essendo un negro, e per di più piuttosto scuro, è diventato color della cenere. «Possibile?» ha balbettato. «Verifica tu stesso!» Con mano tremante ha ripreso il quaderno, e ha proceduto a una minuziosa verifica, che ha richiesto un tempo alquanto maggiore della mia. Finalmente ha alzato gli occhi iniettati di sangue e ha aperto la bocca come per parlare, ma non sapeva che cosa dire. Era così sbigottito che stavo per mettermi a ridere, ma ho voluto prendermi gioco di lui. «Will! Stupido negro» ho esclamato, nel tono più severo, «che cosa ne hai fatto di quel denaro? Diciassette talleri! Come farai a restituirmeli?» «Li prenda dal mio salario» ha balbettato. «Com’è possibile, se ti licenzio?» ho replicato in tono terribile. «Perché io ti licenzio. Ti faccio scendere al primo villaggio, vediamo un po’ come te la caverai!» Il poveraccio si è messo a tremare ancor più forte e a implorarmi di aver pietà di lui, poiché in questo paese morirebbe certamente di fame in una settimana, o massacrato dai contadini; in verità mi sono già accorto che vedendolo passare i paesani si segnano, e credo che se lo incontrassero da solo sarebbero capaci di prenderlo a bastonate, per esorcizzare lo spirito maligno. Infine gli ho promesso che non se ne parlerà più, a patto che in futuro sappia controllare meglio la sua borsa, che poi è la mia; e per evitare la sua umida gratitudine l’ho rimandato fuori, a sedersi a cassetta accanto al postiglione.

La sera siamo giunti a un fiumiciattolo fangoso che separa la Polonia austriaca da quella prussiana; poiché era troppo tardi per traghettare, ho dovuto acconciarmi a passare la notte sul posto. Alcuni contadini, che fin dal momento in cui il mio legno era entrato nel cortile mi osservavano con curiosità dalle finestre dell’osteria, si sono avvicinati e impiegando il locandiere come interprete mi hanno chiesto se davvero vi sarà di nuovo la guerra. Credevo fossero giunte loro voci del reclutamento che si sta disponendo in gran fretta al di là del confine, ma essi hanno scrollato le spalle e mi hanno fatto capire di disporre di informazioni ben più sicure; a quanto pare le acque di un fiume che scorre da qualche parte a occidente, a parecchie giornate di marcia da qui, si sono colorate di rosso, e ciò accade ogni volta che la guerra minaccia la Polonia, poiché una volta sulle sue rive combatterono polacchi contro polacchi. Ho detto loro che la guerra sarebbe scoppiata, ma soltanto nelle terre del re di Prussia, poiché il loro imperatore ne aveva avuto abbastanza; ma non mi è parso che si rallegrassero della notizia. «Se verrà la guerra», ha detto uno di loro, «verranno anche la fame e la peste, e loro non si fermano davanti alle sbarre dei doganieri.» Poiché tacevo, non sapendo cosa replicare, l’uomo ha ripreso, accarezzandosi i lunghi baffi: «È sempre stato così, dai tempi dei tempi. Mio padre racconta che suo nonno, mentre pascolava i cavalli, vide due morti che ballavano e cantavano: Verranno la guerra e la peste, si seppelliranno dieci morti in ogni fossa. E più tardi vennero la fame e la peste. E la fame era così spaventosa che la gente, come raccontava mia nonna, mangiava l’erba dei prati, e tutto accadde proprio come quei morti avevano avvertito».

Ho incoraggiato il vecchio a raccontare altre storie come quella, e il locandiere, vista brillare una moneta nel palmo della mia mano, si è adoperato con zelo nel suo impiego di traduttore. «I morti tornano spesso fra gli uomini, e cercano di divorarli; il mio bisnonno fu fortunato che quei due volessero soltanto cantare e ballare. Accadde di peggio alla famiglia del guardaboschi di Andrychòw, che il prete del nostro villaggio aveva conosciuto in gioventù. Questo guardaboschi viveva in una casa solitaria, lontano da Dio e dagli uomini. Quando morì, la moglie, poiché non aveva una bara, lo depose sulla panca e lo coprì con un lenzuolo. Sotto la panca dormiva il cane. Mentre la donna era in cucina sente il cane che abbaia: va a vedere, il morto è seduto sulla panca e si affila i denti con la cote. La donna afferrò suo figlio e si chiuse in cucina, ma il bimbo più piccolo rimase nella culla. Il morto cerca con tutte le sue forze di sfondare la porta della cucina; il cane, che non osa mordere il suo padrone, salta fuori dalla finestra e abbaia disperato. Infine il morto, poiché non può entrare in cucina, afferra il bambino nella culla e lo sbrana. Continuò a correre in casa finché non sentì che veniva gente per la sepoltura; allora tornò a sdraiarsi sulla panca. La gente entra; il bimbo è morto, la finestra aperta, i mobili fatti a pezzi, e dalla cucina viene come un ululato. Sfondano la porta e trovano la donna mezza morta. Quando le tornarono le forze e raccontò ciò che aveva fatto suo marito, misero al morto sotto la lingua un foglietto col suo nome, e dopo averlo calato nella bara lo rivoltarono a faccia in giù e lo colpirono alla nuca con una pala, perché non potesse alzarsi un’altra volta.»

Dopo aver sentito questa storia mi rivolsi all’oste e gli dissi che i suoi compaesani mi parevano gente di umore poco allegro. «Oh!» disse, «tutti i contadini sono così. Non sanno raccontare che di morti viventi, diavoli vestiti da tedeschi e lupi mannari. Ma se il signore vuol divertirsi, chiederò loro chi ha fatto la pioggia, il tuono e il fulmine, e che cos’è l’arcobaleno!» Quando l’ebreo ebbe tradotto questa domanda, i contadini si riscaldarono e cominciarono a parlare tutti insieme, tanto che solo a fatica l’oste riuscì a calmarli e a far sì che uno solo parlasse per tutti, traducendomi poi la risposta. «Poiché mi chiedete del fulmine, vi dirò ciò che raccontano da noi i contadini. I signori dicono che il fulmine è soltanto una scintilla, ma non è mica vero. Come potrebbe infatti una scintilla uscire dalle nuvole, visto che queste sono piene d’acqua? I signori una volta non erano così filosofi come oggi, e credevano in Dio come noi cristiani. I contadini invece dicono che il fulmine è lo sparo di Peroun, che sta nascosto nelle nuvole, e va a caccia di aquile; ma quale sia la verità, Vostra Eccellenza può deciderlo da sola.» L’oste, ridendo, ha incalzato l’oratore: «Parla dunque dell’arcobaleno!». «Bene» ha risposto l’uomo grattandosi, «l’arcobaleno appare in cielo quando piove, e sta piantato in un fiume o in un ruscello, e beve la sua acqua. Con l’acqua beve anche le rane, che poi piovono sulla terra; e può portar via anche un uomo, se questi si avventura nel punto in cui l’arcobaleno beve. Una volta l’arcobaleno ha bevuto vicino a Witkowice un ragazzo e una coppia di buoi, che il ragazzo aveva portato ad abbeverarsi al fiume. Poi risputò il ragazzo a riva, ma era già annegato.»

Come si vede, i contadini polacchi non difettano di fantasia, e le loro storie, raccontate alla luce di una candela di sego prima di andare a dormire, non mancano di produrre una certa impressione; ma questo non basta per riscattarli dalla loro abiezione, e del resto credo che anche i nostri indiani, se qualcuno volesse starli ad ascoltare, saprebbero raccontare delle belle storie. Quando finalmente tutti quanti se ne sono andati a dormire, l’oste mi ha accompagnato in camera, e mi ha mostrato un mucchio di paglia fresca, che i suoi garzoni avevano appena finito di portare in casa. Chinandomi a saggiarla, mi sono accorto che era per metà piena di spighe; ecco una trascuratezza di cui nessun contadino tedesco sarebbe capace, eppure essi non crepano di fame come i polacchi! Rialzandomi, ho detto all’oste, che mi stava accanto con la lanterna accesa: «Oste, sapete che cosa vuol dire economia polacca?». Poiché scuoteva la testa, ho proseguito: «I tedeschi chiamano così un esempio di amministrazione disordinata e negligente, e non si può dar loro torto; guardate un po’ qui la vostra paglia!». L’oste si chinò a esaminarla, e si mise le mani nei capelli. «Signore, aiutaci! Ecco che cosa succede ad avere dei servi cristiani, che Vostra Eccellenza mi perdoni.» Voleva chiamare senz’altro i garzoni, e costringerli a separare le spighe dalla paglia, a costo di lavorare tutta la notte; ma gli dissi che ormai quel che era fatto era fatto, e lo cacciai fuori dalla stanza, perché avevo voglia di dormire.

Martedì, 16 settembre

Prima dell’alba l’albergatore è venuto a svegliarmi avvertendomi che il traghetto ci aspettava. Mentre trangugiavo un liquido bollente, in cui Dio sa cosa avesse fatto cuocere, e ch’egli chiamava caffè, mi si è accostato col berretto in mano e ha chiesto: «Il signore mi perdoni, ma è vero quel che ha raccontato Vostra Eccellenza ieri, che ci sarà la guerra?». «Per esserci, ci sarà; ma non credo che arriverà fin qui.» «Ahi!» ha esclamato l’ebreo, alzando gli occhi al cielo. «Signore, se puoi, evitalo! Non scrivere, Signore, e non cancellare: fa’ che tutto resti come prima!» «Non credevo» ho osservato guardandomi intorno «che qui si vivesse così felici da voler evitare qualsiasi mutamento.» «Non si vive felici» ha ammesso l’oste, volgendo lo sguardo alle travi affumicate e alle finestre senza vetri della sua stamberga. «Ma non si deve mai dire che le cose vanno male. Può sempre andare peggio!» In ricompensa della sua saggezza, gli ho lasciato un fiorino in più di quel che mi chiedeva, e mentre si profondeva in ringraziamenti mi sono imbarcato.

Dopo una traversata tutt’altro che tranquilla, poiché la pioggia ininterrotta aveva alzato, durante la notte, il livello del fiume, ho rimesso piede in territorio prussiano, accolto da un palo dipinto di bianco e nero, su cui era infisso uno scudo con un’aquila mezzo dilavata dalla pioggia. Dieci minuti dopo ho trovato il posto doganale, diretto da un ufficiale intelligente, sicché non ho dovuto fermarmi al suo quartier generale che pochi istanti: il tempo di sturare e bere con lui una bottiglia di Madera alla salute del re di Prussia. Questo sottotenente è l’ultima persona civile che abbia incontrato oggi; poi, per tutto il giorno ho continuato a viaggiare attraverso una triste pianura disabitata. La terra di colline e foreste attraversata nei giorni scorsi è soltanto un ricordo; il paesaggio ha perduto ogni richiamo pittoresco, riducendosi nuovamente a una distesa ininterrotta di campi di patate e di lande incolte. Alla stazione di Mazurki, dove sono arrivato al tramonto, non c’era neppure una panca dove passare la notte, sicché ho dovuto approfittare dei servizi dell’unico albergo del luogo. Questo tugurio offriva bensì un riparo dalla pioggia, ma più di un viaggiatore, entrandovi, si dev’essere chiesto se non sarebbe stato meglio restare esposto alle intemperie. Il vecchio edificio tarlato aveva al suo interno una sola e unica stanza, in cui erano riunite la scuderia, la camera da letto e la cucina; nonostante la stagione avanzata, la quantità delle mosche era indescrivibile. Condannato a passare la notte in questo luogo, dal momento che il freddo rendeva impossibile pernottare nella carrozza, ho cercato a lungo una sedia su cui potessi sedermi senza troppa inquietudine, poi mi sono risolto a una diversa soluzione, e dopo essermi avvolto strettamente nel mantello mi sono rannicchiato sulla paglia dei cavalli. Per qualche ora ho tardato a prendere sonno, ma quando finalmente l’ultimo dei bambini e degli animali si è addormentato, e il silenzio ha preso il sopravvento, interrotto solamente dal tamburellare insistente della pioggia e dagli scoppi isolati del tuono, anch’io sono riuscito a sprofondare nell’oblio.

Mercoledì, 17 settembre

Continuo a viaggiare su strade che meritano appena questo nome, ora così fradice che potrebbero viverci le rane, ora così sabbiose che una polvere impalpabile penetra da tutte le fessure del legno e insozza ogni cosa. L’unica persona con cui ho potuto scambiare qualche parola è il mastro di posta di Sieratsch; costui è un antico capitano di artiglieria, invalido, che ha ricevuto questo ufficio come pensione. Mentre gli stallieri cambiavano i cavalli, il vecchio ha cavato fuori dal taschino dell’uniforme sdrucita, che gli si consente di indossare in servizio, un vetusto cipollone d’argento e ha osservato: «Già le cinque! Non vorrei tardare al club!». Poi, rivolto verso di me, mi ha invitato a fargli compagnia; ed io l’ho seguito, chiedendomi quale club potesse mai riunirsi in quel buco. Siamo entrati nell’unica osteria del paese, e l’oste, con mille riguardi, ci ha fatti passare attraverso la sala comune fino a una stanzetta adiacente, dove evidentemente al pubblico ordinario non si consentiva di entrare. Qui abbiamo trovato ad attenderci un ometto seduto davanti a un boccale di birra, con la pipa in bocca; il capitano ha preso una sedia, invitandomi a fare altrettanto, e si è accomodato dall’altra parte del tavolo, salutando l’ometto con le parole: «Come va, caro collega?». Poi, mentre caricava a sua volta la pipa, ha aggiunto: «Mi sono permesso di invitare a farci compagnia questo signore di passaggio, finché i suoi cavalli non saranno pronti». L’ometto si è tolto la pipa di bocca e mi ha rivolto un piccolo inchino; l’oste è entrato con altri due boccali di birra, che ci ha posato davanti in silenzio, poi il capitano e il suo amico, con le pipe fumanti in mano, hanno bevuto alla reciproca salute. Infine, con un sospiro di soddisfazione, hanno tirato fuori di tasca i giornali e hanno cominciato a leggerli, dopo avermene offerto una copia. Per mia fortuna, di lì a poco sono venuti ad avvertire che la carrozza era pronta, e sono ripartito; in quel frattempo, impiegando ogni arte per avviare una conversazione, avevo appreso che l’ometto era il ricevitore del dazio. Lui e il mastro di posta sono le uniche due autorità tedesche del paese; ogni giorno alle cinque si radunano all’osteria, in quella saletta riservata a loro, e restano fino alle otto a leggere i giornali, bere birra e buttarsi in faccia l’un l’altro il fumo del tabacco: e tutti e due, con grande serietà, chiamano questo: il nostro club.

Giovedì, 18 settembre

La pioggia non accenna a diminuire; ci si sveglia all’alba col rumore della pioggia, si viaggia tutto il giorno sotto l’acqua e ci si corica con la stessa, monotona compagnia. Will, che scende a ogni stazione per cercare i cavalli, ha gli abiti umidi e trema di freddo, avvolto nel mantello. Cenando alla locanda, se si può chiamare cena un piatto di minestra acquosa con una fetta di pane nero e un bicchierino d’acquavite, l’ho veduto così male in arnese che l’ho mandato a dormire nel pagliaio senza neanche aspettare di svestirmi. La moglie dell’oste, venuta a prepararmi il letto, deve aver frainteso il significato di questa manovra; era un’ebrea non troppo giovane, ma ancora soda, non avendo avuto figli, come mi disse. Mentre stendeva sul pagliericcio un lenzuolo abbastanza pulito, benché rattoppato, e sprimacciava il cuscino passava vicino al tavolo senza alcuna necessità, mettendo in mostra certe caviglie ben fatte. Masticando l’ultimo boccone di pane, l’ho esaminata da capo a piedi, cercando di capire se valesse la pena di farmela sedere sulle ginocchia; ma per qualche ragione, stasera non avevo voglia di divertirmi, anzi mi sentivo stranamente affaticato e rotto. Compiuta la sua bisogna mi è parso che indugiasse un po’ troppo ad allontanarsi, e quando le ho augurato la buona notte mi ha chiesto ammiccando: «Desidera ancora qualcosa stanotte, signore?». Probabilmente è rimasta delusa quando le ho ordinato di lasciarmi solo, ma avevo soltanto voglia di dormire, e non credo proprio di dovermi rimproverare per non aver approfittato dell’occasione; dopo tutto, come dice il poeta, “non est mentula quod digitus”.55

Venerdì, 19 settembre

Non per niente mi sentivo così male iersera; il freddo e l’umido dei giorni scorsi mi hanno provocato una colica stamattina al risveglio. Non c’è dolore più ripugnante della colica; tutto il corpo si contrae ed è scosso da brividi, mentre il maledetto aculeo fruga nella carne viva, e pare che la schiena debba spezzarsi da un momento all’altro, come sulla ruota. Il solo vantaggio rispetto ad altri mali, è che quando la colica finisce il dolore si dilegua davvero, senza lasciare la più piccola traccia; il tempo di asciugare il sudore, e si potrebbe credere di aver soltanto sognato. Ma finché dura, ci si chiede come si farà a sopravvivere ancora per qualche minuto, ed è sorprendente che in fatto si possa durare in quello stato anche per diverse ore di seguito. Tutti gli ospiti della locanda sono venuti a vedermi e ognuno ha suggerito un rimedio diverso, chi la cassia, chi la calomela, chi il laudano, ciascuno giurando di averne sperimentato l’efficacia in circostanze ancor più drammatiche. La moglie dell’oste si strappava i capelli, credendo evidentemente, dal mio aspetto terreo, che le sarei morto in casa; ma suo marito, che era un uomo pratico, è andato dal barbiere ed è tornato con un sudicio vaso, pieno di un’acqua giallastra, in cui nuotavano dieci mignatte. A gran fatica mi sono voltato sulla pancia, e l’oste ha cominciato ad applicarmi le mignatte alla schiena; la moglie si è messa le mani davanti alla faccia per il disgusto, ma di tanto in tanto allargava le dita, per guardare.

Il salasso mi ha giovato, perché dopo un po’ il dolore è diventato sopportabile, e in capo a un’ora era scomparso; allora ho ordinato che mi togliessero le sanguisughe. L’oste era tornato a occuparsi dei suoi affari, e con me era rimasta soltanto la moglie, perciò è stata lei a sedersi sul mio letto e a staccare con dita esperte le bestie gonfie e sazie; Will, che è capace di svenire alla vista del sangue, era in cortile a occuparsi della carrozza. «Meno male che Vostra Eccellenza è forte» ha esclamato la donna mentre attendeva alla sua bisogna. «Se il Signore lo vorrà, il sangue si rifarà da sé.» «Ti dirò io come stanno le cose» ha replicato l’oste, che si affacciava proprio in quel momento sulla porta; non aveva nulla da fare lì, ma si asciugava le mani nel grembiule, ed evidentemente non voleva lasciar sola la moglie troppo a lungo. «Il signore» proseguì «mangerà carne, e berrà vino; son cose di cui noi poveri ebrei non conosciamo neppure il sapore, ma per Sua Eccellenza sarà uno scherzo; e allora il sangue si rifarà.» «E perché non potrebbe rifarsi da sé, se il Signore Iddio lo volesse?» insisté la donna. «Queste cose succedono. Aspetta! Non è successa proprio la stessa cosa anche a noi, subito prima della guerra? Avevamo tanti ufficiali» cominciò a raccontare rivolgendosi a me «e si faceva fatica a dar da bere a tutti, benché il mio Yankele si fosse provvisto per tempo. Riuscimmo a vendere vari barili di birra e, con l’aiuto di Dio, anche dell’acquavite. Bene, un giorno notai che la cassetta degli incassi era piena e i barili erano colmi fino all’orlo, benché ne avessimo spillato per tutto il giorno. Così dissi a Yankele: cosa sta succedendo? In genere a quest’ora i barili sono vuoti, eppure hai spillato lo stesso barile per tutto il giorno. Andai al barile e mi mescei della birra, e dissi a Yankele: non posso crederci. Guarda, è ancora pieno! Poi scossi il barile, ed ecco, era vuoto. Chissà? Se avessi tenuto la bocca chiusa e avessi fatto finta di non accorgermene, può darsi che ancora… ah, bene. Speriamo che il buon Dio voglia farlo di nuovo» concluse la donna, avvitando il coperchio del vaso. «Donna! Perché racconti queste stupidaggini?» la sgridò il marito. «Va’ da Reb Mechele e riportagli le sue sanguisughe; e non pagargli più di un soldo. Dovrebbe essere lui a pagarci; dopo tutto, le abbiamo nutrite!» Queste ultime parole le pronunciò a voce bassa, e subito dopo cercò di farmi pagare dieci soldi per il salasso, assicurandomi che altrimenti ci avrebbe rimesso; ma non mi sono lasciato ingannare.

Dopo essermi alzato e vestito, ho perduto un po’ di tempo gironzolando per la camera; volevo vedere se l’ostessa sarebbe tornata, e allora avrei trovato a suo marito qualche faccenda, per tenerlo occupato dabbasso. Ma la donna non tornava, i bagagli erano caricati in carrozza, e Will aspettava nel cortile, ignorando superbamente dieci o dodici ragazzini scalzi, che erano accorsi lì da tutto il villaggio per vedere quest’essere sconosciuto, un negro. Finalmente ho dovuto decidermi a risalire in carrozza, e sono ripartito; per fortuna, fin da stamattina c’è il sole e la temperatura si è alquanto riscaldata, fors’anche in grazia del continuo spostamento verso occidente. L’aspetto dei luoghi abitati mi avverte a ogni momento che sto lasciando la Polonia: l’osteria in cui ho pranzato a mezzogiorno era una capanna polacca col tetto di paglia, ma già alla stazione successiva gli edifici della posta si annunziavano da lontano con le tegole rosse così familiari in Germania, e qui, per la prima volta, ho sentito gli stallieri e le sguattere parlare fra loro in tedesco.

A tarda sera ho attraversato l’Oder, che ho trovato considerevolmente ingrossato rispetto a un mese fa, e sono entrato a Glogau. Questa è una città militare, dominata dalla fortezza e popolata quasi esclusivamente di soldati. Le sue mura ospitano un deposito di artiglieria e magazzini di cereali; convogli di chiatte, cariche di sacchi di farina, casse di munizioni, mandrie di cavalli transitano ogni giorno sull’Oder in direzione delle guarnigioni slesiane messe in stato d’allarme per ordine del re. Le misure di sicurezza sono state inasprite, e ho faticato non poco per convincere l’ufficiale di guardia, già visibilmente seccato per essere stato svegliato, a vistare il mio passaporto e lasciarmi entrare in città. Poiché pioveva, ed era impossibile esaminare le mie carte all’aperto, il tenente mi ha ingiunto di seguirlo all’interno del posto di guardia, ordinando alla sentinella di non perdermi di vista. Mentre l’ufficiale, sedutosi a un tavolino e acceso il lume, compulsava con visibile diffidenza il mio passaporto, ho avuto agio di guardarmi intorno con comodo. In un angolo della stanza, su un lettino da campo, un cadetto che non doveva avere più di tredici o quattordici anni e che evidentemente era stato svegliato dal mio arrivo mi guardava con occhi sgranati dalla sorpresa. Accanto al camino, una comoda poltrona lasciava ancora vedere il segno lasciato sui cuscini dal tenente, che in qualità di comandante del posto non doveva, ufficialmente, dormire. A terra, in un angolo, un bricco di caffè, due tazze, due pipe e una scacchiera permettevano di ricostruire punto per punto il modo in cui i due ufficiali avevano passato la serata. Più insolita era la vista di un clarinetto appoggiato negligentemente sul pavimento; ma poiché la musica costituisce una passione universale in questo paese, e nell’esercito prussiano non mancano gli ufficiali coltivati, ne ho dedotto che uno dei due doveva aver intrattenuto l’altro suonandogli qualche aria. Questa stanza costituiva per così dire l’ufficio del corpo di guardia; ai soldati ne era riservata un’altra, comunicante con la prima, in cui si sentivano le voci degli uomini e il rumore dei dadi gettati sul pavimento, e da cui proveniva un forte odore di cucina. Non ho avuto tempo di proseguire le mie osservazioni, perché il tenente si è finalmente deciso a firmare il mio passaporto, e ho potuto entrare in città; dietro sua indicazione ho trovato alloggio alla locanda dell’Uomo Selvaggio, dove mi hanno offerto per cena tè, pane e burro. La colica di stamattina e gli strapazzi del viaggio mi hanno completamente svuotato di forze, e per di più mi sembra di avvertire un fastidioso rigonfiamento a un testicolo; prima di coricarmi prenderò qualche grano di oppio, che spero mi permetterà di dormire.

Sabato, 20 settembre

In seguito a non so quale prescrizione della posta, ho dovuto trascorrere l’intera giornata a Glogau. In un altro momento avrei tempestato in diverse lingue e minacciato di far assaggiare al mastro il mio bastone, ma la verità è che un giorno di riposo è ben lungi dal dispiacermi. Ne ho approfittato per andare a consultare un medico, poiché al risveglio, oltre ai crampi reumatici che mi fanno compagnia ormai da diversi giorni, avevo anche un po’ di febbre; quanto al testicolo, era decisamente gonfio e duro e faceva male a toccarlo. Il dottor Demuth, cui l’oste mi ha indirizzato come al più gran medico della città, mi ha ricevuto in un gabinetto luminoso, al primo piano di una casa sulla Paradeplatz; sullo scrittoio, un mappamondo e un barometro, e sulla libreria i busti in gesso di non so quali antichi romani, provavano che il padron di casa non era un qualsiasi praticante, ma un dotto capace di spaziare con lo spirito oltre i confini angusti della sua scienza. E infatti, mentre mi visitava, non ha tardato a informarsi della mia nazionalità e qualità, e appreso che viaggio per raggiungere il re di Prussia ha avviato una lunga conversazione intorno al probabile esito dell’attuale congiuntura. «Se vi sarà la pace o la guerra», borbottava quell’eccellente uomo tastandomi il polso, «oggi nessuno lo sa ancora; ma in ogni caso le probabilità di una pacificazione duratura mi paiono misere, e che cosa ne sarà alla fine della Germania resta un indovinello difficile da sciogliere. Eh, il polso è fiacco, fiacco! Be’, caro signore, ogni giorno ci accorgiamo di come la costituzione della Germania sia barocca e imbrogliata, e il più certo, oggi, è che il ruolo che le sarà assegnato fra i regni d’Europa dipende intieramente dalla benevolenza e discrezione di Napoleone. Apra bene la bocca, e mi mostri la lingua. Eh sì! Egli può fare di noi ciò che più gli piace, e a noi non resta che una scelta: se, cioè, umiliarci sotto la sua potente mano, come è accaduto finora, o attendere che la Germania del Nord conosca lo stesso destino del Sud, diventando il teatro di una guerra il cui esito vergognoso e infelice è fin troppo facile da prevedere.» «Via», obiettai, «non mi pare che a Berlino le previsioni siano così funeste.» «Oh, finora la ragionevolezza ha prevalso» ribatté con una punta di acredine «e si è giudicato più consigliabile sottomettersi di buon grado alla ferrea necessità, e preferire un arrangiamento ancora sopportabile, benché ottenuto a danno dell’onore e della giustizia; ma fra noi tedeschi giunge sempre il momento in cui la ragionevolezza non è più guardata di buon occhio. Non dubito affatto che a Berlino ormai si preferisca una resistenza gloriosa: salvo che essa sarà anche inutile, e rovinosa per soprammercato.» «I bambini nelle strade» osservai «cantano canzoni di guerra, insegnate loro dai soldati, in cui si minacciano i francesi di terribili vendette se non abbandoneranno la Germania.» Il dottore sorrise amaramente. «Ecco appunto, i bambini nelle strade… Ma torniamo a noi, caro signore. Voglia avere la cortesia di lasciarmi un po’ vedere codesto testicolo!»

Alla conclusione della visita il dottore ha emanato il suo verdetto. Secondo lui, il gonfiore del testicolo, la febbre insistente e in genere i dolori che avverto alla sera e soprattutto al mattino non sono altro che i postumi della cura di mercurio fatta prima di partire, risvegliati dopo un lungo intervallo dalla colica dell’altro giorno. «Per questi dolori reumatici prescrivo uno specifico infallibile, il linimento di Strasburgo: spirito canforato, tintura di cantaridi e tintura d’oppio. Funziona a meraviglia anche sui cani e sui cavalli. Se poi non dovesse aver successo, lo rafforzi con due cucchiai di strutto, o meglio ancora col grasso di un pollo o di un’anatra; ma appena uccisa, mi raccomando, che non abbia il tempo d’inacidire.» Gli ho chiesto se dovevo continuare a prendere l’oppio, e magari anche qualche presa di china, contro la febbre. Mi ha guardato con disprezzo, e ha proceduto a illustrarmi il suo sistema per la cura della febbre, «che ormai, badi bene, è seguito dai migliori specialisti europei!». Secondo tale sistema, la febbre proviene da una mancanza di ossigeno, che costituisce il principio vitale del nostro corpo, come ha dimostrato Lavoisier; e non si cura dunque con la china, che egli lascia volentieri ai ciarlatani, ma con assunzione di acqua minerale. «Beva dunque acqua, mio caro signore, e se la guerra non avrà l’indelicatezza di impedirglielo, vada a Teplitz o a Carlsbad, benché la stagione ormai non attragga più laggiù il bel mondo; beva acqua, il più possibile ossigenata, e vedrà che questa fastidiosa febbre la lascerà in pace.» La visita, compresa questa bella prescrizione, mi è costata un tallero e otto soldi, ed è stato inutile che protestassi di trovarla cara, poiché in questo felice reame le tariffe di medici e chirurghi sono stabilite con ordinanza del re: il quale non giudica evidentemente di abbassarsi decretando che i suoi sudditi debbono pagare otto soldi per un clistere, dodici per l’estrazione di un dente, e cinquanta talleri per l’operazione della pietra.

Domenica, 21 settembre

Alle cinque di stamattina mi sono svegliato di eccellente umore, e deciso a partire al più presto per riguadagnare il tempo perduto. La febbre era scomparsa e il testicolo ingrossato continuava bensì a darmi fastidio, ma non era più gonfio di ieri. Alla posta ho scoperto che sebbene avessi già trascorso qui due notti non c’erano ancora cavalli per proseguire; il mastro spergiurava che le sue bestie migliori erano state requisite, e mi assicurava che con un po’ di pazienza avrebbe cercato di servirmi più tardi. Sono andato a indagare e ho scoperto che in realtà il mascalzone aveva quattro cavalli nella stalla; alle mie rimostranze ha confessato che i cavalli erano stati prenotati per oggi da certi commercianti, e ha aggiunto con dignità che non aveva l’abitudine di venir meno ai suoi impegni. Ho obiettato che l’ambasciatore di una potenza straniera ha naturalmente la precedenza su dei commercianti qualunque, e ho minacciato di lagnarmi di lui a Berlino. Alla fine, approfittando dell’intima e radicata convinzione d’ogni tedesco che chi ha un vestito più ricco del tuo conta più di te, sono riuscito a mettermi d’accordo col mastro e ho soffiato i cavalli ai commercianti; sicché ho potuto partire ancora col buio.

Fra tutte le province prussiane, la Slesia è la sola il cui commercio abbia importanza per gli Stati Uniti, grazie alle sue manifatture; a quanto ho sentito dire dai commercianti di New York, potrebbe rifornirci di panno della stessa qualità di quello che riceviamo dall’Inghilterra, e più a buon mercato. Sulla strada maestra, il mio legno sorpassava ad ogni istante innumerevoli pecore belanti, condotte da un pascolo all’altro, o forse, chissà, al macello; più di una volta il cocchiere ha scambiato male parole con i pastori, e abbiamo dovuto sopportare l’onta di vederci correre dietro cani rabbiosi, mentre i loro padroni agitavano nell’aria i bastoni. Il sollievo provato constatando di esser scampato senza incidenti alle strade polacche, e soprattutto all’incompetenza e alla temerarietà dei cocchieri di quel paese, è stato quindi di breve durata, poiché mio malgrado ho dovuto riconoscere che il carattere dei postiglioni prussiani è a suo modo altrettanto sgradevole, sia pure per tutt’altre ragioni: vale a dire che mentre i polacchi rischiano cento volte al giorno di far rompere il collo al viaggiatore, lo trattano però di eccellenza e corrono a baciargli la mano, mentre il cocchiere prussiano si distingue invariabilmente per villania, ubriachezza e inciviltà, e non gli par vero di poter litigare per la strada con gli altri cocchieri in cui si imbatte, o con i viandanti non abbastanza pronti a scansarsi.

Lunedì, 22 settembre

Nelle prime ore della mattina sono entrato in Sassonia; ma di tutto ciò non mi sono accorto fino all’ultimo istante, poiché sonnecchiavo. Al posto di frontiera una guardia in uniforme grigia mi ha svegliato piuttosto rudemente e mi ha chiesto in tono scortese: «Chi è lei, signor mio?». Ma nonostante questa accoglienza scorbutica il doganiere ha accettato senza discussioni il mio passaporto, e si è limitato a chiedermi se non trasportavo per caso qualche mercanzia; quando ho risposto di no ha annuito, e con un’occhiata diffidente a Will ci ha lasciati passare. Varcata la frontiera la strada è subito diventata eccellente e in pochi minuti sono giunto a Görlitz, dove ho potuto constatare i segni tangibili della prosperità che la benevolenza del governo e l’industria della popolazione assicurano alla Sassonia. Si dice che vi siano in città duemila telai, da cui lo Stato trae un cospicuo reddito, e ogni giorno nuovi lavoranti emigrano dalla campagna per trovar lavoro nelle fabbriche. L’esclusione del commercio inglese dai porti della Germania settentrionale ha consentito alle manifatture sassoni di raddoppiare la loro attività; da poco, poi, son giunte dalla Prussia e dagli altri principati tedeschi grosse ordinazioni di tessuto blu e verde a buon mercato, per l’abbigliamento delle truppe, sicché la produzione è in continua crescita. Ovunque si vedono case in costruzione, a più piani, assai decorose, per alloggiare gli operai, e anche palazzi di ottimo gusto, con balconi affacciati su piazze alberate, per i fabbricanti e i negozianti. In generale, in tutta la Sassonia sono evidenti al primo sguardo i frutti dell’industria e del commercio; il paese è ricco, popoloso, le città ben costruite, senza confronto con la Prussia, per non parlare naturalmente della Polonia. Per giunta i sassoni mi paiono più civili degli altri tedeschi; non già che trattino il viaggiatore con cortesia, ciò che in Germania non si può neppure immaginare, ma ogni cosa si fa bene e pulitamente, senza il ritardo e la sciatteria che regnano ovunque in Prussia. Le ragazze delle locande sanno rispondere con disinvoltura a qualsiasi domanda, senza arrossire, e sbrigano in pochi minuti ciò che una serva brandeburghese, lenta di parola e di pensiero, impiegherebbe ore a rabberciare.

Le strade sono affollate di truppe prussiane provenienti dalle guarnigioni slesiane e polacche, in marcia di trasferimento verso occidente; poiché il principe elettore, per quanto di malavoglia, ha concesso a Federico Guglielmo il diritto di passaggio nei suoi stati. Nelle vicinanze di Bautzen ho fatto un tratto di strada con una compagnia di fucilieri che procedeva nella mia stessa direzione. Gli uomini erano affaticati e coperti di polvere, ma col morale alto, a giudicare dalle canzoni libertine che cantavano marciando. Ho discorso a lungo col loro comandante, capitano von Gneisenau; un uomo grasso, col naso rotto e la mascella sporgente, a cavallo di un ronzino che quasi si piegava sotto il suo peso. Quando ha saputo che ero americano si è illuminato: durante la Rivoluzione ha combattuto per quattro anni in America, con gli assiani. Parla perfino un po’ di inglese, con accento terribile, e conserva un ottimo ricordo di quell’esperienza, sebbene la campagna sia stata disastrosa. «Mi consideravo fortunato quando avevo un pezzo di pane nero, e più di una volta ho marciato con le scarpe senza suole. Ma che paese! Laggiù», dice, «anche i mendicanti considerano indispensabile alla propria esistenza ciò che per un funzionario prussiano costituirebbe un invito alla crapula. Carne a un prezzo che nessuno potrebbe immaginare in Prussia; e la birra scura!» Sorridendo di tanto entusiasmo gli ho chiesto se davvero ci sarà la guerra, e che cosa pensa del comportamento tenuto dalla Prussia in questi frangenti, ma si è stretto nelle spalle. «Può darsi» ha detto «che finora la Prussia non si sia comportata troppo onorevolmente, ma ciò non mi riguarda affatto, io non sono neppure prussiano.» «Come! E questa uniforme che porta?» Mi ha guardato con un sorriso di compatimento. «Non sa lei, che il re ha bisogno di uomini, e che chiunque voglia arruolarsi nel suo esercito è bene accolto, fosse anche un turco? Io sono nato suddito dell’elettore di Hannover, e ora anche se lo volessi non saprei più dire propriamente di chi debbo considerarmi suddito; ma ciò non m’impedisce di servire il re, poiché mangio il suo pane.» A sentire queste parole, avrei potuto credere d’aver di fronte uno di quei soldati di ventura, la cui razza va scomparendo anche in Europa, per i quali la patria è là dove c’è da guadagnare; ma in verità, il tono con cui il capitano aveva parlato tradiva l’uomo che vuol apparire cinico, ed è soltanto amareggiato. «Io» ha proseguito infatti «ho una proprietà in Slesia, e posso quasi dirmi un uomo ricco; l’anno scorso, è vero, tutto è andato male, l’inverno è cominciato troppo presto, e già l’estate era stata cattiva; il gelo mi ha distrutto il trifoglio, e delle patate non ne ho raccolte più della metà. Ma quest’anno, grazie all’Altissimo, il raccolto è stato buono, e quel che c’è ancora da raccogliere promette ancor meglio; sempreché, beninteso, non vengano a mangiarmelo i francesi. Bene, tutto questo lo devo al re, e perciò sono qui; ho lasciato a casa mia moglie e cinque figli, e un sesto che deve nascere, e il Signore voglia che non accada loro nulla di male, mentre io sarò lontano; ma non mi lamento. Mi sono scelto io stesso una patria e un re, e credo che questo conti più del caso, che può farci nascere a suo piacimento fra i sarmati o fra i cinesi.» «Fin qui» ho osservato «il ragionamento fila a meraviglia; e le assicuro che per un americano questo modo d’intender la patria è più nobile, di quello di chi non vede in questo vocabolo altro che sangue e suolo, e ossa d’antenati.» «Già», ha replicato il capitano scrollando la testa, «ma come mi rimerita oggi questa patria? In vent’anni di servizio non sono avanzato oltre il grado di capitano, e passi ancora; si vede che non è da tutti diventar generale; ma considerando il passato e il presente, che cosa mai posso attendermi dal futuro? Come soldato non vedo altro che disorganizzazione, e come proprietario e padre di famiglia mi aspetto di finire in miseria; come cittadino, poi, non posso avere alcuna fiducia in quelli che ci governano. Ora anche quei signori di Berlino si sono decisi a dichiarare la guerra a Bonaparte, e non so spiegarmelo se non così, che quella marmaglia democratica non è contenta di come lui ha messo i piedi sul collo alla congrega dei giacobini; come vede, c’è proprio da aver fiducia nell’avvenire! E non sarebbe ancor nulla, se non vivessimo in un tempo in cui si straccia senza pensarci due volte il vincolo sacro fra principe e cittadini, in cui i governi vendono e barattano sudditi e province, e noialtri proprietari terrieri siamo diventati una nuova razza di bestiame; chi mi assicura che se le cose andranno male, qualche miserabile ministro non inventerà di regalare la Slesia a Bonaparte, o a qualcuno dei suoi amici, per ricomprare così la pace che ora hanno buttato via a cuor leggero?» «In fin dei conti, dunque, la guerra non la rallegra?» ho domandato. «Non lo so neppur io» ha borbottato «se rallegrarmene o no. L’esercito, a quanto vedo, vuole la guerra, fatta eccezione, si capisce, per i comandanti di compagnia, che di solito preferiscono riposarsi sui loro allori; questo, voglio dire che l’esercito desideri la guerra, è lodevole ed è nell’ordine delle cose. I proprietari strillano, vogliono la guerra e la vendetta, ma quando si tratterà di pagare il debito di guerra strilleranno in un altro modo, e anche questo è nell’ordine delle cose, benché sia un’inconseguenza. A me, ogni tanto, vien voglia di occuparmi dei miei affari privati, e dimenticarmi una buona volta le angustie pubbliche; appendere l’uniforme al chiodo, e andar dietro all’aratro, tanto più che dalle mie parti la terra è buona, e per un padrone che s’intenda dei metodi moderni, c’è da far quattrini; ma per far ciò bisognerebbe che i miei mezzi fossero adeguati alle necessità, e non lo sono ancora, sicché debbo continuare a servire. Che farci? Non mi resta se non guardare con fiducia a Colui che dispone tutto per il meglio, e fortificare il mio cuore confidando in Lui.» Mentre pronunziava queste parole, peraltro, il suo tono era divenuto via via più allegro, sicché ho concluso che nell’intimo il capitano von Gneisenau non era troppo insoddisfatto di andare in guerra; qualunque cosa, immagino, gli pareva meglio della miserabile vita di guarnigione nella steppa polacca, a far la guardia ai campi di patate, soffrendo da lontano, attraverso le lettere della moglie, per le malattie dei bambini e i furti dei braccianti. «Spero solo» ha aggiunto «che questa volta la decisione di farci marciare non sia stata presa senza ponderazione; vedo che tutto si fa al risparmio, e non posso non essere d’accordo, perché so quanto costa al Tesoro mantenere l’esercito in campagna; resta il fatto che ogni tappa è una sofferenza infinita. Passi ancora per lo stato spaventoso delle strade; ma la miseria degli acquartieramenti è insopportabile. Può immaginare quanto sia piacevole passare la notte da un contadino abituato a dividere il suo tugurio con tutti i suoi animali domestici! Chi non c’è avvezzo, si ammala. Dopo due soli giorni di marcia, ho dovuto lasciare uno dei cadetti della mia compagnia in una cittadina polacca, ammalato di morbillo; per fortuna c’era là un chirurgo tedesco, ma comunque è irresponsabile imporre simili strapazzi a dei ragazzini. Se penso che ai miei figli, quando saranno soldati, potranno essere inflitte tali sofferenze, mi si appesantisce il cuore; ma poi ricordo il regalo che mio zio Prittwitz mi ha fatto recapitare mentre ci trovavamo nei dintorni di Glogau, e mi torna l’allegria.» «E di che regalo si tratta?» «Del regalo più gradito che si possa fare a un ufficiale durante la marcia: un prodigioso salame gigante di Brunswick, e due grosse bottiglie d’acquavite!» Mentre il capitano scherzava ha cominciato a piovere, ed io ho preferito risalire in carrozza e far frustare i cavalli per trovare più in fretta un riparo; lui è rimasto indietro coi suoi soldati, sotto l’acqua.

La posta in Sassonia comporta meno perdite di tempo di quella prussiana; sicché avevo sperato di arrivare a Dresda entro stasera. Mentre cenavo tuttavia l’oste ha osservato in tono preoccupato che la pioggia e il vento erano troppo forti e che non è consigliabile viaggiare nel buio sotto l’equinozio; inoltre egli si sentiva in dovere di avvertire il signore che giungendo di notte non avrebbe trovato alloggio in città. Il postiglione, cui avevo promesso un tallero di mancia se mi avesse portato a Dresda in giornata, insisteva con malagrazia che saremmo arrivati al più tardi all’una e giurava che all’Angelo d’oro o all’Elmo o anche alla Città di Naumburg, dove conosceva personalmente i proprietari, sarei stato certamente alloggiato; ma mi sentivo la febbre addosso, ed ero così stanco di viaggiare che ho dato retta ai consigli interessati dell’oste e mi sono fermato a pernottare da lui. Il postiglione, nel frattempo, aveva fatto così abbondante ricorso alla bottiglia che, da uomo allegro e loquace quale mi era parso in precedenza, si era tramutato nell’orso più villano con cui abbia mai avuto a che fare; l’oste, dopo aver ascoltato la sequela di insolenze di cui il bruto mi ha gratificato per la rabbia di aver perduto la mancia, mi ha consigliato di scrivere al mastro di posta di Bautzen, o meglio ancora di presentare reclamo all’ufficio postale a Dresda, e ho dovuto ordinare effettivamente penna e calamaio perché l’uomo, sempre brontolando, si decidesse a lasciarmi andare a dormire. In camera, il riscaldamento consisteva nell’inevitabile stufa di porcellana, che ho subito fatto accendere, perché l’umidità mi indolenzisce tutte le giunture. Prima di coricarmi, in mancanza di acqua minerale, ho preso un decotto di china e qualche grano di oppio, che mi rimetteranno in sesto a scorno del dottore di Glogau.

Martedì, 23 settembre

Stamattina, poiché non avevo più fretta, ho dormito fino a tardi, e alle undici ho fatto colazione nella sala comune dell’osteria, con un pollo e una bottiglia di vino d’Ungheria. Ogni cosa era servita su porcellana di Meissen, e tutto era così pulito che al confronto con la sudiceria polacca, e anche con la scarsa pulizia prussiana, avrei potuto credermi nel mio paese. Soltanto la serva che ha apparecchiato la tavola, benché pulita fin dove poteva spingersi il mio sguardo, doveva essere assai sudicia altrove, poiché il puzzo del suo sudore mi prendeva alla gola ogni volta che mi passava accanto; con tutto questo era una bella ragazza, con ciocche di capelli neri che sfuggivano dalla cuffia e un visino magro che sarebbe stato grazioso se una smorfia sguaiata non l’avesse troppo spesso involgarito. Perciò mi è parso un peccato lasciarla godere soltanto agli stallieri e ai vetturali di passaggio, e ho cominciato a prendermi delle libertà che lasciavano intuire senza possibilità di equivoco le mie intenzioni. Sparecchiando la tavola dagli avanzi della mia colazione Lieschen, poiché questo era il suo nome, si è chinata su di me e ha sussurrato che giacché non c’erano altri clienti, se lo desideravo sarebbe salita in camera mia; questa offerta così graziosa, accompagnata da una forte zaffata di sudore proveniente dalle sue ascelle non lavate, ha finito di sedurmi, sicché ho trangugiato l’ultimo sorso di vino e sono andato a chiudermi in camera, dopo aver mandato fuori Will con un pretesto qualsiasi. Per la prima volta da parecchi giorni non avevo più febbre, e anche l’indolenzimento al testicolo pareva scomparso; in ogni caso, quella era l’occasione buona per un collaudo. Pochi minuti dopo sentii bussare alla porta e la ragazza entrò sorridendo; poiché ero già sdraiato sul letto, mi si inginocchiò accanto e cominciò a tastarmi con mano esperta. Quando le chiesi di spogliarsi, però, arrossì violentemente: «Come! Alla luce del giorno! Si usa così al suo paese?». Pazientemente le spiegai che il mio piacere sarebbe stato molto più grande se avesse acconsentito a lasciarsi vedere nuda, ma osservando che era riluttante a farlo le offrii di pagarle cinque soldi in più se avesse accettato, e questo argomento finì per convincerla; tuttavia vidi subito di non aver speso bene il mio denaro, perché aveva certe gambe legnose, di cui si vedevano le ossa. Mentre ci abbracciavamo si lamentò che i miei calzoni le facevano male, sicché anch’io mi risolsi a togliermi brache e stivali; e così, nudo come un verme dalla vita in giù, potei prendermi quel che desideravo. Quando stavo per rialzarmi parlò. «Dacci ancora» disse con voce rauca, «c’ero quasi arrivata.» Per galanteria continuai a spingere ancora per qualche secondo, finché non la sentii sospirare profondamente e infine rilassarsi sotto di me. Il suo odore era così forte da stordire; non doveva essersi lavata da parecchi giorni. Quando tutto fu finito non seppi trattenermi dal chiederle perché non avesse più cura di sé; fece una smorfia e disse: «Per chi? Per gli uomini? Signori che mi vogliono per una notte ne trovo lo stesso, e in altro modo non ne voglio più». Ma questa frase, che aveva cominciato in tono insolente, le si andò smorzando in gola, finché delle ultime parole non rimase che un sussurro, cui seguì un singhiozzo. Esitai, incerto se chiederle la ragione della sua tristezza, ma essa stessa cominciò a raccontarmela mentre si rivestiva. Aveva sposato, disse, un cameriere dell’albergo, un francese capitato lì chissà come: un servitore ideale, disinvolto e dalla parola pronta, come tutti i suoi compatrioti. Essa a dire il vero non si era mai fidata completamente di lui, ma la padrona dell’albergo, che aveva paura di perdere quel tesoro di Jean, l’aveva tanto catechizzata da convincerla a sposarlo; senonché i suoi tristi presentimenti si erano avverati fin troppo presto. L’inverno del ’4, mentre Lieschen aveva appena partorito la sua prima bambina ed era a letto febbricitante, Jean se n’era andato nottetempo con un principe russo, che aveva soggiornato qui tornando dalle acque di Carlsbad; e si era portato via i suoi pochi risparmi, le sue gioie e il suo vestito della festa. Poiché la ragazza piangeva senza ritegno abbottonandosi la camicia, credetti di addolcire il suo dolore chiedendole della bambina; non sapevo in realtà di rigirare il coltello nella piaga, perché mi guardò asciugandosi il naso nel lembo del grembiule e mormorò: «La mia povera Julie è morta poche settimane dopo la fuga di suo padre, e io credo che il Signore l’abbia presa perché quel perfido potesse espiare la sua scelleratezza». Così dicendo infilò svelta i piedi nelle pianelle e allungò la mano guardandomi sfacciatamente negli occhi; quando ebbe il denaro che le avevo promesso lo contò, lo intascò e si allontanò. Mentre Lieschen usciva ciabattando entrò Will per dirmi che la carrozza era pronta, e così partimmo senz’altro.

Già molte ore prima di entrare a Dresda si comincia ad avvertire la vicinanza della capitale; dappertutto le case sono dipinte di fresco e i tetti paion tutti rifatti con tegole nuove. Perfino nelle abitazioni dei contadini si vedono giardini, pergolati e giuochi di birilli; tutte cose che non ho mai veduto in un villaggio brandeburghese, dove gli abitanti, nella loro miseria, non hanno tempo di pensare che alla sopravvivenza quotidiana. La strada è appena passabile, poiché i solchi scavati dai carri sono stati approfonditi dai cannoni e dai carriaggi militari che l’hanno percorsa in gran numero negli ultimi giorni; ma i postiglioni sassoni, frustando i cavalli e imprecando con una malagrazia di cui avevo perduto il ricordo in Polonia, mi hanno portato sano e salvo a destinazione, laddove un postiglione polacco, sempre col cappello in mano, mi avrebbe fatto rompere l’osso del collo. Chi giunge a Dresda da levante attraversa dapprima la città nuova, sotto un viale di tigli che ricorda da vicino quello di Berlino, poi imbocca il ponte sull’Elba, ornato di statue che si specchiano accidiosamente nelle onde giallo-oro; la città vecchia si appoggia sul fiume coi suoi massicci bastioni, e solo dietro questa protezione svettano cupole e campanili, le torri del Castello e le affumicate casupole dei pescatori. Fin dal primo momento mi sono accorto di quanto sarei stato incauto se ieri sera avessi dato ascolto al postiglione, poiché la capitale dell’Elettore, attraversata dalle colonne prussiane in marcia verso occidente, è ingombra di truppe e percorsa da ogni sorta di veicoli; ormai da un anno, per giunta, le vie formicolano di profughi della Germania meridionale invasa dai francesi, soprattutto persone di qualità, che cercano protezione per sé e i propri averi nella vicinanza dell’esercito. In nessun luogo è possibile procurarsi un alloggio, sicché le carrozze dei viaggiatori privati si fermano sulla piazza, e i proprietari ci dormono dentro, e i servi sulla strada. Cercare albergo senza un biglietto d’alloggio è impresa temeraria anche in pieno giorno; a molto maggior ragione poi all’una o alle due di notte, come mi sarebbe accaduto se non avessi deciso di pernottare alla posta.

Per mia fortuna ho incontrato in piazza un servitore del principe Louis Ferdinand, che avevo avuto occasione di regalare a Berlino per certi servigi, e che si è fatto in quattro per aiutarmi; il suo padrone è stato qui in città fino a ieri, impiegando il tempo in piaceri e spese pazze in compagnia di Pauline Wiesel. Ora Madama è ripartita per Berlino e il principe è andato a cacciare il cinghiale nelle tenute del principe Lobkowitz, sulle montagne di Boemia. Mentre mi raccontava tutte queste cose il servitore mi ha accompagnato al commissariato degli alloggi; qui ho trovato un impiegato che con la cattiva educazione propria dei sassoni voleva senz’altro chiudermi la porta in faccia, ma due o tre scudi che ho fatto saltare sul palmo della mano hanno compiuto il miracolo. Tirato fuori da un armadio un voluminoso registro in-quarto, l’uomo ha cominciato a sfogliarlo, dapprima frettolosamente, poi con sempre maggior attenzione, finché non ha trovato, proprio in fondo a una delle ultime pagine, quel che cercava; e dopo aver scarabocchiato qualche riga mi ha allungato un polizzino con un indirizzo, assicurandomi che lì sarei stato alloggiato comodamente.

Il vetturino, data un’occhiata al biglietto, ci ha condotti per una successione interminabile di strade anguste e ingombre di carriaggi, fiancheggiate da case alte, per lo più di cinque o sei piani. Ripassato il ponte, abbiamo imboccato il viale che porta ai Bagni di Link, luogo di ritrovo fra i più frequentati dal pubblico; qui però anziché proseguire verso il caffè, dove i camerieri stavano proprio allora accendendo innumerevoli luci per scacciare l’oscurità della sera, abbiamo piegato bruscamente a sinistra per un viottolo sabbioso lungo l’Elba, e dopo pochi passi ci siamo fermati davanti a un vetusto mulino. Quello, mi assicurò il vetturino, era l’alloggio che mi era stato assegnato, presso la vedova di un mugnaio. Ero troppo stanco per protestare contro la scomodità della sistemazione, e d’altronde la moltitudine di soldati che avevo visto bivaccare nelle stalle e nei fienili, in attesa di riprendere la marcia l’indomani, mi faceva comprendere fin troppo bene l’inutilità di qualsiasi protesta; sicché mi sono rassegnato a bussare alla porta della mugnaia e a mostrarle il mio biglietto. Non ho mai dormito in vita mia in un luogo simile, e credo che non mi accadrà spesso di farlo in futuro. Il mulino è una capanna di legno annerito dagli anni, col tetto di paglia, per metà occupato dagli ingranaggi dell’immensa ruota che gira senza posa sotto la spinta della corrente, spruzzando gocce d’acqua tutto intorno e scandendo il tempo col suo cigolìo soporifero. L’abitazione si apre su un cortiletto invaso dalle erbacce, al centro un pozzo, nell’angolo un sambuco che spunta da un muretto e profuma l’aria coi suoi fiori. L’interno purtroppo è meno romantico, o forse ancor più: un’unica stanza affumicata, con il tetto di travi, i muri fioriti di salnitro per l’umidità mortale del fiume, e per tutta mobilia un grande letto, un tavolo zoppicante e due sgabelli, oltre a una cassapanca in cui la vedova tiene tutti i suoi averi. In quel letto, da cui essa si era appena alzata per venirmi ad aprire, dormivano abbracciate l’una all’altra quattro bambine; mi mancò il cuore di cacciarle tutte quante, e dissi alla vedova che per quella notte mi sarei accontentato di dormire per terra su un po’ di paglia. Procurai che la mia carrozza fosse sistemata in cortile e che Will vi si arrangiasse per dormire, tenendo un occhio aperto per controllare i bagagli; poi stesi il mantello sulla paglia e mi ci buttai, stanco morto per tutte le fatiche della giornata.

Mercoledì, 24 settembre

Stamattina, svegliato per tempo dalle campane della Frauenkirche e dalle grida dei battellieri, mi sono lavato e vestito come ho potuto, poi sono andato a prendere il caffè sulla piazza del Mercato Nuovo. Parecchi ufficiali, la cui sistemazione non doveva essere più comoda della mia, avevano già comandato la loro colazione prima di me, sicché non ho potuto avere col caffè che un po’ di latte e del pane del giorno prima; ma l’austerità della refezione è stata largamente compensata dallo spettacolo del mercato che si svolgeva davanti ai miei occhi, poiché ho verificato che davvero, come si dice, le donne di Dresda sono le più belle di tutta la Germania. È vero che per quanto potevo giudicare dal mio osservatorio, dietro la vetrina del caffè, i loro lineamenti delicati difettano alquanto di colorito, sicché la maggior parte dei visi sono pallidi e molti addirittura scialbi; tuttavia ho potuto osservare alcuni fra gli esseri più graziosi che siano stati creati, soprattutto nella classe delle grisettes. Ne ho viste passare innumerevoli, con i grembiuli candidi e il cesto della spesa sotto il braccio, e più d’una si è scoperta il piedino e la caviglia proprio davanti a me, cercando di saltare da un sasso all’altro in mezzo alla strada fangosa, fra i fischi e le urla di approvazione dei soldati.

Appena rifocillato ho compiuto il mio dovere, come ogni viaggiatore che si rispetti al suo arrivo a Dresda, e sono andato a visitare la Galleria. Nonostante il gran numero di visitatori, l’ispettore signor Riedel ha voluto a tutti i costi accompagnarmi personalmente nella visita, insieme al suo aiutante signor Schweigert. L’ispettore è invecchiato in mezzo ai sacri oggetti che ha il compito di proteggere; ha visto arrivare i capolavori italiani sotto il regno di Augusto III, ha tremato per la salvezza della Galleria durante la guerra dei Sette Anni e ha visto le bombe di Federico cadere nella sala, senza tuttavia danneggiare, per un inesplicabile miracolo, nessuno dei capolavori. Salendo lo scalone d’ingresso il vecchio mi ha additato la prova materiale di quel sacrilegio: le palle di cannone che hanno colpito i muri durante il bombardamento prussiano sono ancora infisse nell’intonaco, e vengono mostrate ai visitatori come testimonianza di un vandalismo irripetibile in questo secolo illuminato. Il signor Riedel è pieno di vivacità, e le sue osservazioni sui quadri sono assai schiette; pochi capelli bianchi fanno corona al suo cranio calvo, ma il più focoso amore per l’arte e per gli artisti, la partecipazione più sincera alla loro vita e alla loro opera lo hanno conservato giovane, mentre altri più giovani invecchiavano accanto a lui. A dire il vero, con quei visitatori che non sanno far altro se non restare a bocca aperta davanti ai quadri, e sono purtroppo la maggioranza, egli è solito fare pochi complimenti e li conduce il più rapidamente possibile attraverso la Galleria; quando poi, come accade fin troppo spesso, gli tocca ascoltare qualche commento stupido, può diventare molto impaziente, e chi potrebbe dargli torto? Ma niente lo rallegra di più che il riconoscere in un forestiero la capacità di apprezzare i suoi quadri come meritano. Il secondo accompagnatore mi ha impressionato meno favorevolmente, e direi che quanto l’ispettore è vivace, altrettanto il suo aiutante è compassato, quasi che i due si fossero scambiati i ruoli che più si addicono alla loro età: poiché il signor Schweigert è un ragazzo di forse diciassette o diciott’anni, assai compreso del suo compito, e in generale di temperamento così riflessivo da non aprir mai bocca se non davanti ai quadri.

Alla Galleria vera e propria si accede attraverso quattro sale esterne, in cui sono appesi uno sull’altro, senza alcun sistema, quadri di tutte le scuole, Poussin accanto a Teniers, Salvator Rosa accanto a Van Dyck; vi si trovano diverse composizioni di prima qualità, fra cui le Tre Grazie, delizioso schizzo di Rubens, e il famoso Vanderbergh. Il signor Schweigert ha voluto specialmente farmi sostare accanto a una Vergine di Holbein: «una Santa Vergine tedesca, non italiana!» come si è compiaciuto di ripetere; e si sarebbe trattenuto a lungo a illustrarmi le differenze di coloritura e di vivacità che facevano di quest’opera un capolavoro dell’autentico spirito germanico, se il suo collega più anziano, alzando le spalle, non mi avesse preso letteralmente per la falda dell’abito per condurmi nella grande galleria interna, interamente consacrata alla scuola italiana. Qui il colpo d’occhio è in verità tale da sorprendere. La sala è grande, da sola, il doppio di casa mia, e le pareti immense sono coperte da cima a fondo dai quadri di Raffaello, del Correggio, del Tiziano, di Battoni. Sarebbe impossibile elencare anche soltanto in parte i capolavori che mi sono stati mostrati in due ore, mentre passavo dalla meraviglia a una sorta di stordimento; certo posso dire di aver compreso qui per la prima volta tutta la grandezza della scuola italiana, e fors’anche le seduzioni della religione cattolica. La Madonna di Raffaello, la Notte del Correggio, la Cecilia di Carlo Dolce, e soprattutto la Maddalena di Battoni non finivano di incantarmi; il disegno e il colorito di questo pittore superano qualsiasi cosa io abbia visto finora. La sua Maddalena non ha ancora cominciato a percorrere il sentiero petroso che porta al cielo; il suo seno sembra fatto per sospirare d’amore, e non di pentimento, le sue labbra sono più avvezze a baciare che a pregare, e non si può non rimpiangere che quei riccioli biondi stiano per essere tagliati da una forbice impietosa. Al secondo posto fra le mie favorite collocherei la Venere del Tiziano, sebbene il signor Schweigert abbia contraddetto questo parere con una pedanteria alquanto sgradevole. «Se il quadro» dice «si chiamasse: Donna sdraiata, del Tiziano, lo troverei meraviglioso; ma come Venere mi lascia freddo e non mi piace. Non capisco, anzi, perché questo quadro sia così spesso citato come esempio di bellezza ideale. Quando la paragono alla Venere leggiadra degli scultori greci, che veramente pare appena uscita dalla schiuma del mare, quella del Tiziano mi sembra solo una servetta seducente. Non c’è altro che carne ben modellata, non manca nessuno di quei difetti che rendono mortale la bellezza di una donna terrestre!» A questo discorso non sapevo bene che cosa replicare, poiché comprendevo che si trattava di osservazioni fin troppo giuste sul piano della critica, e tuttavia non mi trovavo d’accordo con quel ragazzo saccente; per conto mio, se mai dovessi abbracciare Venere, vorrei trovarmi fra le mani qualcosa di più solido della schiuma del mare.

Mentre così riflettevo, ho visto venirmi incontro una creatura sorridente che pareva il modello vivente del quadro così criticato dal signor Schweigert: tanto che si sarebbe potuto credere che Tiziano avesse preso come modella una figlia dell’Ebreo Errante, e che quella stessa lavandaia o cameriera ch’egli doveva aver ritratto nella sua Venere con tanto scandalo del mio cicerone ci stesse ora davanti agli occhi. Per giunta questa deliziosa creatura mi sorrideva come se mi conoscesse, e ci volle qualche secondo prima che mi rendessi conto di trovarmi di fronte a Minettchen. La ragazza mi disse che le sue padrone, la consigliera e sua figlia Bertha, erano in città e che anzi la padroncina si trovava proprio lì, intenta al suo lavoro; come si può immaginare mi sono fatto subito condurre da lei, impaziente di contemplare alla luce del giorno la mia conoscenza notturna. Fin dalla prima occhiata mi sono accorto che non mi ero ingannato, in quella notte memorabile, quando avevo sospettato che nell’oscurità della carrozza si nascondesse una bellezza fuori del comune; e la semplicità dell’acconciatura in cui l’ho sorpresa, con i capelli lisci raccolti all’indietro e fissati da un fermaglio, senza altri gioielli che una collana d’ambra intorno al collo candido, pareva accrescere anziché ridurre il suo fascino. Bertha va ogni mattina alla Galleria, dove ha cominciato a copiare una natura morta di Huysum; se ne sta comodamente seduta accanto a una finestra, con uno scialle sulle spalle per proteggersi dagli spifferi, e il suo modello è appeso al muro proprio davanti a lei. Qui infatti hanno l’abitudine, quando qualcuno vuole copiare un quadro, di staccarlo dal suo chiodo e di lasciare che l’artista scelga da sé il posto più adatto e con la luce migliore per lavorare. «Non ho mai visto una raccolta d’arte dove ci si prenda così a cuore la comodità degli artisti che vi lavorano» ho osservato, dopo che ci eravamo salutati cordialmente; Bertha ha riso e ha replicato che “papà Riedel”, per fortuna, ha in simpatia i numerosi pittori che ogni giorno tornano alla Galleria per copiare. Il vecchio, senza prendersela neppure un po’ per quel modo alquanto sbrigativo di riferirsi alla sua persona, ha sorriso e ha risposto con un inchino. Bisogna dire del resto che tutti ricambiano la sua liberalità con un comportamento adatto alla sacralità del luogo; sicché non accade qui, come in molte altre grandi gallerie, di inciampare a ogni momento in gruppi di persone che disputano o schiamazzano ad alta voce, disturbando la pace dei visitatori e, si vorrebbe credere, anche quella dei capolavori.

Bertha mi ha chiesto se avessi già compiuto la visita della sala, e quando le ho risposto di no è saltata in piedi, dichiarando che per il momento ne aveva abbastanza di dipingere; perciò abbiamo ripreso insieme la visita, accompagnati dai due ispettori. Davanti al San Sebastiano del Correggio il vecchio si è fermato e ha cominciato a raccontare: «Si dice che questo quadro sia l’ultimo del pittore. I canonici della cattedrale di Modena, che lo avevano commissionato, avrebbero pagato all’artista il prezzo pattuito – in rame! Allegri tornò a casa sotto il peso dell’umiliazione, e in pochi giorni ne morì». Se l’occasione è vera, fa poco onore all’Italia, e ci si aspetterebbe piuttosto di vederla verificarsi in Russia anziché nella culla delle arti. Davanti alla Madonna di Raffaello il signor Riedel, la cui memoria lascia affiorare a ogni momento i ricordi più inaspettati, ci ha raccontato un altro aneddoto, di cui lui stesso, questa volta, è stato testimone. La Madonna era giunta a Dresda sotto il regno di Augusto III, proveniente dalla cattedrale di Parma. Non appena il quadro arrivò, il re diede ordine di scaricarlo insieme agli altri arrivati nello stesso giorno e di portarlo nella sala del trono. Al momento di appenderlo, si vide che nessun angolo della sala aveva una luce più adatta di quello in cui si trovava il trono. Immediatamente il re ordinò di togliere di mezzo quel mobile, e aiutò con le sue mani ad appendere il quadro sotto il baldacchino, dicendo che quello era il suo posto. Il signor Riedel aveva le lacrime agli occhi mentre raccontava questo tratto; «questo era Augusto III! Questo era un Elettore di Sassonia!» non cessava di ripetere.

Mentre il signor Riedel si commuoveva, il signor Schweigert fece osservare, con un tono in cui per la prima volta mi parve di avvertire un palpito di umanità, che purtroppo la qualità dei colori usati dagli antichi maestri non era quella che si sarebbe potuto desiderare, e indicò più di un luogo in cui la tela era scolorita al punto da non rendere più riconoscibile la qualità originaria della pittura. Quando tacque mi avvicinai a Bertha e cominciai a parlarle a voce abbastanza bassa perché lei sola fosse in grado di seguire il senso compiuto di ciò che dicevo, sebbene non così bassa da rendere la cosa sconveniente. «Mi rende infelice» mormorai «pensare che fra cinque o seicento anni, di questa creazione e di tutti gli altri capolavori dell’arte italiana non resterà altro che un cadavere róso dai secoli, da cui l’anima se ne sarà andata. La tela ridotta in polvere non sarà ormai più che una sacra reliquia; ma che cosa potranno mai essere gli uomini cui mancheranno simili immagini? Si potrà e si vorrà, nell’anno 2406, sentire che cosa è stato Raffaello per il mondo? Oppure prima di allora un altro avrà saputo riconciliare il cielo con la terra?» Già altre volte ho avuto occasione di osservare che certe giovani persone, di quel sesso che ha per abitudine la più prudente riservatezza nella conversazione con gli sconosciuti, sogliono apprezzare oltre misura la comunanza di pensieri e di sentimenti che si stabilisce davanti a un’opera d’arte, e sono propense a concedere una completa familiarità a chi dimostra di sapersi rendere partecipe delle loro emozioni interiori; calcolavo dunque che la Madonna di Raffaello e la natura morta di Huysum avrebbero costituito il miglior passaporto per compiere qualche rapido progresso. Tuttavia m’ingannavo, poiché quando, senza smettere di discorrere, presi come casualmente il braccio di Bertha, essa si svincolò senza far motto, lanciandomi un’occhiata perplessa; facendo un passo indietro colsi un’altra occhiata, questa volta del signor Schweigert, così palesemente carica di gelosia che pensai fra me e me: “Oh! Oh! La cosa si fa interessante!”.

Conclusa la visita della sala, il signor Riedel ci lasciò, augurandosi di rivedermi spesso nei prossimi giorni; speravo che anche il suo collega sarebbe stato chiamato altrove dai suoi impegni, ma così non è stato, poiché egli, con inutile cortesia, si è offerto di accompagnarci a visitare il gabinetto dei pastelli. Qui il giovanotto ha sostato a lungo davanti a quello che ha proclamato il capolavoro della collezione, il Cupido di Mengs, dichiarando: «Vorrei che Correggio e Albani potessero vedere questo Cupido, per inchinarsi davanti al sentimento tedesco e all’arte tedesca, e per riconoscere che a scorno di tutte le bellezze d’Italia essi non hanno saputo produrre un’immagine come questa!». Poiché il suo entusiasmo mi pareva alquanto eccessivo, ho osservato che per quanto mi risultava il nome della Germania non si era ancora affiancato a quello della Grecia e dell’Italia fra le patrie delle arti; ma avrei fatto meglio a tenere questa osservazione per me, perché Bertha mi ha lanciato un’occhiata assai pungente, e da quel momento in poi mi ha a mala pena rivolto la parola. Maledicendo la mia lingua ho continuato ad accompagnarla, ascoltando in silenzio gli spropositi del nostro cicerone, e al momento in cui la fanciulla ha dichiarato di voler tornare a casa sono uscito con lei. Il signor Schweigert ci ha lasciati a malincuore, inchinandosi molto ossequiosamente davanti a Bertha, e assai meno profondamente davanti a me; anzi si è permesso di allungare una mano e buttar via con un sorriso malizioso un filo di paglia che m’era rimasto appiccicato all’abito. Credo di non aver potuto fare a meno di arrossire, mentre dentro di me mi ripromettevo di fare i conti con Will, per aver spazzolato così negligentemente il mio frac; ma subito dopo un incidente fortunato mi ha permesso di riconquistare il terreno perduto. Uscendo dalla Galleria, ho scorto nella polvere un cartoccino di carta; mi sono chinato a raccoglierlo e vi ho trovato un luccicante ducato olandese. Ridendo l’ho mostrato a Bertha, e per celia le ho chiesto che uso avremmo potuto farne; essa si è guardata intorno, e il suo sguardo si è fermato su una bambina mendicante, che tendeva la mano accovacciata all’angolo della strada. Senza aspettare la sua risposta sono corso dalla piccola e le ho messo in mano il ducato; la bambina lo ha guardato sbalordita, lo ha provato con un morso e poi è scappata via zoppicando senza neanche ringraziarmi. Bertha è scoppiata a ridere, e così al modico prezzo di un ducato ho ottenuto il permesso di riaccompagnarla a casa e l’invito ad andare a prendere il tè domani sera con lei e con la sua signora madre; sicché alla fine della giornata i miei titoli non sono risultati così in calo come era parso a metà mattina.

Giovedì, 25 settembre

Oggi, dopo essermi recato da un friseur che mi ha ridonato non senza fatica un aspetto civile, dopo la seconda notte trascorsa nel tugurio della mugnaia, sono stato presentato all’Elettore di Sassonia. Federico Augusto è un uomo piccolo e sgraziato, di età già avanzata, come del resto la sua consorte, ma di maniere civili e officiose all’eccesso. La sua naturale bonomia si accompagna a una timidezza che dà nel grottesco e che finisce per annullarne in larga misura il merito; e sebbene s’intuisca che tutta la famiglia non manca di cordialità e di buon gusto, non si desidera avere troppo a che fare con loro. Sbadigliando, e scusandosi a ogni momento per gli sbadigli, mi hanno posto le solite questioni, da dove venivo, e se contavo di trattenermi a lungo a Dresda; ho risposto che poiché ero accreditato presso il re di Prussia, non sarei partito prima di aver appreso con certezza se Sua Maestà sarebbe rimasta a Berlino o avrebbe raggiunto l’esercito, e a questa risposta, che rammentava loro l’incombere di una guerra cui partecipano di mala voglia, mi hanno congedato con un sospiro. L’entourage dell’Elettore non è meno decrepito e sonnecchiante di lui, e assomiglia molto alla corte della Bella Addormentata nel Bosco; lo si direbbe un orologio i cui ingranaggi si siano fermati cent’anni fa. Mi avevano bensì avvertito che i costumi e l’etichetta della corte di Dresda sono molto più conservatori di quelli di Berlino, ma non credevo che il puntiglio spagnolesco vi regnasse a tal punto incontrastato: assistendo a un ricevimento si ha l’impressione di rivedere, come in una lanterna magica, una corte del tempo del Re Sole. Così, ad esempio, l’etichetta prevede che l’Elettore non possa rivolgere la parola a nessun ufficiale al suo servizio che non sia almeno colonnello, e questo divieto è osservato con pignoleria, anche nei confronti di ufficiali della Garde du Corps che discendono da famiglie antiche quanto la sua. Le stravaganze di questo cerimoniale rendono particolarmente penoso pranzare a corte, e non mi sorprende sentir raccontare che forestieri di qualità si sono considerati personalmente offesi da mancanze di riguardo che parevano loro inesplicabili, contrastando crudamente con l’ostentata cortesia dei modi cui tutti a corte, dall’Elettore fino all’ultimo dei valletti, si ritengono obbligati. Alla fine del pranzo, per non fare che un esempio, è usanza immemorabile servire una tazza di cordiale, che chiamano “rince-bouches”: ma soltanto i membri della famiglia regnante vi hanno diritto, e i servi passano tranquillamente sotto il naso dei commensali più autorevoli, ministri e generali, per portare magari la famosa tazza a una principessina di tre o quattro anni. Ciò non impedisce che Sua Altezza sia servita molto male dai suoi cuochi e che alla sua tavola si mangi ordinariamente la peggior cucina tedesca, la più grassa e volgare, ciò che spiega il cattivo stato di salute di cui quasi tutti si lagnano. Io stesso, pur non avendo toccato la metà dei piatti e avendo bevuto soltanto champagne, ho patito il brucior di stomaco per tutto il giorno.

Se questi sono i piaceri del pranzo, il resto della giornata non è regolato in maniera più divertente. Ogni mattina i sovrani e tutti i ministri ascoltano la messa, poiché la corte non è soltanto papista, ciò che è già abbastanza stravagante in un paese luterano, ma per giunta bigotta e morale all’eccesso. Per lo stesso motivo non si gioca se non a whist, e con puntate artificiosamente basse; quando la principessa è presente si formano tavoli di soli uomini e di sole donne, giacché gli uomini non possono giocare con la sovrana. Durante il gioco, la conversazione consiste nel ripetere ciò che ha detto il principe, o ciò che è stato detto su di lui, nei toni della più trepida venerazione. Quando l’Elettore è chiamato altrove, sua moglie tiene circolo per conto proprio, cosa tra le più tristi che si possano immaginare. Siede nella sua poltrona al centro del suo salottino e tutte le dame prendono posto attorno a lei, a una certa distanza, in piedi come tante comari, in quanto non siedono mai se non per giocare. La principessa, di quando in quando, rivolge qualche parola a una di loro, che le risponde succintamente senza avvicinarsi né muoversi. Capisco che un’etichetta così divertente faccia sbadigliare i sovrani, non meno dei loro cortigiani. Il teatro è la sola alternativa alla conversazione, ma anche qui il tono dominante è assai compassato; la domenica non c’è spettacolo! Alla fine della partita mi preparavo con sollievo a congedarmi, ma il conte Vitzthum, che porta il titolo quanto mai inappropriato di “Directeur des plaisirs”, mi ha presentato l’invito ad accompagnare le Loro Altezze alla rappresentazione del teatro di corte, distinzione grazie alla quale ho rischiato, come si vedrà, di compromettere irrimediabilmente i miei progressi nel cuore di Bertha.

Si dava la Fedra di Racine, recitata in francese, ma con un tale accento tedesco che ho dovuto mille volte sforzarmi per non scoppiare a ridere. Tutti a corte del resto, dall’Elettore in giù, parlano il tedesco più crasso, e la parlata di un ministro non si distingue da quella di un bettoliere se non per il numero di spropositi francesi di cui il primo si sforza di lardellare i suoi discorsi. Forse il solo uomo la cui conversazione meriti di essere ascoltata è il gran ciambellano conte Marcolini, un vecchio italiano incipriato; a quanto mi dicono è il consigliere più intimo dell’elettore, e in grazia del suo ufficio è addentro a tutti i misteri della corte. Apprendendo la mia nazionalità, si è congratulato con me e ha affermato di nutrire la più grande amicizia per gli americani, aggiungendo che a suo modo di vedere diventeremo presto la prima nazione del mondo; un complimento dettato, temo, più da un inveterato spirito cortigiano che da autentico convincimento. Al tavolo da gioco, interrompendosi di tanto in tanto per lisciarsi il naso o per mettere distrattamente in mostra i polpacci ben torniti, il conte mi ha fatto il più sviscerato elogio del suo sovrano e del governo, lasciando in ombra con simulata modestia il proprio ruolo. «Il mio merito principale» dice sorridendo «è quello di aver costretto per molti anni il Serenissimo a lunghe passeggiate nei boschi e in montagna, soprattutto durante la villeggiatura. Poiché oggi ella ha provato la cucina dei nostri cuochi di corte, capirà che questa pratica ha concorso non poco a migliorare la digestione del Serenissimo e a rafforzarne la salute; e indegnamente ho così meritato la gratitudine del sovrano e del popolo.» Tutto, nel suo modo di fare, indica che ha studiato a fondo il carattere dell’Elettore e che lo mena come vuole, sotto colore di un’estrema e servile devozione. Fra gli altri uffici ha quello di dirigere le famose fabbriche di porcellana, il cui passivo ammonta a non meno di cinquemila talleri al mese, e beninteso è favolosamente ricco; a suo merito va detto che passa per uno degli ultimi a Dresda a saper vivere come una volta en grand seigneur, cosa non sempre facile anche se si hanno quarantamila talleri di rendita. A teatro ci siamo trovati vicini e mentre sulla scena si straziava la Fedra mi ha raccontato di aver conosciuto Casanova negli anni delle sue più straordinarie imprese. «Alla morte del veneziano ho offerto agli eredi tremila talleri per il manoscritto delle sue memorie, ma ahimè, senza successo! Ma mi raccomando», ha aggiunto sorridendo, «non lo racconti all’Elettore mio padrone.» Non finisco di stupirmi del linguaggio di questi cortigiani, che con tutti i loro titoli e le loro croci possono chiamare un altro uomo il loro padrone, con l’aria più naturale del mondo; non c’è che l’Inghilterra, in Europa, dove un gentiluomo bennato riputerebbe disonorante parlar di sé in questi termini.

Alla fine dello spettacolo me la sono svignata e sono saltato sul primo fiacre di passaggio, dando l’indirizzo della consigliera; ma naturalmente sono arrivato in ritardo, il tè era già finito, e gli ospiti se ne stavano andando. Nel cortile del palazzo le carrozze manovravano a fatica, fra le maledizioni dei cocchieri; facendomi strada fra le gambe dei cavalli sono entrato in casa e sono andato a presentarmi a madama, che mi ha accolto piuttosto freddamente. Subito dopo il mio arrivo gli ultimi invitati si sono congedati e mi sono trovato solo con madre e figlia. La consigliera si è informata di ciò che mi era accaduto dopo il nostro fortunoso incontro nelle sabbie prussiane; Bertha taceva, evidentemente stanca e desiderosa che me ne andassi. Bevendo una tazza di tè ormai freddo, ho voluto informarmi sui progressi della sua copia, ma non ho ottenuto in risposta che monosillabi. Per rompere il silenzio, poiché su una poltrona vuota c’era una gazzetta spiegazzata, ho chiesto loro se avessero appreso qualche notizia dal mondo; che non è, lo ammetto, un modo abile di stare in società. La consigliera ha raccolto il foglio e me l’ha spiegato sotto il naso, additandomi un articolo: «Mio caro signor Pyle, il suo dev’essere un paese ben curioso! Ecco, i giornali annunziano che a New York imperversa la febbre gialla. È mai possibile vivere in un paese minacciato da simili malattie?». Questa graziosa interrogazione ha avuto il potere di irritarmi profondamente. Che idea spaventosa molti ignoranti in Europa si fanno dell’America! A sentir loro, chiunque si avventuri laggiù corre un gran rischio di lasciarci la pelle, vuoi per i selvaggi, vuoi per la febbre gialla. Per conto mio, sono convinto che queste idee siano diffuse da furfanti al soldo dei governi, allo scopo di scoraggiare l’emigrazione; e non ho mancato di comunicare questa convinzione a Bertha e alla consigliera, che tuttavia non ne sono rimaste persuase. «Anche Fritz, il nostro lacchè, voleva emigrare in America, ma noi l’abbiamo convinto a rinunciare a questa assurdità» ha esclamato Bertha fieramente. «Mi piacerebbe proprio sapere con quali argomenti» ho ribattuto, piccato. «Lo chieda a lui stesso, se ciò può farle piacere» ha concluso la consigliera, e senz’altro ha mandato a chiamare Fritz. Costui era un ragazzone sui diciotto o diciannove anni, che avevo già notato nell’anticamera. «Allora!» gli dissi. «Non ti piacerebbe andare in America?» «Oh no», replicò stolidamente il giovane, «preferisco rimanere dove sono.» La gente, aggiunse, crede che in America i soldi crescano sugli alberi, ma quelli che ci vanno si accorgono presto del loro errore, e scoprono che bisogna lavorare duro come in Europa. «Perché?», ho aggiunto; «non scrivono forse tanti tedeschi emigrati in America, e non danno un resoconto favorevole della loro situazione?» «Ah», ha replicato il lacchè, «ma questo non fa nulla; se scrivono cattive notizie, il governo in America apre le lettere e le ferma, così noi non possiamo riceverle.» «Come» ho esclamato, trattenendomi a stento, «credi che il nostro governo sia come i vostri odiosi governi europei, che hanno paura di tutto? Perché mai il governo dovrebbe preoccuparsi se i tedeschi emigrano o non emigrano in America?» «Be’», ha concluso Fritz, «sappiamo bene che avete la guerra con gli indiani, e che vi serve gente per combattere!» In un altro momento non avrei potuto che ridere di cuore di queste assurdità; oggi, tuttavia, ho provato una rabbia inesprimibile al constatare che Bertha e sua madre ne erano persuase al pari del loro domestico. Perciò ho finito in fretta di bere il tè e me ne sono andato, promettendo a Bertha che sarei tornato a trovarla alla Galleria; ma dentro di me ero furibondo per la cattiva piega presa dalla nostra conoscenza.

Per fortuna, al momento di andare a dormire ha pensato la padrona di casa a consolarmi. Amalia, poiché così si chiama la vedova del mugnaio, è una bella donna alta, col petto largo e i fianchi robusti, occhi ridenti e guance rosse come mele. L’abbigliamento è quello di tutte le popolane sassoni: una cuffia in capo da cui sfuggono ciocche di capelli castani, appena striati dai primi fili d’argento; un fazzoletto pulito a coprire la gola e il seno, una camicia lisa e sgualcita, cui manca più di un bottone, una gonna bruna rattoppata e su di essa un grembiule anch’esso rattoppato; le gambe forti riscaldate da calze di filo nero, gli zoccoli di legno ai piedi. In questi giorni non le ho mai visto addosso nient’altro e credo che non possieda altri capi di vestiario, se non il vestito da sposa conservato accuratamente nella cassapanca, con cui va a messa la domenica e in cui sarà sepolta; le sue quattro bambine vanno scalze e vestite di stracci. Eppure, nonostante la sua miseria, essa ride sempre, chiacchiera fitto nella buffa parlata sassone, e riesce a tenere pulita la stanza in cui vivono cinque persone. Ma la sua qualità più saliente è una compiacenza che finora non ho riscontrato se non assai raramente fra le tedesche: mentre infatti, a Dresda come a Berlino, le donne della buona società d’ordinario non la danno se non dopo una seccante insistenza, fra mille smorfie e ripensamenti, proprio come a New York, la mugnaia la dà gioiosamente e senza esserne stata richiesta. Ieri sera ha atteso alzata il mio arrivo, e quando sono entrato in casa mi ha mostrato il giaciglio che aveva preparato per sé e per le bambine, e il lenzuolo di bucato che aveva disteso sul mio letto. Will era in cortile, a cercare non so cosa nel baule, e mentre mi parlava Amalia continuava a toccarmi i bottoni della camicia; dapprima credetti che ammirasse la finezza della batista, ma non tardai ad accorgermi che i suoi pensieri erravano in tutt’altra direzione. Perciò mi affacciai alla porta, dissi a Will che poteva senz’altro sistemarsi nella carrozza per la notte, e che non avrei più avuto bisogno di lui. L’obbligo di mantenere il più assoluto silenzio, per non svegliare le bambine, e l’umidità che sconsiglia di svestirsi se non il minimo indispensabile allo scopo non hanno tolto nulla al piacere che ho provato con la vedova. Essa, seguendo un’abitudine che deve esserle stata insegnata dal suo defunto marito, ama soprattutto farsi prendere en levrette, e trema così forte sotto di me, stringendo le labbra per non gridare, che tutti i vicini debbono aver riconosciuto il cigolio del letto, indovinando di quale natura siano i nostri rapporti.

Venerdì, 26 settembre

Sono a Dresda ormai da tre giorni, e fino a questo momento mi sono piuttosto annoiato in questa Atene della Germania, se si escludono, si capisce, i divertimenti notturni. La vita che si conduce qui è di regola assai compassata, e nessuno è capace di quelle invenzioni geniali che danno il tono alla vita di società; a chi desideri passare piacevolmente il suo tempo non si sa proporre se non di dar da mangiare ai cigni al fossato dell’Orangerie, o di andare al Palazzo Giapponese a vedere la collezione di porcellane. Ciò dipende forse dal fatto che troppi forestieri vengono qui soltanto per ammirare i tesori che la città conserva, e sono ben contenti di passare la mattina alla Galleria, e il pomeriggio al museo; per conto mio trovo che vi sia qualcosa di stravagante nel viaggiare soltanto per vedere delle cose, per quanto belle possano essere. Come se non bastasse, tutto ciò costa in modo scandaloso, se si considera che il proprietario di tutto quanto è il principe, il quale non ha onta di costringere i forestieri a mettere ad ogni istante mano alla borsa per ammirare le sue collezioni. Il mio domestico di piazza mi ha detto che per visitare la biblioteca bisogna dare un ducato al guardiano e un fiorino al suo aiutante; al museo, spettano un luigi al primo guardiano, due scudi a un altro, e un fiorino al servitore. Anche alla Galleria ho pagato, ma là, almeno, c’è un portinaio incaricato di ricevere il denaro; avrei voluto vedere la faccia di Bertha, se uscendo dalla Galleria avessi allungato un paio di scudi al giovane Schweigert!

Può apparire inverosimile che proprio in questa città, dove non solo le persone del gran mondo, ma anche i mercanti e perfino gli artigiani possiedono denaro e educazione, e dove sono riuniti i più grandi capolavori dell’arte di tutti i tempi, la vita sia così noiosa; ma il tono della corte e l’influenza che essa esercita sulla società offrono la soluzione fin troppo ovvia dell’enigma. L’Elettore è forse il più onesto, il più religioso e il più pacifico dei principi tedeschi, ma il formalismo e la bigotteria ch’egli impone a chi lo circonda si allargano come l’onda di un sasso a tutta la società, accentuando fino al grottesco la tendenza alla tranquillità e alla sonnolenza che sono già così ben presenti nel carattere tedesco. Anche gli orari si adeguano alla flemma generale: l’Elettore pranza all’una, come un contadino, e tutti i nobili si credono in dovere di imitarlo, perpetuando un’abitudine che dev’essere stata codificata dall’etichetta al tempo di Carlo Magno. Si aggiunga che l’accesso alle case private è qui più difficile che in qualsiasi altra città da me visitata, senza eccettuare Boston o Filadelfia; e non solo perché la nobiltà sassone è povera, e molte famiglie non possono ricevere, vivendo in quartieri d’affitto. Il fatto è che in società, come a corte, la separazione delle classi è osservata con più rigore di quel che si faccia in Cina. Il timore di abbassarsi ricevendo persone che potrebbero rivelarsi socialmente inferiori fa sì che ciascuno non riceva se non le persone con cui vive nella più consolidata intimità, e anche allora il rango è rispettato senza timore del ridicolo: io stesso ho visto una zia baciare la mano di una nipotina, una bambina di nemmeno sei anni, chiamandola «mia cara contessa»! Il forestiero di passaggio, se non dispone di lettere di presentazione, non ha che una sola occasione di stare in società, facendosi ammettere a una specie di circolo che chiamano la Ressource, e che si tiene ogni pomeriggio all’Hôtel de Bavière, nel vicolo del Castello; ma anche qui l’etichetta è osservata col massimo puntiglio. Il conte Marcolini, che mi ha presentato, pareva trarne ragione di vanto. «Per esempio» mi disse indicandomi un vecchio in uniforme che sedeva a un tavolo da gioco, impegnato in una partita a whist, «quello è uno dei generali più rispettati del nostro esercito, e benché non sia nobile, si è convenuto di ammetterlo fra noi, così come è ammesso a corte; ma suo fratello non potrebbe mai metter piede alla Ressource. La situazione elevata che il generale occupa nell’esercito è un passaporto sufficiente per la sua persona, ma non per quelle dei suoi familiari.» «E il generale» ho indagato «accetta di trascorrere i suoi pomeriggi in un luogo dove è soltanto tollerato, e dove suo fratello verrebbe scacciato se osasse presentarsi alla porta?» Il conte Marcolini è parso sinceramente scandalizzato. «Ma mio caro signor Pyle, non deve prendere tutto così alla lettera! Il generale è fiero di essere ricevuto a corte, e di conseguenza alla Ressource, così come dev’esserlo chiunque debba una distinzione così insigne soltanto ai propri meriti. Quanto a suo fratello, non potrebbe mai venirgli in mente di presentarsi qui, e perciò la sua ipotesi non ha alcun fondamento. Del resto è una persona amabilissima, e intrattiene ottimi rapporti con la migliore società; non è ricevuto a corte, ma ciò non impedisce che il sovrano e persone della prima distinzione vadano a trovarlo a casa sua.» Ho dichiarato che un’usanza del genere mi pareva assai scomoda, e soprattutto priva di giustificazione, dato che per contro i forestieri sono ricevuti dappertutto, a quel che mi pare, con la più grande libertà: l’etichetta che proibisce a chi non sia nobile di mettere piede a corte o alla Ressource si applica soltanto ai tedeschi. «Ma, signor mio!» ha ribattuto il conte. «Nessuno potrebbe essere così scortese con i forestieri da informarsi sui loro quarti di nobiltà, soprattutto con voialtri inglesi e americani, che tenete così poco alle distinzioni di nascita.» Curiosa idea, debbo dire, che si fanno sul continente di noi e soprattutto degli inglesi!

L’esclusione dei borghesi non basterebbe comunque, di per sé, a rendere la Ressource un luogo così noioso; il colpo di grazia è dato dal fatto che l’ingresso è consentito soltanto agli uomini. A quanto mi è parso di comprendere, questi bravi sassoni sono persuasi che il vertice della raffinatezza sia rappresentato da un club inglese, e poiché laggiù le signore non sono ammesse, hanno creduto opportuno d’introdurre anche qui la medesima regola. Alla noia si rimedia stappando più bottiglie e alzando le poste al whist; non si può neppur dire che la conversazione sia sostenuta, poiché anche fra uomini non c’è affatto l’abitudine di parlare di politica, e non si discorre che di billets-doux, galanterie, pettegolezzi e canzonette. E si noti che in Sassonia, a quanto mi assicurano concordemente tutti i forestieri, il governo è mite, la libertà di stampa indiscussa e le lettere non vengono aperte! Con tutto ciò, i giornali non sanno occuparsi d’altro se non dell’ultimo castrato assunto per la cappella dell’Elettore, tanto da far rimpiangere le corrispondenze delle gazzette berlinesi. Di tanto in tanto arriva il “Journal de Paris”, ma anche questa lettura non è fatta per stimolare lo spirito; non vi si parla che di sciocchezze. Un intero numero è dedicato a un altro caso della tragedia di Otello accaduto in Italia, nei dintorni di Genova. Un amante geloso ammazza l’amica di quindici anni e di rara bellezza, scappa, scrive due lettere, verso la mezzanotte ritorna dov’è il corpo dell’amante, nella cappella paterna, e lì si uccide con un colpo di pistola come aveva ucciso lei. Altre volte i fatti curiosi danno luogo a dotte speculazioni scientifiche, che consentono di riempire le pagine del giornale senza dover arrischiare notizie o commenti sulla congiuntura politica, a scanso dei fulmini di Bonaparte. Secondo il “Journal de Paris” è possibile che un uomo partorisca un bambino e che rimangano in vita entrambi; il fatto sarebbe successo in Olanda.

I bellimbusti, prima di salire alla Ressource, si fanno leggere dal lacchè due o tre pagine di queste gazzette, e si preparano qualche argomento di conversazione con cui far colpo sull’assemblea. In compenso quasi nessuno parla della guerra, giacché i sassoni hanno ben poca voglia di farla, e si sono lasciati trascinare a questo passo assai malvolentieri. In generale ho già notato che fra prussiani e sassoni non c’è più amicizia di quanta ne corra fra inglesi e francesi; i sudditi dell’Elettore considerano quelli di Federico Guglielmo dei palloni gonfiati, e solo la coscienza ch’essi hanno della propria debolezza militare li ha obbligati a ricercare l’alleanza della Prussia. I soli a osar esprimere la propria opinione in proposito sono i nemici più accaniti della Francia, per lo più forestieri; e costoro, si capisce, son tutti quanti persuasi che la guerra sia già vinta, e che Bonaparte sia prossimo a pagare il fio delle sue malefatte. Al tavolo da gioco un signore incipriato, con un impossibile panciotto a righe color pulce, camoscio, blu e canarino e con le guance ravvivate da un tocco di rossetto, paragonava favorevolmente la guerra che sta per scoppiare a quella dell’anno scorso. «Ho assistito da Vienna» diceva «alla guerra dell’Austria; si vede che ero destinato ad assistere da Dresda a quella della Prussia. Ma l’impressione suscitata dall’uno e dall’altro spettacolo è ben diversa! A Vienna, mentre i reggimenti partivano, mi assediavano i più neri presentimenti, ma questa volta mi animano il coraggio e la speranza. Questa guerra non è opera degli uomini; è la Provvidenza che l’ha voluta.» «E se la guerra non dovesse scoppiare?» ho obiettato, un po’ urtato da quel tono oracolare. «In tal caso», ha risposto con un fatuo sorriso, «la posizione generale della Germania si troverà sempre enormemente migliorata. Ma io credo che scoppierà; è impossibile, impossibile, ripeto, non vedere la mano della Provvidenza negli avvenimenti degli ultimi tempi. Quando si conosce la storia di ciò che è accaduto a Berlino in due mesi, in tutti i dettagli più riposti, come la conosco io», si è vantato, «ci si trova qualcosa di miracoloso. La Prussia pareva già bell’e divorata, chiunque non fosse accecato dalla parzialità o dall’ambizione si accorgeva che Bonaparte si preparava a farne un sol boccone; e ora, come per miracolo, la Prussia si è armata, e i francesi, come fulminati, si accorgono che la vittoria sta sfuggendo dalle loro mani. In questa origine provvidenziale, nella rapidità estrema dell’esecuzione, nella cecità ostinata del nemico, nel vantaggio incalcolabile che Bonaparte ha concesso alla Prussia lasciandole il tempo di armarsi, trovo il presagio di tutti i successi. Non ho il minimo dubbio che questa guerra non divenga generale. Sarà vigorosa, sanguinosa e decisiva», ha profetizzato, aprendo una bottiglia di vino italiano e buttando via abilmente le gocce d’olio che vi nuotavano sopra; dopodiché ha riempito i calici all’intorno e ci ha invitati a brindare a sue spese alla sconfitta dell’usurpatore. Incuriosito da tanta sicurezza, ho chiesto con chi avevo l’onore di parlare; l’uomo dal panciotto, porgendomi una mano molle e trattenendo la mia più a lungo del necessario, si è presentato come il cavalier von Gentz, segretario della legazione austriaca, ed ho così appreso di aver a che fare con un diplomatico e non, come avevo creduto a tutta prima, con un giornalista o una spia. A sua volta il cavaliere, appreso il mio nome e la mia qualità, mi ha esibito la più grande e immotivata simpatia, assicurandomi della sua stima per il mio paese con un calore di cui ho ben appreso, qui a Dresda, a valutare la sincerità.

Più tardi, all’Opera, sfortuna ha voluto che incontrassi il medesimo gentiluomo, munito questa volta, sotto il frac, di un ineccepibile gilet di picché bianco; appena mi ha visto, ha fatto ampi cenni con la mano invitandomi nella sua loggia, e mi ha salutato con un «Mio divino Robert!» che mi ha fatto una pessima impressione. La sala è un magnifico saggio d’architettura, paragonabile all’Opera di Berlino, e anzi più spaziosa; l’illuminazione era regale, tanto che per la prima volta in vita mia potrei dire, approvando un luogo comune, che ci si vedeva come di giorno. La musica era all’altezza della sala, e la primadonna, che altri non è se non la famosa Paer, addirittura superiore alla sua fama; almeno così mi è parso di poter giudicare nei pochi momenti in cui mi è stato dato di ascoltarla, poiché il cavalier Gentz non ha cessato per un momento di chiacchierare nel tono più volubile. Oltre a noi due sedeva nella loggia un diplomatico svedese, che ha appena ricevuto la nomina all’ambasciata del suo paese a Parigi; e il nostro comune amico non poteva consolarsi della sua partenza. «Mio adorato!» badava a ripetere, «la vostra nomina è stata per me un colpo da cui non ho ancora potuto risollevarmi. Certo», ha proseguito poi con un sorriso melato, «il vostro zelo per il bene pubblico non vi ha permesso di rifiutare, questo lo capisco perfettamente; ma sono così desolato che siate stato messo nella necessità di accettare quest’incarico! Se penso che un’anima pura ed elevata come la vostra si troverà in contatto con la residenza di tanti crimini e orrori, mi vengono le convulsioni. Se laggiù sarete infelice, nessuno potrà compiangervi più profondamente di me; se vi sarete felice, la mia disperazione sarà completa. In tutti i casi l’idea di sapervi a Parigi mi tormenta e mi confonde, e non mi ci abituerò mai» ha concluso, con una smorfia corrucciata e in tono di falsetto. Ho scherzato dicendo che se il diavolo non ci avesse messo la coda, a giudicare dalla piega che stavano prendendo gli avvenimenti noi, che restavamo in Germania, avremmo visto Bonaparte prima del suo amico che se ne andava a Parigi. «Oh, lo spero proprio!» ha replicato. «Spero di vederlo passare in catene sotto la Porta di Brandeburgo; e in quel caso mi dispiacerebbe che fra le tante usanze terribili di quei malvagi romani non sia stata risparmiata almeno questa, di condurre il nemico prigioniero dietro al carro del vincitore, e poi di strangolarlo la notte stessa nel buio del carcere!» Lo svedese ha osservato qualcosa circa il fasto che a quanto pare circonda la corte di Bonaparte, più degno in verità di un Vercingetorige che di un Cesare; e Gentz ha colto la palla al balzo. «Ecco! E noi dovremmo inchinarci davanti a questo re da teatro? Fra poco, vedrete, la sola idea di averlo potuto pensare ci parrà umiliante. “Quel giorno” dice il Signore “ti libererò dal potere degli Assiri, il loro giogo non peserà più sulle tue spalle.” Allora guarderemo fisso il grand’uomo e ci chiederemo: “È questo l’uomo che sconvolgeva la terra e faceva tremare i regni? L’uomo che abbatteva città e trasformava il mondo in un deserto? L’uomo che non liberava mai i suoi prigionieri? Il suo cadavere è rimasto sotto i corpi dei soldati morti in battaglia”.» Sentir citare il profeta Isaia da un dandy austriaco mi ha per la verità alquanto sorpreso; ma la citazione non avrebbe potuto essere più appropriata, e così ho dovuto riconoscere al cavaliere un talento che non gli avrei mai accreditato di primo acchito.

Sabato, 27 settembre

Oggi a mezzogiorno ho assistito al cambio della guardia davanti al Castello. Questa residenza principesca si distingue a mala pena dagli edifici che la circondano, tanto è vecchia e fuligginosa, come quasi tutti i palazzi qui a Dresda: dove la propensione diffusa per l’arte e per gli studi, e i tesori inestimabili conservati nelle collezioni, non si accompagnano a un analogo buon gusto negli edifici pubblici e privati, che in gran parte si direbbero appena usciti dal più buio Medioevo. La compagnia di servizio al Castello è composta da un capitano, un alfiere con la bandiera e quaranta uomini in divisa rossa e gialla; una truppa mal messa, che non sa né marciare, né maneggiare le armi in modo appropriato, che esegue manovre complicate e fa il servizio con quella trascuratezza che dà prima di ogni altra cosa il carattere a un corpo. Se gli altri reggimenti dell’Elettore non sono migliori di questo, non sorprende ch’egli abbia così poca voglia di fare la guerra; e i sassoni dovrebbero dire alla loro spada, come Benvolio: “Dio non voglia ch’io abbia bisogno di te!”. Per il resto, il cambio avviene suppergiù come a Berlino, e la folla accorre ogni giorno allo spettacolo, e applaude i soldati con lo stesso entusiasmo, nonostante il povero spettacolo che offrono. Per caso, a poca distanza da me ho scorto Bertha, che applaudiva con zelo; il signor Schweigert stava al suo fianco, e la teneva familiarmente sotto il braccio. I due mi voltavano le spalle, e non si sono accorti della mia presenza; quando la guardia è rientrata e la folla dei curiosi si è dispersa, Bertha ha alzato gli occhi verso il Castello, e ha continuato a sostare a lungo, col capo appoggiato alla spalla del suo accompagnatore, ammirando col naso in su i campanili della chiesa cattolica. Ascoltando la loro conversazione ho sentito il giovanotto che diceva alla sua compagna: «Ci sono monumenti più maestosi di questo a Dresda, e monumenti creati da artisti tedeschi, il cui cognome grazie a Dio ha un suono barbarico e non finisce né in o né in i! Se volete, oggi pomeriggio vi condurrò a vederli». Così dicendo i due si sono incamminati verso la piazza, allacciati l’uno all’altra, senza aver fatto caso a me; e poco dopo li ho visti passare al piccolo trotto su un tilbury guidato dallo stesso Schweigert. Il giovanotto portava stivali all’assiana e impugnava la frusta con la più grande energia, e insomma non aveva più l’aspetto di un pedante, quale mi era apparso il primo giorno; sicché mi sono rassegnato al mio destino, e ho deliberato di evitare ormai ulteriori incontri con Bertha.

Poiché cadeva qualche goccia di pioggia, sono entrato nella chiesa cattolica, con l’idea di ammirare le statue; e qui ho trovato Minette che riposava seduta su una panca, circondata da innumerevoli cartoni di acquisti che la sua padrona le aveva lasciato l’incarico di riportare a casa. Posso giurare che finché i begli occhi nocciola della padroncina mi avevano affascinato, non avevo nutrito la benché minima intenzione nei confronti della cameriera; ma ora che, per così dire, mi ritrovavo libero, non ho potuto fare a meno di osservare la freschezza del suo colorito e la vivacità dei suoi riccioli biondi, e di concludere che mi trovavo davanti a un esemplare fra i più graziosi della sua classe. Minettchen, visibilmente stanca, ha tuttavia sorriso quando mi ha riconosciuto, e voleva alzarsi; ma appoggiandole le mani sulle spalle l’ho costretta a restare tranquilla e mi sono seduto familiarmente accanto a lei. Io ho sempre avuto per principio di non ingannare con promesse le ragazze della sua condizione, ma di pagarle per ciò che esse mi danno, sicché le ho detto francamente: «Mia bella Minette, se l’altro giorno all’uscita dalla Galleria fossimo stati soli, quel ducato sarebbe stato per te; ma poiché il destino ha voluto altrimenti, permettimi di rimediare alla sua malcreanza, e di aggiungere ancora qualcosa per ricompensarti della dilazione». Così dicendo ho tirato fuori di tasca un luigi e glie l’ho messo in mano, poi l’ho attirata verso di me e ho cercato di baciarla. Ma evidentemente era destino che i miei affari dovessero andar male colla cameriera così come con la padrona, perché Minettchen si è sciolta con violenza dall’abbraccio, ha scagliato a terra la moneta e mi ha dato un sonoro ceffone; poi, senza neppure guardarmi, ha raccolto i suoi pacchi ed è fuggita, lasciandomi con un palmo di naso. Se mi avessero detto, quella notte fra le sabbie della Prussia Orientale, che tante speranze e tanti castelli in aria sarebbero naufragati così ignominiosamente!

Nel pomeriggio, in mancanza di meglio, sono andato a far la partita alla Ressource. Qui ho avuto la sorpresa di incontrare un Mr. Gibbs, un gentiluomo della Carolina del Sud, di grandi mezzi e di interessi artistici, giunto a Dresda pochi giorni fa nel corso del suo Grand tour, proveniente da Vienna. Nonostante la soddisfazione d’incontrare un compatriota, non ho tardato ad accorgermi che si trattava di uno sciocco; ma la sua conversazione era egualmente divertente, e così l’ho lasciato parlare, giacché non chiedeva di meglio. Prima di risalire verso settentrione ha visitato Genova, la Sicilia, Napoli, Roma e Milano, e non ha parole per lagnarsi della rapacità e miserabile improntitudine con cui albergatori, ciceroni e vetturini pelano gli stranieri in Italia. «Sul passo del Gottardo» dice «mi son voltato a guardare indietro, e non ho provato il più piccolo rimpianto. Non avrei mai creduto che avrei lasciato l’Italia con tanta gioia, ma ero stato così continuamente ingannato durante tutto il viaggio che sono stato ben felice di voltarle le spalle, con tutte le sue bellezze; e ancora adesso non provo nessun rimpianto al pensiero che non c’è per me alcuna probabilità di riveder mai quei paesaggi deliziosi.» Egli aggiunse che il suo piacere si era accresciuto quando, lasciata Vienna, si era infine ritrovato in un paese protestante; a suo giudizio i climi freddi producono temperamenti più onesti, nonché un sentimento religioso più sincero. «Ho osservato» aggiunse dandosi arie filosofiche «che c’è in Europa una sorta di linea, a partire dal Reno fino al Danubio, pressappoco come la linea dei paesi vinicoli, e tutti quelli che stanno a sud sono generalmente cattolici, e al nord protestanti.» Rimase alquanto deluso apprendendo che provenivo da un paese situato ben più a settentrione e che nonostante la desolazione sarmatica del clima era indiscutibilmente cattolico; non aveva idea, disse, che i polacchi, un popolo considerato con tanta simpatia in tutto il mondo, fossero papisti. «Dovete però concedere» volle insistere «che i climi caldi non danno buoni risultati; più si va a sud, più abietto e degradato diventa il popolo.» Anche in questo caso dovetti disilluderlo sulla base delle mie esperienze in Polonia, pur concedendo volentieri che i più grandi miglioramenti nelle scienze hanno avuto origine nei paesi nordici.

L’altro argomento che ritorna costantemente nella conversazione di Mr. Gibbs è la considerazione universale di cui, secondo lui, gode l’America sul continente. «Non appena scoprono che siamo americani, danno prova della più grande curiosità nei confronti del nostro paese. È piacevole constatare con quanta rapidità il nostro paese stia crescendo in importanza, e eccitando l’attenzione e l’ammirazione del vecchio mondo!» Ho scordato di menzionare che Mr. Gibbs è molto giovane, ciò che rende comprensibile un certo eccesso di entusiasmo e una disposizione ad attendersi dal mondo la medesima benevolenza con cui egli guarda attorno a sé. Il principale insegnamento che ha ricavato dal suo viaggio è che la natura militare delle monarchie europee le condurrà presto o tardi alla rovina, mentre il nostro paese, risparmiando le forze, non tarderà a superarle. «Mentre l’Europa spreca la sua forza in perpetui sommovimenti, gli Stati Uniti, benedetti dalla più profonda pace e da un eccellente governo, guadagnano ogni giorno in ricchezza e potere, e ascendono con passo tranquillo, ma rapido verso il seggio più cospicuo fra le nazioni» ha sentenziato. Gli chiesi se non gli era capitato, come a me, di incontrare persone, e non soltanto delle infime classi, che nutrivano le idee più bizzarre nei nostri confronti. «Oh sì!» ammise. «Ad Auxerre salì sulla diligenza un francese, molto curioso a proposito degli Stati Uniti: non erano forse vicino all’Asia? Gli dissi di no. “Alors,” continuò, “ils sont tout près de l’Afrique.” “Pardon, Monsieur, point du tout.” “Diable comme je me trompe! Ils sont dans le voisinage d’Europe.” Fui costretto a informarlo che s’ingannava di nuovo. “Foutre!” replicò. “Est-il possible? Où sont-ils donc, Monsieur?”56 Per metter fine alle sue indagini, gli dissi che si trovavano fra l’Africa e l’Europa, e questa spiegazione parve accontentarlo. Tuttavia per l’intero pomeriggio non poté togliersi di testa ch’eravamo africani, e continuava a chiedermi se non faceva “diablement chaud”57 nel nostro paese, e come ci piacevano i nostri vicini, i turchi.» «Vedete dunque!» continuai ridendo. «Ecco la considerazione, e il seggio più alto fra le nazioni!» «Eppure» ribatté «anche costoro in fondo ci ammirano. Quel medesimo francese che aveva tanti problemi a situarci sulla carta geografica, apprendendo che ero diretto in Italia e poi in Germania mi chiese dove avevo trovato il coraggio di lasciare il mio paese per viaggiare in contrade lontane senza conoscerne la lingua. Aggiunse che avrebbe avuto paura ad andare in America senza capire l’inglese. Gli risposi che gli americani sono una strana gente, che scorrazza per tutto il mondo senza darsi pena d’imparare prima le lingue, e mi parve che la sua ammirazione nei miei confronti fosse piuttosto accresciuta da questa replica.» A questo punto un gentiluomo che aveva chiesto il permesso di sedersi a pranzare al nostro tavolo, e che aveva fino allora ascoltato sorridendo la nostra conversazione, intervenne con un piccolo inchino, e disse ch’egli conosceva bene le intenzioni dell’America. Alquanto sorpreso, mi permisi di chiedergli che ci illuminasse, e il brav’uomo, ammiccando cordialmente a me e a Mr. Gibbs, esclamò: «Voialtri americani siete più profondi di quanto la gente non creda! Ora non parlate che di pace e d’amicizia, ma state solo aspettando di diventare più forti, e poi caccerete tutti gli europei dall’America!». Prima che l’uno o l’altro di noi, incassato il colpo, fosse in grado di replicare, egli continuò: «Non dite nulla, non mi convincerete del contrario! Ho osservato a lungo la politica mondiale: sono stato abbonato per anni a un giornale di Parigi!». Che qualcuno debba pretendere di scoprire la politica americana attraverso le gazzette francesi, le più spregevoli di tutte le pubblicazioni, parve a me e a Mr. Gibbs così comico che non potemmo fare a meno di scambiarci un’occhiata, reprimendo a stento l’ilarità.

Partito Mr. Gibbs, ho fatto la partita col grasso Bose, come lo chiamano tutti, capitano della Garde du Corps, e gli ho vinto parecchi scudi, che non so quando mi pagherà. Per quanto ho capito, l’uomo è criblé de dettes,58 e non ha un tallero di suo; ma alla morte di una zia sarà uno degli uomini più ricchi di Dresda, e perciò tutti lo ricevono con riguardo, e i negozianti non gli lesinano il credito. Nonostante queste premesse poco raccomandabili, il capitano ha il merito della serata meno noiosa ch’io abbia finora trascorso in questa capitale delle arti. Finché la compagnia è stata riunita, la sua conversazione è stata la più piatta e noiosa che si potesse immaginare, e avrei giurato che in quella testa non era mai entrata un’idea al di là dei suoi cavalli, e del suo reggimento, e dei suoi cani da caccia, e delle carte; il che non impedisce che tutti i giovani ufficiali della capitale lo abbiano eletto a modello, e giurino su di lui. Ma quando gli altri giocatori hanno lasciato il tavolo, ed io e lui ci siamo ritrovati da soli a contare il suo debito, e a finir di sorbire l’ultimo calice di vino, la sua conversazione si è fatta, se non più spiritosa, certamente più libera, e non ho tardato ad accorgermi di aver messo le mani su un uomo prezioso, poiché egli è il primo che in questa città desolatamente bigotta mi abbia parlato di donne. Avendogli io espresso il timore che l’austerità della corte si riflettesse in modo spiacevole sulla vita della città, mi ha spiegato che essa giunge bensì a influenzarne le forme, senza però corromperne in profondità i costumi. «Certo», ha convenuto con un sospiro, «la moralità del Serenissimo fa sì che non esistano praticamente bordelli pubblici. E pensare che ancora al tempo di mio nonno Dresda era il regno del famoso Laffont, trattore francese, da cui si poteva ordinare non soltanto una cena per il tal numero di persone, servita su biancheria di prima scelta, in stoviglie di argento lavorato o di porcellana, ma anche, ad accompagnamento della cena, un numero a piacere di ragazze, tante bionde e tante brune, grandi, piccole, eccetera, proprio come se si comandassero uno storione o dei tartufi!» Ma se quei tempi sono ridotti a un ricordo, e se le case pubbliche sono pochissime, quasi clandestine e frequentate soltanto da gente delle infime classi, come soldati e artigiani, ciò non significa che non ci si possa divertire a Dresda come ci si diverte a Berlino. «Le ragazze sassoni» ha aggiunto con un grasso sorriso «sono di buon cuore e di sentimenti filantropici, e così ciascuno, dal ciambellano all’ultimo dei tamburini, trova conforto presso qualche piccola amica, gratis o a pagamento, a seconda dei casi. Molte si riuniscono per affittare un appartamento, in due o in tre, e lì ricevono i loro amici, più modestamente certo, ma con la stessa allegria che si può trovare nelle migliori case di Vienna o di Berlino.»

Quando la società si è sciolta, a notte fonda, Bose si è offerto di darmi una dimostrazione pratica, e in più, ha aggiunto, di farmi provare una distrazione speciale; alla mia adesione incondizionata ha chiamato una carrozza di piazza, ordinando al cocchiere di condurci a un indirizzo della Città Nuova. Qui, in un alloggio al primo piano arredato con mobili di stile ultramoderno, voglio dire di quello stile egiziano venuto di moda recentemente a Parigi, siamo stati ricevuti da una signorina francese, che a quanto mi ha assicurato Bose è la cocotte più alla moda di Dresda. In verità non è altro che una donnina non particolarmente avvenente, con un lungo naso e modi che si credono assolutamente raffinati, come si addice a una parigina capitata fra i barbari. Prima di passare ai fatti abbiamo dovuto sopportare una lunga e stentata conversazione in francese; il capitano mi ha dato la precedenza e finalmente la signora mi ha condotto nel suo boudoir, dove mi sono sdraiato su un’ottomana e le ho detto che era la prima francese con cui mi accadesse d’avere a che fare, perciò il meno che potessi aspettarmi era un bacio alla francese. La donnina, pensando che così non avrebbe neppure fatto la fatica di spogliarsi, ha obbedito, non senza aver prima fatto spallucce e avermi chiesto leziosamente: «Quoi, tu n’aimes donc pas faire l’amour?».59 Non so che cosa abbia poi fatto al capitano, ma certamente qualcosa di più impegnativo, poiché sono rimasto ad attenderlo quasi un’ora, in compagnia dei giornali del mese scorso. Con tutto questo, quando siamo usciti, dopo aver lasciato nella svelta mano di mademoiselle addirittura sei talleri sassoni, che qui mi hanno cambiato alla pari con il dollaro, non capivo in che cosa consistesse il sale dello scherzo; e l’ho confessato francamente a Bose. Il capitano è scoppiato a ridere e invece di rispondere, non appena siamo scesi in strada, si è infilato nel portone accanto a quello da cui eravamo usciti. Abbiamo salito le scale fino all’ultimo piano e qui, in una stanzetta assai più miseramente ammobiliata di quella che avevamo appena lasciato, e più fiocamente illuminata, siamo stati ricevuti da un’altra damigella, pure lei francese, ma con molte meno pretese della prima. Non portava che una gonna nera e una camicetta bianca, sbottonata, senza niente sotto; in un angolo della stanza, fra le ante di un paravento, s’intravedeva un letto sfatto. Vedendo la mia sorpresa, il capitano mi ha spiegato che Mado, e qui la fanciulla ha fatto un piccolo inchino, era stata fino a non molto tempo fa la cameriera della signora da cui avevamo passato la serata; giusto da poco aveva deciso di mettersi in proprio, e più per caso che per scelta aveva trovato quel quartierino così vicino a quello della sua antica padrona. Sempre sogghignando, il capitano mi ha chiesto se non avevo voglia di provare la differenza, e naturalmente gli ho risposto di sì. Allora egli ha avuto la cortesia di uscire sul pianerottolo, poiché la stanzetta non permetteva di ottenere in altro modo la necessaria intimità; e Mado, dopo essersi aperta del tutto la camicia e avermi calato i calzoni, mi ha praticato un exercise de fellation60 alquanto superiore a quello che avevo sperimentato poco prima. Dopo aver compiuto la sua bisogna ed essersi sciacquata la bocca con l’acqua di una catinella la ragazza è tornata accanto a me e ha chiesto modestamente: «Est-ce aussi bien que Madame?».61 A questa uscita sono scoppiato a ridere e subito è rientrato Bose, che evidentemente era rimasto ad attendere dietro la porta la conclusione dell’avventura. Gli ho chiesto se anche lui era intenzionato a provare la differenza, ma mi ha risposto che la conosceva fin troppo bene, e così ce ne siamo andati, ridendo a crepapelle, dopo aver lasciato nelle mani della piccola cameriera una somma assai inferiore a quella che avevamo dovuto sborsare a Madame.

Domenica, 28 settembre

Stamane mi sono svegliato in preda al più lamentevole mal di testa, effetto di una di quelle bevande attossicate che i tedeschi prediligono, confezionate aggiungendo ai loro imbevibili vini ogni sorta di essenze o di sciroppi; una bowle ghiacciata, come loro la chiamano, di cui mi sono servito forse troppo abbondantemente ieri notte prima di congedarmi da Bose. Amalia, spaventata dai grugniti che mi sono sfuggiti prima che riuscissi ad aprire gli occhi, era pronta a correre dallo speziale, ma quando sono stato in grado di parlare l’ho informata che tutto quel che mi occorreva era un grosso bicchiere di soda; tuttavia ho dovuto apprendere che in questo paese non hanno la minima idea di che cosa sia la soda, e non hanno mai sentito nominare il dottor Schweppe. Il rimedio abituale per la condizione in cui mi trovavo, a quanto mi ha spiegato la vedova, è la birra, che a dire il vero in Germania non è molto più forte della soda; e poiché la proposta non era priva di buon senso ho subito mandato Will a provvedersi di una pinta di Pilsner. Will, che ha passato le ultime notti nella carrozza, non stava molto meglio di me, e ha tardato alquanto a ritornare: sospetto fortemente che abbia trangugiato una prima pinta all’osteria mentre l’oste riempiva la caraffa per me, ma date le circostanze ho creduto meglio soprassedere all’indagine. La birra, come la vedova aveva previsto, ha fatto miracoli, sicché dopo mezzogiorno sono stato in grado di alzarmi in piedi per uscire, e me ne sono andato alla Ressource, sperando di apprendere dai giornali o da un forestiero di passaggio qualche novità sulle intenzioni del re di Prussia.

Mentre prendevo il caffè è comparso il cavalier Gentz, il quale, avendo sentito dire che avevo trascorso diverse settimane a Berlino e mi preparavo a ritornarvi, mi ha informato di aver vissuto a lungo laggiù, e mi ha chiesto notizie dei suoi amici. Gli ho detto che non avevo avuto il tempo di far molte conoscenze, ma gli ho raccontato i malumori del principe Louis, ch’egli conosce benissimo; infine è rimasto estasiato scoprendo che avevo conosciuto Rahel Levin. «La mia incomparabile amica ebrea! Già, non mi sorprende affatto che la conosciate: infatti non si potrebbe vivere a Berlino senza di lei. Solo nella Jägerstrasse ho trovato una società veramente libera, dov’era possibile discorrere di qualunque argomento, e dove un principe era veramente alla pari con un qualsiasi cittadino, purché quest’ultimo avesse le qualità necessarie per essere ammesso in quella cerchia così selezionata. Ma ditemi, non sarete mica innamorato di Rahel?» Questa domanda così indiscreta mi ha lasciato senza parole, ma il cavalier Gentz, come ho già avuto modo di riconoscere, è uno di quegli uomini che si fanno vanto di dichiarare ogni pensiero che passa loro per la testa, con sublime indiscrezione. Accorgendosi che non gli rispondevo, si è messo a ridere. «Ma mio caro Robert, non ci sarebbe proprio niente di male! Io non ho nessuna difficoltà ad ammettere che a Vienna ero perdutamente innamorato della divina mademoiselle Arnstein, la nipote del primo barone dell’Antico Testamento, come lo chiama il principe di Ligne; sapete che il nostro imperatore non è alieno dal concedere titoli nobiliari a chi può pagarli con ducati sonanti, senza imbarazzarsi troppo della forma del loro naso.» «Lei dunque ha una grande predilezione per gli ebrei?» l’ho interrogato, forse un po’ troppo rudemente. «Ma nemmeno per sogno!» è stata la risposta. «Non c’è razza più dannata. La maledizione che li perseguita è che, a tormento loro e a tormento del mondo, non riescono a uscire dalla sfera dell’intelletto, e lì si contorcono, come in una prigione, finché le loro anime nere non vanno all’inferno. Perciò li si trova dovunque l’intelletto, lo stupido intelletto criminale, abbia la pretesa di governare da solo; sono i rappresentanti nati dell’ateismo, del giacobinismo e di tutto il fumo dell’illuminismo. Ma per tornare alla nostra Rahel, dovete convenire che queste belle qualità, incarnate da una femmina di spirito, che per di più soffre le pene dell’inferno già in questo mondo per far dimenticare la sua origine giudaica, assicurano una conversazione ben più interessante di quella delle nostre brave dame cristiane. No, le donne, fra gli ebrei, sono al cento per cento migliori degli uomini, ed ecco perché mi pare ci si possa benissimo innamorare di una Rahel; io per conto mio non potrei mai innamorarmi di quel mostro di suo fratello, che non pensa se non ai suoi quattrini!» Gli amori del cavalier Gentz mi paiono più inquietanti ogni volta che vi accenna, come pure il tono melato assunto in questi casi dalla sua voce; sicché ho preferito tornare senz’altro sull’argomento degli ebrei. «Vengo appunto dalla Polonia» ho detto «e debbo ammettere che qualsiasi pregiudizio favorevole potessi nutrire in precedenza nei loro confronti, la sudiceria degli ebrei polacchi è stata sufficiente a dissiparlo.» Gentz, tuttavia, non era d’accordo. «È facile» dice «trovar ripugnanti gli ebrei polacchi! Eppure quei disgraziati non si prendono la pena di mascherare il loro vero essere. No, gli ebrei più pericolosi sono quelli che all’apparenza non si distinguono più dai cristiani, e che per far prova della loro cultura, il sabato mangiano pubblicamente il lardo e imparano a memoria, nei luoghi di ritrovo, la logica di Kiesewetter; quelli son più pericolosi degli ebrei col caffettano e coi riccioli. Ha letto lei il Grattenauer?» e, alla mia risposta negativa, ha proseguito con calore: «lo legga dunque, lo legga, e mi saprà dir qualcosa! Solo, tornando a Berlino, non dica a Rahel che l’ha letto, perché sarebbe capace di cavarle gli occhi. E, in generale, le porti i miei saluti più devoti!».

Preso il caffè, ho proposto a Mr. Gibbs una passeggiata, ma il giovanotto stava per sedersi a far la partita con alcuni ufficiali, fra i quali il grasso Bose; e quest’ultimo mi ha fatto dei segnali così comici, per convincermi a non portargli via un avversario tanto provvidenziale, che ho rinunciato a insistere, riflettendo che dopo tutto corrono molte miglia fra il Maryland e la Carolina del Sud. Gentz si è subito offerto di accompagnarmi, proponendo come meta della passeggiata la cupola della Frauenkirche, che è costruita a imitazione di San Pietro in Vaticano e da dove, mi ha assicurato, si gode la più splendida vista che sia dato godere in Germania. In verità il colpo d’occhio dev’essere ammirevole, poiché lo sguardo, a quanto pare, spazia oltre le alture boscose fino alle guglie del duomo di Meissen e alle fortezze di Königstein e Lilienstein sull’Elba; senonché la giornata nuvolosa nascondeva ogni cosa alla vista. Il mio accompagnatore si è dovuto accontentare di mostrarmi le scalfitture provocate dalle palle prussiane, al tempo dell’assedio, sulle lastre di pietra del tetto; secondo lui i prussiani, gelosi di un monumento di cui nel loro paese non avevano l’eguale, hanno scelto la cupola come bersaglio per le loro batterie, ma le bombe rimbalzavano come noci, senza provocare alcun danno. Gli ho detto d’esser colpito dalla scarsa simpatia che si riscontra in questo paese nei confronti dei prussiani, e che non può risalire, credo, soltanto ai cattivi ricordi di cinquant’anni fa, benché indubbiamente Federico abbia ben bombardato Dresda, e una cattiva azione come quella non sia facile da perdonare. A questa osservazione Gentz ha replicato che nonostante le apparenze non si deve più dare importanza a questi vecchi rancori, poiché la condotta scandalosa dei francesi in Germania ha cancellato ogni divisione. «Il cambiamento che si è operato nell’opinione pubblica in Germania è prodigioso. Il delitto esecrabile di Braunau ha elettrizzato tutti gli animi. La Prussia oggi ha tanti alleati quanti sono i tedeschi.» Il delitto di Braunau, per usare le sue parole, non è altro che la fucilazione di quel disgraziato libraio, che aveva pubblicato libelli contro Bonaparte, e che è stato rapito a casa sua, trascinato illegalmente in territorio francese e giustiziato, come forse ho già scritto in queste pagine; l’indignazione che questa procedura ha suscitato in Germania è immensa, e sospetto che non sarebbe stata eguale se anziché di un libraio si fosse trattato, poniamo, di uno stracciaiuolo. I tedeschi hanno un rispetto profondissimo per i libri; e poiché, diversamente da tutti gli altri popoli, tendono a esaltarsi attraverso la meditazione, anziché calmarsi, le loro passioni si accendono prevalentemente grazie ai libri, e chiunque abbia a che fare con questi gode presso di loro di un rispetto sproporzionato.

Scesi dalla cupola, il cavaliere ha insistito per accompagnarmi ancora a passeggio, e abbiamo proseguito per un buon tratto fino al ponte. Qui la sentinella ci ha rimproverati perché ci eravamo incamminati lungo il lato sbagliato; la moltitudine che ad ogni ora si affolla sul ponte infatti è tale, che il governo ha deciso di regolamentarne il passaggio, sicché chi va dalla città vecchia alla città nuova deve passare da un lato, e chi compie il percorso inverso dall’altro. Ecco una pedanteria che potevano immaginare soltanto i tedeschi! Dopo aver percorso forse cinquanta passi, ci siamo fermati a riposare su una delle panchine che molto opportunamente sono a disposizione dei passanti a ogni pilone, osservando l’acqua dell’Elba scorrere gialla attraverso l’elegante ringhiera. «A proposito» ha esclamato all’improvviso il mio compagno dopo un lungo istante di silenzio. «Sapete la novità?» «Di questi tempi, mi pare, le novità non mancano» ho risposto. «Qual è la vostra?» Gentz mi ha guardato con un sorriso malizioso. «Se mi rispondete così, è perché non la sapete. È morto Fox!» Non posso dire che la notizia giungesse del tutto inattesa, poiché Pinkney era stato fin troppo chiaro a questo proposito, e negli ultimi giorni perfino la stampa di Londra aveva ricominciato a parlare in tono allarmato della salute del ministro, ma il colpo è stato egualmente rude. «Posso chiedervi come fate a saperlo?» A questa domanda l’amico mi ha guardato con un sorriso ironico. «Mio caro, io so tutto» ha risposto, né ha voluto dirmi di più, pur assicurandomi che domani, o al più tardi dopodomani, avrei trovato nei giornali la conferma di quel che mi annunziava. Non oso immaginare quali conseguenze questa morte potrà avere sulla politica del gabinetto inglese, ma certo non saranno favorevoli per l’America; Gentz, vedendomi scosso, si è messo a dimostrare che non c’era alcuna ragione d’allarme, senza avere nessun valido argomento, ma, credo, esclusivamente per vanità; sicché siamo rimasti a lungo a discutere, seduti sulla panchina, davanti al fiume torbido e fangoso. Nel frattempo il cielo, già carico di nuvole, si è fatto ancor più tempestoso; un vento gelido trascinava foglie morte dai boschi che circondano la città, e ben presto ha cominciato a tuonare. Il temporale ha messo fine a quella conversazione che nonostante il soggetto innocente rischiava di farsi imbarazzante, poiché al primo tuono Gentz ha alzato gli occhi al cielo con espressione angosciata e mi ha confessato di avere una gran paura dei tuoni e dei fulmini; così dicendo si stringeva ancor più a me, come per cercare protezione, ma io gli ho detto nel modo più asciutto che l’unico modo per ripararci dalla pioggia era di tornarcene ciascuno a casa propria, e così ci siamo separati.

Prima di pranzo sono passato dal mio banchiere, Mr. Fouquet, in Moritzstrasse, e ho trovato diverse lettere, fra cui due di Bill Pinkney, da Londra, spedite il 26 agosto e l’8 settembre; laggiù tutti concordano nel giudicare che ci sarà la guerra, e anzi pare che ne conoscano le cause meglio di me. “Sir Samuel Romilly mi ha assicurato che la mobilitazione dell’armata prussiana è dovuta all’intenzione, covata da Bonaparte e scoperta da Lucchesini, di impadronirsi di tutte le province prussiane in Westfalia e di costituire un elettorato per Murat. Il re, a quanto pare, è davvero determinato a resistere; e quanto all’opinione pubblica, basti dire che il governo ha dovuto mandare i soldati nella strada dove abita M. de Laforest, per impedire alla folla di rompergli i vetri.” Nella seconda lettera, però, si accenna a cattive notizie dall’America. “L’opinione pubblica, disgraziatamente, è di nuovo sollevata contro gli inglesi; si scrive apertamente che l’Inghilterra è finita, e c’è addirittura il rischio che mi richiamino a casa. La sola speranza di evitare un esito così disastroso per la nostra causa, è di poter annunciare quanto prima la sconfitta di Bonaparte. Se il re dovesse partire per raggiungere l’armata, seguilo, e cerca di tenermi informato. Sono dell’opinione che Bonaparte procederà quanto prima a sferrare qualche colpo, così non lasciarti cogliere di sorpresa. Tieni gli occhi aperti per una battaglia e una vittoria, procurati un’idea chiara e autentica del risultato, affidala alla carta, e vieni a portarmela di persona a qualsiasi prezzo; ma non sognarti di venir via senza qualche buona ragione. Addio, mio caro Robert, e Dio ti benedica. Il tuo futuro dipende da te; per conto mio ti auguro ogni successo. W.P.” C’è anche una lettera di Victoire, spedita da Berlino il 22, e molto meno sanguigna, benché anch’essa confermi che le esitazioni prussiane sono terminate. “Dunque è davvero la guerra! Il re e la regina hanno lasciato Charlottenburg venerdì, diretti all’armata. Eppure Robert, quanti tristi presagi! Appena due giorni prima della partenza delle Loro Maestà, la statua di Bellona è caduta dalla facciata dell’Arsenale. Quando l’ho saputo sono corsa a vedere; si era radunata una gran folla, e tutti stavano in piedi in silenzio osservando i gendarmi che caricavano le macerie su una carretta, e mi è passato un brivido nelle ossa. E oggi giunge la notizia della morte del principe ereditario del Brunswick, il figlio maggiore del duca, avvenuta due giorni fa, per una colica nervosa. Tu sai che il duca è stato un padre sfortunato; ma la sorte sembra accanirsi doppiamente su di lui, poiché i meno riusciti dei suoi figli vivono, ciechi e incapaci di intendere, mentre la morte porta via il primogenito, colui che doveva succedergli. Questa morte reitera una dolorosa fatalità, poiché anche il primo e il più amato dei suoi figli illegittimi – so che una signorina non dovrebbe parlare di questo, e guai se maman leggesse questa lettera! – che aveva avuto a Roma dalla Branconi, morì al suo fianco durante la disastrosa campagna in Francia. O Robert, quale autunno stiamo vivendo! Cosa è rimasto dell’entusiasmo e dell’orgoglio di appena qualche settimana fa? Qualche locandina teatrale appiccicata agli angoli delle case, che il vento non ha ancora finito di strappar via…”

Alla Ressource ho cercato del conte Marcolini, che mi pare l’uomo più informato della capitale; ed egli mi ha confermato che il re ha lasciato Berlino diretto all’armata. «Potrò dunque aspettarlo comodamente qui a Dresda» ho soggiunto. «Credo che se lei ha fretta di ritrovare Sua Maestà, farà meglio ad andarlo a cercare altrove», ha replicato il conte, «poiché l’esercito non si riunirà in Sassonia, ma in Turingia, fra Jena ed Erfurt.» «Ma lei lo sa per certo?» A questa questione il conte ha ammiccato. «Potrei risponderle che l’ho indovinato, ma la verità è che i prussiani si sono degnati di informarci che le loro colonne, attraversato il territorio sassone, continueranno la marcia verso occidente; sicché non ci vuol poi quella grande intelligenza per comprendere ch’essi vanno ad acquartierarsi negli stessi luoghi in cui si erano radunati l’anno passato, quando già sembrava che la guerra dovesse scoppiare da un giorno all’altro.» «Ma anche ai francesi, mi pare, non ci vorrà troppo ingegno per indovinarlo, se le cose stanno così, e con tutte le spie di cui sicuramente dispongono; oso dire che sarebbe forse stato meglio per i prussiani escogitare un altro piano di battaglia.» «Evidentemente», celiò il conte, «dispiaceva loro sprecarne uno così buono, e che non hanno ancora avuto l’occasione di adoperare.» Non so se davvero i francesi abbiano già indovinato i propositi dell’avversario, ma a giudicare dal loro linguaggio anch’essi sanno che il dado è tratto. I giornali di Parigi non fanno cenno alla guerra, ma annunciano che i festeggiamenti in programma all’inizio di ottobre per celebrare il ritorno delle truppe dalla Germania saranno differiti, e che Bonaparte si prepara a un viaggio a Bruxelles e in Olanda, ragion per cui una parte della sua scuderia e della sua Guardia si sono messe in viaggio per precederlo. Chiunque è libero di trarre da queste notizie le sue conclusioni!

Essendo ormai deciso a partire per la Turingia, mi sono messo alla ricerca di Bose, per riscuotere quello che mi doveva in seguito alle partite di questi giorni. L’ho trovato, per l’appunto, che giocava, e dopo aver declinato l’invito a unirmi a lui ho atteso che finisse la partita prima di interpellarlo. «Dico, Bose, ragazzo mio, se vi sta bene, vengo a disturbarvi per quella sciocchezza che sapete.» Dalla faccia che ha fatto, sospetto che non gli stesse bene affatto, ma, ammaestrato dall’esperienza fatta col maggiore a Berlino, non avevo intenzione di andarmene senza aver riscosso i miei crediti. Alla fine ha dovuto mettere mano alla borsa, ma rigirando fra le mani quei due o tre luigi che visibilmente gli erano così cari mi ha chiesto se non volevo invece giocarmeli. «Lo farò volentieri, a condizione che mi aiutiate a risolvere un problema che mi angustia.» «Col più grande piacere!» ha replicato in tono premuroso; e allora gli ho spiegato che doveva aiutarmi a comperare dei cavalli. Le difficoltà incontrate così di frequente alla posta, e la certezza che avvicinandosi al teatro della guerra queste difficoltà non faranno che accrescersi, mi hanno indotto alla decisione di acquistare due buoni cavalli da sella, i quali porteranno me e il mio domestico ovunque desideri andare, molto più sicuramente che non la posta; la carrozza, alleggerita dal peso delle nostre persone, potrà seguirci senza troppo ritardo, quand’anche si dovesse rinunciare a cambiare i cavalli. Senonché a Dresda, a quanto pare, non si può più comprare un cavallo: i commissari dell’esercito hanno accaparrato tutto, e quel che non è stato acquistato dai prussiani serve per la mobilitazione della cavalleria sassone. Questo, almeno, è ciò che i mercanti raccontano al forestiero sprovveduto; ma il grasso Bose si è messo a ridere giovialmente e mescolando le carte mi ha promesso che il mio destino sarebbe cambiato in un batter d’occhio.

Prima di sera, di ottimo umore per aver riguadagnato il suo denaro, il capitano mi ha accompagnato a casa di un mercante; poiché obiettavo che era domenica e che il brav’uomo ci avrebbe certamente lasciati fuori, mi ha raccomandato di non preoccuparmi, e così siamo andati a bussare all’abitazione del commerciante. Quando l’uomo ha aperto la porta, Bose si è introdotto senz’altro in casa, e poiché il mercante protestava di non avere neppure una bestia a disposizione lo ha minacciato così volgarmente di bastonarlo, e con un’intenzione così visibile di dar seguito immediato alle sue minacce, che questi ha promesso di trovarmi entro domani le bestie che mi occorrono, e di servirmi onestamente per giunta. Debbo aggiungere che in generale in questa città di Dresda, assai più di quanto non accada a Berlino, gli ufficiali trattano i borghesi con una brusquerie ineffabile; i camerati del grasso Bose si divertono a galoppare a rotta di collo giù per il vicolo del Castello, schiacciando i passanti contro i muri, e nessuno osa protestare per timore di essere rimesso al suo posto a suon di bastonate. Questi signori mostrano bene col loro comportamento che si ha ragione di considerare i sassoni come i guasconi della Germania; dappertutto non si ascoltano se non vanterie insopportabili e non si osservano che arie impossibili da soffrire, e non c’è da stupirsi se i duelli sono all’ordine del giorno, e se si incontrano più sfregiati che in qualsiasi altra parte del mondo. Resta soltanto da chiedersi per quale mistero in una monarchia militare come la Prussia, dove le arti e il commercio fioriscono a fatica su un suolo ingrato, e dappertutto non si vedono che villani in uniforme e nobilucci in uniforme, questi ultimi si comportino con molta maggior educazione e civiltà di quanto non facciano i loro pari qui in Sassonia, dove l’industria e l’ingegno umano fioriscono in grado più elevato, e dove perciò, come accade in America e in Inghilterra, lo stato dei militari dovrebbe essere considerato infimo rispetto a quello dei civili!

Lunedì, 29 settembre

Oggi ho avvertito la vedova che domattina all’alba sarei partito. Ella sapeva che il mio soggiorno al mulino non sarebbe durato più di qualche giorno, e tuttavia mi è parso che la notizia la rattristasse. Mentre mi vestivo si è trattenuta in casa con mille pretesti, lanciandomi certe occhiate così eloquenti che infine, prima di calzare gli stivali, ho mandato fuori Will e mi sono avvicinato a lei, abbracciandola. Le bambine giocavano nella corte, e sapevo per esperienza che non sarebbero venute a bussare finché la madre non le avesse chiamate; eppure Amalia si è difesa, sfuggendomi e mormorando con un fil di voce che dovevo finire di vestirmi. Le leggevo negli occhi che anch’essa aveva voglia, ma per qualche motivo il pudore le impediva di prendersi lì, di giorno, quel piacere che amava tanto ricevere di notte. Sospirando ho infilato da solo gli stivali, finché il ricordo di una conversazione con Bose non mi è tornato molto opportunamente alla memoria, e come scherzando, perché non si offendesse, le ho chiesto se non sapeva dove avremmo potuto trovare una camera per stare liberamente insieme; per conto mio, comprendevo e apprezzavo i suoi scrupoli, ma non intendevo aspettare fino a notte per soddisfare il comune desiderio. Amalia è arrossita, ma ha avuto un mezzo sorriso, e finalmente ha ammesso che sì, sapeva dove condurmi: «Ma prima» ha aggiunto «devi soddisfare un desiderio mio». Temendo il peggio, le ho chiesto di quale desiderio si trattasse; e lei: «voglio andare a bere il caffè ai Bagni di Link; è da tanto tempo che desidero andarci!». Bisogna sapere che i Bagni di Link, dove a quanto assicurano si beve il miglior caffè della città, sono un luogo di ritrovo prediletto della società elegante di Dresda, che li preferisce a tanti altri siti ben più pittoreschi. Per quanto ho potuto vedere, consistono di uno spiazzo alberato, con innumerevoli tavolini dove si mangia e si beve a tutte le ore del giorno. Non c’è spazio per passeggiare, e benché l’Elba sia così vicina che il rumore della sua corrente impedisce la conversazione, gli alberi la sottraggono interamente alla vista. Qualche giorno fa ho chiesto a Bose perché mai, abitando una città così ricca di luoghi deliziosi, i cittadini della capitale dimostrino tanta predilezione per un posto così meschino; ed egli mi ha risposto: «Che farci? Paesaggi e giardini ne abbiamo quanti si vuole, non ci interessano più; ma un buon caffè, una buona costoletta con insalata non si trovano da nessun’altra parte come qui, e anche questo non è da disprezzare». Come si può immaginare, al mio poco desiderio di andare a farmi pestare i piedi in quel luogo si aggiungeva un desiderio ancor minore di farmi vedere in pubblico al braccio della mia bella in zoccoli e grembiule rappezzato; sicché ho informato Amalia che non se ne parlava neppure. Ma quando l’ho vista con le lacrime agli occhi e le guance infuocate per l’umiliazione, più desiderabile che mai, e ho riflettuto che per ripicca ella avrebbe potuto negarmi anche questa notte ciò a cui tenevo tanto, quel sacrificio ha cominciato ad apparirmi meno impossibile; dopo tutto, a Dresda non conosco quasi nessuno, e se dovessi incontrare Bose, gli strizzerei l’occhio, e comprenderebbe; se dovessi imbattermi in Gentz, trarrei più vantaggio che danno dall’essere in compagnia femminile, sia pure di rango così infimo; se poi dovessi trovare Bertha… ma lasciamo perdere. Amalia, a quanto ho scoperto, non possiede soltanto un vestitino di mussolina assai decente, ma anche un paio di scarpini di vernice che potranno parer nuovi nella polvere dei Bagni di Link; e insomma, tutto considerato, ho deciso che avrei soddisfatto il desiderio della mia padrona di casa, e che saremmo andati insieme ad assaggiare le famose costolette, a mezzogiorno, quando cioè il pubblico più elegante ha di meglio da fare.

Amalia era raggiante, e debbo ammettere che vestita e acconciata come una brava piccola borghese faceva la sua figura, benché una certa pesantezza del seno e dei fianchi rivelasse la sua condizione di donna matura e più volte madre. Ordinò alla più grande delle bambine di aver cura delle sorelle, le mostrò il modo di riscaldare la minestra per tutte, mentre per conto mio lasciavo libero Will e gli regalavo un tallero per divertirsi, sorprendendolo, credo, con una liberalità così insolita. Pochi minuti dopo eravamo ai Bagni di Link, dove con mio considerevole sollievo i clienti erano ancora piuttosto rari; sicché potei scegliere un tavolino verso il fondo del piazzale, sul lato meno ricercato. Ordinai costolette e insalata, nonché una bottiglia di Bordeaux bianco, con sorpresa del cameriere, che a quell’ora era abituato a servire piuttosto la birra della casa; Amalia trovava tutto delizioso, e il vino la aiutò a raggiungere una condizione di invidiabile distacco da qualsiasi cura materiale. Esso produsse tuttavia anche un altro effetto, assai meno gradevole, anche se a mia parziale consolazione posso rilevare che la birra l’avrebbe certamente prodotto ancora più in fretta: non appena infatti il cameriere fu venuto a portar via i piatti, e mentre aspettavamo il caffè, essa si protese verso di me con un risolino e sussurrò che doveva assolutamente appartarsi, ma non sapeva come. Suggerii di fare una corsa fino a casa, dal momento che eravamo così vicini; ma disse che no, oh no, non avrebbe mai potuto resistere, non un istante di più. Allora la presi per il braccio e la accompagnai in direzione del fiume, sperando che il verde ormai un po’ smorto della vegetazione ci avrebbe nascosti alla vista. Amalia si accosciò tra i cespugli, in un angolo deserto dove si accumulavano foglie secche e rifiuti, rialzò la veste fino alle anche e subito un rigagnolo dorato e ribollente cominciò a scorrere fra le sue gambe; poi si asciugò ripiegando la sottoveste fra le cosce, e si rialzò con tutta naturalezza.

Bevuto il caffè, dissi ad Amalia che avevo pagato il mio debito, e ora essa doveva pagare il suo. Il luogo dove aveva intenzione di condurmi non era troppo vicino, così prendemmo un fiacre, e nell’oscurità della vettura mi feci dare un anticipo di ciò che mi aspettava. Giunti a destinazione suonammo il campanello, e venne ad aprire una donna vestita assai civilmente, che scambiai per la padrona; le chiesi se si poteva affittare una stanza per un’ora, ed essa ci condusse attraverso un ampio ingresso e un corridoio piuttosto buio. A giudicare dalla mobilia, sembrava la casa di un gentiluomo, sebbene la stanza costasse soltanto sei soldi. C’era tutto, tendaggi rossi, candele di cera, lenzuola pulite, un grande letto e uno specchio grande abbastanza perché una coppia vi si potesse specchiare. La padrona se ne andò dopo aver acceso le candele, procedimento indispensabile perché come sempre in simili luoghi le persiane erano chiuse e le tende tirate, ed io mi sdraiai sul letto piuttosto soddisfatto. Il fatto che essa mi avesse condotto in quel luogo, la sicurezza con cui aveva dato l’indirizzo al vetturino, e fors’anche un cenno di riconoscimento che m’era parso di scorgere sul volto della padrona dimostravano che Amalia non era nuova a simili avventure; e questa scoperta, se da un lato mi levava gli ultimi scrupoli attestando che non ero stato io il primo a corrompere la sua onestà, m’induceva d’altra parte a chiedermi per la prima volta che cosa essa era stata prima di sposare il mugnaio, e come riusciva a mantenere se stessa e quattro figlie da quando era rimasta vedova – poiché il mulino, come lei stessa mi aveva spiegato, era stato appaltato ad altri, e tutto ciò che le era rimasto era il diritto di abitare nella casupola. Mi sarebbe piaciuto stuzzicarla, e chiederle degli amanti che aveva portato prima di me in quel luogo; ma Amalia, che il vizio o forse soltanto la sicurezza di non poter essere interrotta né ascoltata da orecchie indiscrete rendevano ancora più impudica che a casa, non mi lasciò il tempo di avviare una conversazione, e l’ora convenuta con la padrona di casa trascorse fin troppo rapidamente.

Quando la donna venne a bussare alla nostra porta, scusandosi assai educatamente se ci faceva fretta, poiché aveva già promesso la nostra stanza ad altri, osservai che quell’industria doveva procurarle un profitto non trascurabile. Essa confessò di non essere la proprietaria della casa, ma soltanto l’amministratrice; e quando le chiesi di scrivermi l’indirizzo su un pezzo di carta, poiché avrebbe potuto tornar buono in un’altra occasione, mi pregò di scrivermelo da me, perché non sapeva scrivere. Le chiesi come faceva a fare i conti; rispose che gli incassi venivano messi su strisce di carta dai servi, e con un suo procedimento che non sapeva spiegare, essa faceva un rozzo controllo per impedire che la derubassero. Una volta al mese rende conto al vero padrone della casa, che dev’essere un qualche gran signore; e come faccia lei sola lo sa. Quel che è certo è che dagli incassi si mette in tasca un tallero al giorno, anche se non sono riuscito a capire se si tratti della percentuale pattuita, o se essa deruba il padrone di questa somma. C’è da pensare che l’industria sia piuttosto redditizia: la donna è ben vestita, mangia bene, passa denaro a un sottufficiale con cui va a letto e credo anche a qualcun altro, ma dopo che si è presa i suoi tre o quattrocento talleri all’anno, rimane almeno dieci volte di più per il padrone. La casa ha otto stanze, più due semplici stanzini, che affitta qualche volta alle domestiche o alle balie e ai loro innamorati, e ci sono giorni in cui guadagna dieci o venti scudi.

Accompagnata a casa Amalia, sono passato dal mercante di cavalli, secondo gli accordi presi ieri con Bose. Qui ho comprato un grigio pomellato a quarantacinque friedrichsd’or, leggero, non troppo robusto, ma molto bello, e una buona giumenta baia, robusta, per trenta friedrichsd’or; il negoziante voleva vendermi in aggiunta un cavallo da carico, abbastanza buono anch’esso, tanto che all’occasione lo avrei potuto cavalcare, e me l’avrebbe lasciato per venti friedrichsd’or, ma ho preferito rinunciare, poiché non è sempre facile dar da mangiare a tante bestie durante una campagna. I prezzi, come si vede, sono eccellenti, grazie al famoso bastone; con 375 talleri, pagati è vero in buona moneta, mi sono equipaggiato per la guerra. L’uomo, informato dei miei propositi, mi ha altresì offerto i servigi di un vetturino, che s’incaricherà di condurre la carrozza. Costui è un contadino dall’aria seria, silenzioso ma senza l’ottusità così frequente fra i suoi pari, e dallo sguardo abbastanza onesto perché possa affidargli ogni giorno il denaro per pagare la posta, nel caso che ci accada di viaggiare separatamente; sicché ho deciso di assumerlo, e sono tornato al mulino per far preparare i bagagli.

Martedì, 30 settembre

Stamattina prima dell’alba ho preso congedo da Amalia, lasciandole in ricordo una borsa con cinque friedrichsd’or, poi sono salito a cavallo e ho lasciato Dresda dalla Porta d’Italia. Gli zoccoli dei cavalli risonavano piacevolmente sul ponticello di legno che scavalca il fossato, e mi sono accorto che non dover più viaggiare rinchiuso in una vettura traballante e piena di cattivi odori giova decisamente al mio umore. Piuttosto che di un viaggio, d’altronde, dovrei scrivere di una passeggiata, poiché i dintorni di Dresda sono molto piacevoli. Il paese sembra un mare di terra, pietrificato per magia nell’istante più violento di una tempesta; la strada non fa che risalire e ridiscendere le onde, una più ardita dell’altra. All’orizzonte incombono i monti della Boemia, coperti di boschi; ai piedi dei monti e nella loro ombra sorgono i villaggi, e il bianco delle case e il rosso delle tegole formano un contrasto meraviglioso col verde profondo dei pini. È questa, credo, la cosiddetta Svizzera sassone, che merita appieno la sua fama pittoresca. Anche il tempo continua ad essere singolarmente clemente per una stagione così avanzata, e il sole, come sempre, mi mette di ottimo umore. A Flöha entro nella posta, scherzo con le sguattere che stanno cenando e mangio patate lesse in loro compagnia.

La posta, come tutti gli alberghi, è trasformata in un bivacco di soldati prussiani e sassoni, e le ragazze faticano a difendersi dalle loro attenzioni. Durante la marcia i soldati sono alloggiati presso i contadini, ma ovunque ci sia una locanda sono nutriti dagli albergatori, al prezzo concordato di quattro soldi per uomo. Questa somma è pagata dal re, mentre gli ufficiali scendono all’albergo a proprie spese e pranzano alla table d’hôte. Per i semplici viaggiatori, trovare una sistemazione è un’impresa impossibile: né l’oro né il bastone ne vengono a capo, senza un biglietto del commissariato agli alloggi. Ripartiti da Flöha, il traffico sulla carrozzabile si è fatto sempre più intenso; a cavallo avrei potuto sorpassare una gran quantità di veicoli, ma poiché preferivo restar vicino alla carrozza ho finito per mangiare invece la loro polvere. Sono arrivato a Chemnitz a notte fonda, in coda a un convoglio; tre file di vetture procedevano a passo d’uomo, e sulla piazza due reggimenti con tutte le salmerie impedivano a chiunque di passare, se non rassegnandosi a fare venti passi ogni cinque minuti. Il commissariato era sulla piazza, nel palazzo del Municipio, ma l’ometto che assegnava gli alloggi faceva quel lavoro dal giorno prima senza dormire; mentre gli spiegavo le mie necessità mi guardava sorridendo, poi si chinò sul tavolo come per cercar delle carte e rimase lì addormentato, svegliandosi solo quando lo scrollai energicamente per il bavero. Infine come Dio volle ottenni il buono, ma mi toccò ancora vagare per più di un’ora nell’oscurità più profonda alla ricerca dell’alloggio. Trovai finalmente l’albergo del Moro, dove ero stato assegnato, ma tutti erano a letto e mi fecero aspettare un quarto d’ora prima di aprire. Il padrone spergiurava di non avere neppure un letto libero; visitai camera per camera, in una il padrone teneva il figlio e il puzzo di sudore era soffocante. Nell’ultima camera, che in origine doveva essere stata un granaio, trovai cinque o sei ufficiali di un battaglione di granatieri, con i loro servitori; avevano fatto portare un mucchio di paglia, una tavola e delle panche, e si preparavano a cenare e a dormire nello stesso luogo. Quei signori ebbero la cortesia di invitarmi a dividere con loro la cena e la paglia, e vista la mala parata non avrei potuto augurarmi di meglio.

La cena a dire il vero si è limitata a un po’ di carne di montone, bollita con cavoli e patate, poiché anche in un paese ricco come la Sassonia la paura della carestia e la necessità di nutrire un così gran numero di soldati hanno reso i viveri cari e quasi introvabili; ma in compenso è stata accompagnata da numerosi brindisi all’uso tedesco, entusiastici e assai rumorosi, nonostante l’ora così tarda. Ormai nessuno dubita più che ci sarà la guerra, e che nel volgere di poche settimane si combatterà una grande battaglia, da cui i prussiani usciranno vincitori. Quando l’ultima bottiglia è stata stappata, il tenente von Kuhfass che la brandiva ha riempito i bicchieri, poi ha alzato solennemente il suo. «Il nostro nemico», ha dichiarato, «l’orgoglioso imperatore, è già atteso a Magonza. Non appena avrà raggiunto il teatro della guerra, il sipario si alzerà senza indugio. Beviamo dunque allo spavento che farà sbiancare in faccia i francesi, quando arriverà nel loro paese la notizia della battaglia!»; poi ha vuotato il bicchiere d’un fiato, subito imitato da tutti. «E adesso», ha proseguito, «è ora di prepararci per andare a dormire.» Credendo che anche gli altri avrebbero fatto come me, ho mandato Will a prendere il mio mantello, per avvilupparmici e buttarmi sulla paglia; ma quei signori non l’intendevano allo stesso modo. I loro domestici sono scesi tutti quanti nella stalla, e di lì a poco sono riapparsi trasportando dei letti, completi di guanciale, piumino e materasso. «Io e i miei camerati siamo spiacenti di non poterle offrire un letto», ha dichiarato l’alfiere von Schlütter, avvicinandosi a me, «poiché disgraziatamente in campagna ci è consentito portarcene appresso soltanto uno ciascuno; ma se lei permette, le cederò il mio.» «La ringrazio», dissi, «ma quando viaggio sono abituato a dormire nella paglia. Vedo però» aggiunsi «che lor signori non amano rinunciare ai loro comodi!» L’ufficiale, che era il più giovane del gruppo, e cominciava appena ad avere un po’ di pelo sulle guance, dovette cogliere un’intenzione canzonatoria in quell’osservazione innocente, e arrossì. «È vero» ammise «che forse ci portiamo appresso troppa roba; ma poiché il regolamento lo consente, chi potrebbe essere così spartano da rinunciare di propria iniziativa a degli oggetti che possono rivelarsi assai utili, col rischio, per di più, di rendersi antipatici agli occhi dei camerati? È pur comodo, al campo, avere con sé un letto, una tavola, una sedia, un baule per gli abiti!» «Ma dunque» ripresi sbalordito «lor signori si portano dietro tutta questa roba?» «Si capisce», rispose, «oltre naturalmente alla tenda, e agli accessori di scuderia, e a pochi altri oggetti indispensabili.» «E chi trasporta questi bagagli?» volli indagare. «Il governo, oltre al cavallo da sella, fornisce a ciascun ufficiale un cavallo da soma. Quando è possibile, si requisiscono dei carretti, o qualsiasi altro mezzo di trasporto, e i cavalli sono aggiogati a questi veicoli; altrimenti si carica tutto direttamente sulla bestia!» «Ma non è contrario ai buoni princìpi» mi permisi di domandare «un sistema che costringe l’armata a farsi carico di un numero così sproporzionato di cavalli e di vetture?» Schlütter esitava; ma un altro ufficiale rispose per lui. «Si capisce», esclamò, «ma si è sempre fatto così, e da noi non è facile cambiar le cose, anche quando tutti vedono che è tempo di farlo.»

Mentre i domestici preparavano i letti, anche gli altri ufficiali si avvicinarono, e la conversazione riprese più animata di prima; era chiaro che fra loro c’erano due partiti, quelli che dubitavano dell’opportunità di un simile sistema, e quelli che lo giustificavano in nome dell’uso, e dei riguardi cui un gentiluomo ha pur sempre diritto, anche in campagna. «Qualche anno fa», raccontò un alfiere, che doveva appartenere al primo partito, «un ministro inviò al re un rapporto sulla maniera di combattere i francesi. Egli dimostrò la grande semplicità del loro sistema: niente magazzini e niente convogli; si vive di requisizioni, prendendo dai contadini tutto ciò che si giudica necessario, e magari anche il superfluo.» «Insomma, bisogna saccheggiare tutto il paese prima di cominciare» interloquì il tenente von Kuhfass, togliendosi la pipa di bocca. «Proprio così!» continuò il primo, senza lasciarsi intimidire da quella canzonatura. «Inoltre, il ministro osservava che non si vede per quale motivo tutti gli ufficiali debbano andare a cavallo, come tanti cavalieri del Medioevo; se i fanti fanno le marce a piedi, e con i bagagli in spalla, perché mai quelli che li comandano non dovrebbero fare lo stesso?» A questa osservazione, parecchi ufficiali cominciarono a parlare contemporaneamente; ma più forte di tutti parlò ancora il tenente. «Il motivo è semplicissimo, caro camerata, ed è che un nobile prussiano, con sua licenza, non va a piedi!» «Ma», protestò l’alfiere, «non sono mica io a dire queste cose, è il mio ministro. E non basta! Il rapporto proseguiva osservando che per rendere il nostro esercito mobile quanto quello francese, dove nessun ufficiale, badate bene, eccettuato il generale e l’aiutante, ha il diritto di portar con sé cavalli, servitori e bagagli, bisognerebbe mandare in pensione tutti i nostri ufficiali superiori, e forse anche i capitani e i tenenti, poiché con tutta la buona volontà del mondo nessuno è più in grado di marciare a piedi e portare il sacco in spalla.» «Si dovrebbe dunque rimpiazzare tutti questi ufficiali e nominarne altri», lo interruppe nuovamente Kuhfass; «e dove scovarli?» «L’unica soluzione che essi trovarono» replicò trionfante l’alfiere «fu quella di sceglierli dalla truppa. Ma una misura del genere, osservò il ministro, sarebbe stata il primo passo della rivoluzione, e dunque non c’era altra alternativa che rinunciare a battersi contro i francesi e allearsi con loro!»

«Oltre a tutto ciò», dissi quando ebbi finito di ridere, «questo sistema deve comportare un aggravio spaventoso per l’erario.» Nessuno di quei signori ci aveva pensato, ma non tardarono ad accorgersi che avevo ragione. «Sono due cavalli per ciascun ufficiale», cominciò a calcolare qualcuno; «uno è assegnato a titolo gratuito, fra quelli requisiti o acquistati dall’esercito al momento della mobilitazione; l’altro bisogna acquistarlo per conto proprio, ma ci danno un rimborso di venti friedrichsd’or. Supponiamo pure che il primo non sia costato tanto, anzi la metà; sono centocinquanta talleri a testa.» «E poiché ci sono almeno cinquanta ufficiali per ogni reggimento di fanteria, e ci sono sessanta reggimenti», proseguì un altro, «… ciò vuol dire che i nostri cavalli costano mezzo milione di talleri» concluse Schlütter, che era più svelto a far di conto, avendo lasciato da minor tempo la scuola. Quei giovanotti si guardarono, sbigottiti da una cifra simile. «Tuttavia», intervenne infine il tenente, «bisogna essere giusti; i cavalli sono stati forniti ai reggimenti l’anno scorso, quando ci mobilitammo, prima della battaglia di Austerlitz, e da allora non sono più stati ritirati, almeno ufficialmente», e qui sogghignò, e più d’uno gli fece eco, «e perciò quest’anno non c’è più stato alcun aggravio per l’erario.» Poiché li guardavo con aria interrogativa, Kuhfass si volse verso di me e mi spiegò: «Si capisce che quando siamo tornati a casa, molti hanno pensato bene di ridurre la loro cavalleria; in altre parole, hanno venduto uno dei due cavalli. Il vantaggio» proseguì innocentemente «consiste in questo, che poiché i cavalli figuravano ancor sempre in forza al reggimento, si continuava a percepire la razione, che poi ognuno rivendeva con profitto». «E il ministero» indagai «era informato di questa usanza?» Il tenente alzò le spalle. «Di che cosa vuol mai che sia informato il ministero! Ma i nostri superiori, si capisce, erano informati, e non hanno trovato nulla da ridire in una prassi che consentiva a tutti quanti di integrare lo scarso soldo pagato dal governo.» «Il problema» intervenne Schlütter «sta in questo, che con la nuova mobilitazione il ministero, contrariamente alle nostre speranze, si è ricordato di aver già assegnato i cavalli l’anno scorso, e non ha ripetuto l’assegnazione; sicché molti di noi si sono trovati all’improvviso nella necessità urgente di acquistare un secondo cavallo…» «Proprio ora che in seguito alle requisizioni la cosa è diventata quasi impossibile» terminò Kuhfass. «Il risultato è che quasi tutti abbiamo dovuto far debiti per provvederci del denaro necessario; lei capisce che è un articolo di cui non siamo mai abbondantemente forniti. Io stesso non so come farò a pagare i creditori, quando rientreremo nei nostri quartieri alla fine della campagna!» «Se non altro», concluse un bello spirito, mentre già tutti si erano spogliati e s’infilavano fra le lenzuola, «ciascuno di noi ha lasciato in patria almeno un creditore che prega tutte le sere perché ritorni sano e salvo, e in tempi simili anche questo non è da disprezzare!»

Mercoledì, 1 ottobre

Stamattina l’albergatore, sentendo che avevo intenzione di andare a Jena, mi ha assicurato che in nessun modo avrei potuto andarci, poiché mi avrebbero fermato al primo posto di guardia. I miei compagni di ieri sera erano già partiti, dopo aver caricato le loro masserizie sui disgraziati cavalli da soma; perciò mi sono rivolto al sergente dei cacciatori che comandava il picchetto alla porta della città, chiedendogli come dovevo regolarmi. Fumando tranquillamente la sua pipa, il brav’uomo ha vistato il mio passaporto con uno scarabocchio, ed esibendo queste belle credenziali ho viaggiato senza altri fastidi per tutto il giorno. Fra Sassonia e Turingia c’è il più bel paesaggio del mondo; le montagne sono coperte di boschi, le cui foglie cominciano appena ad ingiallire. Se mai paesaggio ha meritato il nome, oggi così abusato, di romantico questo lo merita certamente, anche se non vi si trovano gli orridi e le solitudini cari ai poeti moderni; al contrario, a ogni passo s’incontrano villaggi popolosi, con orti e giardini ben irrigati, e prati e pascoli tenuti come un parco inglese. L’abbigliamento e perfino la fisionomia dei contadini annunziano il benessere di un popolo tranquillo e laborioso, sicché non c’è da sorprendersi che i sassoni abbiano così poca voglia di fare, si può dire in casa loro, una guerra che i loro vicini, i prussiani, paiono ormai deliberati ad affrontare senza ripensamenti.

Arrivato felicemente a Gera, e trovata per buona sorte una sistemazione un po’ più confortevole di quella della notte scorsa, sedevo a tavola nella sala comune, assaggiando il cattivo vino del paese, quando è comparso nel cortile dell’albergo un tale che tutto all’aspetto rivelava per un viaggiatore di commercio. Benché vestisse in abiti civili, portava la sciabola al fianco e due fondine guarnite di pistole appese alla sella; calzava stivali con lunghi speroni e montava un robusto cavallo da tiro, carico di una gran quantità di bagagli. Disceso con la più gran pena del mondo dalla sua cavalcatura, il nuovo venuto arrancò verso di me, inciampando a ogni passo nella sciabola e lasciandosi finalmente andare su una sedia con un sospiro di soddisfazione. Benché grosso, rosso e sudato, appariva molto giovane, tanto che non gli avrei dato vent’anni; i capelli cominciavano già a diradarsi sulla fronte, e sul naso stava in equilibrio un paio di occhiali tondi. Il suo aspetto era talmente in contrasto con quel terribile equipaggiamento che non seppi trattenere un sorriso; ma quale non fu la mia stupefazione quando il giovanotto aprì bocca, rivelando all’accento che si trattava di un francese! Parecchi ufficiali prussiani e sassoni, che mangiavano alla mia stessa tavola, lo squadrarono con diffidenza, prima di tornare a occuparsi della loro cena. Il nuovo venuto si era seduto nell’unico posto libero, che era quello accanto al mio; perciò intavolai subito conversazione con lui, deciso a scoprire tutto sul suo conto.

Monsieur Flori viene da Lipsia, dove si è fermato parecchi giorni trattando un gran numero di affari con l’intendenza sassone, ed è diretto a Strasburgo. Benché francese, anzi perigordino, lavora per una ditta olandese e la possibilità di essere scambiato per una spia non lo ha mai neppure sfiorato. Mentre trangugiava rumorosamente la zuppa portata dall’ostessa raccontava di sé e delle proprie faccende con quell’ingenuo compiacimento, quella tranquilla certezza che gli altri debbano interessarsi alla sua persona quanto lui stesso vi si interessa, che sono così comuni nel carattere dei francesi. La vita che conduce lo soddisfa pienamente, e non saprebbe immaginarne una più piacevole; eccetto, naturalmente, se potesse essere trasferito a Parigi. «Ieri sono rimasto all’albergo, ho tirato venti colpi di pistola per non perdere l’abitudine, poi ho chiavato la figlia dell’oste, per divertirmi. La prima tedesca che vedo completamente spossata dopo aver goduto. Mi ci son volute un sacco di carezze per scaldarla, aveva timori a non finire. Stamane alle quattro ero già in piedi, ho spedito un carico di filaccia, poi sono montato a cavallo e son partito, e non mi sono più fermato fin qui.»

Benché Monsieur Flori si trovi ormai da molto tempo in Germania, la natura di questo popolo non finisce di stupirlo, e ad ogni momento gli suggerisce paragoni sfavorevoli con la civiltà tanto più elevata della sua nazione. Le prime osservazioni nascono, spontaneamente, da discorsi d’affari, dove il difetto dei tedeschi, dichiara, è l’eccessiva meticolosità. Quante ricevute e casse e deleghe nelle finanze sassoni! E quante complicazioni nei pagamenti! Ma ben presto si passa a discorrere dei costumi privati della nazione. Egli non s’avvede che la totalità dei commensali è formata proprio da tedeschi e che molti di costoro intendono bene o male la sua lingua; e non cessa di ridere della loro stravaganza, soprattutto in faccende amorose, che da buon francese giudica la pietra di paragone della natura umana. «Un innamorato qui fa la corte con insistenza, sta sempre dietro alla sua bella, le parla di continuo, senza accorgersi che quelle attenzioni palesi importunano gli altri. In Francia questo modo di fare la corte sarebbe il culmine dell’indecenza, del ridicolo e dell’inciviltà!» Benevolo, conclude che i tedeschi, meno civili, fanno certo minor caso a simili indiscrezioni, che urterebbero la sensibilità raffinata dei suoi compatrioti. Ma non finisce qui, poiché niente lo sorprende più profondamente dei matrimoni tedeschi. «I mariti stanno sempre a carezzare le mogli, ma sono carezze tranquille, fredde. Tutti i tedeschi che conosco si sono sposati per amore. Potrei fare una lista di cento mariti francesi con le ragioni del loro matrimonio, in nove casi su dieci sarebbero le convenienze, o in altre parole la vanità!» Anche la rigidità delle leggi sassoni gli dispiace, ma a suo giudizio conviene pienamente al carattere del popolo. «Pensate che un uomo sposato, se trovato colpevole di adulterio, può finire in prigione! Ma è giusto, perché qui si rischia di offendere un uomo se si insinua che non sia fedele a sua moglie. In Francia invece quella di adultero è una qualifica alla quale nessun marito sarebbe disposto a rinunciare. Se dicessero, per esempio, a mio padre o a mio zio che dopo il matrimonio non sono andati a letto con nessun’altra, si offenderebbero, penso.»

Mentre aspettiamo che ci servano l’arrosto gli chiedo di Lipsia, che non ho avuto tempo di visitare. Non è Parigi, ma è pur sempre una città industre, e perfino Monsieur Flori lo riconosce. Su qualche giornale ha letto delle cifre che lo hanno fatto riflettere. «È straordinario, ma pare che si stampi più in Germania che in Francia!» Quanto alla fiera, è stata meno brillante del solito; non c’è contante, tutti si lamentano, e fare affari con la loro carta moneta, be’, c’è da pensarci due volte. Comunque la seta francese si smercia sempre bene, soprattutto quella di Lione, di St. Etienne, di Torino. Monsieur Flori s’intenerisce pensando ai bei profitti che ha assicurato alla sua ditta, e sui quali, non dubito, ha saputo realizzare qualche privata economia. Subito però torna a insistere sui difetti dei tedeschi, che osserva ogni giorno al naturale. «Quale ampollosità e sussiego! Ma son difetti comuni, si capisce, in paesi come la Germania o l’Inghilterra, così lontani dalle buone maniere parigine.» «E secondo voi» lo interrogo, per dargli corda «ciò dipende piuttosto dal governo o dalla religione?» Il brav’uomo esita. «Mah! Certo il governo inculca lo spirito del formalismo, la pedanteria giuridica. Però essi vi sono portati per natura. E in ogni caso, è la lettura della Bibbia che li ha resi così sciocchi e tronfi; capita in tutti i paesi protestanti, basta pensare agli inglesi. Ma credo» aggiunge, indicando con un ampio gesto la tavolata «che la loro freddezza si spieghi col regime alimentare: pane nero, burro, latte e birra; un po’ di caffè, magari, ma quel che ci vorrebbe soprattutto è del vino, e di quello generoso, per mettere un po’ di vita nei loro grassi muscoli.»

Tenendo fede ai suoi precetti, il giovanotto ha già vuotato diverse bottiglie, e i suoi discorsi girano su se stessi, ripetendosi all’infinito. «Senza la moglie non sanno vivere, le fanno far figli uno dopo l’altro. I cornuti son rari. E quale buona fede! Pensate che spediscono denaro per posta, come se fosse la cosa più naturale del mondo.» Il vino lo intenerisce; si cava da sotto la camicia un medaglione, lo apre e me lo presenta. «Ecco! Mia madre, signore. Che ne dite della miniatura? È o non è un capolavoro?» Dal ritratto mi fissa un’anziana borghesuccia francese, probabilmente una bottegaia, con lo sguardo duro, le labbra serrate e una fisionomia che esprime tutta la meschinità e l’avarizia proprie del suo ceto e della sua razza. E poiché protesto di non avere il gusto abbastanza formato per dare un giudizio su una simile opera, il suo proprietario ribatte: «Che dite mai? Voi sapete il francese, e questo è sufficiente per avere il gusto sicuro; un uomo che parla la nostra lingua non potrà mai mancare di spirito». Gli ufficiali tedeschi si sono stancati di starlo a sentire, e si sono messi a parlare fra loro, e la cosa non garba a Monsieur Flori, il cui francese diventa sempre più intraducibile: «Qu’est-ce qu’ils baragouinent, les bougres? Et d’appeler ça une langue! C’est du charabia, va!» L’ubriachezza lo rende sgradevole, e mi risolvo a piantarlo in asso mentre impreca contro la serva, che invece di portargli da bere sta scherzando con gli ufficiali: «A boire! A boire! Sacrée garce d’allemande, chienne d’allemande, con de garce d’allemande, à boire!».62 Qualcuno degli ufficiali, che capisce il francese, comincia già ad alzarsi coll’intento di prendere il disgraziato e buttarlo fuori; ma appena il commesso viaggiatore se ne accorge la sua ubriachezza evapora come per incanto, ed egli si rincantuccia nel suo angolo, in silenzio.

Giovedì, 2 ottobre

Il tempo si è guastato, fa di nuovo freddo, e oggi ho viaggiato per tutto il giorno sotto l’acqua, in una strada fangosa già percorsa in questi giorni da innumerevoli vetture. A Köstritz sono stato fermato da una vedetta: un ussaro prussiano, che mi ha chiesto dove volevo andare, e dopo aver bevuto con me alla salute di Federico Guglielmo mi ha lasciato passare. A Krossen mi ha di nuovo fermato un sergente con un picchetto di ussari, fradici di pioggia e con l’acqua che colava lungo i baffi; abbiamo bevuto un altro bicchierino, e ho proseguito. Fortuna che con questo bel clima avevo pensato prima di partire a provvedermi di una bottiglia d’acquavite! Alla posta, come avevo immaginato, è impossibile trovare cavalli, sicché ad ogni momento tocca fermarsi per lasciar riposare le bestie ed evitare che crepino sotto lo sforzo; Will, che conduce i cavalli da sella, è inzuppato fino alle ossa, benché gli abbia dato il mio mantello con la pellegrina. Nel pomeriggio, i campanili e le torri di Jena sono comparsi all’improvviso davanti al mio naso, seminascosti fino all’ultimo dalla pioggia e dalla nebbia. Ma prima che la strada, scavalcata l’ultima collina, cominciasse a scendere verso il fiume, là dove, acquattata sulla riva della Saale e con la schiena contro l’altipiano, sorge la città famosa per la sua università, il diluvio si è acquietato per un istante e l’arcobaleno è guizzato su dalle mura grige in un insperato angolo di cielo azzurro. Ma non è stata che l’illusione di un istante, e quando siamo giunti al ponte su cui si affaccia la porta della città aveva già ricominciato a piovere. L’ufficiale di guardia sul ponte mi ha lasciato passare senza neppure chiedermi le mie carte. Un soldato incontrato in piazza e a cui ho regalato una moneta ci ha indirizzati al commissariato degli alloggi; di qui, per un colpo di fortuna inaspettato quanto piacevole, mi hanno mandato all’albergo dell’Angelo, dove la partenza di due aiutanti di campo spediti stamattina a Naumburg aveva appena liberato una soffitta. Il freddo patito durante tutta la giornata mi ha convinto senza bisogno di altre argomentazioni che al mio equipaggiamento mancava qualcosa di essenziale, sicché appena asciugato e cambiato d’abito sono andato in cerca di un negozio per acquistare una coperta: un capo indispensabile nel caso che la campagna si prolunghi nell’autunno e soprattutto in quello, per nulla impossibile, che io mi trovi una volta o l’altra costretto a bivaccare in vettura.

Il clima deplorevole non mi ha permesso di farmi un’idea troppo lusinghiera della città; le case alte e strette appaiono uniformemente grige attraverso lo schermo della pioggia, e le foglie secche che ingombrano le strade non rendono il quadro più allegro. La gente sembra tranquilla, ma negli occhi di tutti si scorge l’incertezza di quel che porterà il domani. Mentre andavo in cerca di una merceria è passato in carrozza il comandante dell’armata che si sta radunando nei dintorni di Jena, principe Hohenlohe; molti civili si sono fermati e hanno applaudito al suo passaggio, incuranti del fango schizzato su di loro dai cavalli dei corazzieri di scorta. Nel negozio dove sono infine entrato tanto il padrone, affaccendato dietro il banco, quanto i clienti che ad ogni momento entravano e uscivano, depositando accanto alla porta i loro ombrelli bagnati e poi raccogliendoli con gran confusione, hanno commentato nel tono più elogiativo le virtù di questo generale, che, essi si aspettano, li sbarazzerà in un batter d’occhio dalla minaccia dei francesi e dal terrore del saccheggio. A chi gli chiedeva che cosa pensa di Bonaparte, il principe avrebbe risposto: «J’ai battu les Français dans plus de soixante affaires, et, ma foi, je battrai Napoléon pourvu qu’on me laisse les bras libres, quand je serai aux prises avec lui».63 Questa risposta così magnanima era riportata col più genuino entusiasmo dal negoziante, il quale, dopo essere stato per cinquant’anni nient’altro che un fedele suddito del duca di Sassonia-Weimar, si scopriva all’improvviso l’anima di un patriota tedesco.

Acquistata la coperta ho affidato il fagotto a Will, perché lo riportasse all’albergo, e sono andato a bere una birra all’osteria. La sala era piena di ufficiali e di studenti che bevevano fraternamente, fumando nel frattempo come tanti turchi; sicché le loro sagome fluttuavano in una nebbia azzurrina, in cui si muovevano agilmente le cameriere coi vassoi carichi di boccali. Quasi subito una di loro si è avvicinata al mio tavolo e mi ha chiesto che cosa volevo bere, cominciando a sciorinare l’elenco di tutte le birre prodotte nel circondario; poiché i nomi non mi dicevano nulla, ero già sul punto di lasciare a lei la decisione, quando a conclusione della litania mi sono sentito proporre della birra inglese. Come si può immaginare mi sono affrettato a ordinarla, e con intima soddisfazione ho visto la ragazza allontanarsi per tornare subito dopo con una bottiglia sigillata; ma tutte le mie aspettative si sono tramutate in delusione quando ho scoperto che la loro birra inglese è prodotta e imbottigliata a Jena da mastro Rosen, birraio dell’Università, ciò che non le impedisce di costare tre soldi alla bottiglia!

A causa dell’affollamento altri avventori si sono seduti al mio tavolo, e nonostante una tenace resistenza sono stato costretto ad attaccar discorso con loro, in virtù di quella solidarietà appiccicosa e ostinata che per i tedeschi sembra inseparabile dal piacere della birra. Fra tutti quei bevitori il più interessante era uno studente magro e ossuto, con quell’aria spirituale di chi deve spesso aggiungere un buco alla cintura, e vestito di una marsina nera che doveva aver conosciuto tempi migliori. Questo abbigliamento lo distingueva pateticamente dai suoi camerati, che metterebbero a sacco la città se mai il governo pretendesse di imporre loro un’uniforme, ma che lasciati a se stessi si vestono tutti infallibilmente allo stesso modo, con certe giacche corte alla cacciatora, di panno verde o turchino, calzoni di cuoio e stivali; accessorio quest’ultimo quanto mai indispensabile, poiché nei loro risvolti si possono conservare il fazzoletto e la pipa. Accortosi che osservavo il suo abbigliamento, il giovanotto ha sorriso con qualche imbarazzo e mi ha confessato che suo padre, un bottaio di Osnabrück, fatica assai a mantenerlo agli studi: non solo a causa del rincaro dei prezzi, ma anche e soprattutto per l’obbligo non scritto di appartenere a una corporazione e di sopportarne gli oneri, egualmente micidiali per la salute come per la borsa. «Avevo preso il mio abitur a pieni voti», dice, «e credetti di non aver più nulla da desiderare quando seppi che mio padre acconsentiva a lasciarmi proseguire gli studi, e proprio nel più illustre tempio dello spirito tedesco. Il giorno stesso del mio arrivo a Jena, mentre, stanco per il viaggio, mi preparavo a disfare i bagagli, tre o quattro selvaggi fanno irruzione in camera mia, in pantaloni di cuoio e stivali. Entrano, si siedono senza chiedere il permesso, riempiono le loro pipe con un tabacco che impesta l’aria, mi ordinano di far venire della birra; bevono, fumano, si stravaccano sui sofà senza togliersi gli stivali, e se ne vanno dopo parecchie ore, lasciandomi ventidue bottiglie vuote da pagare. Il giorno dopo tornano e mi informano che ho superato la prova, e ho guadagnato il diritto di iscrivermi alla loro fratellanza. Quando cerco di rifiutare quell’onore, aggrottano le sopracciglia e mi fanno capire che un simile insulto sarebbe lavato col sangue. Io non so tirare di spada, voglio soltanto studiare, e così ho accettato; credevo che acquistando un cappello piumato con i colori della Westfalia e pagando la quota di iscrizione mi avrebbero lasciato in pace.» «E invece?» l’ho incoraggiato. «E invece m’ingannavo, poiché non c’è modo di sfuggire alla loro tirannia! Ecco, nel semestre estivo, per esempio, ho seguito il corso di anatomia, giacché volevo a tutti i costi passare l’esame prima della sospensione autunnale; l’esame consiste in questo: si va nel teatro anatomico, lì c’è un cadavere già preparato, il professore deposita dei bigliettini numerati su tutti gli organi, e bisogna riportare su un foglio i nomi corrispondenti. Dunque è necessario studiare, e molto: ma tutti i giorni i camerati t’invitano a bere, e rifiutare vorrebbe dire ogni volta un duello. Così obbedisco, bevo, vado alle feste pagando ogni volta la mia quota, e sa Iddio che certe volte non mi resta neppure il denaro per mangiare. È già molto che non mi abbiano costretto a prendere lezioni di scherma, come fanno quasi tutti. Io abito sul Mercato, nella casa Krause, e al pianterreno c’è una sala di scherma: lo crederebbe? Io sto in soffitta, eppure in certi pomeriggi d’estate, quando le finestre sono spalancate, le urla dei duellanti e il fracasso delle sciabole sono così forti che impediscono di studiare. È vero che da qualche tempo, quando entro in un luogo pubblico, qualcuno accenna sempre ad alta voce, come per caso, che chi rifiuta di battersi è un uomo senza onore; sicché non so se non mi toccherà cercarmi anch’io un sergente in pensione che mi dia qualche lezione. Altri danari che se ne andranno! Quante volte ho già maledetto il giorno in cui ho messo piede in questa città!» «C’è da stupirsi» ho osservato «che in un luogo simile qualcuno trovi ancora il tempo di occuparsi di filosofia o di giurisprudenza; per voi, che studiate medicina, il caso è ancora diverso, giacché con tanti duelli ci sarà sempre bisogno d’un chirurgo.» «Non creda», ha replicato, «sono sempre meno quelli che ne trovano il tempo; l’università, oggi, non ha più di duecentocinquanta studenti, e sono più quelli che se ne vanno di quelli che s’iscrivono. Per quanto mi riguarda, solo il desiderio di risparmiare una delusione alla mia famiglia, che non sospetta di nulla, mi trattiene dall’andarmene a cercar fortuna altrove, come hanno fatto tanti altri camerati.»

Dopo averlo compatito per le sue tribolazioni, gli ho chiesto quale sia l’umore predominante fra i suoi compagni di studi, o di bisbocce, ora che venti di guerra soffiano sui tetti di Jena. «Non l’immagina?» mi ha risposto, scrollando il capo. «No, in verità; mi avevano detto che in Germania gli studenti ammiravano Bonaparte, e che ognuno in cuor suo credeva di poterne un giorno seguire le orme; ma ora mi pare che abbiano mutato opinione.» «È vero! Un anno fa gli studenti erano entusiasti di Napoleone, e i racconti delle sue imprese correvano di bocca in bocca. Ma il trattamento sprezzante che egli ha riservato alla Prussia l’ha fatto precipitare nella polvere, e ora tutti credono giunto il momento di liberare la Germania dalla secolare soggezione alla Francia.» «Voi tuttavia, se non sbaglio, non condividete il loro entusiasmo.» «E non sono il solo!» ha ribattuto vivacemente. «Ci sono, per esempio, dei polacchi; hanno sempre fatto vita per conto proprio, non si mescolano troppo con gli altri studenti, e soprattutto evitano di parlare di politica; d’altronde sono così disprezzati che non li si costringe neppure a iscriversi alle corporazioni. Come vuole che condividano l’abbominio che è di moda oggi nei confronti di Napoleone?» «Voi però non siete mica polacco; come si spiega dunque la vostra freddezza?» ho insistito. Il ragazzo ha alzato le spalle, poi invece di rispondere mi ha indicato un tavolo d’angolo, dove tre o quattro studenti, col cappello ornato di coccarde bianche e nere, bevevano in compagnia di un borghese. A quanto pareva, era il borghese a pagare, e i tre tracannavano birra senza risparmio, ascoltando l’anfitrione che anziché bere predicava a gran voce.

«Vada un po’ a sentire i discorsi che si fanno a quel tavolo, e poi capirà.»

Senza dare nell’occhio presi il mio boccale e, come per sgranchirmi le gambe, mi avvicinai al tavolo indicato. L’uomo era in maniche di camicia, e la camicia era per giunta visibilmente poco pulita, ma ciò non sembrava turbare più di tanto il suo pubblico, non più in ogni caso della lunga barba incolta che egli a tratti si accarezzava con le grosse dita, nelle pause del discorso, mentre riprendeva fiato e chiamava a raccolta nuovi argomenti. A quanto potei capire, l’oratore perorava la necessità di organizzare militarmente la gioventù tedesca, attraverso apposite società di ginnastica, dedite a unire l’educazione fisica all’addestramento militare e garantire in tal modo le capacità guerriere della razza. Gli studenti, che in omaggio alla tradizione ostentavano tutti sul volto le cicatrici dei loro duelli, lo ascoltavano con occhi resi lucidi dalla birra e dal fumo e di tanto in tanto applaudivano fragorosamente, insensibili a quanto pare ai suoi modi plebei. Modi, s’intende, che non avrebbero mai tollerato in un professore senza inscenare sotto le sue finestre rumorose gazzarre di protesta, al grido tradizionale di “Pereat!”,64 preferibilmente accompagnato da una buona sassaiola. L’oratore proseguiva affermando che solo con una dolorosa amputazione la razza germanica avrebbe potuto tornare alla sua purezza originaria e ripristinare l’antico ordine perduto, liberandosi da tutti gli incroci che la imbastardivano. «È tempo, fratelli, di scacciare dal nostro tetto i cosmopoliti senza patria, che corrompono il sangue del popolo: tanto il frivolo francese, quanto lo strisciante giudeo!» concluse battendo il pugno sul tavolo, fra l’esultanza degli ascoltatori. Poi bevve un intero boccale senza prendere fiato, ma nel farlo mi notò con la coda dell’occhio; allora si alzò in piedi, mi si avvicinò con aria minacciosa, protendendo verso di me la gran barba su cui riluceva la schiuma della birra, e mi affrontò:

«Il signore è interessato ai nostri discorsi?»

«Certamente», risposi, «tutto può interessare lo studioso dell’animo umano.»

All’udire il mio accento straniero l’uomo illividì, ma conservando una parvenza di cortesia mi chiese se non aveva per caso a che fare con un francese. Quella strana intervista mi aveva già seccato, così declinai le mie generalità e chiesi con chi avevo l’onore di parlare. Mi guardò con occhi gelidi e mi porse con alterigia la grossa mano, dalle unghie tozze e orlate di nero:

«Onorato. Friedrich Ludwig Jahn, pedagogo.»

Per non commettere una spiacevole villania, strinsi la mano a quel predicatore da strapazzo e tornai al mio tavolo, seguito dagli sguardi sospettosi dei suoi seguaci dai lunghi capelli. Il mio vicino mi fece posto e subito mi chiese che ne pensavo. Ripulendomi la mano col fazzoletto risposi che di imbecilli è pieno il mondo e che ad ogni istante è confermata la sentenza del decano Swift: l’uomo, si vede, è più adatto a volare che a pensare. Senza sorridere replicò:

«Certo, lei è straniero e quando sarà tornato nel suo paese oltre l’Oceano potrà ridere di questi pazzi. Ma a noi tocca vivere accanto a loro, e mi creda, non c’è ragione di divertirsi. Il futuro della Germania è nelle mani di questi uomini, e le loro ambizioni non conoscono limiti. Non creda che si accontenteranno della ginnastica! I miei compagni di studio sono già occupati a compilare liste di proscrizione in previsione del giorno in cui conquisteranno il potere: il discendente, sia pure in settimo grado, di un francese, di un ebreo o di uno slavo sarà condannato all’esilio.» «Ma queste son cose che si dicono» risposi spazientito dalla sua ingenuità; «figuratevi un po’ quale governo potrebbe mai considerare sul serio dei provvedimenti come questi!» «Lei crede?» m’interrogò, ancora dubbioso. «State tranquillo» lo rassicurai, ripensando alla conversazione con Bertha e sua madre; «i governi tedeschi hanno troppa paura che i loro sudditi emigrino in America, perché possano permettersi di abbracciare una politica del genere!»

Venerdì, 3 ottobre

Stamattina sono uscito sotto la pioggia e in mezzo ai soldati bagnati e imprecanti e ai cavalli fumanti di sudore che affollano le strade ho incontrato il cameriere del principe Louis Ferdinand. Il brav’uomo mi ha riconosciuto e mi ha salutato con un gran sorriso, in cui mancavano parecchi denti. Gli ho chiesto notizie del suo padrone. «Ebbene, signore, grazie a Dio sta insolitamente bene. All’avvicinarsi della guerra sembra guadagnare ogni giorno in allegria e in salute.» «Ma è qui?» «Ci sarà stasera, signore, se i soldati marciano, e marceranno se arriva il convoglio del pane, perché ieri non abbiamo mangiato nulla; e intanto mi ha mandato in avanscoperta, e a consegnare delle lettere.» Poiché il bravo Uhde aveva già eseguito le sue commissioni e si accingeva a prendere un caffè e poi a tornare indietro, gli ho detto che lo avrei accompagnato, e ho preso posto con lui nel calesse del principe; egli non aveva altro mezzo di trasporto, ma «quando avremo il nemico davanti agli occhi», mi disse, «anch’io mi comprerò un cavallo, per non dover mai lasciare il mio signore: credo che nel momento del pericolo due braccia fedeli non sono mica da respingere!». Per fortuna la pioggia si era diradata, ma i cavalli faticavano egualmente ad avanzare sulla strada ridotta a un fossato e calpestata per tanti giorni da innumerevoli uomini, cavalli, carri e cannoni.

Lungo la strada abbiamo incontrato diversi reggimenti sassoni, soprattutto di cavalleria, che marciavano nella direzione opposta alla nostra; non ho osservato in queste truppe né lo spirito militare, né l’abilità di manovra che convengono a questo secolo. In compenso, tutti i soldati sassoni fino all’ultimo sono incipriati, poiché il loro regolamento prevede l’uso della cipria anche con la tenuta da campagna. Dopo quasi un’ora di cammino siamo stati fermati dal solito picchetto di ussari prussiani, comandato da un sergente. Le uniformi brune degli uomini, incollate ai loro corpi dalla pioggia e dal sudore e inzaccherate di fango, si confondevano a meraviglia nella desolazione del paesaggio autunnale, tanto che non ci siamo accorti di loro se non quando si sono levati improvvisamente in piedi davanti alle zampe dei nostri cavalli. Uhde ha mostrato il suo lasciapassare ed essi, riconosciutolo per il cameriere del loro generale, lo hanno festeggiato calorosamente; anzi hanno insistito perché bevessimo tutti insieme alla salute del “loro principe”. Mentre trangugiavamo l’acquavite il bravo Uhde aveva gli occhi lucidi per la soddisfazione di avermi fatto toccar con mano la popolarità del suo padrone. Dopo aver regalato ai soldati qualche moneta rimontammo in carrozza e in pochi minuti giungemmo in vista di un casolare isolato e semidistrutto, nel cui cortile erano legati parecchi cavalli. Il mio compagno mi disse che la casa era stata abbandonata dai suoi abitanti ed era bruciata il giorno precedente, per la negligenza di una compagnia di cacciatori che vi era stata alloggiata; e proprio lì, aggiunse, si aspettava di trovare il suo padrone.

Trovai il principe seduto all’aria aperta, in una sedia di legno portata dalla casa bruciata; alcuni dei suoi uomini trascinavano faticosamente verso di lui una pesante madia, chiusa con tanto di lucchetto. All’interno si sentiva qualcosa e gli uomini speravano di aver fatto una buona preda. Quando ebbero portato la madia davanti al principe, impugnarono la baionetta e la sventrarono, ma dentro si trovò soltanto un vecchio libro di cucina dalle pagine ingiallite. Louis Ferdinand, vedendomi arrivare insieme a Uhde, mi salutò ridendo e mi disse che se speravo di essere invitato a pranzo sarei rimasto deluso, ma che avrebbe egualmente fatto qualcosa per non farmi pensar troppo male della sua ospitalità. Così, mentre le assi della madia bruciavano nel fuoco, il principe lesse ad alta voce le ricette più raffinate, e per il momento ingannammo l’appetito in questo modo. Egli mi disse ammiccando che eravamo più fortunati dei suoi soldati, la maggioranza dei quali, non sapendo leggere, non potevano neppure far ricorso a quel conforto. Poi, ridivenuto serio, aggiunse che se avevo fame avrebbe fatto preparare qualcosa da mangiare, ma che personalmente preferiva digiunare finché ai suoi uomini non fosse giunto il pane, che d’altronde doveva essere distribuito da un momento all’altro.

Poiché ricominciava a piovere, il principe mi invitò ad accompagnarlo all’interno della casa bruciata; solo una parte del tetto era crollata e in quella che doveva essere stata la stalla ci si poteva ancora riparare dall’acqua. Lì, seduti su due sedie, discorremmo a lungo della piega che gli avvenimenti stavano prendendo. Il suo spirito bellicoso, come mi aveva anticipato il bravo Uhde, godeva di quel grandioso movimento di uomini, che gli pareva presagire un’intenzione beneaugurante da parte del comando. «Ho tutti i motivi di sperare che ci muoviamo all’offensiva; ciò assicura sempre il successo, e lo assicura doppiamente a noi, perché, pardieu!, Bonaparte non se lo aspetta di certo. Il re ha scritto a Parigi intimando il ritiro immediato di tutte le truppe francesi dalla Germania; questo ultimatum scade l’otto, e di sicuro nei giorni successivi si spareranno i primi colpi di moschetto.» Egli non seppe tuttavia dirmi nulla di più preciso, poiché il duca di Brunswick non si fida abbastanza di lui per metterlo al corrente dei suoi piani. «È sempre stato così» borbottò «con questi maledetti generali. Mi sembra di essere ancora ai tempi dell’assedio di Magonza, quando chère mère scriveva al generale Kalckreuth raccomandando che mi impedisse di espormi, e il generale era fin troppo lieto di obbedire, per paura che il nemico potesse offendersi e costringerlo a fare la guerra per davvero!» Mi raccontò di aver lasciato Berlino in grande disgrazia, dopo aver firmato l’appello dei generali che invitava il re a congedare il ministero; perfino la regina non ha voluto salutarlo. Anche l’addio a suo padre non è stato così commovente come potrebbe immaginare uno scrittore di romanzi. «Per ordine del re ho dovuto partire così in fretta, che non ho trovato il tempo di passare da lui prima delle nove di sera. Era nella sala da gioco di Bellevue, e sedeva davanti al suo solitario. Si vedeva che era stanco, ma la sua regola è di non lasciare mai il gioco prima di aver sistemato l’ultima carta. Io e mia sorella lo guardavamo attraverso la finestra. Eccolo lì, solo nella sala illuminata dalle candele, sopravvissuto a tutti i suoi fratelli, rugoso e ostinato, rigido e curvo, aggrappato a tutti i suoi piccoli princìpi, che sembrano prolungargli la vita all’infinito. Le giuro che a volte mio padre mi mette i brividi! Finalmente si è alzato, ci è passato accanto senza guardarci ed è andato in camera da letto. Allora mia madre si è fatta coraggio e mi ha accompagnato da lui, ma non ci sono rimasto neppure un quarto d’ora, perché ogni cambiamento del suo regime di vita lo spaventa a morte, e quella per lui era l’ora di andare a dormire; mentre gli dicevo addio non ha potuto reprimere uno sbadiglio.»

Piegandosi quasi ad angolo retto per poter introdurre nella stalla il suo lungo corpo, il tenente von Nostitz entrò e avvertì che finalmente era arrivato il pane. Il principe, che aveva concluso con un sospiro il racconto della sua partenza da Berlino, si rianimò subito e uscimmo sotto la pioggia. A un tiro di pietra dalla casa un centinaio di ussari bruni, legati i cavalli a picchetti piantati nel terreno argilloso, stavano accoccolati in cerchio attorno a un gramo fuoco, mal riparato dalla pioggia grazie a una specie di graticcio di rami intrecciati, e mangiavano in silenzio grosse fette di pane nero. Il principe si avvicinò, fece cenno di non alzarsi in piedi, si sedette vicino a loro e li interpellò, dapprima in tedesco e poi, accorgendosi che quasi tutti erano polacchi e non parlavano la sua lingua, in polacco. Vedendo un principe che parlava così tranquillamente con i suoi soldati, seduto nel fango in mezzo a loro, e per di più nella loro stessa lingua barbara, compresi i motivi per cui era così popolare nell’armata. «Signor Pyle!» mi chiamò in quel momento Sua Altezza. «Venite, vi farò vedere qualcosa di straordinario!» Mi avvicinai e vidi che uno degli ussari si era fatto dare tre moschetti; li reggeva con la canna appoggiata sull’avambraccio sinistro, e con la destra armeggiava come per sparare. «Ora» mi disse il principe «quest’uomo sparerà tre moschetti in una volta sola; gli ho promesso un tallero se ci riuscirà.» La cosa mi pareva difficile, tanto più che l’uomo non era affatto un colosso, e si sa quanto sia pesante un moschetto di fanteria, e duro il suo grilletto; io, quando ho avuto l’occasione di provare, ho dovuto usare due dita per farlo scattare. L’uomo aveva alzato le bocche dei moschetti verso il cielo; mentre i suoi compagni gli stavano intorno incitandolo, strinse i denti e con uno sforzo erculeo fece detonare i tre grilletti in un colpo solo. Il principe, sorridendo, cavò di tasca un tallero e lo porse all’uomo, che lo prese con un inchino, fra le acclamazioni degli altri ussari; poi mi guardò, ridiventando serio. «Ho voglia di provarci anch’io» disse, e senza pensarci due volte parlò ai soldati, ancor sempre in polacco; subito tre di loro raccolsero i moschetti e li caricarono. Il principe, che in confronto a quei cavalleggeri di piccola statura pareva un gigante, li sollevò senza fatica, appoggiò tre dita sui tre grilletti, li puntò in alto e senza aspettare altro sparò. Gli ussari lo acclamarono ancora più forte; il principe senza una parola lasciò andare a terra i moschetti, trasse un profondo respiro e tornò verso di me. In apparenza non aveva fatto alcuno sforzo, ma quando si avvicinò vidi che la sua fronte era bagnata di sudore.

Più tardi, dopo che i servitori ebbero apparecchiato la tavola nella casa bruciata con le tovaglie e l’argenteria usciti dai bauli del principe, e un assortimento di pasticci di cacciagione e confetterie dei migliori negozi di Berlino ebbe calmato il nostro appetito, il principe ha avuto la bontà di istruirmi sui movimenti delle armate, segnando coll’unghia sulla carta gli accantonamenti dei corpi francesi e le direttrici di marcia dei corpi prussiani e sassoni, che da tutte le province dei due regni stanno marciando per concentrarsi fra Erfurt e Jena, in attesa di vibrare il colpo. Le speranze che questi movimenti offensivi hanno fatto germogliare nello spirito bellicoso di Louis Ferdinand non gli impediscono di deplorare l’indecisione in cui il re si è cullato così a lungo, e di prevederne con dolorosa lucidità le conseguenze; sicché il suo stato d’animo trascorre incessantemente dall’esaltazione allo scoramento. «Fra mille esitazioni, e senza che nessuno lo abbia veramente voluto, ci siamo ritrovati in guerra; io credo che se si chiedesse a Haugwitz, o perfino al re, quando precisamente è stato deciso tutto questo, sarebbero ben imbarazzati a rispondere; e intanto non si è previsto nulla, nulla si è calcolato. In compenso lo spirito del gabinetto ha indotto a emanare un’infinità di mezzi provvedimenti, con punti di vista meschini, spilorceria ancora più meschina; non passa giorno senza che arrivi un’ordinanza da Berlino per stabilire se gli ufficiali possono oppure no portare la piuma sul cappello con l’uniforme da campagna; e intanto le mie ambulanze sono già piene di malati, e non ne resterà neppure una per i feriti. Quel che è certo è che se dovessimo andare incontro a un esito infausto, la colpa sarebbe soltanto di questo miserabile rispetto delle convenienze; perché da ogni altro punto di vista l’istante è invidiabile. Quando traggo le conclusioni di tutte le mie osservazioni, ritrovo sempre la probabilità che nella prossima grande battaglia i vincitori siamo noi.» «La probabilità è una gran cosa, al gioco come in guerra» ho osservato. «Ma la probabilità» ha ribattuto il principe «diverrebbe certezza se potessi organizzare a modo mio la direzione dell’intera guerra, e delle singole armate. La salvezza della Germania e dell’Europa è così vicina, e così pochi sono i sacrifici che consentirebbero di raggiungere questo scopo sacro, tre volte sacro! Questa non è solo la mia opinione, tutti quelli che hanno testa e competenza lo riconoscono; eppure non ci si risolve a questi sacrifici, e se dovesse andar male, si cercheranno le cause fino all’Arca di Noè. Ma non ci sarà da stupirsi, perché questo è quello che si verifica in tutte le grandi catastrofi della storia» ha concluso Sua Altezza versandosi un calice di champagne.

A queste preoccupazioni si aggiungono gli affanni senza fine procurati al principe dalle due donne che ha lasciato a Berlino, Pauline e Henriette. Solo gli sciocchi credono che un generale in campagna sia interamente assorbito dalle cure dell’armata e dagli interessi dello Stato; nella realtà, ciascuno si porta dietro da casa gl’intrighi amorosi, gli affanni domestici, le preoccupazioni di denaro, e di ciò continua a interessarsi assai più che dell’esito della guerra. Il fatto di essere legato al medesimo tempo a due esseri così diversi, e di non potersi sciogliere da nessuna delle due, provoca a Louis Ferdinand incessante meraviglia, ed egli fatica a raccapezzarsi nei movimenti del suo cuore. «Lei non sa con quanto calore e quanta violenza io ami Pauline, e al tempo stesso con quanta intimità e dolcezza sia legato alla celestiale, buona, cara Henriette; questo sembra un enigma, incomprensibile da mente umana, e tuttavia le circostanze così straordinarie», ecc.; uno sfogo che mi ha commosso solo moderatamente, giacché a Dresda non si parla che dell’assedio spietato posto dal principe a diverse belle signore prima e dopo il soggiorno di Pauline in quella città. Eppure la sua situazione è veramente complicata, e non si può fare a meno di compiangerlo. L’amicizia fra Henriette e Pauline fa sì che esse gli mandino le loro lettere nella stessa busta, dichiarando di non avere segreti l’una per l’altra; sicché raramente il loro tono è così sincero come un amante potrebbe desiderare. Dopo che avevamo bevuto insieme tre bottiglie di champagne, egli mi ha mostrato una lettera di Henriette, scritta in una specie di francese, con ondeggiamenti paurosi dal tu al vous, e un’altra acclusa di Pauline, in tedesco, in cui essa compiange la sua amica di non essere più la prediletta del principe, e ne dà tutta la colpa a quest’ultimo. Questa lettera arrivata ieri ha precipitato il suo destinatario nel più nero sconforto, per i rimproveri crudeli e ingiustificati che contiene. “Tu le hai sempre scritto tali lettere” scrive Pauline “che essa poteva credere di essere per te la più cara. Siccome io so che Jette non ti scriveva delle lettere del genere, ecco che lei aveva ragione e tu torto. Mi dispiace di aver provocato queste sofferenze a Jette, ma sei tu all’origine di tutto. Tu hai colpa di tutto con le tue stupide, false lettere” e così via. Ma oggi è arrivata una lettera di tutt’altro tono, e il principe è così pazzo di gioia che me l’ha lasciata leggere senza pensarci due volte. “La guerra! Tu guerriero, tu cacciatore, tu musicista. Tutto questo mi viene a mancare – ma prima di tutto viene l’amore. No, Louis, prima l’amore e poi tutto il resto; tu hai ucciso tutto in me, e non so se questo mi renderà felice, o se non sarebbe meglio che fosse tutto diverso. Non dimenticarmi, Louis, scrivimi tanto, ma solo quando ne hai voglia, non sentirti costretto a farlo. Oh Louis, perché sempre tanti ostacoli in questa vita, in questa corta vita, perché non sono con te? Louis, passare un’ora, un’ora solo a baciarti. Mandami denaro, non ho un soldo e sono piena di debiti; le cameriere se ne vanno il primo novembre, e a mia madre di queste cose non posso parlare. Volevo vendere i miei scialli, ma mi danno solo cinquanta talleri per tutti e due e ognuno è costato più di duecento. Addio Louis, mi dispiace tanto doverti dire questo, vivere sempre in queste condizioni infami è tremendo, ma non è colpa mia. Non essere cattivo con la tua povera Pauline.”

Dopo aver letto questa lettera miserabile e averla coperta di baci, il principe si è seduto allo scrittoio e in dieci minuti ha vergato la risposta, che mi ha poi consegnato dimenticandosi di sigillarla, e pregandomi di trasmetterla domattina al corriere. Ne approfitto per trascrivere questo documento che un giorno potrà interessare gli storici. “Mia cara, nobile Pauline, ho ancor sempre davanti agli occhi la tua immagine, il tuo dolore, le tue lacrime. Oh mai, mai le dimenticherò. Povera, cara Pauline, il mio pensiero è sempre con te. Pauline, io sento così profondamente che solo per mezzo tuo posso essere veramente felice, hai gettato un incantesimo su tutto il mio essere, il pensiero di te, tu amore, tu, si mescola a ogni cosa. Quanto profondamente io ti ami, lo capisco io stesso da questo, che non vorrei rinunziare neppure ai tuoi difetti. Tutto in te ha l’impronta inconfondibile della verità: i tuoi bollori, la tua ingiustizia, io amo tutto ciò, anche se mi fa male… In te tutti questi difetti mi sembrano solo gli eccessi di una natura troppo vitale, e non ancora del tutto sviluppata… Cara, sgarbata Pauline, Inglese di una Pauline” (perché poi dice così? Sono sempre più sorpreso dall’idea che costoro si fanno degli inglesi), “sarebbe infinitamente difficile educarti senza sciuparti! Lo so bene che forse un’educazione compiuta avrebbe fatto di te un essere a suo modo assai interessante, ma tanta parte di te sarebbe rimasta nascosta. Mandami presto il tuo caro ritratto, lo guarderò ogni giorno. In questi giorni abbiamo sempre marciato, si arrivava tardi, poi tutti gli aiutanti pranzavano con me, nel pomeriggio finivo di lavorare col principe e i signori dello stato maggiore, scrivevo il diario, che ti manderò senza fallo ogni mese, e andavo a letto presto. La pigrizia di Möllendorff è indescrivibile, la sua corrispondenza berlinese con mademoiselle Nebus e così via assorbe tutto il suo tempo. Come sempre è pieno di dolori, soprattutto quando piove. Dussek fa passare tutto il vino che gli è possibile attraverso la sua ora assai rauca gola. Addio, cara, bella anima! Vorrei parlarti ancora molto di tuo marito e della tua situazione; smetto per non esagerare. Ti bacio mille volte con l’amore più ardente. Addio, presto ti scriverò di nuovo. Louis.” Con questa lettera in tasca sono ripartito prima del tramonto per rientrare a Jena, dove come promesso l’ho affidata al corriere di Berlino, insieme a una lettera per Victoire, prima di andarmene a dormire nella mia soffitta.

Sabato, 4 ottobre

Stamattina sono salito al Castello a rendere omaggio al principe Hohenlohe, e a chiedergli notizie del re, che dev’essere ormai giunto al campo. L’aiutante di servizio mi disse che Sua Altezza era appena tornato da una ricognizione sulla montagna che sovrasta la città, e che mi avrebbe senz’altro invitato a pranzo; da una finestra dell’anticamera lo vidi entrare a cavallo nel cortile, tenendosi ritto in sella come un giovanotto, nonostante i suoi sessanta e più anni, smontare agilmente mentre un ufficiale gli teneva la staffa, e avviarsi verso lo scalone a grandi passi. Quando gli sono stato presentato, non ho potuto fare a meno di essere colpito dalla sua bruttezza e dalla forte curvatura delle gambe, rivelatrice della lunga consuetudine col cavallo. La bonarietà del suo sguardo è accentuata da una forte miopia; in effetti il principe non vede a venti passi di distanza, benché l’orgoglio gli impedisca di ammetterlo e di ricorrere agli occhiali. Il re e la regina, mi ha informato, giungeranno domani o dopodomani a Erfurt, sicché mi conviene aspettare addirittura a Jena la conferma del loro arrivo. «Posso chiederle dove è stato alloggiato?» ha proseguito scrutandomi. Apprendendo della mia precaria sistemazione, non ha voluto intendere ragioni e ha mandato un aiutante a prepararmi una camera, sicché a mia volta ho spedito Will all’Angelo con l’ordine di raccogliere le mie robe e i miei cavalli e trasportar tutto al Castello. «Va da sé che lei pranza con me» ha aggiunto il principe; e subito dopo aver pronunciato queste amabili parole ha cominciato a guardarsi attorno nervosamente e a chiedere con voce stizzosa perché il pranzo non era ancora pronto. In quel momento la baldanza giovanile che gli avevo attribuito mentre scendeva da cavallo si è intieramente dissipata ed è rimasto soltanto il vecchio sessantenne, che la minima contrarietà irrita senza ragione. Più tardi, vedendo l’avidità con cui ha divorato, appena seduto a tavola, due piccole pagnotte di pane bianco che erano state poste davanti al suo coperto da un aiutante zelante, ho compreso che come molti vecchi il principe può conservare la propria prestanza fisica e la propria sicurezza morale solo grazie a un’assoluta regolarità di vita, e che un ritardo nel pranzo, un mutamento imprevisto nelle sue abitudini, sono destinati a sconvolgerlo, così inevitabilmente come un granello di sabbia fa deragliare i meccanismi di un orologio.

A tavola la conversazione si è soffermata sui movimenti delle truppe francesi, che secondo tutte le notizie si stanno concentrando nell’area di Bamberga e Würzburg, e sulle belle probabilità di prendere sul fianco quelle truppe e di rovesciarle non appena si metteranno in marcia; purché, aggiungono più o meno esplicitamente gli aiutanti di Hohenlohe, il duca di Brunswick lasci mano libera al loro generale e non intralci i suoi piani per gelosia. Nonostante gli inconvenienti dell’età, la considerazione di cui il principe gode nell’esercito è altissima, e a giudicare dai discorsi che ho ascoltato oggi poco manca che non gli costruiscano un monumento sulla Wilhelmsplatz, accanto ai generali di Federico; l’ultima volta che ha soggiornato a Berlino non hanno trovato di meglio, per fargli onore, che assegnargli nel Castello l’appartamento del vecchio re. Fino all’ultimo Bonaparte ha cercato di convincerlo a entrare nella Lega Renana, ma il principe ha rifiutato, preferendo perdere il suo principato piuttosto che tradire la fedeltà che da secoli lega la sua casa a quella di Hohenzollern. Quando non ha potuto fare altrimenti, ha abdicato in favore del figlio, e adesso non è nient’altro che un generale prussiano, qualità che almeno in Prussia nessuno si sognerebbe di considerare inferiore a quella di principe dell’impero. A quanto pare ha raggiunto l’esercito direttamente dalle sue terre, nel bel mezzo degli accantonamenti dell’armata nemica; davanti al suo palazzo prestava servizio una guardia d’onore francese e fino a poche settimane fa egli ha avuto a pranzo e a cena gli ufficiali del corpo d’armata di Davoust. Non per questo si è fatto scrupolo di inviare regolarmente, per mezzo di corrieri fidati, notizie sui movimenti delle truppe francesi direttamente al duca di Brunswick, che disponeva così dell’informatore più altolocato che si possa immaginare.

A pranzo col principe c’era il generale conte Bevilacqua, comandante di una delle brigate sassoni; un italiano basso e corpulento, col ventre faticosamente costretto negli attillati calzoni bianchi dell’uniforme. Il signor von Bevilacqua parla francese, tedesco e spagnolo con lo stesso terribile accento, ma riesce a farsi capire in ognuna di quelle lingue; mangia voracemente, pur lamentandosi della sua cattiva digestione; parla malvolentieri della sua famiglia e del suo paese d’origine, e con molto maggior piacere dei suoi malanni fisici, fra cui spicca una schifosa rogna o tigna che gli rode la pelle del capo, quasi completamente calvo. Per questo non esita a togliersi la parrucca nel bel mezzo della cena per sostituire l’impiastro curativo che vi porta appiccicato, con quanto piacere della compagnia è facile immaginare. Ho cercato di sapere da lui qualcosa dell’Italia; «l’Italia è un paese assurdo», mi ha risposto. Non sono tuttavia riuscito a sapere in che cosa consista in particolare questa assurdità. Il generale ha circa sessant’anni, l’occhio di un pesce lesso, la voce nasale e sgradevole, e si lamenta continuamente del freddo che fa in Germania e della propria stanchezza; ogni tanto ripete fra sé una frase in italiano, che un aiutante mi ha poi tradotto in privato con grandi risate, e che significa più o meno, con licenza, “che vita di merda!”. Il suo titolo di conte, o per essere più precisi di conte palatino dell’impero, è un orpello altisonante che non significa nulla e che si dà, per esempio, ai medici di corte e ai maestri di musica; suo padre, a quanto si dice, doveva essere un barbiere napoletano che ha fatto fortuna alla corte sassone al tempo di Augusto il Forte, probabilmente facendo da mezzano al re, che sapeva ricompensare questo genere di servizi.

Dopo pranzo il generale sassone è partito, e il principe Hohenlohe ha sonnecchiato un po’ col capo reclinato sulla spalliera della sedia; quando infine si è riscosso, senza alzarsi da tavola, e anzi sempre con la bottiglia e il bicchiere a portata di mano, ha cominciato a dettare a un aiutante gli ordini per l’indomani. In tale attività mi si è d’un tratto rivelata la debolezza di questo vecchio per altro verso così cordiale e simpatico; il principe infatti ha dettato nel modo più prolisso e minuzioso l’ordine di marcia per il suo treno di artiglieria, che si trova ancora a una giornata di marcia da Jena, indicando con la carta spiegata sul tavolo il percorso esatto che ogni batteria doveva seguire, tappa per tappa e villaggio per villaggio, senza preoccuparsi di chiedere notizie sullo stato delle strade; dopo quasi un’ora di quel dettato, quando l’ordine era ormai soltanto da firmare, è entrato un capitano dell’artiglieria a cavallo che veniva appunto a prendere gli ordini per il suo convoglio, e il principe, anziché consegnargli semplicemente l’ordine scritto, ha cominciato a ripetere oralmente l’intera spiegazione, segnando con l’unghia sulla carta, che il suo interlocutore non poteva vedere, ogni dettaglio della marcia. Ma prima della fine è arrivato un aiutante sassone con una lettera del suo generale, che è stata letta a voce alta e discussa parola per parola, benché non contenesse nulla di rilevante. Intanto il tempo passava e l’ordine per l’artiglieria non era ancora stato spacciato, e bisognava ancora scrivere gli ordini per tutti gli altri reparti. Ma quando il disgraziato capitano dell’artiglieria a cavallo credeva di potersene ormai andare con le sue carte, un ufficiale degli ussari si è presentato a rapporto, e il principe è rimasto con la penna in mano senza firmare, ascoltando pensosamente il nuovo venuto. Per disgrazia, costui era stato mandato qui dal suo comandante per informare dei movimenti francesi intorno a Bamberga, di cui le spie avevano dato notizia. Il principe, che ci aveva intrattenuti a tavola a quel proposito, lo ha interrotto e con un bonario sorriso ha detto: «Amico mio, le dirò io che cosa so su questa faccenda!» e ha ricominciato a narrare tutta la storia. Poi, dopo aver concluso, ha congedato senz’altro l’ussaro, senza ascoltare il suo rapporto, ha firmato finalmente l’ordine per l’artiglieria, consentendo all’artigliere di filare, e stava per cominciare la dettatura di un secondo ordine quando è entrato il mastro di stalla, per riferire sui cavalli del principe. Così si è messo fine a ogni altra attività, perché Sua Altezza ha voluto essere informato in dettaglio di ognuno dei suoi ventiquattro cavalli, se e quanto avevano mangiato, e se i ferri erano stati controllati; intanto il sole era tramontato da un pezzo, e alla fine del rapporto è stato annunziato il duca di Weimar, che veniva a cena, sicché tutto è stato rimandato a Dio sa quando.

Al seguito del duca, il quale veste l’uniforme e riceve lo stipendio di generale prussiano, è stato invitato a cena anche il celebre poeta, Goethe, ministro del ducato di Sassonia-Weimar. Costui, a quanto mi hanno raccontato, se ne stava tranquillamente insediato nell’appartamento padronale del Castello, intento a catalogare non so quale collezione di minerali, quando l’arrivo del principe lo ha costretto a traslocare, provocandogli un travaso di bile da cui non si è ancora del tutto rimesso. È un uomo alto e imponente, vestito in abito di corte ricamato, incipriato, con lo spadino di gala al fianco: un manichino che rappresenta perfettamente la dignità del suo rango di ministro, e in cui proprio nulla lascia intravedere il poeta. Per mia disgrazia è stato mio vicino di tavola; ho fatto l’impossibile per farlo parlare, ma per tutta la durata della cena si è dimostrato superbo e laconico: a ogni mia domanda hanno fatto seguito fredde risposte e poi un profondo silenzio. Mi sono perciò rassegnato a conversare col mio vicino di sinistra, uno degli aiutanti di campo del principe, il capitano von Blumenstein; costui afferma d’essere un nobile francese e che il suo vero nome è de la Rochefleur, ma d’averlo poi tradotto in tedesco in omaggio alla nuova patria che lo ha accolto dopo la Rivoluzione. Secondo me, tuttavia, dev’essere qualche ebreo alsaziano, cacciato da Colmar o da Mulhouse per aver rubato sulle forniture militari, e non s’è mai chiamato altro che Blumenstein fin dalla nascita; ma il desiderio d’avere dei francesi al proprio servizio è così forte nei re di Prussia, fin dal tempo di Federico, ch’essi passano facilmente sopra a simili piccolezze, e concedono gradi militari e titoli nobiliari con una generosità che non mostrerebbero giammai verso i propri sudditi.

Dopo la partenza degli ospiti il principe Louis Ferdinand, sorbendo l’ultima di molte coppe di champagne, mi ha burlato per la conversazione poco brillante che avevo sostenuto con Goethe, e ho dovuto rispondere che poiché il mio vicino sembrava imbavagliato, alla fine me n’ero rimasto tranquillo anch’io. «Ma di che cosa avete parlato?» ha insistito Sua Altezza. «Di che cosa si può dunque parlare con grande poeta, se non di sue opere?» si è intromesso Blumenstein, storpiando malamente il tedesco. «Sbagliato!» ha riso il principe. «Dovevate parlare dell’amministrazione del ducato.» «Ah! Mi pare, che il signor Goethe crede di essere un grande signore, e così lui rifiuta di essere reputato un letterato. Eppure a mio giudizio, grande poeta vale più di ministro qualunque» ha insistito il capitano. «Che farci?» ha tagliato corto il principe; «tutti i grandi uomini hanno le loro debolezze, ma io le assicuro, mio caro Pyle, che in un altro momento troverà nel nostro Goethe un fascino straordinario.» Proprio in quel momento la porta si è aperta ed è rientrato il poeta, ancor sempre incipriato e in abito di gala, ma questa volta con una fisionomia rilassata, quale non gli avevo mai visto in tutta la serata. «Ma vedo che lor signori seguono la buona usanza inglese, di restare a bere fra uomini, dopo che le signore e i generali in capo si sono ritirati! Spero che mi permetteranno di far loro compagnia» ha esclamato. Questo scherzo ha suscitato una sommessa ilarità, e il principe in persona non ha creduto di abbassarsi offrendo una poltrona al grand’uomo, che vi si è installato con adeguata dignità. La conversazione si è subito riaccesa intorno al grande argomento del giorno, e cioè le intenzioni di Bonaparte e della sua armata in Germania. A luglio Goethe ha passato le acque a Carlsbad, e laggiù ha udito raccontare da viaggiatori di Baviera e di Franconia che negli ultimi tempi son giunti presso ogni reggimento francese uomini mandati da Parigi, coll’incarico di tenere lezioni sull’istruzione dei sottufficiali. «Immaginate la scena. Si requisisce una grande sala, e tutti siedono a un tavolo; i soldati stanno in circolo intorno all’istruttore che fa lezione secondo un programma prestabilito, in base al quale in seguito esamina gli ascoltatori e li catechizza. Ma ciò che offre motivo di meditazione all’uomo capace di vedere oltre la superficie delle cose, è che le lezioni non trattano soltanto la bassa e l’alta tattica, nel qual caso l’interesse dell’intera faccenda per il profano, e voi mi scuserete, amici miei, sarebbe assai limitato; ma anche la morale e il comportamento da tenere in società. Per giunta queste missioni, come mi hanno confermato diversi testimoni, si svolgono conformemente al medesimo protocollo in tutta l’armata, indizio indubbio di una capacità di organizzazione che solo la nuova Francia poteva manifestare. Come questo aneddoto» ha proseguito Goethe «dipinge bene ciò che è oggi la Francia! Chiunque veda da vicino i francesi non può non provare un’autentica ripugnanza. Sono tutti istruiti, ma l’ultima favilla di senso morale in loro è spenta; ed essi credono di poterlo riapprendere a lezione, così come si andrebbe a lezione, poniamo, di latino o di anatomia. Fino a pochi anni fa, tutti avremmo giurato che la Francia era matura per la rovina più di qualsiasi altra nazione europea. Potevamo contemplare le biblioteche piene dei volumi di Rousseau, di Helvetius, di Voltaire, e pensare: a che cosa sono serviti? Ha uno solo di essi raggiunto lo scopo? Potevamo ascoltare la loro conversazione nei salotti, così spiritosa in confronto a noi poveri tedeschi tardi d’ingegno, applaudire alle declamazioni dei loro attori e oratori, e pensare: illusi! A che cosa serve il vostro tanto vantato atticismo, a cosa servono le vostre buone maniere, se manca il fondamento su cui costruire qualsiasi realizzazione duratura? Potevamo sederci a tavola, e assaggiare i poulets à la suprême e tutte le altre frivolezze dell’arte culinaria francese, e chiederci: è tutto qui? Ma ecco che dagli sconvolgimenti della grande Rivoluzione è emerso un eroe capace di plasmare dal nulla quel popolo ormai informe, di ridare la vita alla materia spenta, e il suo genio meraviglioso getta la sua ombra anche sul nostro povero popolo tedesco. Sì, amici miei, voi vi preparate a combattere un nemico senza eguali, un nemico la cui potenza demoniaca lo porterà a diventare padrone del mondo, se voi non lo fermerete. Non credevo alla possibilità di un impero universale, ed esso si sta realizzando sotto i nostri occhi: egli è già padrone della Francia e dell’Italia, di Napoli e dell’Olanda, la Spagna e la Svizzera non muoverebbero un dito senza il suo permesso, i principi tedeschi si sono sottomessi…» Così dicendo bevve, poi proseguì, come se un’idea lo avesse colpito: «Già m’immagino, supponendo, ma soltanto supponendo, per il piacere della conversazione, che voi, amici miei, non riusciate a fermarlo, ebbene già m’immagino i titoli che inventerà per comunicare agli uomini e ai posteri la sua grandezza, come un nuovo Nabucodonosor: Noi Napoleone, Luogotenente di Dio, Maometto del mondo, Imperatore d’Europa, Protettore di Germania, Gran Tipografo e Tesoriere dell’Universo empirico…». Tutti ridevano, ma c’era qualcosa di ebbro in quel riso, un sottinteso così sinistro che lo stesso Goethe, per quanto avesse bevuto, se n’è accorto e ha taciuto di colpo; allora tutti hanno smesso di ridere, come vergognandosi della propria ilarità.

La conversazione è poi continuata ancora a lungo, fino a notte fonda; anche se non di conversazione si dovrebbe parlare, ma piuttosto di monologo, poiché nessuno aveva voglia di misurare la propria eloquenza con quella scintillante del poeta, e tutti tacevano ascoltandolo, chi perduto in un’ammirazione da innamorato, come il principe Louis, chi alla fine piuttosto annoiato, anche se la buona creanza impediva di darlo a vedere. Quando ci si trova in compagnia, e per una ragione o per l’altra si è costretti a tacere e ascoltare, accade, come ho più volte osservato, di bere più dell’usato; e così è accaduto questa notte a quasi tutti i presenti. Il principe Louis, secondo la sua abitudine, beveva con grande liberalità, e per la prima volta da quando lo conosco l’ho veduto sopraffatto dallo champagne: a un tratto è impallidito, si è morso le labbra e si è alzato senza scusarsi, abbandonando precipitosamente la sala. Nessuno ha fatto caso a questa fuga inaspettata, poiché l’etichetta tedesca saggiamente permette ai commensali di ritirarsi, quando non possono farne a meno, per liberar lo stomaco da un peso increscioso; tuttavia dopo qualche minuto Goethe, con quella finezza di cui aveva dato così poca prova con i suoi vicini di tavola, ha taciuto, ha sbadigliato e ha dichiarato che era ora di andare a dormire, sicché la compagnia si è sciolta.

Sulla porta il poeta ed io, incerti su chi dovesse avere la precedenza, ci siamo attardati un istante, e il principe Louis è ricomparso, dichiarandosi pronto a ricominciare a bere e mostrandosi assai dispiaciuto che la seduta fosse stata tolta. Goethe ha insistito con paterna deferenza per accompagnarlo a letto, da quel vecchio servitore abituato ai capricci dei principi che in effetti è, e Sua Altezza si è lasciato condurre fino alla porta del suo appartamento. Qui tuttavia siamo nuovamente sprofondati nella discussione, e per quanto scarsa fosse la mia simpatia per il ministro poeta, debbo confessare di essere rimasto affascinato una volta di più dalla sua eloquenza. La guerra si trasfigura nelle sue parole fino ad assumere le sembianze di una forza cosmica, destinata a spazzar via il mondo che noi conosciamo e a rimpiazzarlo con un mondo nuovo, e non so quanto splendido, dominato da forze a noi ignote. «Fino a pochi mesi or sono avevo creduto che il Nord potesse congelarsi politicamente e non fondersi nella lava del Sud. Ancora quest’inverno le speranze provvisorie, con cui noialtri filistei ci eravamo tranquillati già da molti anni, erano parse rinvigorite. Il mondo bruciava in ogni angolo; l’Europa intera aveva cambiato volto; per mare e per terra città e flotte andavano in rovina, ma la Germania del Centro e del Nord sembrava dover essere risparmiata. Ora che la cenere bollente, spinta dal vento, comincia a cadere sulle nostre case, e il cielo si fa nero come l’inferno sopra le nostre teste, mi par di capire come dovettero sentirsi gli abitanti di Pompei, ripensando a tutti i presagi che avevano ignorato, e agli indovini che avevano schernito.»

Così abbiamo continuato ad ascoltarlo, in piedi nell’oscurità, finché il principe ha riso e ha detto che vi sono notti in cui ascoltare il richiamo del buon senso significherebbe offendere gli Dèi; sicché, invece di andare a dormire, ci ha invitati in camera sua, dove siamo rimasti a bere fino al mattino. Il principe voleva svegliare Uhde, che aspettando il suo padrone si era assopito sul divano, per fargli preparare un punch. «Se Vostra Altezza permette, vorrei piuttosto mettere a frutto la mia conoscenza del castello, e delle sue cantine» ha obiettato Goethe con un sorriso misterioso; poi, chiamato un domestico, gli ha sussurrato qualche parola all’orecchio, e questi è ricomparso di lì a poco con sei bottiglie di Chambertin. «Il negoziante di Digione da cui il Serenissimo compra il suo vino ci ha assicurato che questo è il vino preferito di Napoleone, perciò mi sembra che non si possa trovar di meglio per inaugurare la campagna» ha sorriso Goethe; poi, forse pentito di avermi trattato con tanta freddezza per tutta la serata, si è rivolto verso di me e mi ha chiesto se in America produciamo del vino. «Ben poco», gli ho risposto, «ma c’è ragione di credere che un giorno questa coltura prospererà anche da noi: anzi, quando la manodopera sarà meno cara, e potremo pensare ad altro che al grano, potremo superare l’Europa nella qualità dei nostri vini.» «E come mai, di grazia?» Poiché questo è un argomento su cui mi è già accaduto di riflettere, mi sono trovato in condizione di difendere un’affermazione che di primo acchito poteva apparire temeraria. «Ebbene, è sufficiente osservare la miseria dei contadini sul continente, e paragonarla alla prosperità degli agricoltori americani, per comprenderlo. I paesi vinicoli d’Europa versano in uno stato di tale ignoranza e superstizione da non essere in grado di migliorare la qualità dei loro vini coll’esperimento, come invece avverrebbe in un paese illuminato e intraprendente come l’America. Se si innestasse il vitigno francese sul nostro vitigno Fox, per esempio, si otterrebbe una eccellente varietà.» Il principe e il poeta seguivano con interesse questo argomento, confortandosi con larghe sorsate di Borgogna, tanto che le prime tre bottiglie sono state vuotate in pochissimo tempo; le altre, tuttavia, hanno resistito più a lungo. Non ho mai veduto due bevitori di quella forza, e riconosco lealmente di aver subito rinunciato a tener loro testa; anzi, concluso il mio intervento in difesa dei nostri vini futuri ho cominciato a sonnecchiare, ascoltando con un orecchio solo, e bevendo di tanto in tanto un sorso per mostrare che non mi ero assopito del tutto. Mi sono riscosso soltanto all’alba, quando i primi raggi del sole entrando dalla finestra sono andati a riflettersi nei nostri bicchieri. Goethe era appena tornato a riempirsi il calice con ciò che restava dell’ultima bottiglia, e rimase come affascinato osservando gli strani riflessi della luce attraverso il vetro e la bevanda. Né io né il principe eravamo in grado di parlare, sicché egli poté restare in silenzio per parecchi minuti; palesemente non riusciva a distogliere la mente dal sottile raggio che si rifrangeva nel bicchiere, e dalla sua espressione aggrottata, quasi severa, s’intuiva che stava compiendo una qualche osservazione ponderosa. Infine posò il bicchiere, si frugò le tasche, si guardò intorno con impazienza, vide che il principe ed io lo fissavamo con occhi istupiditi, e senza una parola uscì dalla stanza. Un istante dopo era di ritorno con un quaderno rilegato in marocchino, sedeva allo scrittoio del principe e annotava velocemente qualcosa. Quando ebbe finito, chiuse il quaderno e lo intascò, poi ci rivolse uno sguardo di scusa. «Perdonatemi, amici, ma non potevo resistere al desiderio di annotare l’osservazione che ho appena fatto sulla rifrazione della luce. Voi forse sapete quanto questi studi possano sollevare l’animo dalle infinite bassezze delle nostre preoccupazioni quotidiane. Felice colui, al quale una nobile passione infiamma il cuore!»

Domenica, 5 ottobre

Non so come stanotte abbia potuto raggiungere il mio letto; l’ultima cosa che ricordo è Goethe che fissa come ammaliato il rifrangersi della luce nello Chambertin, nell’istante in cui i primi raggi di sole penetrano nella camera del principe Louis. Quando ho ripreso un barlume di coscienza, ero in camicia da notte nel mio letto, benché il piumino e tutti i cuscini fossero stati gettati sul pavimento; suonai il campanello per chiamare Will, e questi, interrogato circa l’ora, mi rispose con una punta d’impertinenza che era mezzogiorno passato. Mi pareva di udire una musica lontana, che non aveva nulla a che fare con le campane delle chiese, né con i pifferi e i tamburi dei reggimenti; ma poiché faticavo a reggermi sulle gambe, e la luce del giorno e la voce di Will mi davano un tremendo fastidio, la scambiai per un altro effetto del vino. Appena vestito, tuttavia, spalancai la porta della camera e mi accorsi che era proprio la musica di un violino, proveniente da qualche parte all’interno del Castello. Sceso in sala da pranzo, trovai il principe e Dussek che suonavano in camicia da notte e pantofole. Attirati come me dalla melodia, un gran numero di ufficiali e di domestici erano entrati nella sala e stavano ascoltando; il contrasto fra le divise degli ufficiali, le livree gallonate dei lacchè e la tenuta familiare dei violinisti non pareva sorprendere nessuno, e il principe in particolare non sembrava minimamente gêné,65 tanto che ha continuato così fino a quando la colazione non è stata pronta. Quando si va a dormire a notte tarda e si è costretti ad alzarsi presto, non c’è niente di meglio, al risveglio, di un bicchierino di acquavite e una colazione fredda di prosciutto o di pâté per rimettersi in forze e scacciare il sonno, e ho constatato con piacere che i servitori di Sua Altezza avevano apparecchiato la tavola in conformità a questa filosofia. Mentre mangiavamo ho comunicato la mia intenzione di partire oggi per Erfurt, dove il duca di Brunswick ha stabilito il suo quartier generale, e dove il re e la regina sono giunti ieri. Il principe Louis, addentando un crostino, ha proposto di accompagnarmi a cavallo fino a Weimar, «per tenere in esercizio i cavalli e per non marcire anch’io in questo maledetto lavoro d’ufficio, altrimenti finirò per soffocare nelle scartoffie!». Perciò, appena terminata la colazione siamo montati in sella, lasciando a Will e al vetturino l’incarico di preparare i bagagli e di raggiungermi a Erfurt.

Passando davanti all’osteria della Mezzaluna abbiamo avuto il privilegio di osservare dal vivo gli studenti di Jena intenti bensì alla loro attività quotidiana, cioè ubriacarsi di birra a poco prezzo, ma vestiti dello speciale costume da cerimonia riservato ai bagordi domenicali. A tutti i tavoli, gomito a gomito, così numerosi che il padrone aveva fatto portare delle panche fin sulla porta e serviva loro da bere direttamente in strada, sedevano giovanotti dai capelli intonsi, con marsine di taglio militare abbondantemente ricamate d’oro, spalline, stivali, speroni e lunghe sciabole al fianco; quasi tutti tenevano sulle ginocchia, e qualcuno anche in testa, certi caschi di cuoio ornati di piume colorate, che parevano usciti da qualche sartoria teatrale, e facevano assomigliare quei biondi teutoni a tanti antichi romani. I pochi soldati che erano riusciti a trovar posto all’osteria, per la maggior parte dei quali lo spettacolo doveva riuscire del tutto nuovo, li sogguardavano con una punta di inquietudine, e più di un sottufficiale si arricciava i baffi pensoso mentre li osservava, chiedendosi visibilmente se non dovesse arrestarli; gli studenti tuttavia, che a quell’ora dovevano aver già tracannato più di un boccale, manifestavano a quei guerrieri perplessi la più calorosa amicizia, assicurandoli che in caso di bisogno avrebbero dato una mano per cacciar via i francesi dalla patria. «Che cosa ne dice, entriamo a bere una bottiglia? Questa polvere mette sete!» esclamò il principe, e senza pensarci due volte smontò da cavallo ed entrò nell’osteria. Era vestito con uno spencer senza decorazioni, sicché chiunque poteva scambiarlo per un tenente; e anch’io ero in abito da viaggio, per di più già un po’ impolverato. Quando chiedemmo al padrone una bottiglia di champagne, egli ci squadrò per un istante, come chiedendosi se avremmo potuto pagarla; poi dovette decidere di sì, grazie a qualche invisibile indizio che agli osti non sfugge mai, e ci portò quel che avevamo chiesto. Bevemmo in piedi al banco, e fu una faccenda breve, perché il principe non ci mette più di cinque minuti a far fuori una bottiglia, anche senza aiuto; e quella per lui era già la quarta, perché a colazione glie ne avevo viste vuotare tre, senza che tutto quel vino provocasse nel suo organismo alcuna conseguenza visibile.

Il viaggio da Jena a Weimar è appena una piacevole passeggiata, attraverso dolci colline e boschetti dai colori autunnali. La stagione è ritornata insolitamente mite; non fa freddo, e da due giorni in cielo non c’è una nuvola. La riposante bellezza della natura contrasta però con la miseria dei contadini, che nei campi non portano altro vestiario se non giubbe rattoppate e brache di tela grezza, con certi cappelli di paglia sfondati. Uomini e donne sono impegnati nel raccolto delle patate, che costituiranno per tutto l’inverno il loro principale nutrimento, e questa bisogna li preoccupa assai più della guerra che si sta per combattere nel paese. Weimar, la città il cui nome è sulla bocca di chiunque, in Germania, si picchi d’esser conoscitore di lettere e di teatro, la capitale dello spirito tedesco, nonché di un ducato che ha meno abitanti di Baltimora, è un buco miserabile, dalle case affumicate e cadenti, dalle strade così malandate che ad ogni momento un carro carico di pane o di birra per i soldati, un cassone di munizioni dell’artiglieria, un’ambulanza diretta al lazzaretto rimangon presi nel fango, ostacolando il passaggio alle carrozze e, dove le case sono più vicine l’una all’altra, perfino ai pedoni. I soldati prussiani e sassoni bevono fraternamente nelle osterie e ad ogni occasione fanno a pugni, blu contro bianchi, sicché i buoni borghesi si sono ritirati prudentemente nelle loro case, dove contano di rimanere, credo, fino a quando il dio Marte non avrà condotto altrove i suoi figli. I soli civili che osino mostrarsi in strada a testa alta sono anche qui gli studenti, molti dei quali, la domenica, sogliono prendere a nolo un cavallo a Jena e venire a spasso nella capitale; dove del resto sono accolti con soddisfazione, poiché in loro assenza il teatro resta vuoto e gli albergatori fanno magri affari. Già sulla strada maestra avevamo avuto occasione, il principe e io, di sorpassare qualcuno di questi centauri improvvisati, e di ridere del loro equipaggiamento come della loro equitazione. «Credo» sogghignò il principe «che le cadute da cavallo abbiano il posto d’onore fra le cause di morte registrate nel ducato», e in verità è difficile incontrare cavalieri più inesperti, o ronzini più miserabili. Eppure essi sgroppano impavidi sulla piazza del Mercato, tenendosi precariamente in sella alle bestie sfiancate affittate loro dai filistei di Jena; e passano col naso all’insù davanti ai soldati del duca di Weimar, che chiamano raganelle a causa delle loro uniformi verdi, e nei cui confronti nutrono il più cordiale disprezzo; benché, in fondo al cuore, covino sempre il timore d’essere arrestati, o, secondo la loro espressione, rimorchiati, nel caso che l’esuberanza goliardica ecceda i limiti consentiti dalla legge.

Al momento del congedo, un incidente inaspettato è venuto a turbare il buonumore del principe. Ci trovavamo fuori delle mura di Weimar, all’imboccatura della strada di Erfurt, e non so perché gli ho additato una costruzione bassa e allungata, dalle grandi vetrate, simile a una serra o a un’orangerie. «Ignoravo che il duca avesse fatto costruire questo padiglione» ha esclamato in risposta al mio interrogativo. «Andiamo a chiedere di che cosa si tratta» ha aggiunto, colto da subitanea curiosità. Scesi da cavallo, abbiamo bussato alla prima vetrata; ne è uscito un vecchio in abiti civili, che appreso con chi aveva a che fare si è inchinato fino a terra, presentandosi come il dottor Möbius, protofisico ducale, e dichiarandosi più che disposto a soddisfare la nostra curiosità. «Questa» ha annunziato solennemente «è la nuova casa dei morti. Una società filantropica l’ha fatta erigere a proprie spese, e il Serenissimo, nella sua magnanimità, ha contribuito liberalmente all’impresa. È il modello più perfetto, nel suo genere, che si trovi in Germania e forse nel mondo.» Per conto mio non ero troppo interessato ad approfondire le mie conoscenze in proposito, ma non avrei potuto dire lo stesso del principe, il quale pareva stranamente colpito. «Vogliamo visitare lo stabilimento?» mi ha detto prendendomi per il braccio, con una serietà che contrastava con la sua abituale gaiezza. Il vecchio dottore, felice dell’occasione, si è affrettato a farci strada, illustrando i pregi dell’istituto. L’edificio consisteva principalmente di una galleria luminosa, in cui si allineavano parecchi tavolacci, su alcuni dei quali erano adagiati cadaveri di uomini e donne, decorosamente vestiti; il sole, battendo sui vetri, riscaldava l’atmosfera, alimentando un odore dolciastro, vanamente contrastato da grandi vasi contenenti piante di aranci e limoni. «La sala» spiegava compiaciuto il dottore «è riscaldata d’inverno con un sistema di tubi sotto il pavimento, e può contenere fino a otto cadaveri. Un uomo pagato per questo li veglia fino al sopravvenire dei primi segni di decomposizione: solo allora si procede alla sepoltura, nella certezza di aver evitato un irreparabile errore.» «Già» ho commentato, senza ben sapere cosa rispondere a un così strano discorso; «si leggono tanti casi di sepolti vivi!» «È vero!» ha approvato energicamente il principe, con una serietà che mi ha vieppiù sorpreso. «Fin da bambino» ha proseguito Sua Altezza «questi racconti mi provocavano le convulsioni, e più di una volta mi sono svegliato fradicio di sudore, dopo aver sognato di essere rinchiuso ancor vivo in una tomba.» «Proprio per questo è stato costruito lo stabilimento!» esclamò il dottore. «Qui, ogni cadavere ha una corda legata ai polsi e alle caviglie, collegata a una campanella nella stanza attigua, dove abita il guardiano. Avvertito del minimo movimento dei suoi pensionanti, costui dispone di una piccola cucina e di una sala da bagno per venire in soccorso di colui che si risveglia; ad ogni risurrezione, riceve un premio.» Il principe era positivamente affascinato da quei discorsi. «Immaginate il bene che un’istituzione come questa potrebbe fare a Berlino, dove tanti disgraziati, morti, almeno in apparenza, di stenti o di consunzione, sono gettati frettolosamente in una fossa comune! Ho spiegato più volte al re l’opportunità di introdurre anche nei suoi stati una riforma così umanitaria; mi ha risposto che manca il denaro.» «Argomento decisivo» mi permisi di osservare «e prediletto dai governi.» Ma il principe proseguì senza ascoltarmi: «È vero che il Collegio Superiore di Medicina ha pubblicato qualche anno fa un’istruzione dettagliata sulla procedura da seguire in caso di morte sospetta: vi si consiglia di iniettare del pepe o dell’acqua salata nella bocca del morto, di fargli un clistere di sale o di tabacco; di immergere le parti sessuali nell’acqua fredda, o meglio ancora di bagnare tutto il corpo nel vino caldo, nella birra, nell’aceto, nell’acqua salata o nella lisciva, e frizionarlo energicamente; metodo, quest’ultimo, particolarmente raccomandato per i bambini, mentre agli adulti è più sicuro introdurre dell’ammoniaca nel naso. Ma sono, come vede, metodi costosi, non certo alla portata di tutti!».

Era giunto il momento di partire, ma il principe indugiava ancora nella sala; si avvicinò a un tavolo, su cui giaceva il cadavere di un giovane, dall’età apparente di trent’anni, e lo contemplò a lungo. Gli impiegati dello stabilimento avevano fatto del loro meglio, ricomponendo le membra in una posizione regolare, ma non avevano potuto cancellare dai lineamenti l’orribile contrazione della morte. «Se penso» disse lentamente il principe «che una palla di cannone, o addirittura di moschetto, un’oncia di piombo grande come la mia unghia, può fare questo a un corpo vivo…» e s’interruppe. Mi dispiaceva congedarmi da lui sotto l’impressione di questi discorsi poco allegri; sicché lo condussi fuori per un braccio, rimontai con lui a cavallo, e prima di stringergli la mano volli ancora chiedergli un pronostico sugli avvenimenti dei prossimi giorni. Credevo che l’avrei trovato, al pari dell’altro ieri, persuaso del successo e impaziente di battersi; ma sia qualche parola imprudente sfuggita a Goethe ieri sera, sia qualche altra preoccupazione che ha potuto insorgere in questi due giorni nel suo animo eccessivamente sensibile, ho riscontrato in lui un’inquietudine inaspettata circa l’esito della campagna. A quanto pare, è nel carattere dei tedeschi questa capacità di passare bruscamente dall’esaltazione allo scoramento, e l’inclinazione filosofica propria della loro natura tende a spalancare davanti ai loro occhi abissi d’incertezza, di fronte ai quali essi si arrestano sbigottiti, laddove un francese si porrebbe freddamente a calcolare, mentre un inglese, o un americano, andrebbe avanti con un’alzata di spalle, dicendosi: «Vedremo». Portato com’è nel suo carattere a cogliere specialmente il lato tragico di ogni congiuntura, il principe si sta persuadendo che la sua vita sia giunta all’appuntamento cruciale; e all’avvicinarsi della prova l’entusiasmo lascia il posto a una folla di presentimenti. «Noi combattiamo per liberare l’Europa da un incubo» ha dichiarato pensosamente. «Al termine di questa guerra ci attendono gloria e onore, oppure la libertà politica e le idee liberali saranno per lungo tempo soffocate e distrutte. Come non tremare all’approssimarsi di un simile appuntamento?» Ho fatto del mio meglio per incoraggiarlo, dicendogli che ci saremmo forse rivisti a Parigi, e quel pronostico gli ha strappato una risata; «lo prendo in buona parte», ha soggiunto, «poiché so che lei mi conosce, e non si attende di ritrovarmi laggiù da prigioniero, ma solamente da conquistatore»; e su questa battuta agrodolce ha voltato il cavallo, e ha spronato via.

Lasciate alle spalle Weimar e le sue istituzioni filantropiche, una piacevole cavalcata, piacevole sul principio dico, mi ha condotto a Erfurt, città singolare per le pessime strade, le quali non sono proprie né per andare a piedi, né a cavallo, né in carrozza. Poiché la città appartiene al re di Prussia, chi vi giunga da Jena o da Weimar potrebbe credere d’essere capitato in un altro mondo; non ci sono qui studenti né eruditi, ma una moltitudine di soldati, e in luogo di teatri e biblioteche i viaggiatori sono condotti a vedere le fortificazioni e il Duomo. Questa è una chiesa molto antica, e di un cattivo gotico; si direbbe anzi meglio che son tre chiese, poste insieme su un’altura e collegate con passaggi di un gusto stravagante. Vi sono sculture a bassorilievo con varie storie e simboli dell’Antico Testamento, ma in un disegno così rozzo e sproporzionato, che dimostra l’antichità del Medioevo in cui sono state scolpite. Per conto mio non sarei corso a vederle la prima sera del mio soggiorno in Erfurt, senonché grazie ai buoni uffici del commissariato ho trovato alloggio appunto all’ombra di questo rudere, presso un canonico del Duomo. Il brav’uomo è parso piuttosto seccato vedendo che mi acquartieravo in casa sua, ma non ha potuto far altro che brontolare. Per vendetta voleva farmi dormire in una stanza gelida, che deve essere rimasta disabitata per mesi, e in cui si era ben guardato dal far accendere la stufa; ma quando ho constatato che egli aveva il fuoco acceso nella sua stanza ho preteso che lo accendesse anche nella mia, e gli ho fatto capire che data la stagione avanzata non lo considero più un lusso, ma una necessità inderogabile.

Non appena il conte Haugwitz ha appreso del mio arrivo a Erfurt mi ha fatto pregare di passare da lui, e così ho fatto, benché fossero le dieci di sera. L’ho trovato, come la prima volta, seduto alla scrivania, ma questa volta il tavolo era carico di fascicoli, e il ministro non aveva l’aria di trovar di suo gusto il mutamento; almeno, la prima cosa che mi ha detto è che soffocava sotto il lavoro, e in verità aveva un aspetto singolarmente depresso. «Vede come mi hanno sistemato; non sarò libero prima delle due di mattina!» Non ho resistito alla tentazione di osservare che l’ultima volta che ci eravamo parlati egli non immaginava che le cose sarebbero giunte a questo punto. «Che vuol farci!» ha ribattuto. «Il momento decisivo è arrivato. La guerra delle penne è cominciata, e quella del cannone non si farà attendere, perché abbiamo saputo che Napoleone è a Würzburg.» Poiché non credevo ch’egli mi avesse fatto venire soltanto per darmi questa notizia, provai a farlo parlare, e non tardai ad accorgermi che Sua Eccellenza, ora che la guerra minaccia di farsi per davvero, non desidera nient’altro più appassionatamente che riconquistare la fiducia dell’Inghilterra; e poiché con l’aiuto di Dio la conclusione del trattato fra gli Stati Uniti e l’Inghilterra è prossima, quando ha appreso del mio arrivo ha creduto bene di approfittare anche di questa via per esercitare un’influenza sul gabinetto inglese. Veramente egli deve trovarsi a corto di mezzi se mette in movimento sé e il prossimo a quest’ora di notte per una speranza così infima; poiché un politico così accorto non può certo credere che il governo di Sua Maestà lasci influenzare le proprie decisioni da ciò che può piacere o non piacere agli Stati Uniti. Fatto sta che il conte Haugwitz, con quell’apparenza di candore che gli riesce così bene d’imitare e che altri qualificherebbe senz’altro di sfacciataggine, ha ammesso senza batter ciglio che tutto il mondo ha criticato la Prussia, in questi mesi, per la doppiezza della sua condotta, ch’egli peraltro chiama soltanto una pretesa doppiezza. «Se c’è mai stata una potenza che abbiamo avuto intenzione d’ingannare, era la Francia!» ha esclamato pateticamente. «Necessità fa legge; ma abbiamo sempre voluto il bene di tutti gli altri. Da molto tempo eravamo convinti che la pace e Napoleone erano due cose contraddittorie; eppure abbiamo creduto meglio rassegnarci a un simulacro di pace, e mi creda, avevamo le nostre ragioni. Prima di tutto» spiegò, non senza abbassare la voce, benché fossimo soli nella stanza e nessuno potesse udirci, «il re era risoluto contro qualsiasi idea di guerra, e continuava a credere che qualche avvenimento fortunato avrebbe mandato a gambe all’aria questo potere colossale, così rapidamente come è stato messo in piedi. E poi, dopo tutte le disgrazie toccate ai nostri amici, ci sembrava saggio e necessario risparmiare all’Europa, ridotta ormai colle spalle al muro, un’ultima risorsa intatta.»

Mi congratulai con lui per una politica così saggia, i cui effetti, aggiunsi, erano ora sotto gli occhi di tutti; mi parve valutare con qualche diffidenza la portata di quel complimento, ma prima che potesse replicare lo avvertii che nonostante le sue spiegazioni il mondo avrebbe faticato a credere che la firma di un trattato di alleanza con l’usurpatore, nella sua stessa capitale, l’occupazione dell’Hannover e altre misure consimili fossero state davvero necessarie per ingannare Bonaparte. «Io sarei forse un consigliere avventato e un ministro malaccorto, ma se davvero non c’era alternativa fra un comportamento simile e la guerra, avrei consigliato al re la guerra.» Con la più gran calma del mondo il conte rispose che «le opinioni debbono necessariamente differire su dei problemi così difficili e complicati»; e come se questa risposta avesse risolto la questione proseguì ribadendo che l’intenzione della Prussia era ormai di condurre vigorosamente la guerra, che la corte di Londra, come quelle di Vienna e Pietroburgo, era informata da tempo di tale risoluzione, e ch’egli sperava che anche il governo degli Stati Uniti non avrebbe negato il suo sostegno a un’impresa destinata, come gli piacque esprimersi, a liberare il mondo da un nemico che era stato tollerato anche troppo a lungo. Inchinandomi risposi che il trattato commerciale che il mio governo mi aveva incaricato di negoziare avrebbe certamente avuto ben altro significato se a firmarlo fosse stato il governo di una Prussia vittoriosa, in un’Europa finalmente pacifica e indipendente, e che ero fin troppo lieto che la buona sorte mi avesse permesso di attendere addirittura al quartier generale di Sua Maestà il buon esito dell’impresa; poi, dopo molti reciproci complimenti, me ne andai a dormire, più che mai stupefatto dalla doppiezza del conte Haugwitz, e tuttavia soddisfatto per il modo in cui si stanno mettendo le cose.

Lunedì, 6 ottobre

Gli umori di questo quartier generale non sono affatto così sanguigni come mi ero aspettato; anzi in confronto a quel che ho visto e sentito a Jena, mi par quasi di trovarmi in mezzo a un altro esercito. Sarà forse perché qui a Erfurt, come sempre là dove ai generali si mescolano i ministri, le considerazioni politiche hanno la precedenza su quelle militari; e la politica prussiana, nonostante le speranze del conte Haugwitz, è ancor sempre imbrogliata come prima. Stamattina sono andato a rendere omaggio al re, e ho riscontrato in lui un disgraziato cambiamento rispetto ai giorni di Berlino: allora, obbligato a battersi ogni giorno con i suoi generali e i suoi stessi fratelli e cugini per scongiurare la guerra, quest’uomo pacifico riusciva a darsi un tono bellicoso, e a trovare dei gesti degni d’un monarca; oggi, quando la guerra è alle porte, tutta la sua energia sembra già spesa, e in luogo d’un re non c’è più che un uomo smarrito, vestito d’un abito militare che non sa portare, e con decorazioni che non ha guadagnato. Gli ho ripetuto quel che avevo detto ieri a Haugwitz, aggiungendo che il governo degli Stati Uniti sarebbe stato felice di apprendere dai miei prossimi dispacci la notizia dei successi prussiani; mi ha ringraziato senza guardarmi in faccia, poi mi ha chiesto dov’ero alloggiato. «In casa del canonico del Duomo, Spitzelmacher» ho risposto. «Mi dispiace di non poterle offrire una sistemazione meno scomoda» ha commentato, «ma lei vede in quali condizioni viviamo tutti quanti. Non voglio però che lei muoia di fame, perché si sa che questi preti cattolici non vedono di buon occhio gli obblighi che l’interesse dello Stato impone loro, come a tutti gli altri cittadini, e non credo che alla tavola del canonico sarà trattato come si conviene. Mi permetta di invitarla alla mia tavola, a pranzo e cena; è tutto quello che posso fare, in questo momento, per il rappresentante di un paese col quale desidero intrattenere le relazioni più cordiali, ma si sa, la guerra è una tale miseria!» Questo discorso, tenuto non già nel tono leggero d’uno scherzo, ma piuttosto in quello grave d’una meditazione, non mi è parso il più adeguato al signore e padrone d’una monarchia militare; ma del resto il re, da quando ha deciso di non assumere il comando dell’esercito, affidandolo invece al duca di Brunswick, non può più dirsi veramente il padrone. L’invito alla sua tavola, in ogni caso, non poteva giungermi più gradito, poiché mi era già parso d’intuire che le refezioni del canonico Spitzelmacher non sarebbero state del tutto di mio gusto, anzi avrebbero fatto apparire, nel ricordo, i pranzi polacchi come banchetti favolosi.

Alle sette, puntualmente, mi sono presentato al palazzo del vescovo, dove sono alloggiati il re e i ministri; qui si cena appena fa buio, perché tutti si alzano all’alba e alle dieci vanno già a dormire. Veramente la guerra è una cosa assai scomoda, e ringrazio Dio d’esser nato in un paese così poco militare come gli Stati Uniti! A tavola, il maggiordomo mi ha fatto sedere accanto a un ufficiale che non conoscevo, vestito con l’uniforme verde dei cacciatori, che peraltro indossava in modo singolarmente inelegante, con i bottoni dei risvolti slacciati e una cravatta male annodata e macchiata di tabacco. La regina, allegra come se si fosse trovata a una festa berlinese, presiedeva al souper e discuteva vivacemente col ministro Lombard, il quale, al contrario, pareva più scontroso e sfiduciato che mai. «Deve, deve andar bene!» ripeteva la regina. «Il soldato non è mai stato così pieno di odio per il nemico. E non solo il soldato, ma la nazione intera ringrazia e benedice il re per la decisione che ha preso. Se aveste veduto i contadini, durante il nostro viaggio da Berlino, accorrere attorno alla carrozza del re, per baciare le falde del suo abito e offrirgli tutto ciò che possedevano per la buona causa, ed erano essi che lo dicevano, immaginate un po’; dei contadini, e parlavano della buona causa!» Lombard ascoltava e taceva, masticando la sua lingua in gelatina; per conto mio, ho creduto bene di rompere il ghiaccio col mio vicino azzardando un commento sulla grazia di Sua Maestà. L’uomo mi ha guardato di sbieco di sotto le grosse sopracciglia, ha taciuto per un lungo istante, poi ha bofonchiato di malavoglia: «Credete?». Il mio stupore a quell’uscita deve averlo incitato a proseguire, poiché abbassando la voce in modo da non essere ascoltato dagli altri commensali ha continuato: «Non so se vogliate alludere allo spirito che Sua Maestà dimostra ogni sera a questa tavola, o alla bellezza della sua figura, che oggi è di moda giudicare incantevole; nel primo caso, vi farò osservare che tanto spirito è fuori luogo in queste circostanze, e che la regina avrebbe fatto meglio a restare a Charlottenburg con le sue dame di compagnia, lasciando per una volta che il re se la cavi da solo; nel secondo, vi chiedo se siete così accecato dall’infatuazione generale da non aver notato che le sue mani sono troppo grosse, e i suoi piedi decisamente brutti». Subito dopo questo discorso straordinario il mio vicino si è presentato, e ho così appreso di essere seduto accanto al colonnello Yorck, uno dei più famosi ufficiali dell’esercito. Costui mi era stato descritto come uno di quegli uomini che dicono a ciascuno il fatto suo e si vantano di ignorare la dissimulazione, cosa che li autorizza alla volgarità e alla maldicenza sotto colore di franchezza e sincerità; e ho sorriso constatando l’esattezza di quella descrizione.

All’aspetto il colonnello è un uomo panciuto, precocemente stempiato, con una certa qual grossolanità di lineamenti che tradisce l’origine contadina; e infatti tutti sanno che suo padre, capitano di fanteria, fu il primo della famiglia ad assumere la nobiltà. Avendo appreso con chi avevo a che fare, mi aspettavo una conversazione incentrata su tediosi particolari di tattica militare o, nel migliore dei casi, su pettegolezzi d’anticamera; ma mi ingannavo. Apprendendo che ero americano, il colonnello si è forbito la bocca col tovagliolo, ha trangugiato un sorso di vino, poi, ignorando le vivande di cui i domestici gli riempivano il piatto, si è proteso verso di me e ha dichiarato: «Conosco assai poco il vostro paese, ma mi si dice che vi si possano ammassare grandi fortune. I vostri coltivatori e allevatori, evidentemente, debbono aver imparato a difendersi con successo dagli indiani». Lo assicurai che i selvaggi non rappresentavano più un pericolo nell’Est, e che all’Ovest si spingeva soltanto gente abbastanza disperata da costituire, semmai, un pericolo per gli indiani, piuttosto che il contrario. «E i negri?» proseguì inaspettatamente. «Mi dicono che in gran parte del paese siano più numerosi dei bianchi.» «A New York, dove vivo, e in generale nelle città, s’incontrano soltanto fra i domestici; ma è vero che nel Sud il cotone e il tabacco ne impiegano un gran numero.» «E non temete un giorno un’insurrezione di questi nemici domestici? Per evitarla, bisognerebbe che tutti i bianchi fossero armati, e nessuno dei negri; non si dovrebbe mai condurre con sé a caccia i propri negri, nemmeno per portare i fucili, poiché imparerebbero presto a usarli; ed è anche bene che ciascun proprietario abbia delle spie fra i suoi negri, di cui possa fidarsi ciecamente, per essere informato di tutto quel che potrebbe tramarsi nei loro dormitori.» Quando ha finito di darmi questi consigli non richiesti, gli ho domandato a cosa fosse dovuto tanto interesse per simili questioni; e così ho appreso che in gioventù, in seguito a non so quale incidente, è stato costretto a lasciare il servizio prussiano per diventare ufficiale nell’esercito olandese, e ha servito per tre anni nella colonia del Capo, che a quel tempo, più di vent’anni fa, gli olandesi avevano appena cominciato a popolare. «Io stesso, se lo avessi desiderato, avrei potuto stabilirmi laggiù. La terra era a disposizione di tutti, e oggi» sospira «sarei un uomo ricco, con diecimila capi di bestiame e tanta terra quanta ne può sorvegliare una squadra a cavallo.» Beninteso, perché la terra fosse davvero a disposizione di tutti occorreva prima cacciarne i negri che la abitavano fin dal tempo di Adamo, ed è soprattutto in questa attività che dev’essersi segnalato il colonnello. Egli racconta con nostalgia delle scorrerie condotte contro i Boscimani, degli inverni passati sotto la tenda nel veld, in certe giornate troppo fredde per allontanarsi dal fuoco, con l’acqua gelata nel barile, e niente da mangiare se non gallette e carne di montone; un regime che scoraggerebbe il cacciatore più indurito, ma essi cacciavano uomini. «Non si poteva fare diversamente, del resto; altrimenti i Boscimani si sarebbero presi tutto. C’era un mio conoscente, padre di famiglia e buon cristiano, cui essi venivano a prendere le pecore, e a bere nel suo fiume; l’olandese installò un fucile dietro le rocce che circondavano la sorgente, lo caricò a mitraglia, legò al grilletto uno spago dissimulato sotto la sabbia e all’altro capo una borsa di tabacco, poiché si sa che i Boscimani, proprio come gli olandesi, vanno pazzi per il tabacco. L’indomani mattina udì l’esplosione e andò a vedere. Il fucile aveva portato via la faccia a un Boscimano e aveva ferito così gravemente la sua femmina che essa non poteva più muoversi. Mynheer impiccò il maschio a un albero e impalò la femmina su un piolo, e li lasciò lì come avvertimento.» «Fatico a credere» ho osservato «che un popolo pacifico come l’olandese produca ancora uomini di questa fatta; forse al tempo di Marten Tromp quella brava gente doveva somigliare al vostro amico, ma oggi sono così placidi!» Il colonnello ha replicato gravemente che gli uomini mutano costume sotto il sole dell’Africa, e può darsi che vi sia qualcosa di vero in ciò. Egli ha poi proseguito spiegandomi in che modo gli olandesi del Capo conducano la loro guerra, o caccia com’egli insisteva a dire, contro quegli scomodi vicini: in generale, i Boscimani si cacciano a cavallo, cercando di spingere una delle loro bande allo scoperto, così come si caccia lo sciacallo. «Il sistema è ottimo» ha concluso «e per questo il paese può considerarsi ormai virtualmente libero dalla loro minaccia.» «Come mai, allora», gli ho chiesto «ve ne siete andato dal Capo?» «Mah! Il clima non mi giovava» ha risposto. «Ho venduto la mia compagnia, e me ne sono tornato a casa. E poi, che volete farci, quando uno è nato soldato prussiano, soldato prussiano ha da morire!» Al momento di congedarsi, il colonnello ha estratto da una tasca del panciotto una piccola fiala di cristallo, e ne ha versato poche gocce nel bicchiere dove restava un fondo di vino, vuotandolo d’un sorso. «È oppio» ha spiegato, poiché vedeva che lo osservavo con curiosità. «Sono costretto a prenderne tutte le sere per poter godere un po’ di sonno, poiché la gotta mi tormenta orribilmente.» Poi, con fatica, perché è molto corpulento, si è alzato augurandomi la buona notte, e si è ritirato.

Mentre tornavo a casa, in un vicolo male illuminato, sono stato avvicinato da una ragazza abbastanza graziosa, che mi ha preso le mani e ha cominciato a farmi le promesse più allettanti per convincermi a salire da lei. Era bionda, tutta vestita di bianco, con un cappellino di paglia all’ultima moda, scarpine coi tacchi alti e calze di seta anch’esse bianche; si sarebbe potuto scambiarla per la figlia di un notaio o di un commerciante, se la scollatura non avesse esibito i seni fino ai capezzoli. Poiché mi si stringeva con l’aria più voluttuosa del mondo e mi accarezzava, ero già sul punto di seguirla, quando dall’ombra si è staccato un uomo con un berretto a visiera, mi ha preso per un braccio e ha detto forte: «Non andare a letto con quella, ha lo scolo!». Inavvertitamente ho alzato il bastone e l’uomo ha fatto due passi indietro, ma in quello stesso momento la ragazza, che mi era parsa tanto dolce e tenera, ha cominciato a insultarlo sguaiatamente; poi, rivoltandosi contro di me come una vipera, con un tono e un linguaggio ben diversi da quelli che aveva tenuto fino a un istante prima, mi ha urlato: «Vattene via allora, porco, assassino!». Poi, temendo che l’uomo la raggiungesse, se l’è data a gambe, senza curarsi del fango che le insozzava le scarpine candide.

L’uomo si è avvicinato; era molto giovane, e vestito con una ricercatezza piuttosto volgare. Senza attendere che gli rivolgessi la parola si vantò di avermi scampato da un brutto pericolo; poi, passando come casualmente da un discorso all’altro, mi chiese dove abitavo. Debbo aggiungere che avendo avuto modo di vedere come ero vestito non si permetteva più di darmi del tu, e forse per questo, anziché scacciarlo, gli risposi. «Ma è lontano!» gridò, sentendo l’indirizzo. «Qui vicino, proprio accanto alla chiesa, abita una giovane bruna, tanto graziosa, dolce e onesta; non mi permetterei mai di consigliarla a Monsieur, altrimenti.» «Bravo!» dissi. «E chi mi assicura che non correrò gli stessi rischi da cui pretendi di avermi appena salvato?» Si portò le mani alla bocca, con un’esagerata indignazione. «Oh no, no, no! È nata e battezzata qui in città, la conosco da quando andava a quattro zampe; di me si può fidare, io non vengo qui per imbrogliarle le carte. Venga a vedere coi suoi occhi che ragazza, e poi mi dirà se conosco il mio mestiere! Se la faccia spogliare senza camicia, la tasti pure da tutte le parti, la provi, e vedrà chi è la Franze, e se non è proprio un boccone da Bonaparte! Se ne trovano poche con una faccia così. Le ragazze che le do io, Monsieur, può divertircisi a occhi chiusi, non sono come quelle di certi altri!» Senza pensarci due volte decisi di seguirlo; da come era impallidito quando avevo alzato il bastone, mi pareva troppo vigliacco per dover temere un agguato, e quanto alla ragazza, si sarebbe visto. Il mio Pandaro mi condusse per certi vicoli maleodoranti, lastricati d’una fanghiglia spessa che ebbe subito ragione dei miei scarpini di vernice, sicché decisi all’istante che l’indomani non mi sarei più presentato a pranzo in abito di corte; dopo tutto, non si vede perché la guerra, di cui sopportiamo tutte le scomodità, non dovrebbe comportare anche qualche vantaggio. Cressida abitava appunto in capo d’uno di questi vicoli, un po’ più lontano di quanto Pandaro avesse promesso, all’ultimo piano d’una casa malandata, che doveva essere antica quanto il Duomo stesso. L’uomo m’introdusse in una stanzuccia male illuminata, dove mi venne incontro sorridendo una ragazza vestita come un’operaia, in zoccoli e grembiule; mi prese le mani e mi abbracciò, mezzo soffocandomi con un profumo dolce da quattro soldi, di cui erano intrisi i suoi capelli. L’uomo era fermo sulla porta, col cappello in mano; non se l’era più rimesso da quando mi aveva fatto la sua proposta, dieci minuti prima, in mezzo alla strada. Gli porsi una moneta e gli dissi di lasciarci tranquilli; s’inchinò servilmente e se ne andò a sedersi sulle scale, chiudendosi la porta dietro le spalle. Franze tornò ad avvicinarsi e mi prese il mantello; anche alla scarsa luce della lampada a olio i ricami dell’abito di corte brillavano, e la ragazza aprì la bocca per la sorpresa. Poiché non volevo che si soffermasse troppo a riflettere su quel che avrebbe guadagnato, mi tolsi la parrucca e le intimai bruscamente di spogliarsi. La ragazza obbedì docilmente, calciò via gli zoccoli e cominciò a sfilarsi le calze. Sulle prime m’era parsa piuttosto giovane e ben fatta; ma quando si spogliò, rivelò certi fianchi grossi e un ventre troppo pieno, e insomma un corpo che aveva perduto da tempo le sue attrattive. Temendo forse la mia delusione, mi si accostò e cominciò a cercare con entrambe le mani quel che doveva; si sforzava di essere sfacciata senza riuscirvi, e mi cacciò in bocca una lingua che sapeva di vino, attirandomi nel frattempo verso il pagliericcio. «Vedrai se non son brava» badava a ripetere.

Quando tutto fu finito mi levai in piedi e mi abbottonai in fretta le brache, poi cercai da me la parrucca e il mantello. Franze, seduta sul letto sfatto, contemplava le monetine che le avevo dato, tenendole bene in vista sul palmo della mano. «E non mi dai qualcosa per il mio amico?» chiese sfacciatamente. Solitamente non sopporto le ragazze troppo insistenti, ma questa volta, per qualche ragione, portai la mano alla borsa. «Non se l’è meritato lui, ma tu, fanne dunque quello che vuoi» sorrisi, mettendole in mano ancora tre soldi. Ero ormai alla porta, quando sentii ch’essa si alzava, attraversava la stanza a piedi nudi e mi metteva una mano sulla spalla. «Baciami» disse, e quando senza pensarci obbedii mi introdusse ancora una volta in bocca la lingua, e con essa una dose ragguardevole di saliva, senza dubbio nell’intento di persuadermi una volta per tutte della sua docilità, e sedurmi così a ritornare. Sulla scala mi guardai intorno alla ricerca di Pandaro, ma il ruffiano era scomparso, forse per non dar l’impressione d’essere rimasto dietro la porta a origliare, come certo aveva fatto; e anche per non dover ascoltare dei rimproveri circa la cattiva qualità della sua merce. Per strada non riuscivo a liberarmi dalla spiacevole sensazione che quel profumo da poveri e quella saliva dolciastra mi avessero attaccato qualche porcheria, e cercai il fazzoletto per pulirmi la bocca, senza trovarlo; sicché dovetti concludere che mi era stato rubato. Ma poiché non potevo dire se a fare il colpo fosse stata la Franze, il ruffiano, o la prima ragazza, alzai le spalle e non ci pensai più.

Martedì, 7 ottobre

Oggi sono stato invitato dalla regina a prendere il tè nel suo appartamento, e salendo lo scalone ho raggiunto un anziano generale che saliva faticosamente, appoggiandosi alla canna. Affiancandolo gli ho lanciato un’occhiata di sbieco, per essere sicuro che non si trattasse di qualcuno che conoscevo; era il duca di Brunswick, ma mi ci volle un istante per riconoscerlo, giacché l’altra volta era vestito in abiti civili, e non so per quale ragione non mi aspettavo di rivederlo in uniforme. «Altezza, se me lo consente, vorrei porgerle le mie condoglianze, e naturalmente anche quelle del mio governo, benché non ne sia ancora stato incaricato in veste ufficiale» dichiarai; mi ero ricordato soltanto allora che pochi giorni prima egli aveva perduto suo figlio. Il duca levò su di me uno sguardo incerto e mi accorsi che non aveva alcuna idea di chi io fossi. «Col permesso di Monseigneur» dissi «ho già avuto l’onore di presentarmi a Vostra Altezza pochi mesi fa, a Brunswick; sono l’inviato degli Stati Uniti d’America presso Sua Maestà Prussiana, Mr. Pyle.» «Ma certo» rispose, benché anche allora non fossi del tutto sicuro ch’egli si ricordasse del nostro colloquio. «Così, anche lei ha lasciato Berlino, eh? Ha fatto bene. Io non ci sono neppure andato, benché Sua Eccellenza il conte Haugwitz mi pregasse di andarci, e sono venuto qui direttamente, e solo quando ho saputo per certo che Sua Maestà era partita. Io sono un generale del re, e non voglio aver niente a che fare con i maneggi dei politici.» Mi pareva che questo discorso non lasciasse presagire nulla di buono, e avrei volentieri pregato il duca di espormi più chiaramente la sua opinione sulle presenti circostanze; ma eravamo giunti intanto in cima allo scalone, e Sua Altezza stava già atteggiando la sua fisionomia all’incontro con la regina, sicché non ho ritenuto opportuno insistere oltre.

La regina, dopo aver accompagnato il duca alla sua poltrona, si è rivolta allegramente verso di me. «Signor Pyle! Lo sa che mi devo lamentare un pochino di lei? So che è qui a Erfurt già da due giorni, e finora non si è degnato di farsi vedere ai miei tè!» «Sono colpevole, signora», ho risposto con un inchino; «ma nelle monarchie, se non sbaglio, esiste il diritto sovrano di concedere la grazia.» «È concessa» rise la regina, «tanto più che lei è venuto qui a fare un po’ la guerra insieme a noi, e non tutti a Berlino hanno avuto lo stesso coraggio.» Come si vede, benché essa appartenga troppo profondamente al suo sesso per poter acquisire da un giorno all’altro la gravità che si addice alle circostanze, si manifesta di tanto in tanto nel suo comportamento un’innocente alterigia, prima sconosciuta in lei, e dettata senza dubbio dalla volontà di dimostrare a tutti ch’essa sa bene cosa significa, in un momento come questo, essere regina di Prussia. Versando personalmente il tè nella tazza del duca di Brunswick, ha dichiarato di non sperare in alcun modo nel buon esito dell’ultimatum trasmesso a Parigi, secondo cui le truppe francesi dovrebbero sgomberare entro l’8, cioè domani, il territorio tedesco. «Bonaparte dovrebbe obbedire e andarsene dalla Germania, se avesse ancora un granello di onore in corpo. Ma si vede bene che la sua politica non ha rispetto per nulla; quanto più intorno a lui si moltiplicano le dimostrazioni di buona volontà, tanto più egli disprezza quelli che sono tanto stupidi da farlo. Alla forza bisogna rispondere con la forza, questo è quello che ho sempre ripetuto a mio marito!» A queste parole il duca si è agitato quasi al punto di rovesciare il tè. «Nessuno più di me» ha dichiarato balbettando «apprezza il benefico influsso di Vostra Maestà sugli affari, e non c’è nulla di più vero del principio che Madame si è appena degnata di enunciare. Ma ci sono dei casi, disgraziatamente, in cui alla forza è meglio rispondere non dirò con la debolezza, ma con la ragionevolezza e la dolcezza; e noi ci troviamo appunto in codesto caso, giacché tutto lascia pensare che la guerra possa ancora essere evitata.»

Un silenzio stupefatto gli ha fatto eco; la regina è stata la prima a romperlo. «Ma, Altezza», ha osservato, «l’ultimatum inviato a Bonaparte scade domani, e può darsi che in questo momento, mentre noi prendiamo il tè, i nostri bravi soldati stiano già scambiando le prime fucilate con i francesi.» «Questo è impossibile, non dispiaccia a Vostra Maestà» ha affermato il duca, con un sorriso untuoso; «giacché ho formalmente ordinato a tutti i comandanti di non lasciarsi impegnare in nessuna scaramuccia di avamposti prima dell’8. Sarebbe ben grave, se per l’impazienza di qualche subalterno due grandi regni dovessero venir trascinati in una guerra che nulla, oggi, rende necessaria!» Il ministro Lucchesini, appena tornato da Parigi, ha subito dichiarato il suo accordo col duca, esprimendo la certezza che la guerra può ancora essere evitata e che in ogni caso Bonaparte non si muoverà per primo. «Monseigneur, il ne sera jamais l’agresseur, jamais, jamais!» ha esclamato. Richiesto di giustificare questa asserzione così perentoria, ha spiegato che la politica dell’usurpatore non potrebbe reggere se egli dovesse apparire come l’aggressore, e ha proseguito consigliando di non intraprendere alcun passo suscettibile di irritare il grand’uomo: «Il faut si peu pour l’indisposer!»66 ha piagnucolato.

Questo Lucchesini è un piccolo italiano panciuto, al servizio dei re di Prussia fin dal tempo di Federico; ciò che non gli impedisce di parlare soltanto francese. Le sue maniere sono cortesi e anzi cortigianesche all’eccesso, e dice subito due o tre sì, sì a chiunque gli rivolga la parola, prima ancora che abbia finito; e non conclude una frase senza aggiungere “servitor vostro”. La regina, a quanto dicono, ha un debole per lui; la ragione è, credo, soltanto questa, che Lucchesini fa brillare la sua conversazione appoggiandola discretamente con la propria, sa su quali argomenti essa ama ritornare, e per giunta è capace di ascoltare, cosa non così facile come si crede, e che nessuno sciocco sa fare. Peraltro è evidente che questo italiano spiritoso ha lasciato con gran dispiacere Parigi, e rinuncerebbe assai volentieri ai disagi del campo per tornare ai piaceri di quella capitale; sicché c’è motivo di temere che quando parla del desiderio di pace di Bonaparte confonda la realtà con i propri desideri. A chi vuol sentirlo, e anche a chi non vuole, racconta la sua udienza di congedo con l’imperatore, durante la quale costui non ha smesso di parlare dei piani che medita per la felicità dell’Europa, e di assicurare che se lo lasceranno lavorare, il mondo intero si troverà nell’assetto più desiderabile. Eppure si parla di Lucchesini come di un diplomatico di eccezionale finezza; è vero che il principe Louis Ferdinand lo giudica corruttibile ed è arrivato a indicare pubblicamente il suo prezzo, per la verità piuttosto alto, ma chi, nel nostro mestiere, è interamente al di sopra di tali sospetti? In ogni caso il re ha assoluta fiducia nella sua capacità di giudizio, soprattutto da quando, ambasciatore a Roma, ha saputo convincere quella corte a riconoscere l’esistenza del regno di Prussia, e a togliere dal calendario pontificio la ridicola menzione del “marchese di Brandemburgo” con cui il monarca continuava ad essere designato.

L’identità di opinioni fra Lucchesini e il duca ha scoraggiato chiunque altro dal toccare ancora l’argomento della guerra, che suscitava in ambedue un così evidente fastidio; sicché il tè della regina è diventato sempre più simile a innumerevoli altre riunioni, cui quelle medesime persone dovevano già aver preso parte, a Potsdam e a Charlottenburg. La conversazione era così frivola che un uomo trasportato lì per magia da grande distanza non avrebbe mai creduto di trovarsi al quartier generale di un esercito in campagna, e che quel vecchio incipriato, chino ad ascoltare con un sorriso servile le chiacchiere di una bella donna sciupata dai balli, non fosse altri che il comandante supremo di quell’armata. Pensare che quest’uomo è nato principe, e potrebbe starsene a casa sua, dov’è il padrone e tutti lo onorano; e invece preferisce star qui a fare il cortigiano, e fare la riverenza a destra e a sinistra! Quando qualcuno, in America, mi dirà che la monarchia rappresenta la più alta forma di organizzazione della società umana, e che anche noi dovremmo avere un re e una regina, mi ricorderò di questo tè, e non avrò bisogno di altri argomenti per difendere le istituzioni repubblicane.

Prima che la riunione si sciogliesse si è verificato un curioso incidente, che ha destato in tutti quanti, ad eccezione del duca, una sensazione penosa. Era ormai notte avanzata, e un aiutante è entrato nel salotto per chiedere la parola d’ordine da trasmettere, secondo l’usanza, ai generali e agli aiutanti di campo riuniti a quello scopo nel cortile interno del palazzo. Il duca ha dichiarato che sarebbe sceso personalmente a dare la parola d’ordine, e si è avviato a fatica attraverso l’anticamera in direzione dello scalone. La regina si è accostata alla finestra per assistere alla piccola cerimonia, e tutti quanti l’abbiamo imitata. Attraverso i vetri abbiamo visto il duca uscire nel cortile illuminato quasi a giorno dalle torce, avvicinarsi con passo esitante agli ufficiali radunati, poi fare un salto indietro, guardarsi intorno con aria smarrita, infine precipitarsi sui suoi passi. Dopo forse due minuti, poiché il duca non compariva né sullo scalone né in cortile, la regina ha invitato un ufficiale a scendere e informarsi di ciò che era accaduto; e questi, ritornando, ha riferito non senza imbarazzo la ragione di quel comportamento. A quanto pare il generalissimo, uscito all’aperto, si è accorto che non erano presenti il sottufficiale e i quattro soldati che secondo il regolamento debbono scortare il comandante al momento di trasmettere la parola d’ordine. Questa assenza ha gettato il duca in uno smarrimento indescrivibile; si rifiutava di mandare a chiamare qualcuno al posto di guardia più vicino, ma non poteva risolversi a comunicare la parola d’ordine senza protezione. Attraverso la porta aperta lo sentivamo aggirarsi con passo incerto nell’anticamera, picchiando col bastone sul pavimento di marmo, e borbottando qualcosa fra sé e sé, finché qualcuno non ha proposto di mandare a chiamare le due sentinelle che si trovavano davanti al portone. I due sono giunti trafelati, ma mancavano ancora un sottufficiale e due soldati, sicché il duca non riusciva a decidersi. Finalmente è passato in strada un carretto di pane con un distaccamento di scorta; un ufficiale è corso a fermarlo e ha ordinato agli uomini di entrare nel cortile e schierarsi sull’attenti, ordine che essi hanno eseguito con visibile sconcerto. Ma qui è nato un nuovo imbarazzo, perché il sottufficiale era senza carabina, avendola legata al carretto; si è dovuto scioglierla su ordine personale del duca, e solo allora, dopo aver perduto un quarto d’ora, questi si è fatto avanti, visibilmente tranquillizzato, e ha comunicato la parola ai generali riuniti.

In tutti gli astanti questa scena ha prodotto un’impressione assai penosa, e quando il duca è tornato in salotto sorridendo finemente e ha informato la regina di aver compiuto il suo dovere, il nostro circolo non ha tardato a sciogliersi. Poiché la residenza del duca non era lontana dal mio alloggio, mi sono permesso di accompagnarlo; e mentre camminavamo nell’oscurità, preceduti soltanto da un servitore con una lanterna accesa, ho ceduto all’impulso di interpellarlo. «Monseigneur», gli ho detto, cavando l’orologio dal taschino e avvicinandomi alla lanterna per guardare l’ora, «mancano tre ore a mezzanotte. Veramente Vostra Altezza crede che la guerra possa ancora essere evitata?» Il duca ha taciuto a lungo, tanto che mi sono domandato se non fosse divenuto alquanto duro d’orecchio; e mi preparavo già a ripetere la domanda, quando la sua voce pensosa ha rotto il silenzio. «Amico mio», ha mormorato, «io sono qui agli ordini di Sua Maestà, che si è degnata di affidarmi il comando delle sue armate e, con esso, il destino del suo regno e della sua dinastia, e non è più questo il momento di parlare di politica. Tuttavia» ha aggiunto dopo una pausa «la guerra non è dichiarata, e Iddio solo sa se l’alba di domani ci sveglierà col rombo del cannone, o con l’arrivo di un ufficiale francese luccicante di galloni, incaricato dal suo padrone di invitare il re a una conferenza di pace.» Eravamo ormai giunti alla porta del suo alloggio, ma il duca evidentemente non aveva sonno, e ha continuato a esaminare in dettaglio le possibili proposte di pace di cui un inviato francese potrebbe domani farsi latore. Egli non ignora che il re di Prussia perderebbe alquanto della sua dignità accettando un abboccamento con Bonaparte, nel giorno in cui scade l’ultimatum così perentorio che egli stesso gli ha indirizzato; e tuttavia è convinto che in politica, come in guerra, viene talvolta il momento di far buon viso a cattivo gioco. «Ma se, dopo tutto, domattina ci dovesse svegliare il cannone?» ho chiesto. «Non sarà così, vedrà» ha risposto con irritazione. «Anche perché» ha proseguito dopo un istante di silenzio «non vedo in tal caso come potremmo tener testa a un avversario così formidabile, con generali come quelli che Sua Maestà ha voluto chiamare ad affiancarmi. Il principe Hohenlohe è un debole, un vanaglorioso, e si lascia governare dai suoi aiutanti, ragazzini che non hanno mai annusato la polvere! Il generale Rüchel è un fanfarone, il feldmaresciallo Möllendorff un vecchio rimbambito, il generale Kalckreuth uno scaltro intrigante. E con questi generali dovremmo fare la guerra, la guerra contro Napoleone? No, il miglior servizio che posso rendere al re è di conservargli la pace, se ci riesco.» Troppo stupefatto per poter rispondere a tono, non ho trovato di meglio che osservare: «Monseigneur non lo chiama dunque più Bonaparte?». Mentre io stesso mi davo dell’idiota per aver detto una cosa simile, egli mi ha guardato velenosamente: «Dobbiamo dunque giocare fino all’ultimo come bambini, e ostinarci a chiamarlo diversamente da tutto il resto del mondo?». Ma subito dopo il cortigiano ch’è in lui si è risvegliato, e si è tolto il cappello con un piccolo inchino, cui ho risposto con una riverenza più profonda. «Perdoni un vecchio se a quest’ora di notte gli può sfuggire una parola di troppo» ha mormorato sorridendo, e dopo avermi augurato la buona notte ha fatto segno al domestico di precederlo su per le scale.

Mercoledì, 8 ottobre

Il cannone non ci ha svegliati per oggi, ma Bonaparte non si è degnato di rispondere all’invito fraterno inviatogli dal suo buon cugino il re di Prussia, sicché avremo la guerra, al di là di ogni ragionevole dubbio. Per tutto il giorno ha regnato nella città di Erfurt una calma innaturale; le truppe, esauste per la marcia, hanno passato la giornata nei loro acquartieramenti, a dormire, fumare, bere birra e riparare, con l’ago e il robusto filo di cui tutti i soldati sono muniti, le scarpe sfasciate dalle cattive strade della Turingia. Stamattina ho trovato all’ufficio postale due lettere di Victoire, datate da Berlino il 30 settembre e il 2 ottobre. “Qui passano di bocca in bocca rumori di pace” scrive Victoire nella prima. “Quel che è certo è che Laforest, pur avendo già ottenuto i passaporti, non se n’è ancora andato. Non so se debbo essere felice davanti a una simile prospettiva; se penso ai miei fratelli, e a tutti gli amici che sono partiti, mi pare che nessuno abbia da perdere più di me se davvero ci sarà la guerra, ma i tempi sono così duri, che non posso immaginare nessuna pace che mi appaia davvero desiderabile. Quel che è accaduto l’anno scorso ha già fatto tanto male al morale del popolo, che non so se potremmo sopportarlo un’altra volta. Tu, si capisce, non puoi comprendere fino in fondo questo sentimento patriottico, bisogna essere tedeschi per capire che cosa proviamo oggi.” È curioso come questo popolo dall’animo così ingenuo e trasparente si convinca ogni giorno di più di albergare sentimenti profondi, e incomprensibili al resto dell’umanità; ma la colpa dev’essere dei loro filosofi. La lettera seguente, scritta due giorni dopo, non fa più cenno a illusioni di pace. “Se si deve dar credito alle notizie che alcune persone bene informate hanno ricevuto dal quartier generale,” scrive Victoire “si aspetta per l’8 il ritorno del corriere mandato a Parigi e l’inizio delle operazioni di guerra. Ora io sono una donna e non capisco niente di guerra, ma mi sembra inverosimile che si fissi una data del genere in anticipo e così apertamente, perciò non so che credito dare a questa notizia.” Ecco sepolta in due righe, e per di più dall’ingegno di una donna, tutta la sottile politica degli Haugwitz e dei Lucchesini!

“I giornali di Parigi” aggiunge Victoire “parlano della partenza di Napoleone, e oggi può darsi che egli sia già col suo esercito.” Quest’ultima notizia è confermata da tutti i rapporti, ma il più grave è che alle gazzette francesi sia stato permesso di stamparla, poiché vuol dire che Bonaparte si è bruciato i vascelli alle spalle. Veramente io credo che per un diplomatico, o per una spia, sia molto più comodo lavorare in un paese dove la stampa è asservita al governo, che non dove la stampa è libera di dire quello che vuole; poiché nel primo caso ogni notizia che si concede di pubblicare ha un suo significato ben preciso, immediatamente trasparente agli occhi di chi intende, mentre per esempio in America i nove decimi di quel che si legge sul giornale rispecchiano soltanto le fantasie, i pregiudizi o la credulità dei giornalisti. Per conto mio, non so che cosa scriverei se avessi l’incarico di redigere un giornale, ma nei miei dispacci a Londra scrivo quel che vedo; e cioè, che i generali prussiani sono sempre meno persuasi di potersi trarre d’impaccio senza danno dal ginepraio in cui sono venuti a cacciarsi. Il re, il duca di Brunswick e tutti quanti hanno trascorso gran parte della giornata riuniti a consiglio, coll’orecchio teso nella speranza di sentir scalpitare sull’acciottolato il cavallo di un inviato francese, che non è arrivato. Quando il consiglio di guerra si è aggiornato, mi sono affacciato nell’anticamera e dopo aver lasciato passare con un inchino Sua Maestà e il duca ho trattenuto letteralmente per la falda dell’abito il conte Kalckreuth. «Mio caro conte», gli ho detto, «voglia perdonarmi, una parola.» Il generale non mi è parso affatto contento di questa interruzione, poiché gli dispiaceva dover ritardare il suo pranzo; per un istante ha esitato fra gli imperativi dell’appetito e quelli della buona creanza, infine, incapace di risolversi, ha borbottato: «Ma perché a quest’ora? Venga almeno a pranzo da me!». «Non pranza con Sua Maestà?» «Non oggi» ha tagliato corto, in tono brusco; e così l’ho seguito nel suo alloggio.

«Ebbene!» ha esclamato, quando siamo stati seduti a tavola. «Mi perdoni se mi sono permesso di incomodarla» ho cominciato, «ma poiché mi pare che la guerra ormai bussi alle porte, avrei caro d’ascoltare la sua opinione su quel che bisognerebbe fare, e su quel che si farà.» «Che cosa bisognerebbe fare, lo so bene, ma che cosa faremo, lo sanno gli Dèi» ha ribattuto il generale. «A giudicare dal modo in cui le cose sono preparate, questa guerra non ha alcuna probabilità di successo, e a meno di una fortuna sfacciata condurrà ai più tristi risultati.» Nonostante l’abboccamento di ieri sera col duca di Brunswick mi avesse persuaso che la campagna non comincia sotto i migliori auspici, non ero preparato a una dichiarazione così brutale; e per un istante non seppi cosa replicare. Il generale piantò la forchetta nell’oca ripiena che gli fumava nel piatto, ne assaporò con soddisfazione la carne così tenera da fondere in bocca, poi continuò: «Non avrei perduto tutte le speranze se il re avesse trovato il coraggio di comandare personalmente l’armata, consultando di volta in volta, s’intende, quei generali che godono della fiducia dell’esercito: con un sovrano al quale la natura non ha donato un genio militare eminente, un tale accomodamento sarebbe, se non il più desiderabile, almeno il migliore possibile. Ma gli intrighi del duca di Brunswick lo hanno indotto ad abbandonare quel partito, e da quel momento tutto è andato a gambe all’aria. Il re non è che un volontario nel suo esercito, nessuno è consultato sulle cose importanti, e l’esperienza non conta più nulla». Gli ho chiesto come mai nessuno è consultato, se si passano le giornate intere in conferenza; mi ha guardato con disprezzo. «Nella mia vita mi sono trovato a molti consigli di guerra, e ho imparato che non è questo il modo di comandare un’armata. Lei non è mai stato, immagino, a un consiglio di guerra? Si perde la metà del tempo a parlare di gazzette e avventure di società, a raccontarsi delle storie, e a chiedersi come si sta; e l’altra metà si impiega a comunicare la propria opinione su questioni di cui non si sa nulla, o a sposare l’opinione del vicino. Si contano i voti, e vince il partito meno assennato, com’è inevitabile.» «Eppure» ho osservato «molte teste sono in grado di valutare una questione più compiutamente di una sola.» «Certamente» ha ribattuto con scorno, «ma bisogna poi che una sola testa decida, poiché due sono già troppe, e dieci non decideranno mai nulla. Io credo che se proprio si vuol suddividere la responsabilità del comando, bisognerebbe dare a ciascuno il suo compito, per lavorarci nella tranquillità del proprio gabinetto, senza sapere il parere degli altri; ma il re ha questa dannata abitudine, di voler sentire l’avviso di tutti. E intanto nessuno pensa alle cose importanti: alla disciplina dell’armata, per esempio.» Il tavolino che i servi avevano apparecchiato per il pranzo era accostato a una finestra, e il vecchio accennò appunto fuori da questa finestra, dove due fucilieri compravano per un pfennig di birra a testa da una vivandiera. «Basta guardare dalla finestra per vedere i soldati ubriachi: le sembra disciplina questa? Un tempo, quando uno dei miei dragoni si ubriacava, facevo rompere tutti i vetri dell’osteria in cui aveva bevuto. Così, nella mia guarnigione, nessun negoziante permetteva ai soldati di bere oltre misura, e gli uomini del mio squadrone erano sobri.» «Eppure» obiettai «mi pare che il duca abbia impartito ordini severissimi per assicurare la disciplina dell’armata.» Il generale ebbe una smorfia di disprezzo. «Ma mi faccia il piacere! Ho già avuto occasione di constatare che cosa intende Sua Altezza per severità. Nel 1792, durante la ritirata dalla Champagne, i soldati disertavano a centinaia ogni giorno, per non crepare come cani di fame e di dissenteria; perciò il duca ordinò che nel suo reggimento gli uomini, non appena acquartierati, fossero privati delle scarpe e della veste, per essere ben sicuro che non scappassero. Li si vedeva andare in giro per l’accampamento in maniche di camicia e pantofole, e Monseigneur assisteva a questo spettacolo tutto contento, invece di far impiccare ogni giorno qualcuno di quei furfanti!»

Mentre il generale diceva queste cose, ci eravamo trasferiti a prendere il caffè nell’angolo opposto della camera, accanto alla stufa. Sebbene non faccia freddo, da qualche giorno i domestici lasciano uno strato di brace a covare tutto il mattino dentro la stufa, e nel pomeriggio questo tepore risulta assai piacevole. Il domestico che ci servì il caffè chiese al suo padrone se doveva prepararne una tazza anche per il signor marchese Lucchesini, e nel medesimo istante costui comparve sulla porta e venne a sedersi accanto a noi; si vede che essi avevano preso l’abitudine di questo caffè pomeridiano. «Impiccarli, bisognava, quei diavoli, non lasciarli in pantofole!» continuava a ripetere il conte, e il marchese, com’è suo solito, cominciò subito a fare di sì col capo, ad alzare le mani in segno di approvazione, e altre pantomime italiane; ma si vedeva che aveva appena pranzato, poiché gli occhi gli si chiudevano, e da ultimo non seppe reprimere uno sbadiglio. Kalckreuth lo fulminò con lo sguardo, poi sorrise falsamente: «Mio caro marchese, lei mi ha prevenuto» sibilò. Poi, volgendosi nuovamente a me, proseguì, con una libertà che mi colpiva tanto più sfavorevolmente in presenza di un tal testimone: «No, mio caro, il duca di Brunswick è un uomo incapace di comandare un’armata; non ha né la visione abbastanza ampia, né il carattere abbastanza vigoroso per assumersi un tale compito; la sua piccolezza, la sua irresolutezza, la sua falsità, la sua ipocrisia, la sua vanità, la sua gelosia guasterebbero le migliori prospettive. Quale che sia la bontà delle truppe e lo spirito che anima gli ufficiali, questi vantaggi non compenseranno mai l’inconveniente estremo di avere un uomo simile per generale in capo. L’esercito non ha alcuna confidenza nel duca, non ne avrà mai, e non può averne; quanto a me, sono pronto a fare il mio dovere e a sacrificarmi fino all’ultimo, ma non più a tacere». Lucchesini, che per un po’ aveva continuato ad assentire con un sorriso complimentoso, avendo finalmente compreso di che cosa parlavamo non sapeva più come comportarsi, e si sforzava di non guardare né il generale né me. Kalckreuth mi guardò invece bene in faccia, e scandì con profonda soddisfazione: «Ricordi la mia predizione: se non capita qualche incidente fortunato che muti intieramente la condizione attuale delle cose, questa campagna finirà o con una ritirata come quella del 1792, o con qualche catastrofe memorabile, che farà dimenticare la battaglia di Austerlitz».

In quel momento, a salvare il povero marchese dall’imbarazzo è entrato il conte Haugwitz, il quale cercava appunto lui, e trovandolo lì in casa del conte Kalckreuth e in nostra compagnia ha senz’altro sottoposto a tutti quanti il problema che lo aveva condotto lì. Per volontà del re, egli ha fatto redigere un proclama alle truppe, e da nessun altri che da Gentz, anch’egli giunto al quartier generale da Dresda per chissà quali ragioni. Il re ne è stato contento, ma non l’ha trovato abbastanza popolare. «Bellissime cose, ma troppo elevate; vorrei che anche i soldati potessero capirlo» ha detto al ministro. Senonché l’autore si è offeso, e ha informato Haugwitz che quel che il re chiede è impossibile; che un testo indirizzato al tempo stesso ai generali e ai soldati semplici è in sé una contraddizione, e che sarebbe meglio, per mettersi alla portata della truppa, scrivere un altro manifesto, e lasciare quello com’è. Haugwitz, in ossequio alla volontà del padrone, gli ha invece ordinato di rifarlo senz’altro. «Loro conoscono il cavalier Gentz» si lamentava desolato il ministro. «Ha ripreso il suo testo, e mi ha detto che poiché proprio lo desideravo, si sarebbe ingegnato di renderlo più volgare, ma che era persuaso di non riuscirci; un’ora dopo mi ha portato il frutto delle sue fatiche. L’ho subito sottoposto a Sua Maestà, ed ecco il risultato!» Egli ci mostrò due pagine manoscritte, tutte coperte di note, di correzioni e di aggiunte scritte di pugno del re, per lo più a matita, e in qualche caso indecifrabili. «Il cavalier Gentz si offenderà certamente! Eccellenze, che cosa devo fare?» mormorò il povero ministro, rivolto a tutti quanti. Il conte Kalckreuth rifletté un istante, poi disse: «Cara Eccellenza, lei gli dirà, con l’aria di un uomo che non osa lamentarsi del suo padrone ma non può fare a meno di farlo, che il proclama non può assolutamente restare nello stato in cui il re l’ha messo, e lo pregherà perciò di procedere senz’altro a una nuova redazione». Il conte Haugwitz parve sollevato a questa idea, ma subito dopo tornò ad aggrondarsi. «E se rifiuta? Potrebbe anche giudicare contrario al rispetto che dobbiamo al re, di trattare a quel modo un testo uscito dalle sue proprie mani!» Credo che tutti quanti avremmo riso dell’imbarazzo del conte, se il momento fosse stato meno grave. «Ma cara Eccellenza!» esclamò infine il marchese Lucchesini. «In quel caso lei dirà al re di non aver saputo decifrare le sue note, e lo pregherà che si degni di far trascrivere il proclama da qualcuno abituato a leggere la sua scrittura, per esempio il conte Goetzen.» La proposta sollevò singolarmente il conte Haugwitz, che partì senz’altro per metterla in pratica, e con la sua uscita la riunione si sciolse.

Giovedì, 9 ottobre

Oggi, infine, ci ha svegliati il cannone. È un rombo sordo che ricorda quello dei temporali d’estate, quando si direbbe che in cielo innumerevoli botti siano fatte rotolare su un pavimento di legno, e anzi quando l’ho sentito per la prima volta, mentre Will mi faceva la barba, ho creduto che il tempo si fosse guastato. Ma affacciandomi alla finestra ho constatato che l’orizzonte era sgombro da nuvole, e il sole caldo preannunciava un’altra magnifica giornata autunnale, come quelle cui ci siamo abituati nell’ultima settimana; l’agitazione che ho osservato subito dopo fra soldati e ufficiali mi ha confermato che si trattava invece del cannone. Appena vestito sono andato a cercare il re, che tuttavia non ha potuto ricevermi, chiuso com’era a consiglio con i suoi generali; ma dagli ufficiali riuniti in anticamera ho potuto farmi un’idea della situazione, che non è per niente incoraggiante. Il generale von Tauentzien, che comanda i picchetti più avanzati dello schieramento prussiano, ha riferito stanotte di essere stato impegnato per tutta la giornata di ieri da tiratori francesi, e di aver dovuto arretrare i suoi uomini per evitare di essere sopraffatto. Il rombo dell’artiglieria che il vento porta a intermittenza fin qui proviene a giudizio dei più proprio da quella direzione, segno che Tauentzien dev’essere impegnato ancor più duramente di ieri, e che qualcosa di grosso si prepara. Secondo l’opinione di tutti, il duca è prostrato oltre ogni immaginazione dalla scoperta che, dopo tutto, la guerra non potrà essere evitata; chi l’ha visto entrare nella sala del consiglio giura che era pallido come un morto e l’espressione del suo viso è descritta dai più come sfiduciata, ma da qualcuno addirittura come spaventata. In ogni caso è singolare come quest’uomo, in cui tutti fino a pochi giorni fa avevano fiducia come in uno dei grandi generali d’Europa, sia oggi apertamente criticato dai suoi stessi subordinati, e questo in pubblico, dove chiunque può ascoltare e intervenire. Il colonnello Yorck, richiesto oggi di che cosa avrebbe consigliato a Sua Maestà, ha risposto davanti a tutti: «Non c’è proprio niente da consigliare al re, perché per salvarlo dal disastro bisognerebbe cominciare coll’avvertirlo che il duca non è in grado di comandare l’armata, e chi osasse dirgli questo sarebbe considerato un pazzo».

Proprio in quel momento la porta della sala si è aperta, e ne è uscito il duca, accompagnato da tre o quattro ufficiali; si è guardato intorno salutando i presenti con un cenno del capo, poi si è seduto su una seggiola, ha annusato una presa di tabacco e ha cominciato a scrivere gli ordini di marcia per i reggimenti. Ha scritto a lungo, con una bella calligrafia rotonda, consultando ad ogni momento la carta, e interrompendosi per chiedere agli aiutanti il loro parere circa l’ortografia di questo o quel nome di villaggio. «Dites donc, Montjoy, comment écrivez-vous: Münchholzen, ou bien Münchenholzen?» L’aiutante, che era francese, e non parlava se non qualche parola di tedesco, non ne aveva e non poteva averne alcuna idea; tuttavia si è chinato sulla carta con fare servizievole, fingendo di riflettere. «Ce n’est pas qu’une question d’orthographe; c’est une question de grammaire, et la grammaire, il faut toujours la respecter»67 ha proseguito il duca, sorridendo come se avesse detto una facezia. Avevo l’impressione che tutti i presenti, al pari di me, si stessero chiedendo se davvero quel lavoro non poteva essere affidato a un subordinato, e se spettasse al comandante in capo dell’armata, in un’ora così grave, perdere il suo tempo in simili minuzie. Per conto mio credo che il duca trovasse requie in quel lavoro di amanuense, o nel migliore dei casi di quartiermastro, che gli permetteva di tenere lontani pensieri ben più gravi; immagino anzi che senza rendersene ben conto cercasse di prolungare quella fatica oltre il necessario. Non appena finito di scrivere, infatti, ha aggrottato la fronte ed è rimasto seduto con la testa fra le mani, senza dir nulla, l’immagine stessa della prostrazione senile e dello scoramento; mentre gli aiutanti, intascati gli ordini, restavano in attesa di un cenno di congedo. Finalmente il duca si è alzato in piedi, ha messo la mano sulla spalla di uno di loro, e ha mormorato: «Soprattutto badate, che nessuno faccia errori!». Il giovanotto ha ribattuto in tono fatuo: «Ma Monseigneur, si può ben sperare che sotto la vostra guida nessuno ne farà!». Il duca ha alzato su di lui uno sguardo così acquoso, che i suoi vecchi occhi si sarebbero detti velati di lacrime. «Ahimè, non posso garantire neppure per me stesso, e ora dovrei farlo per gli altri!» ha mormorato, suscitando in tutti i presenti la più profonda costernazione; poi si è messo il cappello ed è uscito. E tuttavia, per quanto quella scena abbia vieppiù dissolto la mia fiducia, e quella di chiunque altro, nelle virtù guerriere del generalissimo, almeno egli uscendo dal consiglio ha emanato degli ordini, cosa che non si può dire degli altri generali. Il re, il maresciallo von Möllendorff, il conte Kalckreuth e gli altri, quando gettai un’occhiata nella sala del consiglio, erano ancora seduti al grande tavolo ovale, coperto di carte, in silenzio, e pareva che fissassero il vuoto, come fulminati. «Guardavano indietro, rimpiangendo il tempo perduto, e non facevano nulla», come dice Burns, lo Scozzese; e sa Iddio che cosa accadrà del loro esercito.

Un altro presagio poco incoraggiante è dato dal fatto che si comincia a soffrir la fame. È giunto oggi da Weimar il convoglio di pane che attendevamo da più giorni, e si è rivelato molto meno consistente di quanto si sperava: molti carri si sono impantanati lungo la strada, altri sono caduti in mano al nemico. Il pane, cotto troppo in fretta e mal lievitato, ha già cominciato ad ammuffire; non che il pane nero tedesco possa peggiorare molto rispetto al suo sapore originale. Non racconto questi particolari per scrupolo scientifico, ma perché il povero Will ha rischiato di non mangiare altro in tutta la giornata, se non una fetta di questo stesso pane, acquistato a carissimo prezzo e sottobanco da un sergente del treno. «Come!» gli ho detto, quando me l’ha raccontato. «Ma il nostro padron di casa non dovrebbe darti da mangiare?» È vero, infatti, che in tutta la città di Erfurt non si trovano viveri, se non a prezzi impossibili e col pericolo di essere impiccati per aver contravvenuto alle regie ordinanze; ma sono certo che messer Spitzelmacher, in camera da letto, serba buone provviste di conserve e salumi. «Sì, signore», ha detto Will desolato, «ma com’è possibile se egli stesso non mangia? Per tutto il giorno sono rimasto ad aspettare che si mettesse a tavola, ma non è neppure uscito dalla sua camera.» «Ebbene» ho concluso, «per questa sera verrai con me, e nelle cucine del re si troverà bene qualcosa da mangiare per il mio lacchè; ma domani quella canaglia del canonico dovrà cambiar sistema, mi lamenterò di lui.» Puntualmente, giungendo a palazzo ho affidato Will a un maggiordomo, raccomandandomi che gli si desse da mangiare, giacché un servitore affamato è peggio che inutile; questa transazione mi è costata dieci soldi, ma nelle circostanze eccezionali in cui viviamo è inutile lamentarsi della carestia.

Stasera, entrando in una birreria, vi ho trovato un ufficiale che avevo conosciuto a Berlino, il capitano von Clausewitz; non credo di avergli fatto piacere quando mi sono seduto al suo tavolo, giacché se non m’inganno sul suo carattere non è uomo da bere in compagnia, tuttavia era troppo ben educato per manifestare il suo scontento. Gli ho chiesto la sua opinione sulla campagna che si è aperta oggi, e ho constatato con pena come fra gli ufficiali di questo esercito, tenuti all’oscuro degli imbarazzi in cui si dibattono i loro generali, regni ancora la confidenza nella vittoria; benché poi il capitano non sia affatto cieco davanti alle difficoltà dell’ora. «Certo» ha riconosciuto, «quel che vedo, e quel che immagino, del modo in cui siamo comandati non autorizza le più brillanti speranze; e quando penso che nell’esercito ci sono tre comandanti in capo, quando ce ne dovrebbe essere soltanto uno, non posso fare a meno di chiedermi come faranno a condurci alla vittoria. Ma poi arrivano gli ordini di marcia, e si cavalca tutto il giorno sotto il sole, nell’aria frizzante delle nostre colline tedesche, in mezzo a migliaia di uomini col moschetto in spalla, ascoltando la musica e i canti che riempiono l’aria; e il cuore si dilata, e ricomincia a sperare.» «Ho notato anch’io» ho osservato «che il suono del tamburo ha un meraviglioso effetto sul morale; non per nulla lo si giudica necessario per convincere gli uomini a farsi ammazzare.» «Ma non è questo che volevo dire!» ha replicato il capitano. «Intendo, piuttosto, che è in qualche modo un’impressione estetica, quella prodotta dal passaggio di un reparto militare; purché, s’intende, non lo si paragoni alle nostre parate. In campagna l’occhio non percepisce le truppe in rigide linee; nelle file aperte si coglie l’uomo nella sua individualità. Ognuno brilla con le sue armi nell’ombra del bosco, e quando l’uomo è già scomparso alla vista, il suo acciaio luccica ancora attraverso la nuvola di polvere che s’innalza dal fondo della valle, segnalando da lontano l’approssimarsi dell’esercito nascosto. Ebbene, tutto questo è bello! Perfino la fatica fisica, così penosa quando gli uomini, con i loro cannoni e i loro bagagli, si arrampicano su per una strada di montagna, perfino questo aggiunge al quadro un tocco felice. Questa moltitudine di individui, accomunati da un viaggio lungo e faticoso, per giungere infine al luogo dove ognuno di loro correrà mille pericoli, il grande e sacro scopo che tutti quanti perseguono, conferisce a quest’immagine un significato che commuove la mia anima nel profondo.» Egli deve aver intravisto nel mio volto l’ombra di un sorriso, poiché ha ripreso vivacemente: «Non so perché vi racconto tutto questo! Sono davvero un bambino, davanti a simili spettacoli, e so benissimo che qualcuno troverebbe ridicola questa passione infantile; di solito parlo di queste cose soltanto con gli amici più intimi, e più indulgenti». «Ma al contrario», l’ho rassicurato, «anche per me non c’è spettacolo pari a quello di un’armata in marcia in mezzo a questi boschi autunnali, e anche a me, come avete detto benissimo, il cuore si dilata in queste giornate di sole!» «Già, ho detto così» ha mormorato il capitano; «… è pur vero» ha aggiunto con un pallido sorriso «che il cuore, per via di quella tal dilatazione, cerca un’anima a cui confidarsi; ma per l’appunto, al campo non trova una sola persona che ricambi gli stessi sentimenti. Si vorrebbe parlare, ma fra tante migliaia di persone non è dato ascoltare una parola profonda; non si parla che di rancio, foraggio, alloggio, requisizioni!»

«Temo» ho osservato «che queste preoccupazioni triviali siano inseparabili dalla vita del soldato.» «A volte lo credo anch’io» ha ammesso «e l’anima si sente oppressa… Ma poi» ha proseguito con gli occhi scintillanti «il mastro di posta viene e mi porge una lettera, e all’istante tutto è dimenticato. È come se il cielo mi facesse piovere addosso tutti i suoi benefici, quando ricevo una lettera da lei!» Il capitano aveva già bevuto una considerevole quantità di birra, e la bevanda, cui certamente non era abituato, lo rendeva incline alle confidenze; credo che fosse venuto in quel luogo perché non sapeva come dar sfogo, altrimenti, alle mille preoccupazioni che gli premevano in petto, e fors’anche s’immaginava che quello fosse lo svago che si addice a un soldato alla vigilia della battaglia. «Anche voi, suppongo, scrivete» osservai. «Certo! Quasi ogni giorno, quando le mie incombenze me lo permettono, mando una lettera a Berlino, e in questa attività l’anima trova una parvenza di conforto, come se colloquiasse davvero con colei che è rimasta a casa. Ma tutto ciò non è nulla rispetto a ciò che provo quando leggo la sua scrittura sul dorso della lettera: “Al capitano von Clausewitz, presso l’armata del duca di Brunswick, a Erfurt”. Non c’è nessun verso di Goethe che mi faccia tremare come quelle parole, scritte da quella mano! Poi apro la lettera, e corro all’ultima riga, e quelle tre parole, “la tua Marie”, risvegliano nel mio cuore sentimenti ancor più indescrivibili! In momenti simili son risoluto a cogliere l’alloro più verde, e intrecciarne una corona che la leghi a me per sempre. Questo è il mio voto supremo, e confido che Dio lo esaudirà.» Mentre pronunciava queste parole, il capitano ha abbassato gli occhi a contemplare amorosamente l’anello che portava al dito; vedendo che seguivo il suo sguardo è arrossito, poi ha esclamato: «Ebbene, è proprio come pensate; è stata lei a mandarmi quest’anello. L’ho ricevuto non più di dieci giorni fa, e mi sono rallegrato come un bambino, quando riceve i regali di Natale! Qui posso concedermi la gioia di portarlo; a Berlino dovrei tenerlo chiuso in un cassetto, e accontentarmi di guardarlo. Se penso che lei l’ha portato al dito per undici anni! E non basta: nell’ultima lettera, mi prega di inviarle il mio ritratto. A proposito» ha proseguito, dopo aver vuotato un altro mezzo boccale, «vi chiedo consiglio; sono incerto se sia meglio una pittura o una silhouette». «Una pittura, a mio giudizio» ho risposto; «queste ombre nere che vanno così di moda al giorno d’oggi hanno qualcosa di secco, e perfino di sinistro.» «Credo anch’io che sia meglio una pittura» ha concluso il capitano, meditabondo; «è quel che vorrei di Marie, d’altronde, se osassi chiederglielo. Avere con me il suo ritratto mi renderebbe inesprimibilmente felice; soltanto mi trattiene il pensiero che se dovessi cadere, o anche solo essere ferito, la sua immagine rischierebbe di cadere in mani estranee, e chi sa in quali! Credo però che il desiderio finirà per vincere gli scrupoli, e che la pregherò di darmi questa gioia; però vorrei un ritratto en face, e fatto da un pittore cui riesca la somiglianza, quand’anche non fosse un nome noto. Per me nessuna delle vostre idealizzazioni, voglio la verità, la verità letterale; giacché è la lettera della natura quella che ho imparato a memoria, e ciò che io e la natura abbiamo combinato fra noi due, be’, nessun talento di pittore deve pretendere di migliorarlo.»

La sera era insolitamente mite per la stagione, sicché sono uscito a cavallo per accompagnare il capitano agli accantonamenti del suo battaglione. Nella nebbia rilucevano debolmente i fuochi dei posti di guardia prussiani. Lontano, oltre le colline, balenava la luce rossastra dei villaggi che i francesi avevano dato alle fiamme nella loro marcia. «Ecco i primi frutti della guerra» ho detto. «So che cosa state pensando» ha mormorato dopo un istante di silenzio. «Neanch’io amo la guerra. Ma ho rinunciato una volta per tutte a quella sorta di pace che nasce dalla bassezza. Se non posso vivere libero e rispettato, e, quel che più conta, cittadino di uno Stato libero e rispettato, non ho bisogno della pace, e non avrei il coraggio di presentarmi davanti alla mia amata portandole in dono una pace siffatta!» «Il duca di Brunswick» osservai «ha dichiarato non più tardi dell’altro ieri che in politica come in guerra bisogna talvolta fare buon viso a cattivo gioco.» «Sarà certamente così», ribatté, «ma allora il giorno fatale non era ancor giunto, e si poteva ancor credere che l’ultimatum inviato dal re avrebbe operato il miracolo. Ora che la guerra è cominciata, non possiamo permetterci di pensare alla pace, se non come a una pace vittoriosa; e se la ragione dice che le cose si stanno mettendo male per noi, ebbene, non potrei che disprezzare qualsiasi tedesco che, di fronte a una situazione sia pure senza uscita, rinunciasse al coraggio e si lasciasse invadere dalla sfiducia. Entro due o tre giorni combatteremo una grande battaglia, che tutto l’esercito attende con speranza. Quanto a me, aspetto quel giorno con la stessa impazienza con cui aspetto il giorno del mio matrimonio, se mai avrò la felicità di essere unito alla mano di cui porto l’anello; e anzi, mi par quasi che fra le due cose si sia stabilito un legame misterioso. Al momento della partenza, pensavo che non avrei potuto chiedere nulla di più alla mia buona sorte, se avessi potuto abbracciare Marie ancora una volta, e stringerla al mio cuore; ma ora ho compreso che non è così. Non voglio che ciò accada, prima che grandi eventi si siano compiuti, e che anch’io abbia potuto compiere qualcosa di grande; e se il mio destino sarà semplicemente quello di combattere come un uomo qualunque nella battaglia per la salvezza della Germania, ebbene, anche in tal caso sarò sempre più degno dell’abbraccio della mia celestiale Marie!»

Lo scoppio della guerra ha fatto germogliare in Clausewitz la persuasione che si stia preparando una storica resa dei conti fra due razze necessariamente ostili. «I francesi» afferma «rappresentano per noi una minaccia quale i tedeschi non hanno mai incontrato nella loro storia, da quando si sono ribellati a Roma. In verità, essi sono i nuovi romani, per quanto i caratteri dei due popoli siano interamente diversi. Il loro scopo è di piantare i piedi sulle nostre schiene, e di estendere il loro impero di vassalli spaventati fino ai mari polari. Finora, anziché resistere, noi ci eravamo lasciati scivolare senza accorgercene in una condizione vergognosa, in cui la nostra vita civile sembrava non essere minacciata, ma l’indipendenza e la dignità dello stato erano già perdute; ora potremo riconquistare con la spada quell’onore che stavamo perdendo senza neppure sguainarla.» «È interessante» ho replicato «l’idea che i francesi siano i nuovi romani, e agli inglesi si addice la parte dei nuovi cartaginesi, pensosi solo dei loro commerci, e avvezzi a combattere con l’oro più che col ferro; quanto a voi tedeschi, immagino siate ancor sempre i vecchi teutoni, mangiatori di carne cruda.» Ma mi sono accorto subito che il capitano non aveva voglia di scherzare, e del resto sono rari i tedeschi che capiscono gli scherzi. «I popoli germanici si sono salvati perché, quando sono venuti in contatto con Roma, Roma era già stanca; così essi hanno potuto salvare la loro lingua e i loro costumi, traendo soltanto ciò che di utile potevano offrir loro la lingua latina e le leggi romane, ma senza snaturare il genio della stirpe. Ma lasciate che Napoleone trionfi, e i nostri figli non parleranno più tedesco, tutto il mondo si esprimerà in francese. Allora lo spirito tedesco sarebbe morto per sempre, poiché esso non può esprimersi in un’altra lingua.» «Credete proprio?» gli ho chiesto, sorpreso da quest’idea. «Certamente! La lingua che un popolo parla non può non modellare il suo pensiero» ha replicato. «Il francese, per esempio, è una lingua teatrale; si dice, è vero, che gli attori francesi siano pessimi, ma in compenso quali stupendi tipi di attori non si incontrano fra la gente comune! Ora, una lingua così sonora non è altrettanto adatta a favorire lo svilupparsi del pensiero. Una persona che parla francese mi fa la stessa impressione di una donna in robe à paniers: i movimenti naturali dello spirito, come quelli del corpo, sono dissimulati sotto forme rigide. La lingua tedesca è un vestito ampio, vi si coglie ogni movimento del corpo e quindi anche i gesti goffi e maldestri di quelli che la sorte non ha favorito; ma in compenso, quale limpidità di espressione per un pensiero superiore! Ecco dunque colui che parla francese perdere la sua individualità nell’uso di uno strumento che modella il suo discorso in forme classiche e universali, laddove il tedesco è fabbro del suo proprio discorso. Per la stessa ragione il francese, limitato e poco ambizioso per natura, vanitoso per di più, si integra ben più facilmente in un insieme uniforme, si piega meglio ai fini del suo governo ed è, di conseguenza, uno strumento politico migliore di quanto non sia il tedesco, con il suo spirito insofferente di ogni limite, la diversità e l’originalità dei caratteri individuali, la sua passione per il ragionamento e l’infaticabile aspirazione che lo fa tendere al fine sublime da lui stesso prefissato. È, se vogliamo, la stessa contraddizione che i greci si trovarono di fronte quando conobbero i romani, un popolo tanto più povero di individualità, e proprio per questo innegabilmente superiore nell’ambito della vita pratica!»

«Ma i romani» interloquii «erano superiori ai greci anche sul campo di battaglia, e proprio per questo li sottomisero. Si potrebbe anzi chiedersi se un popolo meno ricco di individualità, e più disposto a sottomettersi senza discutere a una volontà superiore, non debba necessariamente formare dei migliori soldati; e ciò spiegherebbe le vittorie di Bonaparte. Così, il vostro ragionamento conduce direttamente a concludere che se davvero, fra due o tre giorni, si combatterà una grande battaglia, voi dovreste infallibilmente essere battuti.» Il capitano mi guardò con gli occhi lucidi e le guance accese. «No, l’anima si rifiuta di prendere in considerazione una simile possibilità! Noi, l’ultima speranza della Germania! Se noi fossimo battuti, la Germania non si risolleverebbe più. Certo», mormorò in tono più sommesso, «pare impossibile che tanti esseri umani della specie più nobile siano condannati a passare la vita intiera nella vergogna e nel disonore, e tuttavia la storia, purtroppo, ci insegna che molte generazioni di milioni di esseri sono state colpite da questa sorte. Grandi nazioni non sono forse rimaste mezzo millennio sotto il giogo dei romani? Che cosa resterà, fra mezzo millennio, di me e della mia razza?» Forse non molto di più, pensai, che dei Pruteni di Zacharias Werner, dopo ch’ebbero incontrato i cavalieri teutonici; e nel migliore dei casi, di quei Vendi e polacchi che oggi marciano sotto le vostre bandiere; ma credetti meglio di tenere per me queste riflessioni.

Venerdì, 10 ottobre

Stamattina prima dell’alba tutto l’esercito si è messo in movimento. Will è venuto a svegliarmi con la notizia che forti colonne di truppe attraversavano la città marciando verso oriente. Appena vestito sono uscito, ma non ho potuto raggiungere il re né il duca di Brunswick, per l’enorme folla; ho appreso tuttavia che il re era partito a cavallo, e la regina lo seguiva con due carrozze, in cui stava pigiato tutto il suo seguito, ridotto a Madame Voss, due dame di corte e due cameriere. Fioca, anzi appena percettibile, portata com’era dal vento, si sentiva l’eco del cannone, segno inequivocabile che da qualche parte prussiani e francesi erano di nuovo alle mani. Tornato a casa ho fatto preparare i bagagli, e ho mandato Will con un biglietto al conte Haugwitz, pregandolo di far aggregare la mia carrozza a quelle dei ministri; ho avvertito il vetturale che lo consideravo responsabile di tutta la mia roba, e quando ho aggiunto che avevo piena fiducia nella sua onestà ho visto la sua fisionomia abitualmente seria illuminarsi di un sorriso soddisfatto. Infine sono salito a cavallo con Will, e aprendomi la strada a fatica in mezzo alla moltitudine delle truppe, dei carriaggi e dei cannoni sono uscito da Erfurt. La strada di Weimar era percorsa da una colonna interminabile di uomini e cavalli, tutti in marcia, per quanto potevo giudicare, nella direzione da cui proveniva il rombo del cannone, e non ho potuto far altro che accodarmi. L’incertezza della meta cui eravamo diretti, e di più l’agitazione inspiegabile che accende nel sangue l’eco del bombardamento rendevano inquieti i soldati, e quell’agitazione non tardò a comunicarsi anche a me; ma ormai non c’era altro da fare che andare avanti.

Quella marcia a passo d’uomo continuò fino a mezzogiorno, senza che mai riuscissi a incontrare qualche persona di mia conoscenza, e a farmi spiegare dove stavamo andando. A un crocicchio, dove una moltitudine di soldati stava in ozio, chi fumando la pipa, chi addirittura sdraiato con la testa appoggiata sul sacco, in attesa che giungesse l’ordine di riprendere la marcia, mi guardai inutilmente intorno alla ricerca di un ufficiale purchessia, poi mi rassegnai a interpellare un sottufficiale. Costui non aveva alcuna idea di dove si trovasse, e di dove dovesse andare; aveva semplicemente ricevuto l’ordine di fermarsi lì con i suoi uomini, e di aspettare l’ufficiale, che non si era più rivisto; «ma secondo me, marciamo direttamente contro Napoleone, e non ci sarà da ridere» concluse, calcando il tabacco nel fornello della pipa. «Date retta a me, vedrete che invece torniamo addirittura in Prussia, e che la guerra è bell’e finita» esclamò un altro, e più d’uno assentì gravemente; il sottufficiale scosse la testa e sputò, ma non aggiunse una parola, e continuò a occuparsi della sua pipa. «Ma almeno», chiesi «avete veduto il re?» «Non l’ho veduto» rispose il sottufficiale, «ma è in testa alla colonna.» «Siete sicuro?» insistei, vedendo che tutti quanti assentivano. «Certo! Dove dovrebbe essere il re, se non alla testa dei suoi soldati?» concluse il brav’uomo, soddisfatto della sua logica. Subito dopo, però, uno straordinario cambiamento si manifestò nella sua fisionomia; spalancò gli occhi, e si guardò intorno tirandosi i baffi. «Sentite, camerati», esclamò infine, togliendosi la pipa di bocca, «non è forse proprio qui che quel disgraziato ammazzò quella poveretta?» I soldati, riscuotendosi dalla loro flemma abituale, si guardarono intorno a loro volta, e uno di loro si grattò la fronte. «Tu, Vierbein», continuò il sottufficiale, «c’eri quando trovarono il corpo, e andarono a prenderlo per portarlo in chiesa. Guarda un po’, non era forse quel campo laggiù, sotto il noce?» e additò un albero solitario e sinistro, le cui foglie cominciavano a prendere il colore della ruggine. «Sacramento!» esclamò l’interpellato. «È proprio qui! E che il buon Dio mi salvi, ecco là anche la chiesa!» aggiunse, indicando una cappella di pietra consumata dai secoli, che sorgeva molto più lontano, in mezzo ai campi. A quelle parole tutti tacquero, ma era un silenzio solenne, e qualcuno si tolse il cappello. «Quale terribile avvenimento si è dunque verificato in questo luogo?» chiesi. «Il signore deve sapere» mi spiegò il sottufficiale «che già l’anno passato il nostro reggimento si è trovato a passare da queste parti, e anzi è rimasto acquartierato non lontano da qui, a Orlamünda, per qualche giorno. C’era allora con noi un disgraziato, ma non nella nostra compagnia, grazie a Dio; serviva nella compagnia von Bleissenberg, e si chiamava Korn, che il Signore misericordioso abbia pietà di lui.» «Era della Pomerania, se non mi sbaglio» interloquì uno dei soldati; ma il sottufficiale lo zittì. «No, era di Prenzlau nell’Uckermark, lo ricordo bene. Si chiamava Korn» ripeté. «Dunque un giorno Korn passava tutto solo di qui, quando vide una donna che tornava a casa dopo aver fatto legna, con la gerla sulle spalle. Be’, non starò a farla lunga; la svergognò con la forza, come si suol dire, e poiché essa gridava, la ammazzò con la spada» concluse, battendo col palmo della mano sulla corta sciabola che tutti i fanti prussiani portano alla cintura. «Io la vidi» disse quello che si chiamava Vierbein. «Era proprio come quando s’ammazza il maiale. L’aveva tutta squartata, dalla gola alla pancia, e le aveva anche spaccato la fronte.» «E che cosa avvenne dell’assassino?» m’informai. «Il boia gli tagliò la testa, si capisce» rispose il sottufficiale. «E lei è sepolta proprio qui; si seppe poi che anche suo padre era stato ammazzato dai briganti, poco tempo prima, e lei era rimasta sola. Ora, camerati», proseguì, rivolgendosi agli altri, «io direi di andare a pregare un pochino là in quella chiesa, per l’anima di tutti e due, e perché Dio ci protegga, se ci sarà battaglia.» Gli uomini si trovarono tutti d’accordo con la proposta, e s’incamminarono attraverso i campi; quello del maiale mi venne appresso e disse che se volevo mi avrebbe fatto vedere la tomba. «Bene! Andiamo a vedere» dissi, pensando che forse avrei appreso qualcosa di più su quella storia singolare; così seguii i soldati fino alla chiesa.

Entrati nel piccolo edificio, tutti quanti si affollarono con esclamazioni di sorpresa attorno a una tavoletta dipinta, ch’era inchiodata al muro; mi avvicinai e vidi che il quadro rappresentava proprio la tragedia ch’essi mi avevano raccontato. Le figure erano dipinte da una mano rozza, ma si riconosceva la donna, a terra, con le gambe in aria e la veste sollevata fin sopra il ginocchio; accanto a lei, la gerla e un cappello di paglia nero; il soldato, con la sciabola in pugno, in baffi e codino, si chinava sulla sua vittima, e portava la stessa divisa di quelli che ora mi stavano attorno. La pittura occupava soltanto il centro della tavola, per lasciar spazio a un’iscrizione di cui tuttavia riuscii a decifrare solo qualche parola, sia per i caratteri incerti in cui era tracciata, sia per l’assenza di ortografia. Il sottufficiale la compitò a voce alta, nel silenzio generale, e mi accorsi allora, dalle rime che ritornavano più o meno regolarmente, ch’era una specie di poema, come quelli che i cantastorie recitano sulla piazza; dando voce ora alla donna, ora all’assassino, ora al boia, raccontava, per usare le sue parole, la barbara storia avvenuta proprio lì, nei campi di Beutelsdorf. Alla fine, il poeta dichiarava il suo nome, Hiepen, e si scusava per aver sbagliato qualche rima; ma la storia, assicurava, si era svolta proprio come lui l’aveva raccontata. Il sottufficiale tacque, e vidi che gli uomini erano tutti vivamente impressionati. «Ecco!» disse qualcuno. «Ora, in questo paese, di Korn non si dimenticheranno più!» «Era proprio come dice lì» soggiunse Vierbein, ostinatamente. «Fatta a pezzi e fracassata. Non c’era rimasto più molto di lei, poveraccia.» Proprio in quel momento, fuori dalla chiesa risuonò un colpo di fucile, che ci fece sobbalzare tutti quanti; ci precipitammo fuori, e i soldati imbracciarono i moschetti, che avevano appoggiato al muro esterno dell’edificio. Ma risultò che un soldato, il quale se ne andava a spasso per i campi, s’era visto passare a un tiro di pietra una lepre; l’uomo, che era un cacciatore, non aveva resistito alla tentazione di tirarle, ed effettivamente l’aveva presa. «Questo paese qui è pieno di lepri!» dichiarò con soddisfazione. «Non ce n’è mica così tante da noi!» Credo che il sottufficiale, tutt’altro che soddisfatto di aver dovuto rimandare le sue devozioni, l’avrebbe senz’altro bastonato; ma il rullo dei tamburi, proveniente dalla strada, ci avvertì che la truppa stava riprendendo la marcia, e così la questione venne lasciata in sospeso.

Prima del tramonto, attraversando un villaggio, mi accorsi che i soldati venivano acquartierati in casa dei contadini, e compresi che la marcia non sarebbe proseguita oltre. La piazza del villaggio era ingombra di vagoni di munizioni, e i carrettieri che li conducevano, dei civili pagati per quel servizio, stavano staccando i cavalli per legarli alla staccionata del cimitero, dove a quanto pareva avrebbero passato la notte. Avrei voluto proseguire fino a raggiungere il quartier generale del re, che senza dubbio non doveva essere lontano; ma poiché la nebbia, che si era infittita più presto del solito, mi impediva di trovar la strada, e temevo di azzoppare il cavallo, mi risolsi a cercar riparo nella prima casa. Scesi da cavallo, e mentre Will teneva a freno le bestie bussai alla porta; mi aprì una ragazza e senza troppi complimenti disse che lì erano già alloggiati quattro soldati, e che non c’era più posto. Ma quando cavai di tasca la borsa e dissi che ero pronto a pagare se avessero trovato il modo di accomodare me, il mio servo e i miei cavalli, ci ripensò e mi pregò di attendere un istante. Subito dopo comparve un giovanotto, il fratello a quanto mi fu dato di capire, cui ripetei lo stesso discorso; e ci mettemmo d’accordo senza bisogno di far troppe parole, grazie al passaggio di mano di qualche moneta.

Entrando in casa ebbi modo di toccar con mano la povertà della Turingia, soprattutto in questa contrada che dà verso la montagna. Il solo segno di benessere era il calore soffocante che mi tolse il fiato non appena passata la soglia: la stufa infatti tirava a più non posso, perché l’unica cosa che non manca è la legna. I soldati stavano riuniti nell’unica camera, e sedevano sonnecchiando e fumando la pipa su tanti sgabelli appoggiati contro il muro, perché non c’erano sedie. In questa camera, che chiamano appunto la stube, la famiglia passa ordinariamente il suo tempo; qui si cucina, si mangia e si dorme, e per tutto l’inverno i padroni di casa si guardano bene dall’aprire le finestre, sicché si può immaginare l’odore che vi ristagna. Il pavimento è di terra battuta; qualche volta lo lavano e ci spargono della sabbia gialla o bianca, e questo per loro è il massimo della pulizia e della civiltà. Il fumo della legna umida e del cattivo tabacco, l’odore di chiuso e l’aroma pungente della sabbia mi diedero immediatamente il mal di testa; come se non bastasse i soldati si risvegliarono dal loro torpore e mi vennero incontro a muso duro, protestando che in casa non c’era più posto. Per rabbonirli cavai fuori la borsa e distribuii una moneta per ciascuno, pagando in tal modo per la seconda volta l’affitto; poi, ripensandoci, aggiunsi un’altra moneta e dissi loro di andare a prendere da bere per tutti, commissione di cui il più svelto dei quattro si incaricò ben volentieri.

L’ispirazione, come vidi poi, si rivelò provvidenziale, poiché i padroni di casa non avevano altro che acqua da offrirci. I poveri diavoli fecero del loro meglio per sfamare me, Will e i soldati, ma non potevano dare ciò che essi stessi non avevano. La ragazza entrò di lì a poco con una tovaglia logora che distese sul tavolo, poi apparecchiò con scodelle e posate di legno, una zuppiera di patate fumanti e una ciotola di conserva di frutta; e alle proteste grossolane dei soldati obiettò che quella era la loro dieta quotidiana. Proprio allora rientrò quello che era andato a prendere da bere, portando sotto le braccia una gran quantità di bottiglie di birra, e nel tascapane una bottiglia di vino che depose davanti al mio posto con comica sollecitudine. Lo ringraziai e per ricompensarlo della premura, mentre masticavamo le patate accompagnandole con fette sottili di pane di munizione, così duro che i soldati lo tagliavano con le baionette, gli versai un bicchiere di vino. L’uomo lo scolò alla mia salute e poi, accennando alla ragazza e a suo fratello che bevevano la loro acqua in un angolo, declamò con accento barbarico, ma tuttavia comprensibile: «Pecus hauriat undam, sed doctus vinum!».68 Senza nascondere la mia sorpresa all’imbattermi in un soldato che sapeva il latino, gli chiesi da dove avesse tratto quelle cognizioni; e il brav’uomo, che visibilmente non aspettava altro, si mise a raccontarmi tutta la sua vita. Si chiamava Schlepp, ed era stato per molti anni, disse, maestro di scuola in un villaggio del Palatinato. In quei tempi felici aveva studiato il latino per suo diletto, sognando di elevarsi un giorno a chissà quale posizione; poi la miseria dei paesani lo aveva costretto a rinunciare all’impiego, che non gli dava più da vivere, e nella disperazione non aveva trovato di meglio che arruolarsi nell’esercito prussiano, in cui serviva ormai da dieci anni. Divertito dal suo linguaggio colorito e dalla sua mimica eloquente, gli chiesi come gli piacesse la vita militare; ed egli mi rispose, con rassegnazione filosofica, che avrebbe potuto essere molto peggio, poiché se non altro sotto le armi capita l’occasione di incontrare le persone più diverse, e di imparare a conoscere gli uomini. «A dire il vero, da quando mi sono arruolato questa è la prima volta che parto per la guerra, e non so ancora dirle quanto mi piacerà; ma spero che ci capiterà ancora di riparlarne a cose finite. Certo però è una vera disgrazia che un uomo debba essere trascinato così d’improvviso a una vita scioperata come quella che stiamo conducendo qui in campagna, proprio quando cercava seriamente di farsi una vita ordinata!» Ridendo gli chiesi se aveva lasciato anche lui a casa una moglie o una fidanzata, come la maggior parte dei soldati, ma si affrettò a negare, con sincero orrore. «Oh no, questo non fa davvero per me! Non di questo parlavo. Il signore deve sapere che il nostro reggimento era accasermato a Brieg, in Slesia, e laggiù fiorisce l’arte della tessitura. Io mi ero appena messo in società con quattro compagni; facevamo andare due telai, lavorando a turno, e guadagnavamo bene. Ora tutto è andato in malora. Be’, così ha voluto il destino!»

In quel momento la ragazza ci servì una minuscola tazza di caffè; o piuttosto di un liquido bruno di natura sconosciuta, che doveva in qualche modo sostituirlo. Il mio filosofo alzò la tazza a mezz’aria, la scrutò con aria critica e sogghignò: «Sa come chiamano i soldati questo caffè? Lo chiamano per derisione Blümchen-Kaffee,69 perché attraverso la bevanda si vedono i fiori dipinti sul fondo della tazza». Poi, mostrandomi i suoi camerati che finivano di succhiare dai cucchiai quel che restava della conserva di frutta, aggiunse: «Guardi un po’ che miseria! Finché eravamo in guarnigione, ci pareva di aver sempre fame; potessimo ora avere quella minestra e quella carne di vacca! Eppure non c’è niente da fare; hai un bel protestare, “là dove non c’è nulla anche il re perde i suoi diritti”, come dice il proverbio». Dopo aver bevuto il caffè si forbì la bocca con la manica della camicia, ma subito mi lanciò uno sguardo imbarazzato e si scusò: «Eh, sacramento! Non c’è nulla da fare, vivendo con loro si impara a comportarsi come loro!». «Ebbene,» dissi per consolarlo «“in chiesa coi santi, e alla taverna coi ghiottoni!”»; ma vidi che non aveva riconosciuto la citazione. «Posso chiedere a Vostra Eccellenza» proseguì invece «che cosa si dice al quartier generale di questa guerra?» Gli feci un resoconto di ciò che avevo visto e udito in questi giorni, ed egli lo ascoltò con raccoglimento; poi sospirò profondamente, e tacque. «E i soldati, che cosa dicono?» gli chiesi. «Oh!» rispose, alzando le spalle. «I soldati non capiscono nulla dell’arte della guerra, ma si accorgono quando i convogli del pane arrivano in ritardo, e sanno che cosa significa.» «Ma Schlepp», insistei, «voi che siete così saggio, che cosa ne dite, come andrà a finire questa faccenda?» Mi guardò con uno sguardo astuto. «Chi lo sa! Come dicono da noi, sull’acqua non sta scritto se è salata. Finora il francese non l’abbiamo ancora assaggiato, ma, d’altra parte, neanche lui ha ancora assaggiato noi!»

Poiché non avevo alcuna idea di come fosse organizzata la sussistenza dell’armata, gli chiesi come se la cavassero quando il pane non era distribuito. Per tutta risposta strizzò l’occhio. «Chi ha quattrini in tasca mangia, e chi non ne ha dimagrisce. Già in tempo di pace è così, si capisce. Quando mi sono arruolato, credevo che col soldo avrei vissuto da signore; appena ricevuta la prima paga, andai all’osteria e ordinai un pranzo e un boccale di birra. Mi costò tre soldi, e solo allora mi resi conto che me ne restavano appena sette, e avrebbero dovuto bastare per altri quattro giorni. Imparai presto che il soldato non sposato deve saper cucinare, altrimenti muore di fame.» «E come si fa?» «Ci si associa in tre, quattro e anche in cinque; si comprano avena, piselli, patate e si fa la cucina da soli. Il pane, per fortuna, lo offre il re, benché sia poco, e tocchi poi quasi sempre comprarne dell’altro. Per il resto, chi sa risparmiare può permettersi cinque pfennig d’acquavite al mattino, per accompagnare la pagnotta; a mezzogiorno si cucina la zuppa, e di nuovo pagnotta; la sera cinque pfennig di birra, e sempre pagnotta.» «Ma questa è una vita da cani!» dissi io. «Già, ma è l’unico modo per cavarsela. Col soldo bisogna pagarsi ancora tante altre cose: gesso, polvere, grasso per le scarpe, olio, smeriglio, sapone e cento cose ancora.» «E tutta questa roba un soldato deve pagarsela col suo soldo?» «E non è tutto: c’è anche il lavaggio della biancheria, la pulizia del fucile e così via; ma quasi tutti imparano a lavarsi le mutande da sé. Non parlo per me, s’intende; laggiù a Brieg, come le ho detto, non c’era soldato che non stesse dietro a un telaio, e si stava tutti benone… Mah! Questa dunque è la vita che si fa in tempo di pace, e in guerra non è tanto diverso. A mezzogiorno distribuiscono il pane, quando c’è, si capisce, e se non c’è il pane dànno il soprassoldo; solo che la guerra fa alzare i prezzi, c’è chi ci perde e chi ci guadagna. Il vivandiere del nostro battaglione, per esempio, è un ebreo, ma uno di quelli che non si fanno scrupolo di guadagnar denaro il sabato, e di vendere lardo e quant’altro la loro legge proibisce ai credenti. Questo ebreo ci ha spremuti ignobilmente da quando abbiamo lasciato Brieg; quando ha preteso di vendere la birra a sei pfennig, gli ho detto quel che meritava, e che era una canaglia, come infatti è. Allora è corso dal nostro capitano, ma non ha trovato ascolto, perché quel brav’uomo sa benissimo che l’ebreo è effettivamente una canaglia. Allora è corso dal colonnello, e questi mi ha ordinato di non chiamar più canaglia la canaglia. Ma che cosa posso io contro la verità?»

Pensando che in questo racconto si celasse un secondo fine, gli chiesi se non aveva per caso bisogno di denaro, ma il brav’uomo mi rispose di no, con comica fierezza. «Sua Eccellenza il generale von Malschitzky, cui ho l’onore di aver scritto una lettera in latino alla partenza da Brieg, esponendogli le difficoltà cui va incontro il soldato semplice, ha avuto la bontà di rispondermi con una lettera anch’essa in latino, in cui mi informava di aver dato disposizioni affinché per tutta la durata della campagna mi fosse versato soldo doppio, e in effetti me lo pagano.» Uno dei soldati si alzò brontolando, si sbottonò le brache e pisciò rumorosamente nello sportello della stufa; le braci sfrigolarono. Schlepp sospirò, poi accennò ai due padroni di casa, il fratello e la sorella, che sedevano accanto alla stufa; lui teneva una Bibbia fra le mani, ma aveva appoggiato il capo all’indietro e chiuso gli occhi, riposandosi dalle fatiche della giornata, mentre lei lavorava a maglia. «Brutti tempi questi!» sentenziò il mio uomo. «E la ragazza è fortunata ad avere il fratello in casa. Ci sono certi diavoli fra i soldati che non ci penserebbero due volte a metter le mani addosso a una donna, ma che quando sentono una voce d’uomo si piegano in due dalla paura. E non solo fra i soldati! Oggi ci eravamo appena sistemati qui, quando è entrato un ufficiale per bere un bicchier d’acqua. Ha chiesto alla ragazza se aveva burro o formaggio, con la più gran villania di questo mondo, e poiché lei gli assicurava di non averne, si è incattivito e ha cominciato a gridare: “Sì, sì, vi conosco io voialtri contadini, tutti traditori!” Il fratello era fuori della porta e ha sentito, è entrato e ha detto in faccia al signor tenente: “Cosa ragiona il signore di traditori? Subito alla porta, o farò ballare il signore come un orso alla fiera!”. Così gli ha detto, e il signor tenente ha alzato le spalle e se n’è andato senza una parola.»

Ormai era buio, ma nessuno aveva voglia di dormire, giacché avevamo mangiato così poco. Schlepp tacque, premendo col pollice il tabacco nel fornello della pipa, e per passare il tempo i suoi compagni si misero a raccontare storie di fantasmi. C’è da diventar matti con tutte le apparizioni, visioni, evocazioni, spettri e fantasmi che raccontano i prussiani e i sassoni, e i miei occasionali compagni non erano da meno. Sul principio Schlepp non prese parte alla conversazione, e poiché cominciavo a capire l’uomo giudicai che doveva sentirsi offeso dalla superstizione dei suoi camerati; così lo provocai sull’argomento. «Si capisce che sono tutte superstizioni!» sbottò. «E io posso dirlo, perché al mio paese, giù nel Palatinato, si mormora che perfino mio padre, dopo la sua sepoltura, sia stato incontrato da qualcuno di notte vicino al cimitero.» Questa uscita ci incuriosì tutti, sicché con la più viva insistenza pregammo Schlepp di continuare. L’antico maestro di scuola succhiò per un po’ la pipa in silenzio, come se cercasse le parole per cominciare, poi iniziò il suo racconto. «La mia vecchia è quasi morta di crepacuore quando questa favola ha cominciato a circolare. Ma la colpa non è di mio padre, che non se ne va certo a passeggio dopo morto, non più di quanto abbiano fatto Samuele, Lazzaro, e perfino Cristo Signore; nessuna persona ragionevole crede ai fantasmi. Nemmeno mio padre ci credeva, e lui avrebbe dovuto saperlo, poiché era il pastore della nostra parrocchia. È una vergogna che dopo la sua morte si raccontino tali cose, e che si faccia paura ai bambini minacciando che il pastore vecchio verrà a portarli via. La colpa, se posso dirlo, è tutta del parroco Schönfeld, che ha messo in giro le voci di queste passeggiate notturne per ostilità verso mio padre, che valeva cento volte più di lui.» Indagando più a fondo nell’argomento scoprii, con meraviglia mia e credo anche degli altri ascoltatori, che il villaggio di Schlepp era un autentico allevamento di spettri. «L’ultima volta che sono andato a trovare la mia povera vecchietta, mi sono informato di tutti i fantasmi del villaggio, e ho saputo che l’Orecchione, il vecchio sindaco Hahn, il Vitello Muggente, l’Uomo di fuoco, il Sanktornus e tutti gli altri spettri se la passano ancor meglio di prima; anzi, dopo la guerra di Napoleone l’Orecchione si è fatto vedere in giro anche in pieno giorno. Potete vedere com’è illuminato il Palatinato, anche tra i protestanti!» Questo catalogo di spettri ci aveva incuriositi tutti quanti, e perfino la ragazza e suo fratello si erano riscossi dal loro torpore e ascoltavano a bocca aperta, sicché trascorremmo ancora parecchio tempo esaminando nei dettagli la natura di ognuno, con grande costernazione del bravo Schlepp, che si sforzava di dimostrarmi come non si dovesse dar retta alle fandonie dei contadini; finché non mi accorsi che il sonno si stava impadronendo di tutti, e mi avvolsi per dormire nella coperta che avevo comperato a Jena, non senza congratularmi con me stesso per tanta preveggenza.

Sabato, 11 ottobre

Stamattina prima del levar del sole un sottufficiale è passato di casa in casa battendo sulle porte con un bastone come l’angelo del Giudizio e chiamando fuori i soldati, che si sono alzati imprecando dai loro giacigli di paglia e dopo aver trangugiato in fretta un sorso di caffè sono usciti ad allinearsi nella nebbia. Il frastuono di quell’adunata mattutina e poi delle moltitudini che incessantemente marciavano sulla strada proprio davanti alla porta di casa mi hanno impedito di riprender sonno, sicché mi sono alzato anch’io e sono uscito al pozzo per lavarmi. La nebbia si stava alzando e il cielo limpido, appena tinto di rosso all’orizzonte, preannunciava un’altra splendida giornata autunnale. Mentre Will si occupava dei cavalli ho fatto due passi fra le case, e quasi subito ho visto una carrozza con stemma ferma davanti a un portone, e una quantità di soldati che caricavano bagagli su carrette e cavalli da soma. Un segretario, uscendo in fretta dalla casa con una bracciata di libri da sistemare in carrozza, ha inciampato e ha lasciato cadere un volume; per curiosità mi sono chinato a raccoglierlo, ed era Thérèse philosophe, in una vecchia edizione sciupata dalle molte riletture. Pensando che lì doveva essere alloggiato un principe o un generale, ho bussato e sono entrato.

Nella casa, le cui finestre erano state tutte spalancate, il conte Kalckreuth sedeva a far colazione con un arrosto freddo e una bottiglia di Madera, servito da un lacchè in livrea. Vedendomi entrare mi salutò con poca cordialità e mi invitò a dividere il suo rinfresco, invito che accettai senza troppi scrupoli; poi, giacché lo vedevo di cattivo umore e insolitamente silenzioso, volli scherzare e gli chiesi: «Ha già avuto molti noiosi stamattina?». «No, lei è il primo» mi rispose. «Mi pare di indovinare che non ha passato una buona notte» dissi ridendo. «E chi potrebbe averla passata, con quello che è successo ieri?» E poiché lo guardavo a bocca aperta, proseguì: «Ma come, lei non sa niente?». Lo assicurai che il giorno prima, appena era salita la nebbia, mi ero rifugiato nella prima casa e lì ero rimasto fino allora. «Ma non ha sentito il cannone, ieri?» «L’ho sentito come tutti, ma non so che cosa sia successo.» Mi guardò, paonazzo per la collera, o forse per aver bevuto troppo vino a quell’ora mattutina, poi cominciò a raccontare, con quel piacere tutto speciale che sempre anima, contro la loro stessa volontà, coloro cui tocca il privilegio di riportare la notizia di grandi e inaspettati disastri. «Le dirò io che cosa è successo: ieri mattina i francesi hanno attaccato il principe Louis Ferdinand, hanno sbaragliato le truppe che Sua Maestà gli aveva affidato, hanno preso tutti i suoi cannoni, e per evitargli il disonore di dover fare rapporto al re, lo hanno ammazzato.» Poi, giacché stupefatto da quella notizia gli chiedevo chiarimenti, mi disse che la cosa era ormai certa, che la disfatta era stata riferita da innumerevoli fuggiaschi giunti alla spicciolata durante la sera e la notte; che Nostitz era tornato ferito, e aveva raccontato di aver visto il principe cadere da cavallo, circondato dai francesi e abbattuto a sciabolate; che infine durante la notte era giunto al re un messaggio da parte del maresciallo Lannes, il quale comunicava di aver raccolto il cadavere del principe, ne elogiava la morte eroica e assicurava che gli sarebbero stati resi tutti gli onori. Nonostante il tono irritato ch’egli aveva giudicato di dover assumere, quasi che farsi ammazzare a quel modo fosse l’ultima ragazzata di cui il principe Louis si era reso colpevole nella sua breve vita, intuii che il generale era commosso nel profondo. È il primo principe della casa reale che sia stato ucciso sul campo di battaglia, e i soldati non lo considereranno un buon presagio. Quanto al conte, egli non mancò di farmi notare con soddisfazione che le sue previsioni si stavano puntualmente avverando, e che grandi provvedimenti erano ormai improrogabili se si voleva evitare la rovina. «La marcia di ieri, voluta e organizzata dal duca, è stata un terribile errore, e saremo fortunati se oggi, ritornando il più in fretta possibile là da dove siamo partiti, potremo evitare il peggio. Oggi stesso dirò al re che ha già perso metà della sua corona, e che deve risolversi a licenziare il duca di Brunswick, altrimenti perderà anche l’altra metà.»

Con queste parole il generale si è levato dalla poltrona in cui era sprofondato, per la verità non senza qualche fatica, poiché il suo corpo sembra essersi fatto ancora più enorme in questi ultimi giorni. Insieme siamo usciti sulla strada, dove una gran quantità di soldati, di ufficiali a cavallo e in vettura, di carri e carretti marciava verso occidente, in direzione opposta, cioè, a quella da cui ieri eravamo venuti. Anche la compagnia di Schlepp era in marcia, e anzi dovette fermarsi per cedere il passo ai cannoni a pochi passi da noi, sicché scorsi il mio uomo e stavo per fare qualche passo verso di lui, quando il generale mi precedette e andò a piantarsi proprio davanti a lui: a quanto pareva, non ero il solo a conoscere quell’originale. «Come va, vecchio?» borbottò Kalckreuth. «Come vede Vostra Eccellenza, male! I francesi ci fanno correre avanti e indietro, sarebbe stato meglio restarcene a casa!» «Ma voi, Schlepp, l’avete studiata la storia romana?» «Sì, Eccellenza.» «Allora sapete che i soldati, quando si permettevano di dubitare della prosperità della patria, erano puniti!» «Ma, Eccellenza, io non dubito mica della prosperità della patria, credo e spero che tutto andrà benone per la Germania e specialmente per la Prussia; dico solo che qui per noi non si mette tanto bene.» Il generale rise beffardamente e mosse il suo grosso corpo per rientrare in casa, ed io dissi a Schlepp: «Ebbene, maestro, vedo che avete familiarità con i grandi!». Il brav’uomo s’impettì e mi disse con gli occhi che brillavano per la soddisfazione: «Oh, il signor conte Kalckreuth mi vuol bene! Appena l’altro giorno me ne stavo davanti alla porta della casa dov’ero stato alloggiato, e fumavo la mia pipetta. Il signor conte passò di lì a cavallo, mi salutò e parlò con me, e poiché era accaldato mi chiese se c’era del latte. Io chiamai la padrona di casa, e costei, appena vide che era un generale con tanto di stella, corse subito a cercarne. Il signor conte smontò ed entrò in casa. La padrona stava in piedi tutta rigida per l’emozione. Deve sapere che era una bella contadina, bianca e rossa, non più tanto giovane, ma pulita e soda. Il signor conte chiacchierò con lei in tono sempre più confidenziale e alla fine mi ordinò di portare il suo cavallo all’albergo e farmi stappare a sue spese una bottiglia del migliore. Io capii l’antifona e abbandonai il campo. Parecchio tempo dopo il signor conte entrò nell’albergo, rise di un riso birichino, mi chiese se adesso eravamo cognati, pagò il conto, mi diede ancora un tallero e cavalcò via. Chiesi poi a quella padrona così compiacente come le fosse piaciuto il signore con la stella; non sapeva trovare abbastanza elogi: un signore così educato! Sa, le donne in genere sono delle cosine vanitose, e ciò che lusinga la loro vanità le attrae. E a ben guardare, cosa c’è di strano se una contadina considera come un grande onore gli abbracci di un signore così importante, con una grossa stella, soprattutto se per giunta il signore non è affatto avaro?». Così dicendo l’uomo scoppiò in una grossolana risata, rimise in spalla il moschetto cui si era appoggiato negligentemente fino a quel momento, e partì insieme ai suoi camerati.

Avendo saputo con certezza che la destinazione dell’armata era Weimar, ho deciso di mettere alla prova il mio cavallo facendo la passeggiata attraverso i campi, anziché sulla strada maestra ingombra di truppe e di carriaggi. Poiché da diversi giorni non piove, il sole ha avuto il tempo di asciugare il terreno, sicché la brava bestia non ha trovato alcuna difficoltà a galoppare sulla terra grassa delle colline; e credo che se una lepre mi avesse tagliato la strada, non avrei resistito alla tentazione di correrle dietro. La galoppata non è durata più di qualche ora, e sarebbe durata ancor meno se la rozza di Will non avesse faticato a tener dietro al mio pomellato. Finalmente, arrampicandomi sull’ultimo poggio ho scorto sotto di me i tetti e i campanili di Weimar, circondata dai suoi boschi di faggi; ma lo spettacolo più straordinario erano le innumerevoli tende bianche che si levavano sulle alture e lungo il corso del fiumiciattolo che bagna i sobborghi della città. L’armata infatti, per la prima volta da quando è cominciata la campagna, non ha ricevuto biglietti d’alloggio, ma ha avuto l’ordine di piantare il campo all’aperto, come si fa in prossimità del nemico, quando i generali vogliono aver le truppe pronte a marciare, all’occorrenza, con pochissimo preavviso. Poiché non avevo mai veduto un simile spettacolo, spronai il cavallo in quella direzione, e in pochi minuti, senza che nessuna sentinella mi avesse fermato, mi ritrovai in mezzo al campo. I reggimenti che erano arrivati per primi avevano già rizzato le loro tende, e quelle degli ufficiali erano veri padiglioni, davanti ai quali i proprietari avevano fatto preparare tavole e sedie; sicché ora se ne stavano tranquillamente seduti, giocando coi loro cani, mentre i servitori continuavano a svuotare le casse dei bagagli. I soldati provvedevano ai cavalli degli ufficiali, piantando piuoli cui le bestie sarebbero state attaccate per la notte, mentre altri finivano di fissare i picchetti delle tende; qualcuno, stracco per la marcia, se ne stava semplicemente in ozio.

Proseguendo oltre, m’imbattei in alcuni ufficiali che discutevano violentemente, mentre i loro uomini, accaldati e coperti di polvere, stavano allineati con pochissimo ordine, il moschetto in spalla e il tascapane a tracolla, invece di cominciare ad accamparsi. Incuriosito dalle cause di quell’alterco, mi avvicinai e riconobbi fra quegli ufficiali il tenente von Suckow. Insieme ad alcuni camerati del suo stesso reggimento, il tenente discuteva aspramente con un ufficiale di cavalleria, che allargava le braccia con un’espressione di disappunto. Quando l’ufficiale voltò le spalle e se ne andò, mi avvicinai e salutai Suckow, che parve sorpreso di vedermi lì. «Anche lei qui?» «Sì, ma credo che sarò alloggiato a Weimar, dove sto appunto recandomi» risposi. «Allora sarà alloggiato più comodamente di noi» replicò il tenente. «Eppure», dissi levando il braccio all’intorno, «queste tende mi sembrano piuttosto comode, e mi è capitato più di una volta, a caccia, di essere sistemato peggio di così.» «Può darsi», continuò Suckow; «saprà però che per piantare le tende, bisogna prima coprire il terreno di paglia. Ma quando siamo arrivati abbiamo scoperto che non c’è paglia, sicché dovremo giacere tutti quanti sulla terra; passi ancora per noialtri ufficiali, che abbiamo i nostri letti, ma i soldati hanno soltanto una coperta in cui avvolgersi, e creperanno di freddo. Avrei voluto partire a requisire la paglia presso i contadini, ma poiché l’esercito si trova in un paese amico ogni requisizione è proibita!» In quel momento comparve il colonnello von Walther und Cronach, a cavallo, e anch’egli impolverato per la marcia; smontò con qualche difficoltà, e si rivolse ai soldati allineati nella spianata. «Sentite, ragazzi!» esclamò. «Non per nulla siamo soldati, e siamo tutti nella stessa barca, io e voi. Pensate forse che il re ci paghi il soldo per dormire in letti di piume? Se necessario, dormiremo sulla nuda terra, e domani i francesi vedranno lo stesso chi sono i prussiani!» I soldati sono come dei bambini, e dimenticano subito i loro guai; risero, e chiesero di poter avere le tende, poiché le avrebbero piantate anche sulla viva roccia, se il re lo avesse chiesto. A questo punto, tuttavia, il colonnello dovette ammettere che i cavalli dei bagagli erano rimasti indietro, e poiché gli uomini cominciavano a rumoreggiare gli ufficiali si affrettarono a ordinar loro di sedere in terra. Suckow mi diede un’occhiata significativa, poi si rivolse al colonnello, pregandolo di ordinare almeno agli uomini di accendere il fuoco, e il colonnello si degnò di acconsentire; infatti bisognava cuocere la minestra in cui bagnare il pane di munizione, che altrimenti è duro come la pietra e non si può mangiare. Ma nessuno aveva ancora pensato alla legna, sicché gli uomini rischiavano di dover trascorrere il resto della giornata senza minestra e senza fuoco. Allora un vecchio sottufficiale dai baffi bianchi si levò in piedi e si rivolse al colonnello. «Permette Vostra Eccellenza una domanda? Perché non possiamo uscire dal campo per andare a prendere della legna?» Il colonnello ribatté duramente: «Sì, la conosco la vostra legna! Se vi lasciassi uscire, tornereste carichi di polli e maiali, e magari di bottiglie! Forse che i prussiani saccheggiano, e per giunta ai danni dei loro compatrioti?». «Ma, Eccellenza», proseguì testardamente il sergente, «proprio qui dietro c’è un’enorme catasta di legna secca, e i contadini dicono che appartiene a un nobile che ha lasciato il suo castello all’avvicinarsi della guerra. Ora se il padrone è scappato vuol dire che non è mica tanto nostro amico, e la legna la ruberanno comunque i contadini, perché allora non è permesso prenderla?» Il colonnello ribatté con una pazienza ammirevole: «Non è permesso perché questi sono gli ordini! E anzi, se vuoi proprio saperlo, vecchio, il duca quando gli è stato detto di quella catasta di legna ha fatto mettere delle sentinelle a guardarla, per tenere in timore i saccheggiatori!».

Salutato Suckow, e augurandomi d’esser davvero sistemato più comodamente di lui, ho cavalcato fino a Weimar, dove per fortuna sono stato alloggiato in una comoda casa borghese, presso il signor Oppel, panettiere di corte, nella piazzetta che chiamano il Frauenplan. Nel cortile di casa ho ritrovato la mia carrozza, di cui non avevo più notizie da ieri mattina; il vetturino mi ha raccontato una storia interminabile delle difficoltà che aveva dovuto superare per giungere fin lì. Quella lamentela preludeva alla confessione che pur avendo cambiato i cavalli soltanto una volta, aveva però speso non meno di tre talleri dando da bere a soldati e stallieri, senza il cui aiuto non avrebbe potuto proseguire. Sospetto che il brav’uomo non abbia mancato di approfittare a sua volta dell’acquavite pagata col mio denaro, come del resto s’intuiva dal suo naso lucido e dalla singolare vivacità dei suoi modi, di solito così compassati; ma non mi è parso il caso di rimproverarlo, giacché era stato comunque capace di trovare da sé il mio alloggio. Veramente quest’uomo è prezioso, e non sfigurerebbe come servitore in America; credo che lo terrò al mio servizio, e quando tornerò in patria gli chiederò se vorrà seguirmi.

Stasera i fuochi accesi dalle truppe accampate sulle alture illuminavano la città; lo spettacolo ha attratto parecchi abitanti di Weimar, e anch’io, dopo aver cenato, ho fatto una passeggiata fino all’accampamento. Qui giunto non ho saputo resistere alla tentazione di andare in cerca di Schlepp, e dopo aver vagato per un’ora buona, chiedendo a tutti quelli che incontravo dove fosse accampato il reggimento Malschitzky, l’ho trovato che fumava pacificamente la pipa seduto su un ceppo. Il brav’uomo saltò in piedi e s’inchinò molto rispettosamente quando mi vide, e mi chiese se poteva fare qualcosa per me. «Be’, caro Schlepp, debbo riconoscere di avere una gran sete. Avete dell’acqua?» Egli fece una smorfia. «Ne abbiamo, ma non credo che Vostra Eccellenza vorrà gustarla.» Mi condusse al secchio e ne cavò fuori un mestolo d’acqua, invitandomi ad annusarla. Era fangosa e puzzolente fino alla nausea. «Tutta l’acqua per bere e per cucinare si prende direttamente dal fiume; credo che fosse già cattiva prima del nostro arrivo, ma può immaginare ora! Vengono i cavalli ad abbeverarsi, gli uomini si lavano e lavano anche le camicie sudicie. L’odore che sente è quello dello sterco di cavallo, mescolato ai pidocchi di tutti i soldati che hanno fatto il bagno. Sarà già una fortuna se domani non comparirà la dissenteria. E la minestra, naturalmente, si farà con quest’acqua; ma che farci? “Optimum ciborum condimentum fames!”» Non potei fare a meno di osservare che doveva essere difficile, per un dotto, avvezzarsi a quella vita; ma Schlepp si strinse nelle spalle e ribatté: «Perché? Ci si abitua a tutto, perfino alle descrizioni dei più atroci delitti nei giornali, si può far l’abitudine anche agli strapazzi e alle bastonate. Certo, se trovassi un modo meno miserabile di guadagnarmi la vita, non ci sputerei sopra; quando ci rifletto, mi convinco quasi di averne abbastanza del mestiere del soldato. Ma che farci? Ho appena firmato per altri dieci anni! Ora per liberarmi dovrei ripagare il mio prezzo al reggimento, oppure trovare una recluta alta come me, che mi sostituisca; e con quali soldi? Già al deposito, a Brieg, ne ho parlato con un capitano, e poi col nostro cappellano Lafontaine, e tutt’e due mi hanno spiegato che non c’è altro modo per uscir fuori onorevolmente da questo stato».

In quel momento un ufficiale passò con un fascio di carte, e scorgendo Schlepp gli allungò un foglio, dicendo: «Prendi un po’, tu che sai leggere! E stasera, leggilo ai tuoi camerati!». Il filosofo squadrò la carta fresca di stampa, ancora odorosa d’inchiostro, e la lesse rapidamente, in silenzio. Incuriosito gli chiesi di che cosa si trattava. «È un foglio di propaganda» rispose in tono indifferente, e me lo porse. Così ebbi modo di leggere il seguente esempio di prosa:

“Il vecchio mietitore, Invalido di Berlino, ai suoi compatrioti, i prussiani, al momento della loro partenza. Ho fatto ieri una passeggiata a Potsdam. Le nostre Guardie manovravano davanti al re. Il monarca ha impugnato la spada e ha comandato: Marsch! Stamane, i nostri reggimenti sono entrati a Berlino. Il re era a cavallo. Il nostro padre Möllendorff era alla testa delle truppe, con la stessa aria gagliarda di quando partì di qui sessantacinque anni fa. I signori ufficiali erano in grande uniforme e i soldati, per Dio, avevano l’aria allegra. Così sono partiti, con passo da franchi prussiani, per andare alla grande impresa. Ho assistito a tutto questo con piacere. Mi torna in mente il tempo in cui anch’io ero fra quelli che partivano. Avrei voluto marciare ancora. Avrei voluto chiedere un fucile al re. Non sono, dopo tutto, più vecchio del nostro padre Möllendorff o del Leone di Brunswick. Ma le mie gambe si sono rifiutate di servirmi, e così non ho potuto che pregare Dio per l’onore del nostro paese e per il re. Quando il vecchio Federico passò l’Oder dopo la battaglia di Kunersdorf e fissò il suo campo a Fürstenwald con le brave truppe che gli erano rimaste, il cuore batteva a tutti gli uomini d’onore; il dolore era in tutte le anime, ma lo scoraggiamento in nessuna. Digrignavamo i denti dalla rabbia; cercavamo gli occhi del re, e, poiché là c’era scritto: ‘Morire o vincere per la Patria’, raccoglievamo le armi con fiducia, e chi avesse osato dubitare della vittoria sarebbe stato scacciato per sempre dalle file dei prussiani.”

«Curioso» dissi. «Ecco un volantino che vuole incoraggiare i soldati col ricordo di una disfatta. E poi, se ben ricordo, Federico a Kunersdorf non disse ai suoi uomini “Morire o vincere per la Patria”, ma piuttosto: “Cani, vorreste forse vivere per sempre?”.» Schlepp sogghignò. «Vorrebbe il signore favorirmi quel pezzo di carta? La dissenteria, per volontà di Dio, non si è ancora manifestata nel campo, ma un uomo ha certe necessità, ed è meglio provvedersi in tempo.» In quel momento passò un sottufficiale, e vedendo Schlepp gli ordinò di raggiungere gli altri; il mio uomo si alzò di malavoglia e, sempre con la pipa in bocca, si avviò nella direzione indicata. Qui trovammo una cinquantina di soldati che scavavano un gran buco alla luce delle torce, agli ordini di un ufficiale annoiato. «Che cosa succede, fratello?» chiese Schlepp avvicinandosi a uno degli uomini, che si era appoggiato sulla sua pala e si asciugava il sudore con la falda della camicia, mostrando pochissima voglia di riprendere il lavoro. «Sua Eccellenza» disse, volendo indicare in tal modo il colonnello, «fa scavare una latrina.» Schlepp fece una smorfia. «Vede, Eccellenza», disse poi, rivolto verso di me, «così vanno le cose nell’esercito prussiano. Il regolamento dice che quando il reggimento si accampa bisogna scavare una latrina, e così scaviamo, anche se i soldati sono stanchi per la marcia, e preferirebbero piuttosto riposare, o impiegare il tempo a ricucire le scarpe, o a togliere la ruggine dal fucile.» «Ma una latrina» ribattei, divertito da quel dialogo su un soggetto così elevato, «è pur sempre una cosa utile.» «Oh, sì!» rispose Schlepp. «Se soltanto i soldati si prendessero la pena di usarla! Ma vedrà che stanotte nessuno vorrà allontanarsi più di uno o due passi dalla sua tenda.» I soldati scavavano di malavoglia, ed io lo feci notare al mio conoscente. «Che vuole?» mi rispose. «Il soldato in generale non lavora volentieri. Se avessi voluto lavorare, dice, non avrei fatto il soldato. Una trincea, che centocinquanta soldati impiegano due giorni a scavare, potrebbe essere scavata in un giorno da trenta o quaranta manovali.»

Domenica, 12 ottobre

Stamattina, appena sveglio, mi sono affacciato alla finestra, e ho veduto il sole e un cielo sgombro di nuvole; i soldati, in piazza, parevano allegri, e in verità è già una gran fortuna che fra tante miserie ci sia risparmiata la pioggia. Lontano, in direzione di Jena, continuava a farci compagnia il rombo del cannone, ma ormai tutti si erano abituati a questa musica, e nessuno pareva più farvi caso. Mentre prendevo il caffè ho sentito un gran trambusto fuori della porta, e un susseguirsi di voci concitate, alcune delle quali femminili; mi sono precipitato a vedere, e ho trovato che due donne, tornando dal mercato, erano state urtate da un carretto, e le loro sporte si erano rovesciate sul selciato. Una delle due, apparentemente la cameriera, era inginocchiata e raccoglieva le mele e gli ortaggi; la padrona, una donna sui quarant’anni, vestita con semplice buon gusto, ma dai modi piuttosto sguaiati, affrontava con le mani sui fianchi i soldati che avevano fatto circolo tutt’intorno, e che invece di aiutarle sghignazzavano. «Via voialtri!» comandai, uscendo sulla piazza con la canna sotto il braccio; i soldati, abituati a obbedire a chi sia vestito di panno fino e impugni il bastone, si dispersero, ed io mi inchinai alla signora offrendole i miei servigi. «Per fortuna è arrivato lei!» esclamò la donna, in un buffo accento sassone. «Se continuava ancora un po’ questa piazzata, usciva il signor consigliere seggreto, e stavamo fresche!» La cameriera aveva finito di riempire le sue cavagne, e mi sono offerto di accompagnarle a casa; ma le due donne abitavano proprio lì, nel palazzo accanto a quello da cui ero uscito. «Venga, dunque, venga a conoscere il consigliere seggreto!» ripeté la padrona; così salimmo tre o quattro scalini ed entrammo in casa.

Il palazzo era ampio e ammobiliato non dirò con lusso principesco, ma con comodità inglese, che fra i due è certamente da preferirsi, e costa quasi altrettanto; si vedeva che lì abitava non soltanto un dotto, come dimostravano gli armadi colmi di libri e di busti antichi, ma anche un uomo che amava rendersi facile la vita. Chi fosse costui ero ben lontano dall’immaginare, ma quando finalmente gli venni presentato scoprii che si trattava di Goethe. «Bene!» mi disse il grand’uomo, vedendomi lì; per un momento mi parve incerto su come atteggiare la sua fisionomia, e se con me gli convenisse impersonare il ministro o il poeta; ma alla fine, per fortuna, decise d’esser poeta. «Bene!» ripeté, venendomi incontro con un sorriso. «Che felice incontro!» La signora, di cui non capivo bene se fosse la sua governante o qualcosa di più, giacché lo trattava con una familiarità coniugale, pur continuando a dargli il titolo di consigliere, gli raccontò dell’incidente che era occorso in piazza. «Non so come dirle la mia gratitudine» disse Goethe prendendomi la mano. «Questi, purtroppo, non sono tempi da invitare gli amici a pranzo, ma se lei si accontenta, col poco che c’è, sarò onorato della sua compagnia. Avremo come commensali degli ufficiali di cavalleria, che sono acquartierati in casa mia, perché in simili circostanze non c’è privilegio che tenga; ma vedrà che la loro conversazione non è affatto spiacevole. Va da sé che non dovrà fare confronti con i pranzi berlinesi! Io non leggo mai i giornali di Berlino, e sa perché? Perché contengono articoli molto interessanti sulle specialità culinarie locali. Se li leggessi, perderei il gusto per ciò che adesso mi viene servito in tavola» concluse, non senza un’occhiata maliziosa verso la donna, che mi aveva presentato come la signora Vulpius. Costei, toccata nel vivo, protestò vigorosamente contro quell’attacco alle sue capacità, e lo respinse vittoriosamente su tutta la linea. «Se il signor consigliere seggreto andrebbe ogni mattina al mercato, come faccio io, vedrebbe che i prezzi, con tutti questi soldati da nutrire, sono impazziti, e i contadini non portano più niente in città, perché trovano più comodo vender tutto a prezzo doppio in casa loro! Vorrei vedere se le madamigelle di Berlino saprebbero far di meglio di quel che faccio io!» Proprio in quel momento si sentì tuonare il cannone in lontananza. «Misericordia!» esclamò la donna. «Pensare a quei poveretti, che le loro case vanno a fuoco! Il macellaio, che stamattina è stato al campo, dice che dalla parte di Jena il cielo era pieno di fumo.» «Sarà bruciato qualche villaggio», replicò tranquillamente Goethe; «ma il fumo, in un quadro di guerra, non sta male.» «Il signor consigliere non parlerebbe così, se il fumo salirebbe dalla sua casa! Al mercato dicono che il Castello e la città non saranno al sicuro dalle palle di cannone. Ma dico io, che generali abbiamo, allora? Basta, se la fortuna di Napoleone non la finisce, non saranno certo questi prussiani qui a fermarlo!» Goethe tacque un istante, poi obiettò sardonicamente: «Ma forse, che ne dici, mia piccola amica, il principe Louis, come un altro Decio, ha preso su di sé le colpe della Prussia, e d’ora in poi tutto andrà meglio». «Non lo so chi è questo Decio, ma so che la testa oggi o domani mi scoppia!» Così dicendo, la donna fuggì in cucina, ed io e Goethe restammo soli.

«Ebbene, mio caro signor Pyle, che cosa sembra a lei di questa guerra?» mi chiese dopo un lungo silenzio. «Niente di buono» replicai; «e se io fossi il padrone di una bella casa in questa città di Weimar, non so se me ne starei così tranquillo come lei ad aspettare il bombardamento.» «Ma mio caro, quando non c’è rimedio è inutile agitarsi, lasciamo far questo alle donne; e se i francesi verranno, avrò più caro d’esser qui in casa a difendere il mio, piuttosto che d’aver trovato riparo chissà dove, e lasciare le mie cose in balìa di tali ospiti.» «Chi avrebbe creduto» proseguii, «neppure dieci giorni fa, quando ci trovavamo insieme a Jena, che le cose avrebbero preso una simile piega!» «Per conto mio», replicò, «già allora non ero alieno dal temere che tutto quanto andasse al diavolo. Alla tavola del principe Hohenlohe, quando tutti sembravano così sicuri e fiduciosi nelle armi prussiane, qualcuno sottovoce mi chiese se avevo già cominciato a mettere al sicuro le cose più preziose e le carte più importanti; allora, guardandomi intorno, non potei fare a meno di pensare: be’, se piace al Cielo, molti di voi saranno fatti prigionieri.» «Così», intervenni, «il Gran Tipografo ristamperà presto una nuova edizione del ducato di Weimar?» «Ma del regno di Prussia, caro mio, e della Germania tutta. Si vede che era destino. Del resto, i francesi avrebbero potuto conquistare il mondo già da un pezzo, non avevano bisogno di un Bonaparte: tutti i camerieri, cuochi e negozianti stanno dalla loro parte, siamo venduti e traditi prima di cominciare.» «Curiosa forma avrebbe assunto il destino» commentai, sorpreso dalla divertita rassegnazione che sembrava spirare dalle sue parole. «Il destino in forma di cuoco, o magari di parrucchiere: curioso, no? Ma per nulla impossibile» riprese Goethe, serafico. «Il destino è uno strano compagno di viaggio, come dice un poeta arabo. Aspetti, voglio cercare la citazione.» Si alzò, tese la mano verso uno scaffale, ne trasse un libro a colpo sicuro e cominciò a sfogliarlo. In quel momento entrò nella stanza la signora Vulpius, con un grembiule a righe intorno ai fianchi robusti, per chiedere il suo parere sulla preparazione di qualche piatto; Goethe mi parve seccato dell’interruzione, le rivolse un sorriso falsamente affabile ed esclamò: «Giungi in buon punto, mia diletta, stavo appunto per recitare al nostro ospite una poesia che parla di te». La donna si fermò in attesa, e il suo signore e padrone, trovata senza esitazione la pagina che cercava, recitò: «“Se qualcuno paragonasse la tua figura a un tenero ramo fiorito, un tal paragone sarebbe falso e menzognero: / il ramo è più bello a trovarlo rivestito, mentre tu sei più bella a trovarti spogliata”». La signora arrossì e si mise a ridere, e si nascose il volto nel grembiule per l’imbarazzo.

Di lì a poco ci sedemmo a tavola; date le circostanze nessuno si attendeva un festino, e al veder comparire in tavola una gigantesca frittata tutti i commensali sospirarono, persuasi che quello sarebbe stato il piatto forte della giornata. Perciò restammo piacevolmente sorpresi quando, spazzata via la frittata, la signora Vulpius portò dalla cucina una fricassea di pollastri. Questa apparizione rialzò considerevolmente l’umore generale, che fino a quel momento era stato piuttosto tetro; e un vecchio ufficiale degli ussari, dalla barba grigia e dallo sguardo intelligente, bevve un calice in onore del padrone di casa, subito imitato da tutti. Poi, forbendosi la bocca, si rivolse a Goethe e dichiarò, anche a nome dei suoi camerati, quanto tutti fossero dispiaciuti che un uomo così illustre dovesse trovarsi coinvolto nei disagi e, chissà, nei pericoli della guerra. «La ringrazio di cuore, mio caro amico», replicò Goethe, «ma non è la prima volta che mi accade di trovarmi in simili frangenti; quattordici anni fa ho avuto una piccola parte, benché indegnamente, nella disgraziata campagna di Francia, e non dispero di farne un piccolo libro; e anche ora, non mi pare del tutto inutile sopportare qualche poco di disagio e di pericolo, insieme al mio principe e a tanti valenti ufficiali, allo scopo di mettere alla prova me stesso.» L’ufficiale, tuttavia, non era della stessa opinione, e insisté che era già imperdonabile l’aver portato a un passo dalla catastrofe i militari, dei quali era mestiere e dovere l’affrontare il pericolo e rimetterci la vita; ma che anche un grande poeta dovesse prender parte a simili sofferenze, era cosa di cui non poteva darsi pace. «Già», replicò un altro ufficiale, «ma assistendo così da vicino alla campagna, egli potrà lasciare ai posteri pagine memorabili; vedrete che i nostri figli ricorreranno alla sua penna per avere la narrazione e la spiegazione degli avvenimenti che stiamo vivendo.» Goethe sorrise a queste parole, e si preparava a replicare, quando il vecchio ufficiale esclamò: «Non credo proprio, egli è troppo saggio! Ciò che potrebbe scrivere, non lo vorrà fare, e ciò che vorrebbe, non lo scriverà». Il nostro ospite parve colpito; fissò a lungo l’interlocutore, con uno sguardo fra il canzonatorio e l’ammirato, poi esclamò: «Io stesso non avrei saputo dir meglio! Alla vostra salute, signor mio!» e vuotò d’un fiato il calice.

Nel dopopranzo, dato il bel tempo, sono uscito a passeggio, e per la forza dell’abitudine mi sono incamminato sulla strada che conduceva all’accampamento. Sulla carreggiata era fermo un gran numero di carretti, carichi di soldati avvolti nelle coperte; e ancora altri si facevano strada attraverso il campo, sorretti dai compagni. «Come mai tanti malati? È forse scoppiata la peste qui da voi?» chiesi al conducente. «Non c’è mica bisogno della peste» fu la risposta: «basta una notte al bivacco. Ai soldati viene la febbre, e non possono più marciare». «Possibile?» «Si capisce! La notte fa freddo, e Vostra Eccellenza può toccar con mano di che panno siano fatte le nostre divise.» «Eppure, certi ufficiali mi avevano assicurato che la vostra stoffa militare, benché grossolana, è più robusta e dura più a lungo del miglior panno inglese.» «Eccellenza» ribatté pazientemente il soldato, «gli ufficiali hanno tutto l’interesse a difendere un panno sul cui acquisto essi stessi realizzano delle belle economie; ma basta toccarlo per rendersi conto che l’unica preoccupazione che ha presieduto alla sua produzione è l’arricchimento dei fabbricanti. Quando viene la notte, l’ufficiale se ne sta nel suo letto, e se fa freddo si copre col cappotto; ma il soldato non ha letto né cappotto, solo una coperta così sottile che attraverso il suo tessuto ci si vede, e la divisa è la stessa d’estate e d’inverno. Si va a dormire sulla terra, senza fuoco e senza minestra, e al mattino quando ci si sveglia si è buoni per l’ospedale.» «Voi però siete in buona salute, mi pare.» «Ringraziando il Signore; ma anche se stessi molto peggio, non mi farei portare all’ospedale lo stesso. Preferirei morire subito piuttosto che finire in un buco simile! Medicine non ce n’è, tutte le cure consistono in un po’ di pane di munizione. I chirurghi, come bisogna chiamarli adesso, anche se non ne sanno più di qualunque barbiere, ebbene i chirurghi bevono il vino e rivendono pubblicamente il riso e l’orzo del rancio. Il chirurgo in capo si fa vedere una volta al giorno, si fa raccontare quel che succede, butta lì qualche parola in latino, poi se ne va a giocare all’hombre con gli ufficiali, dove magari perde il denaro che gli avevano assegnato per comprare i medicamenti, l’aceto e il vino. I malati crepano, sì, crepano, senza che nessuno si curi di loro, e così si vede quanto vale la vita di un uomo in guerra.» Mentre quel bello spirito imprecava così, un borghese che accompagnava un malato portato in barella da due soldati si fermò accanto a noi, e gli rivolse la parola con una freddezza accentuata dal tono formale. «Posso sapere dove il signore ha sentito raccontare tante belle storie?» Ma quel soldato non era uomo da spaventarsi per così poco. «Sacramento! Le ho sentite perché tutti nell’esercito le raccontano, e perché le ho viste con questi occhi; così come ho sentito che i chirurghi si fanno pagare per bendare i malati, e perfino per dar loro quel po’ di minestra e di carne che il re passa a chi ha perduto la salute per lui.» «Mi pare che il signore abbia parlato un po’ troppo!» si incattivì il borghese. «Quando lo racconto all’ufficiale, il signore finisce agli arresti; mi capisce?» «Oh sì, lo capisco, e vedo che anche il signore ha qualcosa da rimproverarsi, o non si sentirebbe così offeso dalla verità; mi capisce?» «Mille sacramenti, mi sembra che il signore voglia provocarmi! Sa il signore chi sono io?» «Oh sì, so e vedo che il signore non è nient’altro che un barbiere ripulito!» «No, per i tre diavoli, questa storia non finisce così, o il mio nome non sarà più onorato! Vado e lo racconto all’ufficiale, lui mi darà soddisfazione!» Poiché mi sembrava che l’uomo facesse sul serio, consigliai al soldato di sparire; ma il brav’uomo non pareva affatto preoccupato. «Voglio vedere quale ufficiale gli darebbe ragione! Lo sanno tutti che i chirurghi rubano. Nell’esercito c’è un detto: chi all’ospedale non ha da pagare, può pure crepare!»

Proprio in quel momento sentimmo le urla acute di una donna; e accorrendo in quella direzione, come molti altri, vedemmo una femmina scarmigliata, col grembiule pieno di patate, trascinata via da quattro soldati, ch’essa cercava vanamente di colpire coi piedi scalzi. Mi avvicinai a un ufficiale che li seguiva senza affrettarsi, e gli chiesi che cosa stava succedendo. «Eh!» mi rispose. «Sua Grazia ha emanato ordini severissimi contro il saccheggio. Chiunque sia sorpreso a rubare dev’essere consegnato al profosso, per essere punito con venti o trenta vergate, sulla schiena nuda.» «Ma non vorrete dire che una simile misura dev’essere applicata anche a una donna!» obiettai. «Perché no?» mi rispose l’ufficiale. «Le donne saccheggiano quanto e più degli uomini, e non c’è altro rimedio se non di fustigarle senza pietà, le diavolesse!» È vero che l’esercito è seguito da molte di queste creature, per lo più sgualdrine, che si vendono ai soldati nei prati e che alla prima occasione rubano a man salva; anche le mogli legittime, che si trascinano dietro ai reggimenti coi loro mocciosi appesi al collo, troppo spesso non si accontentano di mendicare, e si sa di carri di pane il cui carico si è dileguato prima della distribuzione, per la fiacchezza o la complicità delle sentinelle. Eppure mi pareva egualmente che consegnare una donna al profosso, per essere bastonata come un soldato, fosse una misura eccessiva; ma gli uomini che erano lì risero dei miei scrupoli. «A chi può far paura un profosso prussiano!» esclamò un sottufficiale. «Io ho conosciuto l’esercito dell’impero in Svevia, e posso fare il confronto. Il profosso imperiale è un personaggio distinto, che i soldati e gli ufficiali chiamano “signor padre”; e c’è da tremare a comparirgli dinanzi. Ma il profosso prussiano è un disgraziato, per lo più un vecchio invalido, che guadagna quattro soldi e porta una specie di abito grigio, che non sembra nemmeno un’uniforme. Non ha neanche diritto a un attendente che possa sorvegliare i prigionieri o tagliare le verghe; deve fare tutto da solo.» «I soldati lo odiano e lo disprezzano» aggiunse un altro. «Nessuno beve con lui, ed egli non osa neppure mostrarsi in un’osteria o una baracca di vivandiere dove si trovino dei soldati; perfino i facchini dei bagagli non lo ammettono nella loro compagnia. E se pensa che a loro volta i facchini sono disprezzati dai soldati, che li maltrattano ad ogni occasione, può farsi un’idea di quel che può valere il povero profosso presso i prussiani.» «Perciò» riprese il primo «le assicuro che non c’è da compiangere troppo quella creatura; fra un’ora o due sarà di nuovo libera di andarsene dove le pare, con la schiena appena un po’ piagata, o forse avrà trovato modo di dividere con il profosso le sue patate, se l’ufficiale avrà avuto la dabbenaggine di non sequestrarle.» Ma in quel momento l’ufficiale se ne tornava per l’appunto indietro, seguito da uno dei soldati, che portava un cesto pieno di patate; si presentò al colonnello, che era uscito dalla sua tenda, come gli altri, per scoprire la causa di quel trambusto, e gli chiese che cosa doveva fare della refurtiva. «Che domande, signor tenente! La restituisca al proprietario!» ordinò il vecchio. «Ma Eccellenza, le patate sono state scavate in un campo dietro a una casa abbandonata; se ne sono andati tutti quanti.» «E lei faccia portare le patate in casa, e se davvero i proprietari se ne sono andati, faccia mettere una sentinella.» «Però, Eccellenza», volle insistere il tenente, «è un peccato; gli uomini hanno fame.» Ma al colonnello non garbava d’essere contraddetto. «Signor tenente, faccia quel che le è stato ordinato, e abbassi un po’ la coda! Noi non siamo mica venuti qui per saccheggiare la proprietà privata, o per rovinare questi bravi contadini, che già fanno quello che possono per nutrirci!» Conclusa questa intemerata, il colonnello si guardò intorno, e vide alla luce delle fiamme i volti dei suoi soldati, che non avevano perduto una parola. «Pfui!» borbottò. «Se non ci fosse il bastone, ruberebbero come corvi!» A quelle parole guardai uno dei due sottufficiali, che mi era rimasto accanto, e vidi che un’onestà così specchiata non era di suo gusto. «Per fortuna» mi disse a bassa voce «non tutti gli ufficiali l’intendono a questo modo. Stamattina, dopo tutto il freddo sofferto questa notte, ci siamo svegliati senza legna per cuocere la zuppa, e allora abbiamo mandato quattro uomini a tagliare un faggio nel bosco qui vicino; il capitano se n’è accorto, ma non ha detto nulla, e anche le altre compagnie hanno fatto lo stesso. Stasera, poi, ci hanno detto che per ordine del duca la legna si può requisire; ma soltanto quella. I soldati affamati sono bastonati quando cercano di scavare qualche patata dimenticata nei campi dopo il raccolto e rimasta lì a marcire.» Ascoltando questo e altri sottufficiali, mi è accaduto di pensare che l’esercito prussiano avrebbe tutto da guadagnare a esser comandato da loro, anziché dai suoi ufficiali; è vero che non conoscono le buone maniere, ma dopo tutto per convincere degli uomini a farsi ammazzare non è necessario saper usare forchetta e coltello.

Lunedì, 13 ottobre

Per tutta la notte la città è stata in preda a un’agitazione febbrile; il galoppo degli aiutanti di campo sull’acciottolato della piazza, il fracasso dei servitori che caricavano carri e carrozze mi hanno svegliato quando era ancora buio, e non c’è stato verso di riprendere sonno. Infine, quando le luci incerte dell’alba hanno cominciato a rischiarare la stanza, conferendo ai mobili quell’opacità minacciosa che ogni forma ignota assume nella mezza luce, ho deciso di alzarmi, ho svegliato Will, che russava ancora, mi sono vestito e sono sceso. In sala da pranzo mi hanno servito un caffè accompagnato da una sola, piccola pagnotta, e stavo appunto meditando su questo insufficiente conforto quando Will, il quale ormai a furia di praticar stallieri e domestici ha imparato a capire qualche parola di tedesco, è venuto ad avvertirmi che partiremo oggi stesso verso nord, per raggiungere Magdeburgo e i ponti sull’Elba prima che il nemico ci tagli la strada. I cavalli del re sono ordinati per mezzogiorno, sicché ho raccomandato a Will e al vetturino di tener pronti anche i nostri per quell’ora. Mentre finivo di dare disposizioni, un rumore di voci nel cortile ha attratto la mia attenzione; affacciato alla finestra ho visto smontare cinque o sei ussari, che dovevano essere appena tornati da una ricognizione, a giudicare dallo stato delle uniformi e dei cavalli. Con loro c’era un uomo disarmato e male in arnese, la cui uniforme francese era appena riconoscibile sotto una dura crosta di fango e sangue rappreso. All’improvviso mi punse la curiosità di parlare con quell’uomo, e scesi in cortile. Gli ussari erano scomparsi, alla ricerca dei loro ufficiali, lasciando un solo uomo a guardia del prigioniero; gli feci vedere un tallero, e per quella somma potei avvicinarmi al poveraccio e interrogarlo. Era un uomo ancor giovane, con la barba non rasata, il volto coperto di polvere; aveva entrambi i polsi fasciati, e le fasce luride erano incrostate di sangue. A giudicare da quel che restava della sua uniforme, doveva essere un soldato di cavalleria, probabilmente un dragone; nonostante il suo stato lamentevole pareva di ottimo umore, e si guardava intorno con curiosità. Sentendosi rivolgere la parola in francese, si volse verso di me con vivacità, e mi disse, in risposta alle mie interrogazioni, che la guerra era già vinta, l’armata prussiana sbaragliata, e l’imperatore sarebbe entrato ben presto a Berlino. Il fatto tangibile di essere stato catturato, e di trovarsi nel bel mezzo di un’armata nient’affatto sconfitta, non pareva scuotere le sue certezze, né la sua fede incondizionata nell’imperatore. «Monsieur, quel homme que notre empereur! Si vous l’aviez vu à Austerlitz! C’est un scélérat dans le feu. Il n’y a pas un homme comme cela dans l’Université.»70 Voleva dire l’universo intero. In quel momento gli ussari ritornarono accompagnati da un ufficiale dai lunghi favoriti, che aggrottò la fronte vedendomi a colloquio col suo prigioniero, e si affrettò a portarselo via. Quanto agli ussari, sedettero su un gradino e si accinsero a dividersi armi, vestiti e denaro presi al prigioniero e ad altri nemici uccisi: all’uno toccò un orologio, a un altro un paio di stivali, a un altro ancora una pistola. Quando si allontanarono vidi che avevano gettato via la parte più inutile del loro bottino: due copie del “Moniteur”, abbastanza recenti, una delle quali conteneva il resoconto della partenza di Sua Maestà Imperiale per l’armata, e gravi minacce contro quella Prussia che sola ancora si opponeva al ristabilimento della pace e della prosperità per i popoli d’Europa. Lontano, in direzione di Jena, aveva ricominciato a tuonare il cannone, e il suo brontolìo, simile al tuono sordo che preannuncia un temporale estivo, pareva l’incarnazione tangibile di quelle minacce.

La marcia fu assai penosa; fra i soldati correvano le voci più inverosimili, si diceva che i magazzini dell’armata erano perduti, e che il nemico minacciava di tagliarci fuori. La nebbia si è alzata molto presto, e le truppe si affollavano sulle stradine di campagna in un disordine indescrivibile; le ruote dei cannoni e delle carrozze affondavano nel fango fino ai mozzi. Entrando in un villaggio, che si chiamava, mi dissero, Auerstedt, vidi due carrozze con le insegne regali ferme sulla strada; al finestrino d’uno dei due legni si affacciava una donna spaurita, ed era la regina. Volli salutarla, e chiederle se potevo in qualche modo esserle d’aiuto, poiché mi pareva che in quel tramestio si guardasse intorno sperduta, e senza saper dove andare; ma non avevo ancora raggiunto lo sportello della carrozza, quando dall’altra vettura uscì il duca di Brunswick, col volto atteggiato a un’insolita gravità. «Che cosa fa lei qui, Madame? In nome di Dio, che cosa fa?» esclamò, in tono assai deciso; era la prima volta che lo udivo rivolgersi alla regina, o per la verità a chiunque altro, con tanta energia. La regina rimase interdetta a sentirsi apostrofare in quel modo. «Il re» balbettò «crede che io sia più al sicuro qui, in mezzo all’armata, perché la strada per Berlino non è già più sicura; i francesi, dicono, hanno dei cacciatori a cavallo a Kosen.» Al finestrino dell’altra carrozza si era affacciato il re; guardava fisso davanti a sé, e pareva completamente sopraffatto. «Ma, Dio mio», proseguì il duca, «vede Vostra Maestà il castello di Eckartsberga là davanti?» e indicò con la mano guantata un edificio il cui tetto s’intravedeva nella nebbia, a forse un miglio di distanza. «Là sono i francesi, e sono qui davanti a noi e a Naumburg, e domani dobbiamo combattere una battaglia sanguinosa e decisiva. Lei non può restare qui, è assolutamente escluso.» «Lo dirò al re, e lui deciderà» ribatté la regina, piccata; «e poi, che strada dovrei prendere?» «Prenderà la strada dello Harz, fino a Brunswick, e da lì a Magdeburgo e a Berlino» rispose il duca, in tono meno tagliente; ma la regina aveva già mandato uno dei suoi lacchè, pregando suo marito di raggiungerla. Il re, senza abbandonare l’espressione depressa che gli si era stampata in volto, scese inciampando dalla sua carrozza e si avvicinò allo sportello cui era affacciata la regina. «Sua Altezza» esclamò quest’ultima «crede che io qui sia in pericolo, e che farei meglio a tornare indietro.» Il re, che già aveva evitato di guardarla negli occhi, abbassò ancor più lo sguardo e mormorò: «Se è così, allora parti». Le prese la mano fra le sue, e la tenne così, senza riuscire ad aggiungere parola. La regina tacque per un momento, poi esclamò: «E allora partirò!». Poi, rivolta al duca, aggiunse in tono di sfida: «Ma non stasera. Sono stanca, ho mal di denti, non ho dormito tutta la notte per la preoccupazione. Non vorrete farmi morire per la strada! Passerò la notte qui; insomma, c’è tutto l’esercito fra me e i francesi, forse che debbo preoccuparmi? Partirò domattina». «Va bene, Madame», rispose il duca; «passeremo tutti quanti la notte qui, ma domattina prima dell’alba lei partirà per Berlino.» I soldati che continuavano a sfilare sulla strada, passando accanto alle due carrozze in sosta, avevano compreso chi fossero gli occupanti, e dalle loro file si levavano grida di «Viva il re!» e «Viva la regina!». Il duca, udendo quel clamore, si voltò verso di loro e alzò un braccio. Gli ufficiali fecero fermare la colonna, gli uomini si arrestarono con i moschetti in spalla, ripetendosi l’un l’altro di far silenzio. Il duca esclamò: «Ebbene, ragazzi! I francesi sono vicini, domani ci sarà battaglia!». Gli uomini gettarono i cappelli in aria, e gridarono ancora, tutti insieme: «Viva il re!». Pareva che si aspettassero un discorso, ma il duca non aggiunse altro, e rientrò nella carrozza; sicché i soldati ripresero la marcia.

Poiché, a quanto pareva, ognuno era lasciato a se stesso, smontai davanti alla prima casa, e lasciando Will a far la guardia ai cavalli bussai alla porta. Nessuno rispose, ma all’interno si sentivano voci e rumore di passi frettolosi; spinsi il battente, e poiché la porta era aperta entrai. Il padrone di casa, a quanto pareva, era scappato, la casa era vuota. Il principe August comparve nell’ingresso, salendo dalla scala della cantina, con l’uniforme sudicia di polvere. «Ebbene, signor Pyle!» mi disse scherzando. «Come vede, sono io il padrone di casa, questa notte. Se vuole accettare la mia ospitalità!» Mi inchinai per dimostrare che prendevo sul serio l’invito, e senza perdere tempo salii con Will al piano di sopra, dove trovammo una stanza in fondo a un corridoio umido, senza mobili, ma con un pagliericcio ancora abbastanza in buono stato gettato sul pavimento, e la chiave nella porta. Ordinai a Will di portar su i bagagli, e poi di barricarsi in camera, promettendo che se possibile gli avrei portato qualcosa per non mandarlo a dormire digiuno; poi scesi alla ricerca del mio ospite, persuaso che perfino in circostanze come quelle, dove c’è un principe c’è anche da bere e da mangiare. Nel giardino e nell’orto della casa i granatieri avevano acceso dei falò sradicando la palizzata, e li alimentavano con le porte e le sedie del pianterreno; il principe August, in piedi sulla soglia, osservava quel saccheggio con un sorriso, e gli altri ufficiali, sconcertati da tanta tolleranza, non osavano aprir bocca. Quando mi scorse, mi fece un cenno con la mano: «Venga, signor Pyle! Vogliamo assaggiare la minestra dei miei soldati?». Su due sedie che i lacchè avevano salvato dalla distruzione, cenammo come cenavano i granatieri: una minestra d’acqua ingrassata con un po’ di sego e insaporita con la polvere da sparo, in luogo di sale, e un tocco di pane di munizione, duro come la pietra, per farci la zuppa. Memore della promessa fatta a Will, avevo già messo in tasca una fetta di pane, e mi preparavo a dare la buona notte al principe, quando vennero urla e schiamazzi dall’altra parte del villaggio; gli ufficiali e i soldati si alzarono in piedi e partirono di corsa in quella direzione, ed io con loro.

La ragione di quell’agitazione era molto semplice. I soldati acquartierati nel villaggio non si erano limitati, come i granatieri del principe, ad abbattere porte e staccionate per accendere il fuoco, ma erano entrati negli stabbi e nei pollai, dapprima ciascuno per conto proprio e in silenzio, poi, giacché gli schiamazzi delle bestie li tradivano, sempre più sfrontatamente, incuranti delle proteste degli abitanti. Alla luce di un falò, il principe scorse un ufficiale che tempestava di bastonate un granatiere, per costringerlo a restituire a una contadina piangente due galletti che teneva per le zampe. «Signor ufficiale, lo lasci dunque!» gridò il principe. L’ufficiale si voltò e vidi che era il vecchio maggiore von Rabiel, comandante del battaglione dei granatieri della Guardia; era paonazzo per la collera, ma non poteva disobbedire al principe, suo diretto superiore, e così l’uomo poté svignarsela col suo bottino. Il principe passò oltre, ma il maggiore affrontò il capitano von Clausewitz, che veniva subito dietro, e lo pregò di far sapere a Sua Altezza che un comportamento del genere era inusitato nell’esercito prussiano e contrario ai suoi princìpi. «Il principe è un ragazzo, non può capire queste cose, e io mi considero responsabile del suo onore!» Il vecchio aveva pronunciato questa parola di onore, Ehre, con un’enfasi così accentuata che la sua voce, già di per sé stridula, era scaduta nel falsetto; ma il capitano lo guardò appena. «Ei was Ehre!» ribatté, non saprei se con disprezzo o semplicemente con stanchezza: «ma quale onore!» e passò oltre, piantando senz’altro lo sbigottito vecchio ufficiale.

Attorno a tutti i fuochi si arrostiva la carne, e un profumo delizioso si spandeva dappertutto, ricordandomi che nessun cristiano dovrebbe andare a coricarsi non avendo altro nello stomaco che un po’ d’acqua salata. Deciso a prendere parte anch’io al banchetto, mi avvicinai a un falò e rivolsi la parola a un soldato, coll’intenzione di acquistare un po’ del suo arrosto. L’uomo si voltò e riconobbi Schlepp, che finiva di rosicchiare una costola di pecora, con l’uniforme fradicia di sangue, come un macellaio. «Come! Anche un uomo dei vostri princìpi!» scherzai. «Signore, i nostri hanno aperto i recinti e i porcili, e le bestie correvano nei campi inseguite dai soldati, che le catturavano e se le portavano al campo. Allora mi sono detto: se non la prendi tu, la prenderà qualcun altro, oppure si perderà, e questo ragionamento mi ha convinto.» «Bravo!» dissi; ma non aveva ancora finito. «Il legittimo proprietario, ho ancora pensato, non ci guadagna niente se anche io mi astengo dal toccare le sue proprietà, e io passerò per un minchione, che non sa far uso del suo giudizio. Per farla breve, la colpa è tutta di quelli che dovrebbero assicurare la disciplina e il vettovagliamento; quelli devono rispondere di tutto.» Colpito da un ragionamento così stringente, tacqui, e Schlepp continuò: «Del resto, non creda che sia un piacere mangiare a questo modo! Carne arrostita sulla punta della baionetta, senza sale e senza pane! Fortunato chi ha conservato nel tascapane un tocco dell’ultima micca, perché né ieri né oggi ne hanno distribuito! Com’è possibile? La carne va bene, ma il soldato non può vivere senza pane!». «E gli ufficiali?» m’informai. «Gli ufficiali sono andati in collera, volevano costringerci a lasciar andare il bestiame; ma quando è stato macellato e cucinato, bisognava vederli! “Pfui Teufel,” dicevano, “è forse colpa dei soldati se ci lasciano senza pane?” E i bocconi migliori erano per loro!» «Quand’è così, caro Schlepp», ribattei, «credo che anch’io potrei accettare con gratitudine la vostra ospitalità!» Ma era destino che andassi a coricarmi senz’altra cena che la famosa minestra, poiché il furfante mi mostrò con espressione desolata l’osso spolpato, assicurandomi che non gli restava altro. Così dicendo si grattava, e quando vide che involontariamente facevo un passo indietro fece una smorfia espressiva. «Già, queste spiacevoli bestioline… Che fare? Finché si può lavarsi, va tutto bene, ma quando non si può più, e la biancheria nel sacco comincia ad ammuffire, è difficile tener lontana questa piaga. Del resto anche gli ufficiali se ne sono accorti: non sente i loro discorsi? “Che miseria la guerra, che vita da cani ci fanno fare!” Dovunque si riuniscano due o tre ufficiali, non si sente dir altro. Eh! Stavano bene in città!»

Poiché lì non c’era nulla da guadagnare, ed ero stanco dopo tutti gli strapazzi della giornata, decisi di andare a coricarmi: ma prima volli chiedergli che ne pensava del proclama regio, che era stato finalmente letto quel giorno alle truppe, dopo che il conte Haugwitz e il cavalier Gentz ci si erano arrabattati ancora un bel po’. «Cosa dire!» borbottò Schlepp. «Ai soldati queste cose piacciono, chi l’ha scritto sa cosa ci vuole per farli marciare, oltre beninteso al pane e all’acquavite, che sarebbero ancor meglio. Al soldato piace sentirsi dire che la Provvidenza si interessa di lui personalmente, e che la causa per cui combatte è giusta. Per conto mio, non posso negare di nutrir qualche dubbio. Un invalido mi ha raccontato una volta a Berlino che la sera della battaglia di Leuthen i granatieri si inginocchiarono nella neve; un sottufficiale intonò il corale “Nun danket alle Gott”,71 e tutte quelle voci rotte dalla fatica gli fecero coro. Il vecchio aveva le lacrime agli occhi mentre raccontava; ma io non so che cosa possa aver pensato il Signore Iddio al vedere tutti quegli uomini, che avevano appena finito di ammazzare il loro prossimo, inginocchiati a ringraziarlo nella neve marcia di sangue, in mezzo a tutti quei cadaveri insepolti. Io credo che Dio preferisca non aver niente a che fare con faccende come le nostre guerre; e ho anche litigato per questo, poche sere fa, con l’oste di una locanda dove eravamo alloggiati.» Divertito dall’eloquenza del brav’uomo, volli ascoltare il suo racconto. Schlepp sputò con disprezzo. «Quell’oste era un devoto che non si separava mai dalla sua Bibbia, e ci trovava dentro tutta la guerra di Napoleone, soprattutto nell’apertura di Giovanni e nel profeta Ezechiele. I nostri soldati gli avevano detto che io ero un pezzo di letterato; sicché si affrettò a comunicarmi la sua scienza, e a chiedermi la mia opinione. Ma quando gli risposi che era degno degli Ottentotti cercare in un libro sacro la spiegazione delle malefatte che gli uomini commettono liberamente l’uno contro l’altro, s’incattivì e disse che non capiva come fosse sopportata nell’esercito una simile propaganda da senza Dio. Certo il Signore Iddio non avrebbe concesso fortuna e vittoria, quando uomini come me, che non credevano in nulla e prendevano la Bibbia per un libro d’incantesimi, erano tollerati nell’armata. Vostra Eccellenza può giudicare da sé che non aveva capito molto di quel che gli avevo detto.» «Ma infine, Schlepp», continuai, «che cosa dicono i vostri camerati? Come finirà questa guerra?» Mi guardò socchiudendo gli occhi. «Come finirà?» ripeté. «Per conto mio non voglio saperne niente, ma tutti i miei camerati giurano che ne buscheremo più dello Hanswurst.»

Rimuginando fra me e me questa predizione, me ne tornai inciampando al mio quartiere, entrai nel pianterreno ormai senza porte scavalcando i corpi dei soldati addormentati, e cercai a tentoni la scala. Quando finalmente riuscii a riguadagnare la mia camera in fondo al corridoio, trovai Will che mi aspettava dietro la porta chiusa a chiave, ancora sveglio, non so se per la fame o per le cattive notizie che aveva da darmi; mentre divorava in due bocconi la fetta di pane che gli avevo portato, mi informò quietamente che la mia coperta di lana era scomparsa. «Come scomparsa?» esclamai. «Così, signore; sono sceso a prendere i bagagli nella stalla, e il fagotto con la coperta non c’era più. A quest’ora ci sta dormendo un granatiere.» Sospirai, ma ero troppo stanco per prendermela, sicché mi avvolsi nel mantello e mi buttai sul pagliericcio, mentre Will si sistemava alla bell’e meglio sul pavimento davanti alla porta.

Martedì, 14 ottobre

Era notte fonda quando Will, messo in allarme dall’agitazione che regnava in tutta la casa, venne a svegliarmi. Mi pareva di essermi appena addormentato. La sera prima mi ero schiacciato un dito con la cinghia della sella; sul momento l’avevo creduta una cosa da nulla, ma ora il dito mi faceva sempre più male, tanto che cominciai a pensare d’essermelo rotto. Mentre Will mi infilava gli stivali guardai l’ora: le quattro. La sveglia era stata data da un pezzo, e nell’oscurità risuonavano le voci rauche dei sottufficiali che urlavano ordini ai loro uomini. Non c’era acqua in casa, e il cortile era pieno di soldati e servitori che si affollavano intorno al pozzo; così decisi di vestirmi senza essermi lavato e rinunciai anche a farmi radere la barba. La stanza era gelida e i miei vestiti impregnati di umidità; il dito fasciato con un fazzoletto m’impediva l’uso della mano sinistra, tanto che non riuscii neppure ad annodare la cravatta. Quando fui vestito restai seduto sul letto, istupidito dal sonno, poi mi affacciai alla finestra: era ancora buio pesto. In cucina, Will era riuscito a trovare un po’ d’acqua e a preparare un bricco di caffè, che dovetti dividere con due o tre ufficiali entrati in casa a scaldarsi; avevano passato la notte all’aperto e le loro uniformi erano fradice, perché durante la notte era piovuto. Non c’era nulla da mangiare; uno degli ufficiali tirò fuori da una tasca del cappotto una fetta di pane secco e cominciò a masticare, senza offrirne a nessuno. Fuori non accennava ancora ad albeggiare; sulla strada davanti alla casa sfilava alla luce delle torce una lunga colonna di cavalleria. I cavalli passavano urtandosi l’un l’altro, occupando l’intera larghezza della strada, i cavalieri sacramentavano nel buio. L’odore dello sterco di cavallo era intenso, l’aria pungente: subito dopo essermi affacciato alla porta tornai in casa, per non sprecare calore inutilmente.

Dal piano di sopra scese il principe August, seguito dai suoi aiutanti. Tutti, come me, avevano la barba non rasata e l’aria di non essersi lavati. Il cameriere del principe apparecchiò sulla tavola un pollo freddo messo da parte la sera prima e una bottiglia di vino trovata chissà dove, e il principe fece colazione, offrendo qualche boccone agli ufficiali che si affollavano intorno a lui. «Signor Pyle!» esclamò, notandomi. «In queste circostanze, mi perdonerà se non posso offrirle altro. È pur sempre meglio del brodetto nero con cui gli Spartani si ristoravano prima della battaglia!» Così dicendo mi fece segno di servirmi, e in tal modo riuscii a mettere qualcosa sotto i denti. Il capitano von Clausewitz, mortalmente pallido e con gli occhi gonfi di sonno, mi fece un cenno di saluto; mi chiesi se anche la mia faccia era pesta come le loro. Entrò il vetturale a informarmi di aver governato i nostri cavalli: il re aveva fatto distribuire i sacchi d’avena del suo equipaggio personale, conservando soltanto il necessario per arrivare fino a Magdeburgo. Gli ordinai di seguire sempre le vetture del re, e di non separarsene per nessuna ragione; poiché l’uomo non se ne andava, ma restava in piedi davanti a me con espressione più ottusa del solito, gli chiesi che cosa c’era ancora. «Il padrone deve darmi qualcosa per mangiare» borbottò «e per dar da bere agli stallieri, se ne avrò bisogno, altrimenti non arriveremo a Magdeburgo, né io né i cavalli.» Gli diedi qualche moneta, che intascò con un profondo inchino, dopodiché si decise finalmente a partire. Il sonno mi era passato, anche se sapevo che fra poco, per strada, mi avrebbe colto di nuovo, e avrei abbassato la testa ciondolante sul collo del cavallo. Prudentemente provai a piegare le dita della mano sinistra: il dito fasciato restava rigido, ma potevo certamente cavalcare. Intanto il principe si era alzato da tavola ed era uscito, accompagnato da tutti gli altri, perciò anch’io mi affrettai a seguirlo.

Nell’oscurità della notte, rischiarata soltanto dai falò che fumigavano fra le stoppie umide, le stradine del villaggio offrivano uno spettacolo desolante. Tutto ciò che era di legno era stato bruciato dai soldati per riscaldarsi; porte e steccati divelti, i mobili portati fuori dalle case e fatti a pezzi. I granai erano stati svuotati, i pollai saccheggiati. Non c’era più una vacca, un’oca, una gallina viva, ma ovunque, accanto ai fuochi, gli avanzi delle bestie macellate, arrostite e divorate durante la notte. I contadini con le mani nei capelli si affollavano intorno agli ufficiali elencando ciò che avevano perduto, e gli scritturali dei reggimenti compilavano certificati con promesse di rimborso. Will, che era uscito prima di me alla ricerca di qualcosa da mangiare, tornò a mani vuote. «Nel villaggio non c’è più pane, né birra, né vino» borbottò. «Be’, che cosa aspetti?» replicai alzando le spalle. «Va’ a prendere i cavalli!» Quando ritornò esaminai le bestie: avevano mangiato davvero, ed erano più in forze di noi. Montai con fatica, mentre il dito continuava a farmi male, non tanto però da impedirmi di cavalcare. «Sai quale strada bisogna prendere?» chiesi a Will. «Non lo so, padrone, ma il re è fermo sulla strada maestra, proprio qui, appena fuori del villaggio.» Non restava che raggiungerlo, così ci avviammo nella direzione indicata.

A pochi passi dalle ultime case, all’imboccatura dello stradone, c’era una carrozza in attesa. Era la regina che partiva per Berlino, così come era stato deliberato la sera prima; la carrozza avrebbe preso una strada secondaria, con una buona scorta, così da non dover temere cattivi incontri. La regina, come tutti, aveva l’aria infreddolita e gli occhi appesantiti dal sonno; si stringeva nel mantello mentre osservava i cavalli che scalpitavano inquieti e i servitori che si agitavano intorno alla vettura. Il re era al suo fianco, anch’egli a piedi. Notando ciò mi fermai a qualche passo di distanza; non avevo voglia di scendere di sella, dopo aver fatto tanta fatica a montare, perciò preferivo non farmi vedere. Nel buio si arrestò accanto alla carrozza un gruppo di cavalieri; era il duca di Brunswick che veniva ad assistere alla partenza della sovrana. Il duca smontò faticosamente da cavallo; portava un cappotto lungo fino ai piedi, com’erano di moda allora, senza decorazioni; era a pochi passi da me e alla luce delle lanterne vidi distintamente il suo labbro inferiore scosso da un tremito intermittente.

«Dunque, parto» disse la regina, con allegria forzata. Il duca la guardò senza dir nulla, con gli occhi lacrimosi per il freddo e la stanchezza.

«Parto, signore» ripeté la regina. «Che Dio vi assista.»

Si accostò al re, gli prese le mani, lo guardò negli occhi, lo baciò alzandosi sulla punta dei piedi.

«Domani ti rivedrò vincitore. Addio!» e, volgendosi al duca: «Altezza, serbatemi il mio sposo.»

Entrò in carrozza mentre il duca s’inchinava. Si sentì il rumore dello sportello che si chiudeva, poi l’incitamento del cocchiere e il fragore degli zoccoli dei cavalli, presto sommerso, dopo un secco comando, da quello dei corazzieri comandati a scortare la carrozza e la regale viaggiatrice.

Il frastuono prodotto dall’equipaggio che si allontanava non si era ancora dissolto quando il duca salì a cavallo; allora mi avvicinai e mi cavai il cappello. «Col permesso di Vostra Altezza» dichiarai quando mi ebbe riconosciuto, «vorrei restare al fianco di Vostra Altezza in caso di battaglia»; continuavo a pensare a Bill Pinkney, che a Londra aspettava la notizia di una vittoria, e mi pareva che quello fosse il modo più sicuro di tenere il passo degli eventi. Il duca mormorò: «Con piacere» e mosse al trotto il cavallo. Il re partì a sua volta e gli si affiancò; un passo più indietro cavalcava un contadino del posto, assoldato come guida, e dietro a costui si mosse il corteo degli ufficiali. Seguito da Will, mi accodai anch’io alla fila interminabile, che seguiva i due capi come la coda di una bizzarra cometa a due teste. Cavalcammo per forse un quarto d’ora, al passo, per risparmiare i cavalli, sebbene la strada fosse ben battuta e sgombra; i bivacchi si arrestavano a un tiro di sasso dalla carreggiata, sulla nostra sinistra. Per tutta la durata della cavalcata costeggiammo ininterrottamente una fila di fuochi spenti dalla pioggia, intorno ai quali gli uomini indugiavano, bagnati fino alle ossa, in attesa che il richiamo del tamburo li costringesse a mettersi in fila; attraverso l’oscurità si indovinava il risveglio penoso di migliaia di uomini e cavalli senza niente da mangiare. Sebbene fossero dislocati in posizione più avanzata, questi reparti sembravano aver avuto la sveglia più tardi di quelli che ci eravamo lasciati alle spalle; i loro cavalli non erano ancora stati attaccati e soffiavano irritati nell’oscurità, frugando col muso nel terreno alla ricerca di un filo d’erba.

Poi la strada finì bruscamente e svoltammo su una stradina di campagna, dove le nostre cavalcature sguazzavano in un piede di fango. A poca distanza si indovinavano le luci di un grosso villaggio, ma nell’ultimo tratto, fra noi e le prime case, i bivacchi si erano spinti proprio sulla strada, sicché ad ogni passo bisognava badare a non calpestare qualcuno. «Stai attento a dove vai!» strillò una voce di donna, mentre scavalcavo, controllando a fatica il cavallo innervosito, un groviglio di corpi avvolti in coperte stracciate; voltandomi vidi la testa spettinata della donna uscire dal riparo dove doveva aver trascorso la notte abbracciata a un uomo, e un pugno che si levava nell’aria a maledirmi. Finalmente entrammo nel villaggio, che presentava lo stesso spettacolo desolato di quello dove avevamo passato la notte: usci e steccati divelti, le stalle vuote, le botti sfondate; gli abitanti, cacciati dalle loro case, indugiavano in piccoli gruppi agli angoli delle strade, osservando in silenzio l’affaccendarsi dei soldati. Faceva sempre freddo e al tempo stesso il sudore mi colava lungo la fronte; credo di aver avuto un po’ di febbre. Il pensiero di un letto d’albergo a Magdeburgo mi pareva desiderabile come non mai: pregustavo perfino la coperta di piume e l’inevitabile butterbrod.

Attraversato il villaggio proseguimmo lungo una strada non migliore di quella che ci aveva condotto fin lì; dapprima non incontrammo nessuno, poi notai le tracce di un altro bivacco, ma i soldati che avevano passato la notte in quel luogo se n’erano già andati. Infine tutti si fermarono, e quando compresi che la sosta si sarebbe prolungata smontai da cavallo e feci qualche passo per sgranchirmi le gambe. In testa alla colonna, i servitori avevano acceso una lanterna e l’avevano appesa al ramo più basso di un noce; e nel cono di luce il re e il duca, stando in sella, parlavano con un terzo uomo, evidentemente un generale. Il contadino che ci faceva da guida era smontato dalla sua rozza e stava in piedi a qualche passo di distanza, in attesa di essere interrogato. Era, seppi poi, il mugnaio del villaggio dove avevamo dormito, un contadino ricco, che sapeva scrivere. Penso sia stato l’unico abitante del villaggio a essere risarcito seduta stante, e in monete d’oro, dei sacchi di farina, dei manzi e delle galline sacrificati quella notte. Quando i servitori accesero una seconda lanterna vidi in faccia anche il terzo interlocutore, e riconobbi il generale von Schmettau. Non sembrava più lo stesso uomo che avevo conosciuto a Berlino; era invecchiato di altri dieci anni e la maligna vitalità che lo animava nelle riunioni berlinesi si era spenta. Mi chiesi se questo declino fosse dovuto soltanto alla stracchezza della campagna, che cominciava a pesare su tutti, o non piuttosto alla morte del principe Louis, ciò che avrebbe costituito una triste e tardiva conferma delle voci che correvano sul loro conto.

Mentre mi ponevo questo interrogativo mi accorsi che il dito mi faceva di nuovo male. Mi guardai intorno alla ricerca di un posto dove sedere. Sul ciglio della strada c’era una gran pietra; Will vi stese il fazzoletto, sedetti e mi tolsi il guanto. Sotto l’unghia del dito indice si allargava una gran macchia bruna. L’umidità della notte mi penetrava nelle ossa attraverso i vestiti bagnati, e per la prima volta mi chiesi perché non me n’ero rimasto a casa. Ma prima che potessi indugiare oltre in queste meditazioni filosofiche tutti ripresero il cammino, il re e il duca in una direzione, il generale in quella opposta; salii a cavallo un po’ troppo in fretta, facendomi ancora più male, e mi avviai dietro al gruppo più numeroso. Cavalcammo per qualche minuto attraverso prati imbevuti d’acqua, poi su per un pendio abbastanza ripido, fino a un’altra strada, anch’essa larga e ben battuta, fiancheggiata da cespugli. Il duca tirò fuori dalla tasca del cappotto una carta, la dispiegò meticolosamente, e abbassò il viso fino a toccarla con la punta del naso; il suo profilo si disegnava vividamente alla luce della lanterna che un aiutante reggeva a pochi passi da lui. Senza alzare gli occhi chiese qualcosa alla guida, che cavalcava al suo fianco, e questi rispose in tono laconico, facendo segno in avanti col braccio. Il duca alzò finalmente la testa, si strinse nelle spalle, ripiegò la carta con cura, toccò il cavallo col frustino e ripartì.

Cominciava ad albeggiare, ma l’oscurità, diradandosi, lasciava il posto a una fitta nebbia, che si congelava sulla pelle. Era l’ora più fredda della giornata, e il dito mi faceva sempre più male. L’irritazione per quel dolore che non riuscivo a padroneggiare, e che anzi sembrava farsi più acuto col trascorrere del tempo, la preoccupazione non del tutto superflua di non stancare inutilmente i cavalli, fors’anche un fastidio irragionevole per quella corsa apparentemente senza scopo, mi convinsero a far quella che oggi posso riconoscere facilmente per una sciocchezza: decisi che al primo incrocio sarei smontato e mi sarei fatto versare da Will un goccio di brandy, per poi sedermi su una pietra a riposare. Non ci fu bisogno di attendere molto: dopo pochi passi osservai una radura al margine della strada, che pareva fatta apposta perché i viaggiatori potessero sostare a prendere fiato. Feci segno a Will di fermarsi, poi tirai le redini e smontai, lasciando che il re e i suoi generali sparissero nella nebbia.

Mi ero appena riscaldato con un buon sorso di liquore e Will, legati i cavalli all’albero più vicino, stava riponendo la fiaschetta nella borsa quando si fece sentire il rumore sordo prodotto da molti passi pesanti sulla terra umida della strada, e subito dopo, appena visibile tra le folate di nebbia, comparve la testa di una colonna di fanteria. La precedeva un ufficiale a cavallo, ben avvolto nel cappotto; subito dopo di lui arrancavano due o tre ragazzini in uniforme di musicanti, con i tamburi a tracolla, e un sottufficiale baffuto, con una bandiera ripiegata e avvolta nella sua fodera di tela incerata. E dietro venivano gli uomini, in fila per quattro, occupando l’intera larghezza della strada. Nella nebbia distinguevo appena il blu scuro delle loro uniformi e il grigio spento dei logori calzoni da fatica che tutta la fanteria prussiana aveva indossato entrando in campagna, al posto delle eleganti brache candide dell’uniforme da parata. Mi passavano davanti, una compagnia dopo l’altra, trascinando i piedi nel fango, i moschetti in spalla e senza scambiarsi una parola. Avevano tutti l’aria miserabile di chi non ha dormito né mangiato e non si è cambiato d’abito da molti giorni. Io me ne stavo seduto sulla mia pietra e li contemplavo; l’odore di sudore, di acquavite e di corpi non lavati giungeva fino al mio naso attraverso le folate di nebbia. Per almeno un quarto d’ora continuarono a marciare in silenzio, gli ufficiali chini sul collo dei loro cavalli, qualcuno visibilmente addormentato, i sottufficiali con le lunghe picche bilanciate sulle spalle, molti con la pipa spenta fra i denti. Le ruote dei cannoni cigolavano, i cavalli che li trainavano erano lucidi di sudore e fumanti per lo sforzo nel freddo dell’alba. Poi arrivò al trotto un aiutante di campo, si chinò a mormorare qualcosa a un sottufficiale e spronò via; il sottufficiale lanciò un ordine rauco e cominciò a cantare, con voce arrochita dal tabacco e dall’umidità:

Fridericus Rex, nostro re e signore,

chiamò alle armi tutti i suoi soldati,

duecento battaglioni e mille squadroni!

Dapprima gli fece eco qualche voce svogliata, poi se ne unirono altre, il canto crebbe come in chiesa, e finalmente tutti gli uomini cantavano, e anche il loro passo era ora più cadenzato. Le compagnie continuavano a passare, una dopo l’altra. Nell’intervallo, più prolungato, fra un battaglione e l’altro passò un gruppetto di cavalieri dalle uniformi brillanti, e alla loro testa riconobbi nuovamente il generale von Schmettau. Era terreo e stringeva le labbra in una sorta di rictus; assomigliava in modo sorprendente alla maschera mortuaria di Federico, di cui avevo veduto un calco a Berlino. Dopo un istante era scomparso nella nebbia e dietro di lui riprendeva a sfilare, cantando, la moltitudine interminabile dei suoi uomini. Ormai era giorno, ma non si vedeva a dieci passi di distanza. Una compagnia dopo l’altra sbucava dalla nebbia, calpestava la strada davanti a me e tornava a scomparire nel nulla, simile a una folla di anime purganti, se i moschetti che portavano in spalla non avessero reso incongruo il paragone. Li stavo fissando trasognato quando all’improvviso un altro aiutante di campo passò al galoppo lungo la fila, gridando qualcosa; al suo passaggio tutti smisero di cantare e di marciare e si affrettarono disordinatamente verso il ciglio della strada: molti anzi scesero dalla carreggiata, affondando nel fango fino alle caviglie. Un istante ancora e passò a un trotto sostenuto un gruppo di ussari; fra loro caracollava spavaldo il generale von Blücher, coi baffi neri al vento. Subito dopo, mentre i fanti si accalcavano imprecando sul margine della strada, cominciarono a passare uno dopo l’altro gli squadroni di cavalleria, incolonnati per due. Dopo le molte notti trascorse all’aperto, le uniformi dei cavalleggeri conservavano appena una traccia dei loro colori brillanti; a stento si distingueva il fondo bianco dei corazzieri da quello azzurro dei dragoni. Il loro trotto era molto meno vivace di quello dei generali che li avevano preceduti; i più anzi procedevano decisamente al passo. Fra la folla di fanti che si assiepavano sul margine della strada riconobbi il bravo Schlepp, e mi avvicinai. «Allora, magister», gli dissi sorridendo, «come avete passato la notte?» Mi sorrise a sua volta, mettendo in mostra i denti ingialliti dal tabacco. «Bene, grazie a Dio! Il signore deve sapere che io ho nella compagnia un buon amico, il furiere Lutze, e ho passato la notte nella sua tenda; al risveglio, poi, abbiamo perfino fatto colazione: si sa che i furieri hanno sempre la possibilità di mettere qualcosa sotto i denti, anche quando tutti gli altri crepano di fame.» «A proposito di crepare», lo interruppi, «che cosa dicono i soldati? Ci sarà davvero, la battaglia?» «Speriamo!» disse; «ne abbiamo già abbastanza di marciare avanti e indietro!» «E di morire non avete paura?» Mi guardò, strizzando l’occhio. «“Mori nolo,” dice un filosofo, “sed me mortuum esse, nihil curo!”»72 Mentre Schlepp pronunciava queste parole, gli ultimi cavalieri erano passati e la fanteria tornava a incolonnarsi sulla strada, punteggiata ora di fatte fumanti. L’odore dei cavalli, mescolato al sudore di quelle migliaia di corpi, prendeva alla gola. Salutai quell’originale proprio mentre lui e i suoi compagni riprendevano a marciare, mi allontanai di qualche passo e guardai l’ora: le sette.

Quando rimisi l’orologio nel taschino e alzai gli occhi mi resi conto che le ultime file della colonna erano ormai passate e il rumore dei loro passi si stava perdendo in lontananza. Restare solo nella nebbia senza sapere in che direzione andare e in mezzo a un esercito in marcia non era troppo prudente, tanto più che il nemico non doveva esser lontano: perciò decisi di risalire a cavallo e seguire la fanteria. Torpidamente, in un cantuccio oscuro della mia coscienza, si faceva sentire il pensiero che probabilmente non avrei mangiato nulla fino a sera, e benché fosse ancora così presto cominciavo ad avvertire un certo desiderio di mettere qualcosa sotto i denti: tant’è vero che quando si sa di non aver nulla da mangiare l’appetito, stimolato, si risveglia molto prima di quel che accadrebbe in condizioni normali. Scacciai questi pensieri molesti e chiamai Will, che si era sdraiato nell’erba poco lontano, perché mi tenesse la staffa; e così potei montare in sella. Ci avviammo al passo nella direzione in cui erano scomparsi i soldati, e dopo pochi minuti ci eravamo accodati alla colonna. Tenevamo le bestie al passo, ma era egualmente difficile riuscire a non sopravanzare la fanteria, che marciava, così almeno mi parve allora, assai svogliatamente, sicché ad ogni momento il muso dei cavalli urtava contro la schiena degli ultimi fanti, provocando le loro imprecazioni; certo, a ripensarvi ora, il peso del moschetto, dello zaino e del tascapane, benché quest’ultimo fosse vuoto, e il fondo fangoso della strada erano più che sufficienti a giustificare la lentezza della loro marcia. Avanzando a passo cadenzato continuavano a cantare raucamente, non più però la canzone bellicosa intonata in precedenza, ma quello che mi parve un inno religioso; e vidi che anche qualcuno degli ufficiali si univa al canto, ciò che non avevano fatto poco prima.

Quando la fanteria si fermò del tutto, e la strada davanti a me fu brulicante di uomini affollati gli uni contro gli altri e nell’impossibilità sia di avanzare che di retrocedere, mentre voci irritate si levavano a chiedere che cosa diavolo stava succedendo, decisi di provare a spronare il cavallo e risalire la colonna lungo il margine della strada. La bestia scivolava e ora mi rendo conto che devo aver rischiato più volte di romperle una gamba, ma sul momento questa considerazione non mi venne in mente. Will mi seguiva con gli altri cavalli e i soldati, pur maledicendo, ci lasciavano il passo, non senza alzarsi sulle punte dei piedi per cercar di capire che cosa succedeva davanti a loro. La nebbia aveva appena cominciato a diradarsi, e non si vedeva a venti passi di distanza. Cavalcammo così, malagevolmente, per qualche minuto, finché non ci imbattemmo nella causa di quell’intoppo: due cannoni erano affondati nel fango e i cavalli, nonostante i loro sforzi, non erano riusciti a tirarli fuori, sicché gli artiglieri stavano lavorando con pale e picconi attorno alle ruote, mentre la fanteria, dietro di loro, attendeva senza saper perché. In quel momento giunse al galoppo un aiutante, schizzando fango su tutti quelli che non erano stati abbastanza svelti a farsi da parte, e cominciò a chiedere a voce alta dell’ufficiale in comando. Un capitano corpulento, il cui cavallo si piegava quasi sotto il peso che era costretto a portare, si fece largo fra i soldati. «Perché lei si è fermato?» chiese l’aiutante, che a giudicare dall’età avrebbe potuto essere il figlio del capitano. «Non si vede?» replicò quest’ultimo mostrando i cannoni, col fango fino ai mozzi. «Ma faccia dunque passare avanti i suoi fanti, mentre si provvede a liberare i cannoni!» «E come devo fare?» ribatté il capitano. «Non lo sa?» urlò l’aiutante, fuori di sé. «No», replicò ancora il capitano, anch’egli paonazzo per la collera; «m’insegni!» L’aiutante imprecò, poi si volse verso i fanti e gridò un ordine, accompagnandolo con un vigoroso movimento del braccio; subito i soldati cominciarono a oltrepassare l’ostacolo uscendo alla spicciolata dalla strada, per poi ricomporre la formazione più avanti e riprendere la marcia. Io approfittai di quel momento di pausa per spingermi decisamente oltre, facendomi largo fra i soldati a colpi di frustino; e per un po’ potei cavalcare lungo la strada sgombra, finché non raggiunsi gli scaglioni anteriori della colonna, che avevano continuato a marciare senza attendere i ritardatari. Quando la nebbia si alzava per un istante intravedevo a poca distanza dalla strada macchie di faggi dal fogliame smorto, ma subito il vento tornava a sospingere in avanti nuove folate di bruma, nascondendo ogni cosa. Attraversammo più di un ruscello su piccoli ponti di legno, dove si poteva pensare che la difficoltà del passaggio avrebbe causato altri intoppi: ma gli uomini erano perfettamente allineati e inquadrati, i sottufficiali correvano avanti e indietro urlando, e neppure un soldato uscì dalle file. Proprio mentre la colonna attraversava uno di questi ponti, e la nebbia era tornata più fitta che mai, si udì in lontananza il tonfo sordo del cannone, esattamente nella direzione verso cui stavamo marciando. Tuonò due o tre volte, non di più, e fra un colpo e l’altro si fece sentire un crepitio più secco: la fucileria. Allora, dopo tutto, il nemico c’era davvero, e ci sarebbe stata battaglia! Ora non sentivo più né il vuoto allo stomaco, né il dolore al dito; spronai in avanti, ansioso di raggiungere la testa della colonna.

La raggiunsi in fretta, perché in un istante tutto era mutato nell’ordine della marcia. Le compagnie di testa avevano abbandonato la strada proprio dove questa attraversava un altro ponticello, in mezzo a un fitto bosco; e mentre le altre compagnie continuavano, incolonnate, a marciare lungo la strada in direzione del ponte, l’avanguardia aveva piegato a sinistra e si era fermata sul limitare del bosco. Il fuoco esploso davanti a noi, che pure era subito cessato lasciando il posto a un profondo silenzio, sembrava aver precipitato una trasformazione chimica in quel complesso organismo: nel giro di un istante la musica attaccò a suonare, i tamburi ritmarono quelli che sembravano segnali convenzionali ed erano in effetti gli ordini impartiti alle compagnie, gli uomini, inquadrati dai sottufficiali, cominciarono a marciare in direzioni diverse disegnando sotto i miei occhi un caleidoscopio di evoluzioni apparentemente prive di significato, ma che stando in sella potevo seguire perfettamente, poiché la nebbia si era ormai dissolta quasi del tutto sui margini del bosco; finché in un istante la musica tacque, gli uomini si fermarono e come per incanto risultarono perfettamente allineati su tre file, in formazione di combattimento, senza che più nulla ricordasse la colonna di marcia in cui erano stati intruppati fino a pochi secondi prima. Se quella era la famosa manovra di spiegamento della fanteria prussiana, non potevo che togliermi il cappello, e infatti me lo tolsi; ma nessuno parve farci caso, sicché mi affrettai a ricalcarmelo in testa.

Bene, lo spettacolo era stato meraviglioso, come sulla piazza d’armi. Disgraziatamente quell’ordine perfetto non durò a lungo, perché la truppa ricevette l’ordine di avanzare e le tre file di uomini, con passo cadenzato e moschetto in spalla, cominciarono ad addentrarsi fra gli alberi: dove ben presto il loro allineamento ebbe a soffrire, nonostante gli sforzi dei sottufficiali che manovrando le loro lunghe picche cercavano di mantenere le distanze tra le file. Alcuni ufficiali a cavallo non seguirono i loro uomini nel bosco, ma giacché poco più a sinistra la macchia si interrompeva cavalcarono in quella direzione e si spinsero avanti nella radura; pensai che anche gli uomini avrebbero potuto prendere la stessa strada, ma evidentemente qualcosa mi sfuggiva nelle loro disposizioni tattiche. Li seguii e non tardammo a scoprire l’ennesimo ruscello che ci sbarrava la strada e che passammo a guado, senza troppi disagi poiché eravamo tutti a cavallo; ma giunti dall’altra parte vedemmo le lunghe file dei fanti che uscivano, ormai pochissimo allineati, dal bosco, inzuppati fino alle ginocchia, poiché anch’essi avevano dovuto guadare il rigagnolo. Non appena furono usciti allo scoperto, tuttavia, i sottufficiali percorsero le file ricostituendo l’allineamento, non senza distribuire qualche bastonata ai ritardatari, e in pochi minuti il battaglione fu nuovamente spiegato in linea.

Davanti a noi si stendeva una pianura acquitrinosa, completamente deserta, su cui il vento spingeva ancora a tratti folate di nebbia; sulla nostra destra fitte macchie di alberi dai colori autunnali brillavano sotto i primi raggi del sole e nascondevano alla vista amici e nemici. A tratti, qualche fucilata sovrastava il rullo dei tamburi, e mi parve di notare che gli uomini avevano smesso di discorrere fra loro, e tendevano l’orecchio a quel rumore. Il comandante del battaglione, piegandosi sul collo del cavallo, disse qualcosa al sottufficiale che portava la bandiera, e questi, con l’aiuto di un soldato, sfilò il drappo dalla custodia e lo dispiegò all’aria aperta. Allora i pifferi fecero sentire la loro voce, e i fanti cominciarono a marciare spalla contro spalla, con la baionetta in canna; i sottufficiali misuravano con le picche lo spazio fra una fila e l’altra, mentre gli ufficiali smontavano di sella e affidavano i cavalli ai domestici. Costoro, anziché seguire i loro padroni, si fermarono al riparo degli ultimi alberi; da tutti questi segnali conclusi che il combattimento stava per avere inizio. Pieno di curiosità, spronai il cavallo e raggiunsi i fanti, che nel frattempo si erano imbattuti in un nuovo ruscello e lo stavano guadando, fra molte imprecazioni; giacché la Germania, soprattutto d’autunno, è un paese assai umido.

Non eravamo andati lontano, allorché comparve in distanza un tale, che si avvicinò a noi di corsa fino a un tiro di fucile; poi si voltò e corse via. A lui ne seguì un secondo, poi un terzo, che sparirono allo stesso modo. Ma il quarto, che probabilmente era di nuovo il primo, scaricò la carabina su di noi, e sentii distintamente il fischio della palla; allora capii che quelli erano i francesi. Gli uomini continuavano a marciare, anche se fra le file correva un brusio che i sottufficiali non tentavano neppure di far cessare. Altre due o tre palle sibilarono, alte sopra le nostre teste, e a questo punto il comandante del battaglione ne ebbe abbastanza. I tamburi rullarono in modo diverso, e mentre la maggior parte dei soldati si fermavano bruscamente, accalcandosi gli uni contro gli altri, alcuni di loro uscirono dalle file e corsero avanti, seguiti da un ufficiale che reggeva a fatica la lunga sciabola infilata nel fodero; quando ebbero sopravanzato gli altri di forse cento passi si gettarono a terra, poi si rialzarono e corsero ancora. Echeggiò di nuovo qualche fucilata, ma questa volta le palle non passarono sopra di noi: erano dirette a loro. Erano i tiratori, mandati avanti per scacciare gli avamposti francesi e coprire la marcia del battaglione. Vidi uno di loro inginocchiarsi dietro un muretto a secco, prendere la mira e sparare, poi saltare in piedi e correre avanti fino a un altro riparo; infine scomparve alla vista, e con lui gli altri.

Restammo in attesa per qualche minuto; di tanto in tanto il crepitio delle fucilate rompeva il silenzio. Poiché non avevo la minima idea di che cosa sarebbe successo, tornai indietro e andai a interrogare i servitori, che stavano abbeverando i cavalli dei loro padroni nel ruscello; mi dissero che sarebbero immediatamente ripartiti per raggiungere il convoglio dei bagagli, che secondo i loro calcoli doveva trovarsi ancora nell’ultimo villaggio che avevamo attraversato. Mentre parlavo con loro, Will emise una specie di mugolìo soffocato; sorpreso, mi voltai verso di lui e vidi che era livido come un morto, cosa insolita per un negro. «Will! Non sarai malato!» esclamai. «No, padrone, però tanto bene non sto» rispose. A ben pensarci, negli ultimi giorni aveva mangiato meno di me, e preso in cambio molta più acqua. «Vuoi andare con loro a cercare la vettura?» «Magari, padrone!» mormorò. Mi seccava restar senza il mio domestico, ma non volevo nemmeno vedermelo cadere da cavallo, come sarebbe infallibilmente successo, a giudicare dalla sua faccia, se avesse continuato ad accompagnarmi. Perciò gli raccomandai di ritrovare la nostra vettura, e di non perderla di vista finché non fossi venuto a cercarlo; poi diedi del denaro a uno dei domestici affinché lo accompagnasse a destinazione, e tornai verso la battaglia.

La nebbia si era ormai completamente alzata, e davanti a noi splendeva il sole. Fin dove potevo spingere lo sguardo, prima che qualche isolato gruppo di alberi bloccasse la linea di vista, non si vedevano se non fanti prussiani intenti ad allinearsi. Mentre cavalcavo in quella direzione udii nuovamente qualche colpo di cannone; e più avanti, in un avvallamento nascosto alla vista, dove un campanile solitario segnalava la presenza di un abitato, comparve del fumo bianco, che cominciò a salire ondeggiando verso il cielo. Fra una cannonata e l’altra si percepiva chiaramente il rintocco delle campane a martello, suonate dal parroco per avvertire i contadini del pericolo che li sovrastava. Mi ero quasi aspettato che il rimbombo dell’artiglieria si spegnesse com’era avvenuto poco prima, ma invece mi accorsi che i colpi si succedevano sempre più ravvicinati, finché non divenne impossibile distinguerli l’uno dall’altro; diverse batterie, evidentemente, erano in azione. Il vento portava a tratti brandelli di fumo, e anch’io, che pure non lo conoscevo, riconobbi l’odore acre della polvere.

Via via che mi avvicinavo alla fanteria, il rombo dell’artiglieria si tramutò in una specie di basso continuo, sul cui sfondo si distinguevano perfettamente il crepitio secco della fucileria e il sibilo delle pallottole. A forse duecento passi dalla linea, all’ombra di un albero isolato, il generale von Schmettau sedeva su uno sgabello portato lì chissà come, circondato dai suoi aiutanti. Mi diressi verso di lui e prima che lo raggiungessi una palla fece schizzare la terra non lontano dalle zampe del mio cavallo. Non so come non pensai, in quel momento, che quella palla avrebbe potuto esser destinata a me; parrebbe questo il primo pensiero in circostanze del genere, eppure posso assicurare che non vi pensai affatto. Giunto dal generale, smontai e lo salutai; non parve riconoscermi, ma gli gridai il mio nome, soverchiando a stento il fragore del cannoneggiamento, e mi fece un cenno del capo. Taceva e guardava preoccupato verso i suoi uomini impegnati in combattimento, senza far nulla. Sempre gridando chiesi a uno dei suoi aiutanti, che conoscevo di vista, come andava la battaglia. Mi rispose che si aspettava soltanto che i tiratori sloggiassero il nemico dai suoi ripari per dare l’ordine dell’attacco. «Nel frattempo», aggiunse, «mettiamo in batteria l’artiglieria.» Egli mi indicò, a poca distanza, gli artiglieri che stavano staccando i pezzi dai cavalli e li volgevano nella direzione dove doveva trovarsi il nemico. Gli uomini avevano gesti calmi e metodici: non sembravano soldati su un campo di battaglia, ma piuttosto lavoranti in un’officina. Chiesi il permesso di avvicinarmi alla batteria e, ottenutolo, cavalcai verso di essa. Stavo per raggiungerla, quando a breve distanza dai cannoni cominciarono a scoppiare le granate: evidentemente il nemico l’aveva individuata e la prendeva di mira. Rinunciando al mio proposito, cambiai strada e raggiunsi un altro gruppetto di ufficiali, ancora più vicini alla linea del fuoco. Qui le palle fischiavano più fitte ed essi si tenevano prudentemente al riparo dietro il muro di sostegno di una strada di campagna infossata nel terreno. Il più anziano di quegli ufficiali, che doveva essere un colonnello o un brigadiere, a differenza di Schmettau non stava seduto ma in piedi, e nervosamente fiutava tabacco da una tabacchiera che teneva nel taschino, ma anch’egli non sembrava incline a prendere provvedimenti di sorta. Chiesi a un ufficiale dove fosse il nemico ed egli rise; poi mi disse che arrampicandomi, ma con prudenza, sul muretto avrei potuto vederlo. Scesi di sella, affidai il cavallo a un soldato e risalii aggrappato alle pietre del muro, facendomi di nuovo male al dito, ma in un tale stato di eccitazione da rendermene a mala pena conto.

Accecato dai raggi del sole, che indugiava basso sull’orizzonte proprio davanti a me, credetti in un primo momento che non sarei riuscito a distinguere nulla; poi, riparandomi con la tesa del cappello, cominciai a veder meglio. A pochi passi dal muro era spiegata in un campo di stoppie la fanteria prussiana; la prima fila era in ginocchio, le altre due in piedi, e ogni fila sparava a turno, in una nuvola di fumo bianco, affrettandosi poi a ricaricare i moschetti con gran movimento di bacchette. Più avanti si indovinavano i tiratori acquattati fra gli alberi e nelle pieghe del terreno, e ogni tanto uno sbuffo di fumo isolato segnalava la presenza di uno di loro. Ancora più avanti, a non più di cinquecento passi dal mio posto di osservazione, si vedevano muoversi in mezzo al fumo delle figure nere, e capii che doveva trattarsi della fanteria francese; quando il fumo si diradava, vedevo luccicare al sole le loro baionette. Più indietro, al riparo di una fila di covoni di paglia, si scorgevano cinque o sei cannoni, intorno a cui si affaccendavano gli artiglieri. Mi sentii tirare una manica e vidi che l’ufficiale con cui avevo parlato mi offriva un cannocchiale; sul momento rimasi sorpreso di quella cortesia, ma ripensandoci in seguito sono giunto alla conclusione che a determinarla era stata la vanità di mostrare a un forestiero lo strumento, un Ramsden di venti pollici. Col cannocchiale esaminai a mio agio il campo di battaglia, e i francesi, ora, parevano così vicini che scorgevo il sudore sui loro volti anneriti dalla polvere; ma le palle continuavano a fischiarmi intorno, così decisi che avevo visto abbastanza e ridiscesi.

«Crede che potrei andare avanti?» chiesi all’ufficiale. «Faccia un po’ come vuole!» mi rispose. Così legai la bestia a un arbusto, al riparo del muretto, e proseguii a piedi, chinando involontariamente la testa; ero impaziente di vedere la battaglia ancor più da vicino. E mentre sguazzavo così nel fango e nell’erba fradicia, senza pensare né al freddo né al dito che un momento prima mi dava così fastidio, per poco non calpestai il mio primo morto. Era un soldato prussiano, sdraiato a faccia in giù in un rigagnolo, con la divisa lacera e macchiata di sangue, e braccia e gambe disarticolate. Il sangue era così rosso che restai sorpreso: non credevo che potesse conservare un colore così brillante, dopo la morte. Osservai per un istante il cadavere, poi andai avanti e raggiunsi la linea. Qui di morti ce n’erano parecchi, distesi dietro le tre file che sparavano; quando un soldato era colpito i compagni lo portavano fuori dalla fila e lo adagiavano lì, e se era soltanto ferito lo accompagnavano più indietro, dove, si diceva, dovevano essere rimaste in attesa le ambulanze della divisione. Le pallottole volavano fittissime, ed era perfino curioso che i caduti fossero così pochi, rispetto al fuoco che mi sembrava ci stesse piovendo addosso come grandine. Gli ufficiali e i sottufficiali erano più indaffarati che mai; i primi comandavano il fuoco a turno alle tre file, badando a che gli intervalli fra una salva e l’altra fossero il più possibile regolari; quegli altri si agitavano per costringere gli uomini a conservare l’allineamento, anche in quelle circostanze eccezionali, e brandendo minacciosamente le lunghe picche incoraggiavano i più riluttanti a mantenere il loro posto. Quando una palla di cannone fischiò più bassa delle altre sopra le nostre teste, uno degli uomini abbassò il capo fra le spalle. Immediatamente un sergente gli assestò una bastonata e strillò: «Non si abbassa la testa!». «Sissignore!» gridò il soldato, e quando fu il suo turno ricominciò a sparare. Il bello è che non si sapeva contro chi stavano sparando, perché il fumo impediva di vedere a più di dieci passi di distanza. Tuttavia quelle salve regolari che andavano a perdersi alla cieca fra le stoppie dovevano dare un certo fastidio ai tiratori nemici e favorire l’attacco, perché a un certo punto si videro parecchi tiratori prussiani alzarsi contemporaneamente e correre in avanti, e tre o quattro francesi saltare in piedi e scappare. Erano molto più vicini di quel che avevo creduto. Immediatamente gli ufficiali gridarono un nuovo ordine, gli uomini smisero di sparare, inastarono la baionetta e si diedero a marciare di buon passo.

Le note allegre dei pifferi sovrastavano il frastuono del cannone e il crepitio ininterrotto della fucileria; ma soprattutto il rimbombo dei tamburi era spaventevole. Ci sono molti più tamburi, in proporzione, tra la fanteria prussiana che negli altri eserciti, allo scopo di incoraggiare gli uomini, e forse di stordirli grazie all’influenza magnetica della musica. I soldati, per soprammercato, hanno l’ordine di gridare mentre avanzano, poiché Federico il Grande era persuaso che in tal modo avrebbero dimenticato più facilmente il pericolo della loro situazione; e infatti nel momento in cui si misero in marcia i fanti lanciarono all’unisono un grido profondo e vibrante, che non saprei trascrivere, ma che mi fece accapponare la pelle. Poi avanzarono, calpestando parecchi uomini, morti e feriti; ed io li seguii, non senza notare che fra quei disgraziati c’erano ora anche diversi francesi. Dopo pochi passi uscimmo dal fumo nella luce accecante del sole, e gli uomini che si trovavano davanti a me si fermarono con grida di trionfo. Due tiratori francesi non erano stati abbastanza rapidi a scappare e ora lottavano con i prussiani, ma lo scontro era impari ed entrambi vennero atterrati; accorse un ufficiale inciampando nelle falde del cappotto e ordinò loro di arrendersi. Uno dei due mostrò come poteva la sua intenzione di obbedire, aprendo le mani, al che l’uomo che lo teneva con la schiena a terra gli permise di rialzarsi; l’altro riuscì a divincolarsi e cercò di fuggire, ma un soldato spianò il moschetto dietro di lui e lo abbatté dopo pochi passi. Poi tutti corsero via, e io andai avanti a mia volta, affondando fino alle caviglie nel terreno fangoso, calpestato prima di me da tanti piedi.

Non dovetti proseguire a lungo, del resto, perché la situazione si trasformò con rapidità inaspettata. Forse il nemico aveva portato in linea una nuova batteria, o forse quella che già si trovava in posizione aveva scorto l’avanzata e aveva diretto su di noi il suo fuoco; fatto sta che improvvisamente le palle di cannone cominciarono a fischiare in mezzo a noi, ma questa volta ad altezza d’uomo. In quell’istante memorabile vidi distintamente, e credo che me ne ricorderò per sempre, due uomini davanti a me guardarsi in faccia l’un l’altro, e poi simultaneamente gettare i moschetti, voltare le spalle e darsela a gambe; e nello stesso istante l’intero battaglione si sfasciò e ogni uomo corse disperatamente per la propria pelle, fra le grida di rabbia degli ufficiali. Corsi con loro e un istante dopo eravamo tutti al riparo di quella tale strada infossata, dove ritrovai il mio cavallo che nitriva in preda al panico; del brigadiere, per contro, non c’era più traccia. Giunti al riparo, gli ufficiali schiumanti di rabbia riordinarono frettolosamente i loro uomini ansanti, con grossolani insulti e senza lesinare le bastonate, e ottennero che si schierassero lungo il muretto pronti a far fuoco; ma le loro file si erano alquanto diradate. Dai campi che avevamo attraversato in fuga si sentivano, fra una cannonata e l’altra, le grida dei feriti rimasti abbandonati nella terra di nessuno. Durai un po’ di fatica per tranquillizzare il cavallo, maledicendo il momento in cui avevo rimandato indietro il mio servitore, poi decisi di andarmene di lì. Dopo essere rimontato in sella mi voltai indietro e vidi il terreno disseminato di corpi umani, non avrei saputo dire se vivi o morti; senza dubbio ce n’erano degli uni e degli altri. Trascorse appena un istante, e fra loro, cautamente, vidi ricomparire i primi tiratori francesi. Costoro avanzavano curvi e a capo chino, e quando incontravano un morto o un ferito si acquattavano accanto al corpo e sostavano a lungo prima di riprendere a strisciare in avanti; impiegai qualche minuto prima di comprendere che si fermavano per frugare quei poveretti e derubarli. Poi, subito dietro di noi, la batteria che aveva preso posizione poco prima aprì il fuoco, e anche questi nemici saltarono al coperto.

A quanto pareva, la battaglia era tornata al punto di partenza, ed io cominciavo quasi ad averne abbastanza. A forza di cavalcare mi era sopravvenuto un bisogno irresistibile di pisciare, e anche se avevo visto che gli uomini non esitavano a farlo senza neppure uscire dalle file, sbottonandosi appena i pantaloni e schizzando le scarpe dei propri commilitoni, avrei preferito poter risolvere quella necessità in circostanze più private. Così mi allontanai, e non appena potei constatare che il sibilo delle palle intorno a me si era diradato mi fermai e provvidi alla bisogna. Ero al riparo di una macchia di salici, intorno non si vedeva anima viva, e anche il fragore del cannoneggiamento arrivava fin lì attutito, senza riuscire a sovrastare il mormorio del corso d’acqua che scorreva a pochi passi. Forse a causa di questa quiete inattesa, ma fors’anche per essermi liberato di un peso superfluo, mi sentii immediatamente più sanguigno, e decisi di tornare indietro per vedere che cosa sarebbe successo. Mi parve però che sarebbe stato più prudente andare a piedi, lasciando il cavallo al riparo, dal momento che le palle avevano una sorprendente tendenza a passare alte sulla testa dei fantaccini; perciò prima di muovermi legai nuovamente il cavallo al tronco di un salice, e mi misi in marcia per ritornare al luogo da cui ero partito.

Trovai i moschettieri ancor sempre spiegati al riparo del muretto, che avevano ripreso il loro fuoco, producendo fitte nuvole di fumo; un po’ più indietro alcuni ufficiali conferivano con aria accigliata. Mi accostai per ascoltare i loro discorsi, nella speranza di capire finalmente qualcosa di questa strana battaglia. «Non mi rifiuto affatto di avanzare», stava esclamando un ufficiale anziano, con i pantaloni immacolati che aderivano un po’ troppo a un ventre prominente, «ma vorrei sapere qualcosa del terreno che abbiamo davanti! Ho mandato fuori i tiratori, fra poco qualcuno tornerà a riferire.» A queste parole un altro ufficiale, ancora più anziano, che doveva essere il colonnello comandante del reggimento, lo interruppe scortesemente. «Signor maggiore, lei ha mandato fuori i tiratori quando il battaglione era cinquecento passi più avanti, ora davanti a noi c’è il nemico, dei suoi tiratori non ne tornerà nemmeno uno.» «E che cosa posso fare?» domandò l’altro sconsolato, allargando le braccia. Il colonnello ebbe un gesto d’impazienza, ma era chiaro che neppur lui sapeva rispondere a quella domanda; sopra le loro teste fischiavano le palle, i tiratori francesi erano padroni del terreno e li tenevano sotto un fuoco che solo il riparo costituito dal terrapieno della strada consentiva per il momento di sopportare. «Potremmo mandar fuori altri tiratori per contrastare il nemico, ma non ne è rimasto nessuno» osservò qualcuno. Allora il colonnello si portò in mezzo ai soldati e levò il braccio. «Ragazzi!» esclamò. «I francesi ci tengono sotto tiro: voglio dei volontari per uscir fuori e cacciarli via!» Quasi tutti gli uomini, forse vergognosi del loro comportamento di poco prima, si fecero avanti vociando, dichiarandosi pronti a far piazza pulita dei francesi, tanto che il colonnello parve sorpreso di tanto zelo; poi ne designò alcuni, che incassarono il capo fra le spalle, saltarono il muretto e scomparvero.

Erano appena usciti, quando sentimmo altre pallottole fischiare da sinistra, e un uomo si piegò su se stesso e cadde lamentandosi. Quasi tutti ci voltammo. La stradina cui eravamo appoggiati, quasi un viottolo, si perdeva fra gli alberi cinquanta passi più in là, e da quegli alberi erano venute le fucilate: qualche tiratore nemico doveva averci aggirati. Altri uomini vennero mandati di corsa in quella direzione, ma subito dovettero gettarsi a terra, perché il fuoco era ripreso più fitto. Fra gli uomini cominciava a manifestarsi un certo nervosismo e, mentre la prima fila sparava, i moschettieri delle altre due file, impegnati a ricaricare, si scambiavano commenti in dialetto che capivo solo a metà, ma che a giudicare dal tono non sembravano troppo incoraggianti. E poi, all’improvviso, si ripeté la stessa scena di prima. Proprio davanti a noi risuonò uno squillo di tromba e dal frastuono dell’artiglieria e della fucileria emerse distintamente il tonfo sordo di molte centinaia di zoccoli che percuotevano il terreno. Qualcuno gridò: «La cavalleria!», e in un batter d’occhio tutti se la svignarono, me compreso, senza ascoltare né i richiami degli ufficiali, né la voce della ragione, che avrebbe dovuto spiegarci come la strada incassata offrisse contro la cavalleria una protezione molto migliore del terreno scoperto su cui ci eravamo buttati a correre. Come prima, non pensavo se non a raggiungere il mio cavallo, che mi avrebbe messo in salvo da ogni pericolo, e ci riuscii, anche se ad ogni momento avevo creduto di sentire dietro di me il rimbombo della cavalleria francese lanciata ventre a terra. Viceversa, quando ebbi raggiunto senza fiato la bestia e fui montato in sella, con la gola che bruciava e il respiro mozzo, e il sudore che mi colava lungo la fronte, vidi che la cavalleria aveva piegato a sinistra e invece di caricare i fanti in fuga aveva raggiunto la batteria messa in posizione alle nostre spalle; gli artiglieri dovevano essere scappati insieme agli altri, poiché vidi i cavalleggeri nemici aggirarsi tranquillamente in mezzo ai cannoni, senza che neppure uno dei loro fosse caduto. I fanti stavano scappando verso la stessa macchia da cui eravamo sbucati un’ora prima, sicché mi affrettai a seguire il loro esempio. Ripassammo di gran carriera il ruscello e solo dietro il precario riparo offerto da quest’ultimo gli ufficiali riuscirono infine ad arginare la rotta e a rischierare gli uomini fradici d’acqua e di sudore. Non c’era bisogno di contarli per rendersi conto che il battaglione era stato duramente maltrattato, anche se ad ogni momento i ritardatari sbucavano dalla macchia e andavano a prendere il loro posto fra le file, cercando di non farsi notare dai sottufficiali.

Mentre mi guardavo intorno per scoprire se qualche altro pericolo ci minacciava avvertii una sorta di capogiro, e dovetti aggrapparmi alla criniera del cavallo per non cadere. Ora che non avevo nulla di più immediato a cui pensare, il mio stomaco vuoto si faceva sentire. Non avevo fame, ma avvertivo una debolezza e un senso di vuoto che, come sapevo benissimo, non potevano essere se non la conseguenza del digiuno. Era il caso di tornare presso i bagagli, trovare a forza di monete d’oro qualcosa da mangiare, magari distendermi su una carretta e far riposare per un po’ anche il cavallo. E proprio mentre formulavo mentalmente questo proposito, una carretta comparve effettivamente a una certa distanza; procedeva a passo d’uomo, seguita da alcuni uomini a cavallo. Mi avvicinai, coll’intenzione di chiedere a costoro se sapevano dove mai si trovassero i bagagli del re, e fors’anche di approfittare del loro mezzo di trasporto; senza volerlo, anzi, credo di aver messo la mano in tasca, per contare le monete che vi si trovavano. Avvicinandomi, tuttavia, mi accorsi che non ne avrei avuto bisogno; e che su quel veicolo non c’era da far conto. Era una cigolante carretta a due ruote, tirata da un ronzino che un soldato a piedi conduceva per la cavezza; e coricato su di essa c’era il generale von Schmettau, coperto dal suo cappotto, senza stivali e senza cappello, col capo fasciato da una lurida benda da cui uscivano ciocche di capelli bianchi sporchi di sangue raggrumato. Seduto a cavalcioni sulle sue gambe, in equilibrio instabile a causa dei continui sobbalzi della carretta, un uomo in abiti civili gli massaggiava le caviglie, coll’intenzione, suppongo, di stimolare la circolazione sanguigna. Il generale aveva gli occhi chiusi e la bocca aperta, il colorito cereo, e guardandolo non avrei saputo dire se fosse vivo o morto. Due ufficiali a cavallo seguivano la carretta, entrambi con le uniformi lacere e macchiate di sangue; uno aveva un braccio legato al collo con un fazzoletto e anche il suo cavallo zoppicava, lasciando sulla pista una traccia di sangue. Costui mi vide arrivare e non appena fui abbastanza vicino da sentirlo nonostante il cannoneggiamento mi interpellò. «Ehi, voi! Sapete per caso se i carriaggi dell’armata sono vicini?» Evidentemente doveva avermi scambiato per un negoziante, o per un venditore d’acquavite; molta di questa gente, infatti, seguiva l’esercito, cercando l’occasione buona per fare i propri affari. «Non ne so nulla», risposi, «anzi li sto cercando anch’io; per la precisione cerco gli equipaggi del re, là c’è anche la mia carrozza.» L’uomo sul carro, che doveva essere un chirurgo, aveva interrotto la sua bisogna per togliersi il panciotto, e rimasto in maniche di camicia mi contemplò per un attimo, domandandosi evidentemente se non avesse incontrato un collega; poi dovette decidere di no, perché riprese a massaggiare vigorosamente il paziente, senza più badare a me.

Giacché eravamo diretti nello stesso luogo, mi accodai al loro convoglio; ma non avevamo fatto che pochi passi quando scorsi in mezzo agli alberi una lunga teoria di vetture immobili sulla strada. Benché fosse circolato l’ordine di non autorizzare l’uso di vetture private, ad eccezione di un carrozzino per i comandanti di reggimento, l’esercito era egualmente accompagnato da una quantità straordinaria di mezzi di trasporto, carri, carretti e carrozze, tirati dalle brenne più sfiatate e scortati dai soldati più anziani, oltre che da una gran quantità di civili assunti come facchini. Dopo essermi consultato con i miei compagni di strada decisi di raggiungere quegli uomini per informarmi se si trovassero lì le ambulanze e le vetture del re; mi tolsi il cappello rivolto al generale, che finora non aveva aperto gli occhi e non dava segno di vita, poi spronai il cavallo. Per l’ennesima volta in quella giornata dovetti spingerlo nell’acqua, per guadare una specie di fossato che mi separava dal convoglio; poi, risalito sull’altra sponda, mi diressi verso i soldati al passo, per non fiaccare inutilmente l’animale. Quando li ebbi raggiunti, seppi che non c’erano lì né ambulanze né vetture, ma soltanto i carri di munizioni dell’artiglieria, che avevano avuto ordine di fermarsi un’ora prima e che nessuno era più venuto a cercare; ma un sottufficiale cui offrii la bottiglia per bere alla salute del re mi assicurò che Sua Maestà in persona si trovava poco lontano, alla testa della colonna, e che i suoi bagagli erano con lui. Tornai dagli ufficiali, che si consultarono un istante col chirurgo e poi decisero di proseguire per la propria strada alla ricerca delle ambulanze; perciò li salutai, e ripartii nella direzione in cui dovevano trovarsi il re e i miei domestici.

Avanzando tranquillamente in mezzo ai campi arati raggiunsi una macchia di faggi, al di sopra dei quali salivano lente volute di fumo bianco. A quanto pareva stavo tornando ad avvicinarmi alla battaglia, ed esitai un istante, chiedendomi se non avrei fatto meglio a prendere un’altra direzione; ma mi accorsi subito di non avere alternative, e così mi inoltrai fra le piante, calpestando le foglie morte che coprivano il terreno. Il cavallo cominciava a dar segni d’affaticamento, tanto più che la boscaglia, sul principio pianeggiante, assumeva ora una certa pendenza; e più di una volta dovetti incoraggiare con la voce e con il frustino la bestia, che tendeva a piegare lungo la costa anziché salire. Finalmente uscii dalla macchia e mi ritrovai sulla sommità della collina; sotto di me, in fondo a un pendio piuttosto scosceso, vidi apparire in mezzo al fumo un grosso villaggio, probabilmente lo stesso di cui avevo scorto in precedenza il campanile. C’erano case in legno, alcune delle quali bruciavano producendo uno spesso fumo nero, ben diverso da quello della fucileria; ma anche qualche edificio in muratura, dai tetti di tegole, e al margine una specie di castello o residenza signorile, con un parco murato. Lungo le mura del parco e alle finestre del pianterreno si vedevano scintillare le carabine dei tiratori, segno che il generale francese aveva pensato bene di munire quel luogo su cui doveva inevitabilmente dirigersi, prima o poi, l’attacco prussiano. Ma fra l’altura su cui mi trovavo e il villaggio la pianura era completamente deserta, senza traccia di soldati francesi; solo, presso le prime case, i serventi si affannavano a staccare dai cavalli e mettere in posizione due pezzi di artiglieria. Per quanto scarse fossero le mie cognizioni militari, mi sembrava che il fianco del nemico fosse completamente esposto, sicché mi sentii di nuovo invadere da una bellicosa eccitazione quando constatai che lungo il crinale su cui mi ero affacciato si affollavano i fanti prussiani, coi moschetti al piede e la baionetta in canna. Sopra di noi brillava ancora il sole, ma a tratti un soffio di vento invernale faceva rabbrividire gli uomini nelle loro divise leggere, e anche gli ufficiali dai pastrani ben abbottonati; all’orizzonte avevano cominciato ad ammassarsi nuvole nere, cariche di pioggia. In quella tarda mattinata, tutto lasciava pensare che prima di sera ci saremmo nuovamente bagnati, senza aver avuto il tempo di far asciugare l’acqua della notte.

Su quel fronte, a quanto pareva, fino a quel momento nessuno aveva sparato un colpo. Un ufficiale prussiano spronò il cavallo giù dal pendio, fino al rigagnolo che scorreva sul fondo, apparentemente per dare un’occhiata al nemico col cannocchiale; ma il cavallo, sudato per la marcia, entrò nell’acqua per bere. L’ufficiale, alzandosi sulle staffe, puntò il cannocchiale in direzione del villaggio, e proprio in quel momento uno dei cannoni francesi scomparve in una nuvola di fumo; un istante dopo risuonò il tonfo sordo della detonazione, e la palla finì nell’acqua a pochi passi dall’osservatore, sollevando un enorme spruzzo. Come molti sconsiderati, l’ufficiale trovò più facile mettersi nei guai che non uscirne, poiché il cavallo, per nulla spaventato, continuava tranquillamente a bere e non mostrava alcuna inclinazione a tornare indietro. Il suo padrone decise di far buon viso a cattivo gioco, smise di incitarlo e lo lasciò finir di bere, tenendosi dritto in sella più che poteva, mentre fra sé e sé, credo, malediceva la dannata bestia e la sua sete. Altre tre o quattro palle finirono nel rigagnolo, sollevando tanta acqua da bagnare da capo a piedi cavallo e cavaliere, o sprofondarono nel terreno a poca distanza, senza che alcuno dei due facesse mostra di accorgersene; ma credo che uno dei due simulasse. Finalmente, quando il cavallo ebbe bevuto quanto un cammello all’ingresso del deserto, alzò il capo, si guardò placidamente intorno e si voltò per tornare indietro. L’ufficiale cavalcò con tutta la compostezza che poté imporsi, e fu accolto dai suoi uomini con grida di entusiasmo, cui i francesi risposero con qualche altra palla di cannone, che tuttavia passò alta senza far danno; una arrivò sibilando a inabissarsi nel terreno molle a forse cinquanta passi da me, e poiché non avevo bisogno di far bella figura davanti a quel pubblico giudicai prudente far qualche passo indietro.

In mezzo a un campo di stoppie trovai un generale a cavallo che discuteva con un ufficiale dei corazzieri; quest’ultimo, a quel che pareva, cercava con calore di dimostrare qualcosa, ma l’altro rifiutava di ascoltarlo. Infine il generale fece un gesto vago, il corazziere portò rispettosamente la mano al cappello, e cavalcò via. Spronando il cavallo mi affiancai a lui per interrogarlo e riconobbi il sottotenente Hérault de Hautcharmoy, dei Gensdarmes, che avevo conosciuto a Berlino in casa del principe Louis Ferdinand. Costui era il figlio di non so quale comte o marquis, emigrato nel ’92, ed entrato come molti altri nobili francesi al servizio prussiano; ora il padre comandava un reggimento in Polonia, e il figlio, che non conservava alcun ricordo del paese natale, poneva tutto il suo orgoglio nell’essere anch’egli ufficiale prussiano. «La va male!» mi disse, dopo avermi riconosciuto. «Se questo imbecille non si decide ad attaccare, l’occasione è perduta.» Alzando la voce per sormontare il fragore crescente del cannoneggiamento, gli chiesi di quale imbecille stava parlando. Risultò che il generale con cui aveva discusso fino a un momento prima era von Wartensleben, comandante della seconda divisione; e che qualche ora prima lui, Hautcharmoy, era stato mandato dal re alla sua ricerca con l’ordine di avanzare quanto prima sul villaggio. «Perché dal re?» lo interruppi. «Che cosa fa dunque il duca di Brunswick?» Il sottotenente mi guardò sorpreso, come se lui stesso non si fosse posto il problema fino a quel momento. «Questa è una domanda! Nessuno con cui ho parlato l’ha visto. Ma mi sembra che un ordine dato dal re sia abbastanza autorevole per dover essere eseguito!» A questa osservazione inoppugnabile tacqui, e il sottotenente, dopo una pausa, riprese il racconto della sua missione. Dopo aver cavalcato vanamente per un tempo che gli era parso interminabile aveva infine trovato la colonna ferma nel più grande disordine sulla strada maestra, mentre il loro comandante, insediato in casa di un pastore, non aveva ancora finito di fare colazione. Egli lo aveva costretto ad alzarsi da tavola e con i più grandi sforzi lo aveva trascinato fin lì, incoraggiando gli uomini a spostare a braccia e se necessario a ribaltare nei campi i carri e carretti che ingombravano la strada; ma ora che la fanteria era schierata e pronta ad attaccare il generale si rifiutava di dare l’ordine, se prima non fosse stato raggiunto dalla sua cavalleria, per spazzare il terreno dai tiratori francesi acquattati nei solchi dei campi.

«E la cavalleria arriva?»

Il sottotenente allargò le braccia.

«E chi lo sa? Pare che la cavalleria se ne sia andata al diavolo, li ha inghiottiti tutti la madre terra.»

Per tranquillizzarlo gli offrii da bere, ed egli attinse senza risparmio alla fiaschetta dell’acquavite, restituendomela quasi vuota.

«Ora devo andare a cercare la cavalleria. Addio!»

Lo seguii con lo sguardo finché non scomparve, poi tornai a osservare la fanteria, che si accalcava sul margine del pendio. Gli uomini, visibilmente affaticati dalla marcia, stavano in piedi nel fango, coi calzoni inzaccherati, lo zaino in spalla e il moschetto a tracolla. Le bandiere pendevano flosce davanti alle file, fino a quando un alito di vento, portando con sé il rumore della fucileria e l’odore della polvere, non ridava loro un’apparenza di vita; e allora quei drappi venerabili dispiegavano nell’aria i loro colori smaglianti. Laggiù, presso il villaggio, i cannoni francesi tiravano a turno; era possibile distinguere ogni volta il rimbombo e il sibilo della palla che si avvicinava, inabissandosi nel terreno a qualche decina di passi dalla fanteria allineata. Per fortuna eravamo troppo lontani perché quel fuoco metodico potesse causare qualche danno, e tuttavia parecchi uomini, soprattutto ufficiali e sottufficiali, erano già stati portati fuori dalle file e stavano sdraiati sul ciglio della strada, alcuni lamentandosi, i più stringendo i denti in un silenzio innaturale: qualche tiratore francese, strisciando nel fango, era giunto a portata di carabina e con calma, senza fretta, compiva il suo lavoro, scegliendo giudiziosamente il proprio bersaglio. Ogni volta che un’esplosione più vicina, una nuvoletta di fumo e, più raramente, il grido di un ferito rivelavano la presenza di uno di costoro, due o tre uomini lasciavano il rigido allineamento delle file, correvano in avanti, si inginocchiavano e scaricavano i fucili nella direzione in cui doveva essere acquattato il nemico, che tuttavia, di solito, aveva già cambiato posizione appena fatto il colpo. Il terreno che mi era parso così aperto era in realtà ricco di avvallamenti e di rigagnoli; anche le stoppie dei campi di segala che i contadini del paese non avevano fatto in tempo ad arare offrivano un eccellente riparo ai tiratori di entrambe le parti.

Mentre, dalla mia posizione relativamente sicura, osservavo con interesse questo gioco a nascondino, il frastuono di molti cavalli mi indusse a voltarmi. Proprio dietro di me era ricomparso Hérault de Hautcharmoy, agitando il cappello, e dietro di lui avanzava, sollevando una nuvola di polvere, una moltitudine disordinata di cavalieri dalle uniformi azzurre, dragoni dunque. L’ufficiale galoppò verso l’altura, in verità poco più di un’increspatura del terreno, su cui stava il generale von Wartensleben con i suoi aiutanti, e nel frattempo i dragoni si schierarono su due linee a poca distanza, trattenendo a fatica i cavalli innervositi dal fumo e dal frastuono. L’odore caldo delle bestie e degli uomini giunse fino a me e al mio cavallo, che scalciò e rischiò di disarcionarmi; sicché dovetti dare uno strappo alle redini e rinculare di qualche passo prima di riuscire a tranquillizzarlo. Quando finalmente riuscii di nuovo a guardarmi intorno vidi che il colonnello dei dragoni si era portato di fronte ai suoi uomini e stava facendo un discorso, di cui non potei udire nemmeno una parola; quando ebbe terminato fece compiere al cavallo un’elegante evoluzione, sguainò la sciabola e mosse in avanti al passo, seguito in un rimbombo assordante di zoccoli dall’intero reggimento. Uno squadrone dopo l’altro, lasciando un intervallo di trenta passi fra le code dei cavalli che precedevano e i musi di quelli che seguivano, i dragoni cominciarono a discendere il pendio in direzione del villaggio. Guardai in giù, riparandomi con la mano dai raggi del sole, e vidi che il generale nemico aveva finalmente provveduto a rafforzare il suo fianco scoperto: una lunga colonna di fanteria in calzoni bianchi era sbucata dalla strada infossata che costeggiava le ultime case e si stava frettolosamente dispiegando in ordine di battaglia, mentre la mezza batteria era letteralmente scomparsa nel fumo prodotto dai suoi cannoni. Se le truppe entrate allora in linea fossero riuscite a schierarsi in quadrato, la carica della cavalleria prussiana avrebbe forse avuto ben poche probabilità di successo; ma era destino che i nuovi venuti non riuscissero a completare il loro schieramento. Mentre i dragoni avanzavano, passando a un trotto misurato, vidi distintamente i tiratori francesi sorgere fra le stoppie e darsela a gambe, alcuni buttando via il fucile per scappare più in fretta. Quando la cavalleria fu giunta a duecento passi dalla fanteria nemica, che non avendo più il tempo di ammassarsi in quadrato stava tentando di formare almeno una linea, le trombe suonarono la carica, e tutti i dragoni speronarono i cavalli, passando non dico al galoppo, ma certamente a un trotto alquanto vivace. Alcuni francesi sparavano isolatamente su di loro, come si intuiva dalle nuvolette di polvere che fiorivano e subito si disperdevano lungo il loro fronte, ma molti altri seguirono l’esempio dei tiratori, che nel frattempo erano giunti ansimanti tra le loro file, e se la diedero a gambe. Quelli che erano rimasti al loro posto spararono ancora una volta, tutti insieme, e questa volta uomini e cavalli caddero; ma l’impeto dei dragoni non si arrestò, sebbene nella loro formazione si fossero aperti larghi vuoti, non tanto a causa delle perdite, quanto perché i cavalli più veloci sopravanzavano gli altri. Quando infine lo squadrone che conduceva la carica fu giunto a pochi passi dalla linea nemica vidi il colonnello rizzarsi in piedi sulle staffe e levare la sciabola alta sopra la testa, e tutti i suoi uomini lo imitarono, pronti a colpire; ma non vi fu alcun cozzo, perché appena un istante dopo i francesi erano in fuga. Molti buttavano via i moschetti, e tutti indistintamente correvano a gambe levate verso il riparo sicuro offerto dalle case del villaggio, apparentemente così vicine; ma i dragoni li raggiunsero prima che potessero mettersi in salvo e cominciarono a massacrarli. L’intera pianura fra l’altura su cui mi trovavo e il villaggio era piena di uomini in fuga e di cavalieri che li inseguivano. Dappertutto si vedevano singoli francesi inseguiti da cinque o sei uomini a cavallo, che circondavano il fuggiasco e lo abbattevano a sciabolate. I dragoni, mentre inseguivano le loro vittime, si incoraggiavano a vicenda con urla così forti che riuscivo a percepirle nonostante il frastuono; gridavano una parola che mi parve di non poter interpretare altrimenti che come gâteau, e mi chiesi che uomini fossero mai questi, che andavano a uccidere e a morire con un simile grido di guerra, finché non compresi che essi gridavano, nel loro dialetto, Gah to: e cioè, in una traduzione per forza di cose approssimativa, avanti! La ferocia con cui massacravano i fanti in fuga era rivoltante, e molti francesi che avevano gettato via le armi preferirono correre verso la fanteria prussiana, che nel frattempo avanzava a passo cadenzato, dandosi prigionieri per aver salva la vita.

Quando anche l’ultimo fuggiasco fu abbattuto nel fango, o fu riuscito a mettersi in salvo saltando attraverso le finestre nelle prime case del villaggio, le trombe dei dragoni suonarono un nuovo segnale, e gli uomini cominciarono a raggrupparsi e a tornare indietro. Il reggimento non pareva aver sofferto troppo durante la carica, poiché sul terreno erano rimasti quasi soltanto cadaveri di francesi; tuttavia quando essi giunsero più vicino vidi che sarebbe passato un bel pezzo prima che potessero caricare di nuovo, poiché i cavalli erano sfiniti. Molti zoppicavano e tutti colavano sangue dai fianchi speronati senza discernimento; alcuni ufficiali, saltati a terra, esaminavano i cavalli dei loro uomini e davano indicazioni perché fossero curati, e la maggior parte dei soldati dovette smontare e condurre le bestie tremanti e coperte di schiuma a bere al ruscello più vicino. Un dragone, ferito, si era sorretto fino a quel momento aggrappandosi al collo della sua cavalcatura, ma ora si lasciò scivolare a terra, aiutato da un compagno che lo prese in spalla e barcollando sotto il peso lo accompagnò a sua volta verso l’acqua. Quando gli ultimi cavalieri ebbero risalito il leggero pendio, cominciarono ad arrivare alla spicciolata altri dragoni appiedati, scivolando nel fango per via degli stivali inadatti alla marcia; e allora mi accorsi che molti cavalli erano rimasti uccisi o feriti nella carica, e i loro corpi spiccavano come macchie nere nel grigio giallastro delle stoppie.

Poiché il combattimento si era ora spinto a ridosso del villaggio, pensai di poter cavalcare anch’io in avanti, e spinsi il cavallo giù per la discesa. Passai in mezzo a molti morti e soprattutto feriti, fanti francesi e prussiani, che mi imploravano di soccorrerli. Uno di loro si rizzò faticosamente a sedere, puntellandosi con le braccia, e mi fissò con uno sguardo terribile, gridando: «Acqua!»; una palla gli aveva portato via un orecchio, e metà del viso era coperta di sangue. Ovviamente non potevo far nulla per quei disgraziati, se non trattenere il cavallo affinché non li calpestasse; del resto la brava bestia pensava da sola ad evitarlo se appena le era possibile, poiché i cavalli non amano mettere i piedi su qualcosa di vivo. Nonostante la rotta provocata dalla carica dei dragoni, la sparatoria continuava più vivace di prima, tanto che il mio cavallo, non abituato a quel frastuono, scartava ad ogni passo, minacciando di disarcionarmi. Mi aspettavo di trovare i prussiani padroni del villaggio, ma il campanile era ancora piuttosto lontano quando raggiunsi la linea dei moschettieri, che ora non avanzavano più, ma sparavano a turno in direzione del nemico, la prima fila in ginocchio, le altre due in piedi. Gli uomini avevano le labbra annerite a furia di mordere cartucce, e quasi sempre uno sbaffo nero in un angolo della bocca, giacché ogni soldato ha l’abitudine di strappare la cartuccia coi denti sempre dalla stessa parte, così come c’è chi tiene la pipa a destra e chi a sinistra. Molti di loro avevano il volto arrossato e la barba bruciacchiata, poiché quando si spara troppo in fretta, e con un’arma pesante e poco maneggevole come un moschetto da fanteria, è facile appoggiare la canna alla guancia in modo tale da restare ustionati. Non comprendevo contro chi tirassero, giacché a quella distanza non potevano certo far danno ai francesi trincerati nel villaggio; ma ben presto mi accorsi con stupore che i tiratori francesi, dopo il passaggio dei dragoni, erano tornati a nascondersi fra le stoppie calpestate e perfino fra i cadaveri, i quali offrivano loro un eccellente riparo, sicché il loro fuoco impediva ai prussiani di avanzare.

Mi era ormai ben chiaro che da quella parte non avrei trovato vetture né bagagli; perciò decisi una volta per tutte di andarmene di lì. Per un po’ cavalcai in direzione opposta a quella da cui proveniva il rumore della battaglia; ma se dovessi dire che sapevo esattamente dove stavo andando, mentirei. In quel terreno era maledettamente difficile orientarsi; osservando la posizione del sole, decidevo di cavalcare in una certa direzione, ma invariabilmente l’andamento del pendìo, un fossato troppo profondo per poterlo guadare, una strada campestre ch’era impossibile non seguire per un tratto mi portavano dove non avrei voluto andare. Per giunta gli alti e bassi del terreno erano tali che non si vedeva a cento passi di distanza, e benché sapessi che intorno a me c’erano centomila uomini non riuscivo a vederne neanche uno. Finalmente, oltrepassando un campo di stoppie, mi imbattei nuovamente in una moltitudine di soldati. Stavano allineati pazientemente su tre file, ma si vedeva dai loro visi stravolti che avevano corso; erano coperti di polvere e molti avevano la divisa lacera e insanguinata. Dietro di loro un ufficiale a cavallo discuteva animatamente col generale von Wartensleben, che chissà come era giunto fin lì accompagnato soltanto da un paio dei suoi aiutanti. Non capii ciò che si dicevano, ma sentii che l’ufficiale pronunciava i “Vostra Eccellenza” con cui si rivolgeva al generale in un tono aggressivo che smentiva la correttezza formale dell’espressione. Il generale annuiva stancamente, senza ribattere. Poi essi spinsero i cavalli in avanti, sorpassando i fanti immobili nella polvere, ed io li seguii, giacché volevo chiedere dove avrei potuto trovare il re; dopo qualche passo il generale tirò fuori un cannocchiale e lo puntò in direzione del campanile, che spiccava ancor sempre sopra il fumo. Prima che potessi raggiungerlo una palla di cannone volò sopra le nostre teste e andò a strappare una zolla di terra a pochi passi dai fanti, subito seguita da un’altra, e un’altra ancora. Veramente il sibilo delle palle di cannone ha del ferale, e bisognò ch’io facessi uno sforzo per resistervi; ma tanto il generale quanto gli altri ufficiali fingevano di non accorgersi di nulla, sebbene Sua Eccellenza dicesse a voce un po’ troppo forte: «Ci hanno presi di mira, a quanto pare». Il vicendevole impegno di salvare la faccia al cospetto degli altri ci indusse a restare ancora per un po’ fermi e tranquilli in quella posizione, mentre Wartensleben non cessava di esplorare col suo cannocchiale, anche se credo che tutti avessero le viscere strette quanto le mie. Finalmente il generale ripose il cannocchiale nel suo astuccio, infilò quest’ultimo in una delle borse che portava appese alla sella, e si mosse per ritornare. Tutti noi lo seguimmo con eguale gravità, sebbene la musica continuasse più fitta di prima; un movimento naturale mi avrebbe costretto a piegarmi ogni volta sul collo del cavallo, ma il desiderio di non scomparire agli occhi degli altri mi faceva star ritto come un piolo. Giunti finalmente in mezzo ai fanti, che pure erano rimasti immobili per tutto quel tempo mentre le palle volavano intorno a loro e portavano via ora una testa, ora un braccio, ora una gamba, ebbi la sensazione ingannevole di essere al sicuro: e proprio in quell’istante una palla fischiò bassa in mezzo a noi, i cavalli scartarono, e il generale fu sbalzato a terra. Subito i due aiutanti accorsero e lo rialzarono; il suo cavallo si dibatteva nitrendo disperatamente, con le gambe posteriori fracassate. Senza pensare a quello che facevo smontai anch’io, e sentii che uno dei moschettieri diceva forte ai vicini: «È un peccato che abbiano ammazzato l’animale di sotto e non quello di sopra!».

Mi accostai al generale e vidi che sebbene non fosse ferito non era in condizione di reggersi in piedi. La bocca gli tremava e gli occhi gli si erano riempiti di lacrime; perdeva sangue dal naso, e i merletti della sua cravatta si stavano macchiando di rosso. Gli ufficiali chiamarono fuori dalle file due uomini che lo presero sotto braccio e cominciarono a trasportarlo verso le retrovie. Istintivamente mi volsi a guardare nella direzione da cui provenivano le palle e scoprii, con mia sorpresa, che non si vedeva nulla, poiché il rilievo del terreno dietro cui ci trovavamo copriva interamente la vista; evidentemente la batteria francese tirava alla cieca, e le sue palle cadevano in mezzo a noi passando basse sulla cresta, o addirittura rotolando giù per il pendio. E infatti in quell’istante vidi una cosa nera che rotolava come una palla da cricket in direzione dei fanti schierati a forse dieci passi da me. La guardai affascinato finché non mi resi conto che sarebbe passata esattamente nell’intervallo fra me e loro, senza far danno ad alcuno; quando fu giunta più vicina, un cadetto che si trovava davanti alla fila, un ragazzino che non poteva avere più di quattordici anni, fece un movimento nella sua direzione come se volesse fermarla col piede. Per fortuna un sottufficiale lo afferrò rudemente per un braccio e lo tirò indietro, sgridandolo così: «Non sa il signor cadetto che la palla avrebbe potuto benissimo portargli via il piede?».

Non so da quanto tempo quegli uomini stavano sopportando un simile trattamento, ma per quanto ferrea fosse la loro disciplina tutto indicava che cominciavano ad averne abbastanza. L’ufficiale che li comandava dovette accorgersene nello stesso momento, e cominciò a battere nervosamente col frustino i fianchi del cavallo, benché la povera bestia scrollasse la testa nitrendo con indignazione; si capiva che veder massacrare i suoi uomini a quel modo gli era fisicamente intollerabile, ma far fare anche soltanto dieci passi indietro senza averne ricevuto l’ordine era superiore alle sue forze. Proprio in quel momento un risonar di zoccoli ci indusse tutti a voltarci: arrivava un gruppo di ufficiali a cavallo, e alla loro testa fui forse il primo a riconoscere il re. Subito dopo tuttavia lo riconobbero anche i soldati, che agitarono i moschetti e gridarono: «Viva il re!». Vivaddio, pensai, fra poco ritroverò la mia carrozza e Will; non mi venne in mente che in una giornata come quella i bagagli del re non dovevano necessariamente averlo seguito. Sua Maestà si spinse avanti da solo oltre la prima fila, e cominciò a discorrere col comandante. Le palle piovevano intorno a lui, ed io mi compiacqui fra me e me del regale esempio che dava ai soldati. Poi sentii un sottufficiale dire al vicino: «Lo vedi là il giovanotto?». Bisogna sapere che in Sassonia e in altri luoghi si parla del sovrano con i termini più complimentosi, e si crederebbe di commettere un delitto se non si ripetesse ogni due parole: Sua Grazia l’Elettore, Sua Altezza Serenissima il duca, e così via. Invece i prussiani si erano abituati fin dal tempo di Federico a dire semplicemente: il vecchio, e avevano mantenuto l’abitudine anche sotto il suo successore. Ma poiché all’attuale sovrano quell’appellativo si addice ben poco, i soldati hanno subito imparato a chiamarlo invece il giovanotto, e mettono in questo appellativo lo stesso rispetto che gli altri tedeschi traducono con i loro sonori appellativi. Comunque alla domanda il secondo sottufficiale ribatté: «Lo vedo sì! Guarda come gli fischiano le palle intorno alla testa. Purché non si faccia ammazzare!». Allora seguì questo dialogo straordinario: «Pazzo! Credi che sia possibile?». «Perché no? Se una palla lo prende in testa, è andato.» «Già, proprio! Una palla di piombo non può colpire il re.» «E perché?» «Guarda cosa ti dico, fratello: io sono un vecchio soldato e ho fatto la guerra dei Sette Anni; quindi puoi credere che di queste cose me ne intendo. Una testa coronata non può essere colpita dal piombo né dal ferro; le palle tirano via, anche se il re cavalcasse dritto sulla batteria.» «Ma ci sono già stati, a quanto si sente dire, dei re ammazzati dal nemico.» «Oh sì, fratello; ma erano anche altre palle, erano palle d’argento! Vedi, fratello, se i francesi volessero far fuori il nostro giovanotto, dovrebbero caricare i cannoni con mitraglia d’argento, e allora sarebbe bell’e andato.» «Quand’è così, si capisce che faccia tanto il bravo!» «Lo credo! Perché i re di Prussia hanno il privilegio che né una palla né un fendente può fargli male. Per questo il vecchio Fritz nella guerra dei Sette Anni prendeva al volo intere manciate di pallottole, e acchiappava le palle di cannone col cappello.» «Senti, fratello, può darsi che tu abbia ragione! Ecco perché i re di Prussia se ne vanno così volentieri in battaglia; se ne starebbero piuttosto a casa, se dovessero temere la morte!» «Si capisce! Farebbero come l’imperatore, il re di Spagna e gli altri re: quelli se ne stanno a casa e lasciano che la loro gente si faccia ammazzare o storpiare per loro.»

Ecco con quali assurde idee superstiziose quel raccontafavole era riuscito a vanificare, agli occhi dei camerati, il buon esempio che il re stava dando ai suoi uomini! Quanto a me, avevo già sentito fischiare abbastanza palle, e non avevo nessuna voglia di raggiungere il giovanotto, come lo chiamavano loro, finché non gli fosse parso di tornare indietro. I soldati mi guardavano con curiosità, pensando senza dubbio che fossi un civile al seguito del re, un dottore, o magari un domestico; questa idea mi infastidì, sicché detti un colpetto col frustino sulla groppa del cavallo, e mi allontanai di qualche passo. Ma mentre riflettevo al modo migliore per iniziare il mio prossimo colloquio col re, sentii che gli uomini gridavano eccitati, e mi voltai per vedere che cosa succedeva; sembrava che incitassero qualcuno, così come fanno gli appassionati alle corse dei cani. Seguendo il loro gesticolare vidi che una lepre, schizzata fuori dalla sua tana e impazzita di terrore, correva a zig-zag giù per il pendio; ho già scritto, credo, che in questa Turingia le lepri sono comuni come altrove i ratti. Due o tre uomini si erano messi a correrle dietro; uno prese la mira e tirò, ma sbagliò il colpo, e subito dopo, nella fretta di riprendere l’inseguimento, inciampò e finì con la faccia per terra. La lepre, ormai, era troppo lontana perché si potesse ancora sperare di prenderla; ma in quell’istante, proprio in fondo al pendio, si levò in piedi un tiratore francese. La lepre fece uno scarto e cercò di riguadagnare l’altura, ma il tiratore fu più svelto e la colse proprio a metà di un balzo; poi, mentre i prussiani lo ingiuriavano, corse in avanti, la raccolse, la finì schiacciandole la testa col tacco e la infilò nel tascapane, scomparendo poi fra le stoppie.

L’eccitazione suscitata dalla caccia alla disgraziata bestia aveva a tal punto distratto tutti quanti, che nessuno di noi si soffermò a riflettere alla cosa più importante, e cioè che un francese non avrebbe dovuto trovarsi lì sotto. Ma se ne accorse il comandante del battaglione, giacché una palla gli portò via il cappello; un soldato uscì dalla fila, si chinò a raccoglierlo e glie lo porse rispettosamente. Poi tanto lui quanto il re spronarono i cavalli e si mossero, mentre i fanti cominciavano a sparare, alla cieca, verso le stoppie in cui dovevano nascondersi i nemici. Mossi a mia volta il cavallo e lo affiancai a quello del re, cavandomi il cappello. «Vostra Maestà mi permette di augurarle il buongiorno?» Il re mi guardò; aveva la faccia coperta di polvere e una riga scura sotto la bocca, che dapprima mi parve di sangue, ma che in realtà era cioccolata: le cannonate dovevano averlo interrotto mentre faceva colazione. «Almeno lei non ci ha abbandonati», riconobbe, «come lord Morpeth, che l’altro ieri sera è arrivato al mio quartier generale, e che già stanotte è ripartito, per paura di essere catturato dal nemico; come se in mezzo al mio esercito l’ambasciatore di un paese amico non dovesse sentirsi al sicuro!» Egli, a dire il vero, non mi tenne questo discorso così filato come l’ho trascritto, ma a pezzi e bocconi, gridando per farsi udire nonostante il frastuono, e senza finire le frasi, com’era sua usanza. «Sono lieto» risposi sullo stesso tono «di sentir dire a Vostra Maestà che l’Inghilterra è di nuovo un paese amico.» «Spero che non sia troppo presto per dirlo» borbottò il re, con una smorfia. Il comandante del battaglione, intanto, era fermo accanto a noi, e ascoltava questa conversazione con visibile impazienza; ma non osava richiamare l’attenzione del re. Finalmente quest’ultimo si ricordò di lui, e gli rivolse la parola. «Signor maggiore, va bene, porti indietro la sua gente, che non glie li ammazzino tutti; ma non troppo indietro, lei è responsabile!» Mentre il maggiore si allontanava il re sospirò, e si guardò intorno alla ricerca dei suoi aiutanti; ce n’erano quattro o cinque, a cavallo, e si tenevano rispettosamente a distanza. «Schill!» gridò, e un ufficiale dei Dragoni della Regina si avvicinò. «Secondo lei, dove ci troviamo adesso?» L’ufficiale spiegò una carta, appoggiandola sul collo del cavallo, che agitò nervosamente le orecchie; era una magnifica bestia, di quelle che quei signori compravano e vendevano per centoventi o centoquaranta luigi, prima della guerra. «Il villaggio laggiù» dichiarò dopo una riflessione piuttosto prolungata, e indicando un campanile alle nostre spalle «dovrebbe essere Rehhausen.» «Che cosa ne dice, andiamo là?» chiese il re. «Col permesso di Vostra Maestà», rispose l’ufficiale, «laggiù non c’è nessuno. Se le divisioni della riserva potessero marciare fin qui!» «È vero» riconobbe il re; egli era sempre pronto a dar ragione a chi gli parlava in tono deciso. «Schill, lei andrà dal conte Kalckreuth e gli ordinerà di far marciare immediatamente la riserva su Rehhausen, e da lì, sostenere l’avanzata della prima linea. Anzi, ci andrò io stesso» concluse, e mosse immediatamente il cavallo per tornare indietro. Non sapevo capacitarmi di quello straordinario modo di comandare un esercito, sicché affiancai il cavallo a quello del dragone, per chiedergli spiegazioni.

Quando lo guardai bene in faccia, mi venne in capo la sensazione, anzi dirò la certezza, d’averlo già incontrato; eppure ero sicuro che non eravamo mai stati presentati. Era un uomo corpulento, con una gran faccia rossa e brutale, e ciocche di capelli biondi incollate alla fronte dal sudore. «Ascolti, signor mio» cominciai «io sono un civile e non ho mai visto una battaglia; vuol essere così cortese da spiegarmi che cosa sta succedendo?» Egli tuttavia non ne sapeva più di me; neppure lui aveva mai visto una battaglia. «Se solo ci fosse il duca, lui saprebbe cosa fare!» sospirò. «Ma che ne è stato dunque del duca?» Mi guardò, sorpreso che non lo sapessi. «Il duca è stato colpito da una palla in faccia, all’inizio della battaglia, e forse a quest’ora è già morto; in ogni caso l’hanno portato via. La palla, a quanto pare, è entrata da un occhio ed è uscita dall’altro, accecandolo senza rimedio; e chi l’ha visto dice che non sopravviverà a una ferita simile.» Mentre raccontava, aveva affiancato il suo cavallo al mio; le bestie, stanche, procedevano a orecchie basse, come pure quelle degli altri aiutanti. Il re stava in sella senza grazia, un po’ troppo curvo in avanti, assorto; fra tutti, dovevamo formare una ben strana processione. Quando Schill ebbe concluso il suo racconto, rimanemmo per un istante in silenzio, ed io ascoltai il cannoneggiamento. «Ma senta dunque» dissi poi al mio compagno «noi ora ci stiamo allontanando dalla battaglia, se non sbaglio?» «È così» assentì. «E infatti» proseguii «il cannoneggiamento è alle nostre spalle.» «Proprio così» ripeté, seccato. «Ma perché me lo domanda?» «Perché» ripresi «mi sembra di sentirlo meglio di prima.» E in verità la voce del cannone non pareva affatto farsi meno prepotente man mano che ci allontanavamo; anzi avrei giurato ch’era più vicina. «È vero» riconobbe Schill. «Strano!» aggiunse, senza capacitarsi di un simile fenomeno.

Cavalcammo ancora per un po’ in silenzio. Benché il dragone avesse risposto pazientemente alle mie domande, non lo trovavo simpatico; e non potevo levarmi dalla testa l’impressione che questo pregiudizio fosse determinato dalle circostanze in cui c’eravamo già incontrati. Quali mai fossero queste circostanze, tuttavia, non potevo ricordarlo a nessun costo; ci pensai per un po’, ma poi dovetti smettere, perché eravamo arrivati a un villaggio. «Qui, a quanto mi hanno detto, ci dev’essere il conte Kalckreuth» osservò Schill. «E infatti» proseguì indicando una colonna di fanteria ferma sulla strada «ecco il reggimento Pirch, che fa parte della riserva. Per adempiere ai doveri di un aiutante di campo», aggiunse rivolto verso di me, con aria d’importanza, «bisogna avere tutto l’ordine di battaglia qui, in testa!» e si batté col palmo della mano sulla fronte. Giunti davanti alla prima casa il re scese da cavallo, e tutti quanti, per deferenza, ci affrettammo a imitarlo. La porta della casa si aprì, e si affacciò un contadino in maniche di camicia; vide tutti quei signori che smontavano nel suo cortile, e si affrettò a ritornare all’interno. «Volete andare a vedere se il generale von Kalckreuth si trova qui?» chiese il re, senza rivolgersi a nessuno in particolare; poiché mi trovavo il più vicino all’ingresso, spinsi la porta ed entrai, subito seguito da Schill, che per poco non mi fece inciampare.

La casa era così buia e così fetida che il conte non poteva certamente trovarsi lì; appena i miei occhi si abituarono all’oscurità mi accorsi che era stata trasformata in lazzaretto. Su un tavolo trascinato vicino alla finestra, il chirurgo stava medicando un ufficiale ferito; nell’angolo più buio, il contadino, sua moglie e tre bambini stavano accucciati sul pavimento, senza perdere uno solo dei suoi movimenti. «Potete considerarvi fortunato» borbottava il chirurgo; «finire in mezzo alla mitraglia a questo modo, e cavarsela così a buon mercato, non è da tutti.» Il disgraziato aveva una palla nel braccio sinistro, già fasciato, un’altra nella spalla, che il chirurgo stava cercando di recuperare con una pinzetta, e una terza gli aveva fatto un buco nell’orecchio; aveva perduto molto sangue, era pallido come un cadavere, benché a giudicare dalla sua complessione dovesse esser stato un uomo di temperamento sanguigno, e le facezie del chirurgo non lo facevano ridere. «Andiamocene, qui non c’è niente» mormorai; proprio in quel momento bussarono con violenza alla porta. Il contadino trasalì, sua moglie si mise a piangere, i bambini strillavano; il ferito stringeva i denti mentre i ferri del chirurgo gli frugavano la piaga; Schill si diresse tranquillamente alla porta e la spalancò. «Finalmente!» esclamò una voce aspra, di cui non potevo vedere il proprietario. «Schill, lei ha il cavallo più fresco; porti subito questo dispaccio al generale von Arnim.» Schill tornò all’interno, con la carta in mano, e sputò il suo tabacco sul pavimento. «Come vede, mi hanno già trovato un compito» si vantò. «Allora, buona fortuna», replicai, «e attento alla testa.» Il dragone rise forte. «Non abbia paura, non è stata ancora forgiata la spada capace di tagliare questa testa.» Sulla soglia si fermò, mosse qualche passo verso la donna che continuava a piangere nell’angolo, con i suoi marmocchi aggrappati alla sottana; le prese il mento fra le dita, le sollevò il volto rigato di lacrime e lo esaminò attentamente alla luce che entrava dalla porta spalancata. «Però!» borbottò. «Non c’è male! Peccato dover già ripartire»; poi la lasciò andare e uscì, facendo sferragliare gli speroni. Non so se quella villania abbia risvegliato dentro di me una memoria sopita, ma in quel preciso istante mi ricordai di lui: era il dragone della Jerusalemerstrasse, quello stesso che era salito in camera di Lenchen una sera famosa, e con cui avevo rischiato di battermi incontrandolo sulla soglia della casa. Non c’era da stupirsi che pur non ricordandomi di lui lo trovassi antipatico!

Quando uscii a mia volta, Schill era già in sella, e un istante dopo s’era dileguato; allora tornai dentro, e chiesi alla contadina un po’ d’acqua, mostrandole una moneta. La donna non comprese subito, ma poi si alzò e andò a prendere una brocca nella madia scavata nel muro; bevvi e le lasciai un pfennig nella mano sudicia, poi uscii nuovamente all’aperto. Nella strada sostavano molti soldati, ma non c’era più traccia del re e degli altri aiutanti; avevano dato da tenere a un soldato le briglie del mio cavallo, e anche a lui dovetti dare un pfennig. Per fortuna il villaggio non era grande, e ben presto riuscii a farmi indicare la casa in cui si era installato il conte Kalckreuth; quando vi entrai, il re se n’era già andato, e il generale era seduto in poltrona. «Bene!» esclamò; «anche lei qui?» «A dire la verità» replicai «sto cercando il re; ma pare destino che oggi debba perderlo.» «Non abbia paura, non lo perderà! Era qui un istante fa, e si è compiaciuto di darmi degli ordini; ora non mi resta che eseguirli» brontolò con singolare malagrazia. Levatosi in piedi, si annodò la fascia alla vita e uscì nel cortile. «Fritz! Fritz!» si mise a gridare, finché il domestico non arrivò di corsa, col cappello in mano. «Fritz! Hai sellato Marianna?» «No Eccellenza, come lei aveva ordinato, ho sellato Fandango!» rispose l’uomo, intimorito. «Sei un asino! Vuoi che porti in battaglia Fandango? Con quello che mi costa! Corri a sellare Marianna!» e poi, volgendosi verso di me: «Si figuri un po’, un cavallo inglese, che mi costa centoventi friedrichsd’or! Il ministero non ne rimborsebbe nemmeno la metà, se me lo dovessero ammazzare. Lei capisce che in circostanze come queste ognuno deve pensare per sé! È vero che Marianna non è altrettanto veloce, ma insomma, spero che non dovrò mettermi a correre per salvare la pelle, alla mia età». Ero sorpreso ch’egli potesse darsi tanto pensiero di un cavallo, in un momento simile, tanto più che quella preoccupazione sembrava aver completamente rimosso il pensiero dell’ordine che doveva eseguire. «A Magdeburgo» seguitava infatti il generale «mi aspetto di trovare quattro cavalli di rimpiazzo, che ho dato ordine al mio intendente di acquistare in Danimarca, e la mia pelliccia, che ho dimenticato a Berlino; e allora, per quanto mi riguarda, la guerra potrà anche durare fino all’anno prossimo. Non c’è niente come una pelliccia per star comodi al campo! Ma fin che non avremo passato l’Elba, devo badare a non logorare inutilmente i cavalli; ognuno deve pensare per sé» ripeté fregandosi le mani, come se quel pensiero gli provocasse una singolare soddisfazione. Finalmente il domestico ritornò conducendo per la briglia Marianna, una rozza già avanti negli anni, che certamente non avrebbe mandato in rovina il suo padrone se mai il ministero si fosse rifiutato di pagarne il prezzo. Il generale montò in sella con fatica, sostenuto da due lacchè si asciugò la fronte con il fazzoletto, sospirò e finalmente borbottò: «Andiamo dunque a fare la guerra!».

Nella piazza del villaggio una moltitudine di soldati, che fino a qualche minuto prima erano rimasti seduti sul selciato, si stavano allineando, caricando i moschetti in spalla e i tascapane a tracolla; a giudicare dall’uniforme, dovevano appartenere al reggimento di Suckow, e infatti non tardai a scorgere fra loro il mio amico. Mi avvicinai per salutarlo, ed egli non parve affatto sorpreso di vedermi lì; non poteva pensare ad altro se non alla battaglia cui finalmente si apprestava a prendere parte. «Che nebbia, eh? Per fortuna ora ci si vede! Speriamo che diano l’ordine di marciare; siamo qui da non so quante ore, mezzi morti di fame e di freddo!» Egli aveva trascorso la mattina ad ascoltare il rombo del cannone, cercando di rendersi conto se si avvicinava o si allontanava; «ma adesso mi pare proprio che si avvicini» concluse. Non ebbi tempo di confermare quell’impressione fin troppo giustificata, poiché tutti quanti, nella piazza, erano in gran movimento; il colonnello von Walther und Cronach era entrato a cavallo in mezzo ai suoi uomini, si era rizzato sulle staffe e gridava: «Avanti! Avanti!» con quanto fiato aveva in gola. I comandanti di compagnia si sforzavano di incolonnare i soldati e metterli in marcia, ma l’agitazione era tale che l’incalzare degli ordini rendeva impossibile l’esecuzione. Gli uomini mormoravano tutti insieme e le urla degli ufficiali s’intendevano appena al di sopra di quel formidabile brusìo. «Avanti! Avanti! Muovetevi dunque!» gridavano tutti; ed io osservai che quegli ordini, così gridati senza la calma necessaria e più dannosi che utili, non comunicavano agli ufficiali più giovani e ai soldati la necessaria confidenza, anzi più d’uno si guardava intorno positivamente sconcertato. Aprendosi la strada a fatica in mezzo alla calca, il colonnello ci raggiunse; mi tolsi il cappello per salutarlo ed egli toccò il suo in risposta, ma non credo che mi abbia riconosciuto. «Lei» disse rivolgendosi al mio amico, «lei, Suckow, è il sottotenente più giovane. Prenda dieci soldati e resti a guardia dei bagagli.» Il mio amico impallidì e vidi fin troppo bene che quell’ordine lo gettava nella più profonda costernazione, giacché gl’impediva di prender parte alla battaglia. «Ma Eccellenza!» cercò di obiettare, poggiando la mano sul collo del cavallo come se volesse trattenerlo. «Eccellenza! In un giorno simile!» Ma il colonnello non lo ascoltava. «Lei s’incaricherà di condurre le vetture e i cavalli da soma ad Auerstedt. Là troverà il tenente von Kettelhorst, del reggimento di dragoni d’Irwing, che è stato incaricato dal generale di prendere il comando di tutti i bagagli della divisione, e da lui riceverà istruzioni.» «Eccellenza! Eccellenza!» continuava a ripetere il disgraziato, girando attorno al muso del cavallo; ma senza alcun risultato. Il vecchio soldato era così compreso del suo dovere e così desideroso di marciare incontro al nemico che non prestava la minima attenzione a quel che il giovane cercava di dirgli. «Be’, dico, caro Suckow, mi dispiace per lei, ma per me è una fortuna» gli dissi. «Se permette la seguirò, poiché spero di ritrovare ad Auerstedt anche i miei bagagli.» «Faccia come crede» ribatté bruscamente, troppo desolato per osservare le buone maniere; che del resto, come ho avuto altre volte modo di osservare, i tedeschi dimenticano facilmente nei momenti di difficoltà. Voltandomi le spalle, si accostò a un altro ufficiale e gli strinse la mano. «Ci rivedremo stasera, con l’aiuto di Dio!» «Con l’aiuto di Dio» ripeté l’altro, e si allontanò.

Scelti gli uomini che dovevano accompagnarlo, Suckow salì a cavallo e insieme uscimmo dal villaggio, nella direzione opposta a quella da cui proveniva, ora assai più distinto di prima, il fragore del cannoneggiamento. Il sole aveva già cominciato a declinare, benché il tramonto fosse ancora lontano, e mi parve che l’aria si fosse raffreddata; sensazione, questa, che come si sa è sempre rafforzata da uno stomaco vuoto. I bagagli del reggimento consistevano in un numero strabiliante di vetture e cavalli da soma, tanto che cominciai a capire perché era diventato così difficile comprare un cavallo dopo che l’esercito si era riarmato. Suckow, cui comunicai questa riflessione, cavò di tasca un foglio con tanto di timbri e sigilli e dopo averlo consultato esclamò: «Trenta vetture e sessanta cavalli da soma, se vuol saperlo; da noi si fanno le cose con precisione, e se ne perdessi anche soltanto uno sulla strada da qui ad Auerstedt, qualche impiegato di Berlino sarebbe capace di farmelo rimborsare di tasca mia!». Così discorrendo ci eravamo avviati, fianco a fianco, sulla strada maestra, in testa alla colonna. Suckow si voltava di tanto in tanto per controllare che la marcia procedesse senza intoppi, e anche, mi venne fatto di pensare, nell’illusione di poter verificare l’approssimarsi del cannoneggiamento. I soldati e i cavalli si sforzavano di non perdere il passo, nonostante le condizioni disastrose della strada; ma ben presto trovammo il passaggio sbarrato da altri furgoni, e fummo costretti a fermarci. «Cosa succede là davanti?» urlò Suckow. «C’è un buco!» rispose qualcuno; poi, in risposta probabilmente a un ordine dato da qualcun altro, l’ultimo furgone della fila che ci sbarrava la strada venne aperto, e gli uomini cominciarono a scaricarne bracciate di pagnotte. «Ma che cosa fanno?» mormorò Suckow, sbalordito. Carichi di filoni di pane, gli uomini scomparivano oltre la fila delle vetture immobilizzate, poi tornavano a mani vuote, a prenderne altri. «Cosa fate con quel pane?» gridò il mio amico a uno dei soldati; e quello, volgendosi appena, le braccia cariche di pagnotte: «Hanno ordinato di prendere il pane per tappare il buco. Tappiamo il buco nella strada» ripeté, «se no qui chi passa più?». Suckow mi guardò con aria scoraggiata. «Francamente, sarebbe stato meglio distribuirlo ieri sera, questo pane, che abbiamo aspettato con tanta impazienza!» Subito dopo, tuttavia, un pensiero più pratico dovette venirgli in mente, e così pure ai suoi soldati, e non mi vergogno di confessare che nel medesimo istante venne in mente anche a me. Gli uomini del treno, che nei giorni della marcia non avevano altro da fare se non la guardia ai furgoni del pane, non dovevano certo aver patito la fame, e ciò spiega la tranquillità con cui obbedivano all’ordine impartito dai loro ufficiali; ma Suckow e i suoi uomini avevano tutti quanti la faccia di chi non ha mangiato nulla dal giorno prima, e quanto a me, quel po’ di colazione che avevo fatto era già digerito da un pezzo. I soldati dietro a noi discutevano fitto nella loro lingua vendica, e poiché i tascapane pendevano vuoti e flosci al loro fianco, ne dedussi che i piselli e il lardo che avevano portato con sé da casa dovevano essere finiti; sicché non era possibile nutrire dubbi sull’argomento della loro discussione. Finalmente uno di loro avanzò di qualche passo, toccò uno stivale del tenente come se non sapesse in quale altro modo attirare la sua attenzione, si toccò il cappello e finalmente esclamò: «Signor tenente, da’ ordine che prendiamo anche noi del pane!». A quella richiesta rivolta con tanta buona grazia Suckow, si vedeva, avrebbe volentieri dato soddisfazione; ma, poiché era pur sempre un tedesco, mi guardò per un istante con aria perplessa. «Lei cosa ne dice, sarà poi permesso prenderlo?» «Ma, mio caro ragazzo!» esclamai. «Vuol lasciar morire di fame i suoi uomini prima che li ammazzino i francesi? Le assicuro che ci sarà abbastanza pane per riempire il buco, anche quando ci saremo tutti saziati!» Persuaso da questo ragionamento, Suckow si rivolse all’uomo e con evidente sollievo gli diede il permesso di andare a prendere del pane. Subito i soldati si precipitarono al furgone aperto, s’impadronirono di una pagnotta ciascuno e cominciarono ad affettarlo con le baionette, alla maniera con cui i negri, da noi, tagliano il pane col coltello, tenendolo appoggiato contro il petto. Il servitore di Suckow, che ci seguiva a piedi come gli altri, conducendo per la cavezza il cavallo con i bagagli del suo padrone, si affrettò a prender parte a quel saccheggio autorizzato, e riportò due pani; ma il tenente lo sgridò, gli prese entrambe le pagnotte, me ne offrì una e lo rispedì a provvedersi per proprio conto. Poiché non avevo un coltello, cercai di spezzare la grossa forma di pane nero con le mani, ma non ci riuscii; era duro come la pietra. Suckow, che non si trovava mai a corto di risorse, affettò il suo pane e il mio con un coltello da caccia, e così mangiammo in groppa ai nostri cavalli, tendendo l’orecchio al rombo sordo del cannone. Nonostante la fame non riuscii a trangugiare più di una fetta di quel pane secco e che sapeva di muffa; la mia fiaschetta era vuota, e benché Suckow dividesse con me l’ultimo sorso d’acquavite che gli restava mi parve impossibile mandar giù quel cibo da carcerati senza un po’ d’acqua. I soldati tuttavia, abituati a ben altro, masticavano coscienziosamente e per quanto nessuno di loro bevesse non smisero di macinare finché ciascuno non ebbe ridotto il suo pane alla crosta, questa sì davvero immangiabile, nera di fuliggine e buona tutt’al più per i maiali.

Nel frattempo davanti a noi era continuato il lavoro di sgombero, e per quanto quello spreco suscitasse in tutti noi un senso di disagio, l’espediente si rivelò efficace; colmata la buca di pane, e copertala con un po’ di paglia, le vetture ripresero finalmente la loro traballante marcia, e noi dopo di loro. Contrariamente a quel che mi ero aspettato, i soldati, saziata la fame, non erano divenuti più allegri; per un istante questa constatazione mi sorprese, poiché non è nella natura dei soldati, per quanto affaticati dalla marcia, d’essere taciturni quando hanno la pancia piena, ma non tardai a rendermi conto che avevano le loro buone ragioni. Per quanto la sosta non fosse durata più di un quarto d’ora, mi pareva che il cannoneggiamento dietro di noi si fosse fatto più vicino, e credo che tutti provassero la medesima impressione; ora, non era possibile ingannarsi su ciò che questo significava. «Perdiamo la battaglia» disse Suckow. «Così pare» risposi, e tacqui. «Stamattina» riprese il mio amico dopo un lungo silenzio «ho sentito un generale, che passava a cavallo davanti al reggimento, dire al mio colonnello, che lo seguiva: “Mauvais augure!”.» «Temo» replicai «che avesse più di una ragione cui riferirsi.» «Comincio a crederlo anch’io, ma certo pensava alla morte del principe Louis. Speravamo tutti così tanto in lui! Ma anche così, possibile che non ci sia più rimedio?» Non ebbi il tempo di rispondergli, perché di fronte a noi, a una svolta della strada, comparvero gli steccati mezzo divelti delle prime case di Auerstedt, e poco oltre il campanile del villaggio. «Eccoci arrivati, e ora sa il diavolo dove troveremo questo tenente von Kettelhorst» cominciò a dire Suckow; ma proprio in quel momento qualcuno dietro di noi si mise a gridare, e poi vedemmo parecchi uomini arrivare di corsa nei campi. Erano soldati prussiani, ma quasi tutti senza cappello e senza moschetto, la maggior parte senza tascapane; e qualcuno si era tolto anche le scarpe, per correre più in fretta. «Ma che cos’è?» domandò il sottotenente, voltandosi a guardarli, mentre quelli ci passavano accanto senza fermarsi; poi lo vidi impallidire. «Ma quelli sono del mio reggimento!» esclamò; e in verità il colletto e i risvolti del loro abito blu avevano lo stesso colore bianco dei suoi. «Ferma! Ferma, canaglie!» gridò, saltando giù da cavallo; solo l’ultimo dei fuggitivi si fermò, volgendogli uno sguardo spaventato. «I francesi!» disse con voce rotta per l’affanno della corsa; poi si voltò e tornò a correre. «Fermi voialtri!» gridò Suckow ai suoi uomini, che cominciavano ad agitarsi; poi mi guardò, senza saper che fare. Stavo per consigliargli di non restare oltre in quel posto e di raggiungere al più presto il convoglio principale, ma altri uomini arrivavano di corsa, anche questi disarmati, e Suckow ne affrontò uno, prendendolo per le braccia e scuotendolo vigorosamente. «Dove diavolo scappate? Che cosa succede?» L’uomo, coperto di sudore e di polvere, aprì la bocca per parlare, ma gli mancò il fiato; annaspò, poi si riprese. «Signor tenente, sono tutti morti! Scappiamo, che arrivano i francesi e ci ammazzano tutti!» «Ma cosa dici!» urlò il tenente. «Chi vi ha dato ordine di scappare? Dov’è il colonnello?» «Il colonnello è morto, signor tenente. Mi lasci andare!» e con uno strattone si liberò dalla presa, e fuggì via. Cominciavo a sentirmi alquanto a disagio, e mi sarebbe piaciuto non restare oltre in quel luogo; così toccai Suckow sulla spalla, ed egli si voltò. «Dico, vecchio mio» cominciai; ma il tenente non mi ascoltò. «In riga, e caricare i moschetti!» urlò ai suoi dieci uomini, che fino a quel momento erano rimasti a indugiare accanto ai carri, mormorando qualcosa nella loro lingua, e sembravano avere una gran voglia di darsela a gambe come i loro camerati. I soldati si guardarono l’un l’altro, poi tolsero i moschetti di spalla e si allinearono come era stato comandato. Altri uomini arrivavano di corsa, per lo più senza cappello e senza tascapane, e quando videro quel picchetto che li aspettava coi fucili spianati si fermarono senza saper che fare. Suckow li affrontò con le mani sui fianchi. «Voialtri, canaglie! In fila con gli altri, e caricare i moschetti! E chi non ce l’ha, torni subito indietro a raccoglierne uno!» In effetti quasi tutti i fuggiaschi avevano ancora l’arma in spalla, come se fossero scappati prima ancora di cominciare a combattere; soltanto tre o quattro, vedendo che non c’era altro da fare, tornarono di malavoglia sui loro passi, chinandosi a raccogliere i moschetti e i cappelli.

Proprio allora vidi in lontananza, alla sommità di un pendio che scendeva dolcemente verso di noi, sorgere una moltitudine di teste, che si muovevano a balzi e molto più rapidamente di quanto sarebbe stato naturale, per cui non tardai a concludere che doveva trattarsi di cavalieri. Nessun altro li aveva visti, poiché soltanto io ero rimasto a cavallo, e chi non l’ha provato non può credere quanta differenza ciò comporti sul campo di battaglia. Chiamai forte Suckow e gli feci segno di venire a vedere; il tenente si arrampicò su uno dei vagoni e guardò nella direzione che gli indicavo. Poi saltò giù strillando un ordine e gli uomini, incespicando sul terreno bagnato, cambiarono formazione, rivolgendosi nella direzione in cui era apparsa la cavalleria. Era evidente che stavamo per assaggiare i francesi, e mi chiesi per un momento se non avrei fatto meglio a sgombrare; ma a questo punto il pericolo di cadere nelle mani del nemico sarebbe stato anche più grave se me ne fossi andato tutto solo, senza sapere nulla di ciò che accadeva intorno a me; così decisi di condividere la sorte di Suckow e dei suoi fanti. Nel frastuono dell’artiglieria, che si era fatto ancor più vicino, sentii come il tenente esortava i suoi uomini. «Ragazzi! Resistete come richiede il vostro onore di soldati! Restate calmi, non perdete la testa e soprattutto non fate fuoco prima di aver ricevuto l’ordine; in nessun caso, capito? Non fate fuoco!» Intanto una dozzina di cavalieri discendevano il pendio dirigendosi verso di noi, con le sciabole sguainate. Mentirei se dicessi che non avevo una paura dannata, e credo che nessuno degli altri si sentisse meglio. Il tenente ripeté il comando di caricare i moschetti, e quando gli ultimi arrivati, piuttosto nervosamente, ebbero eseguito cominciò a camminare su e giù davanti alla fila, ripetendo costantemente: «Non tirate!». La cavalleria acquistava velocità e ben presto fu lanciata al galoppo; in mezzo al frastuono degli zoccoli e ai nitriti dei cavalli si sentivano gli squilli di una tromba e gli urrà degli uomini. Io me ne stavo col cuore in gola dietro la fila dei fanti in attesa coi moschetti imbracciati, pronto a frustare il cavallo e buttarmi nel villaggio quando la cavalleria ci avesse raggiunti. Tuttavia accadde una cosa inaspettata. Avvicinandosi a noi, i cavalleggeri sembravano moderare la velocità, e vidi distintamente i primi abbassare la testa fra le spalle, in attesa di un fuoco che non veniva. Quando furono a cento passi, i fanti ricevettero l’ordine di puntare, ma non ancora quello di far fuoco; i cavalleggeri trattennero ancor più i cavalli e quando giunsero davanti a noi erano passati al piccolo trotto. A trenta passi la fila sparò. Spararono male, per lo più in aria, come gente spaventata, ma l’ordine era stato dato al momento giusto; la cavalleria era così vicina che il fumo, il fuoco e il fragore spaventarono i cavalli e forse ancor più gli uomini. Soltanto un cavaliere cadde col suo cavallo, ma gli altri si piegarono dietro il collo delle loro bestie, le costrinsero a girare su se stesse e galopparono via. Mi guardai intorno incredulo, e vidi che gli uomini ora erano molto meno nervosi. Sembravano tutti stupefatti dal successo di una manovra che avevano praticato così spesso in piazza d’armi, e che avevano sempre considerato come una specie di scherzo. Quando il cavaliere nemico che era rovinato a terra proprio davanti a noi si liberò dal suo cavallo morto e se la squagliò il più in fretta possibile, il contrasto di questa fuga disperata col suo aspetto piuttosto selvaggio, accentuato dal colbacco piumato che portava in testa, fece una tale impressione sugli uomini che tutti scoppiarono in una risata generale; molti si davano grandi manate sulle spalle in segno di soddisfazione. Suckow si volse verso di me, con un gran sorriso, ed io mi ricordai che anche per lui, come per molti dei suoi cantonisti, quello era il primo incontro col nemico. Mi avvicinai e chinandomi verso di lui, poiché ero ancor sempre in sella, gli tesi la mano; ed egli la strinse vigorosamente.

Proprio allora apparve un gran numero di soldati in marcia verso di noi, sempre dalla medesima direzione da cui erano giunti i fuggiaschi; non scappavano, ma marciavano inquadrati e col moschetto in spalla, sebbene pochi si preoccupassero di tenere il passo, e più d’uno avesse perso il cappello. In testa alla colonna, a cavallo, riconoscemmo il colonnello von Walther und Cronach, che era stato dato per morto; in verità aveva un braccio legato al collo con un fazzoletto sudicio, e il cavallo su cui montava non era più lo stesso con cui lo avevamo veduto andar via, ma per il resto pareva pieno di energia. «Eccellenza!» esclamò Suckow, e non seppe dir altro. «Ah, lei è qui!» borbottò il colonnello. «Un bello spettacolo si è perduto. Che porcheria! Appena hanno cominciato a fischiare le palle, queste canaglie si sono messe a scappare.» «Qualcuno è arrivato fin qui» confermò Suckow. «Pfui! Che porcheria!» ripeté il colonnello. «Ma con tutto questo, potremmo benissimo fermarci qui, e non sarebbe andata tanto male; invece c’è l’ordine di ritornare indietro. Lei ha già trovato il tenente von Kettelhorst?» «Non ancora, Eccellenza» replicò Suckow arrossendo, «siamo stati attaccati dalla cavalleria.» «Ah sì?» rispose il colonnello. «Va bene, ma adesso, in nome di Dio, porti i suoi carretti in paese, e si aggreghi al convoglio, sempre che quei signori siano rimasti qui ad aspettarci.» Suckow risalì a cavallo, i conducenti frustarono le loro bestie, ed entrammo in Auerstedt.

Lo spettacolo era ancor più desolante di quando eravamo partiti di lì, nove o dieci ore prima; tutti gli abitanti erano fuggiti, e diverse case erano in fiamme, più per la trascuratezza dei soldati che erano passati di lì, credo, che per il fuoco nemico. Nei cortili e nelle strade sostavano un gran numero di vetture cariche di feriti; i disgraziati si lamentavano e chiedevano acqua, ma pareva che nessuno si occupasse di loro. La piazza davanti alla chiesa era piena di soldati, per lo più seduti a terra, con la schiena contro i muri; pochi di loro avevano ancora il cappello e il tascapane, ma molti avevano conservato il moschetto. Soltanto qualcuno era ferito, il capo, il braccio o la coscia fasciati da un fazzoletto, ma la maggior parte parevano in ottima salute, a parte la fame e la stanchezza, e la barba non rasata. Costoro, a quanto pareva, se n’erano tornati indietro quando le palle avevano cominciato a fischiare troppo fitte per il loro gusto, ed ora, essendo giunti abbastanza indietro da ritenersi fuori pericolo, se ne stavano tranquillamente a riposare. I carriaggi di parecchi reggimenti erano fermi sulla strada, in cui le loro ruote avevano già scavato solchi così profondi che i legni più pesanti sprofondavano fino ai mozzi. Gli ufficiali che comandavano il convoglio si affannavano per far proseguire i vagoni attraverso il villaggio, frustando i cavalli e obbligando i loro uomini a spingere le pesanti ruote affondate nel fango, ma nessuno si rivolgeva per aiuto agli sbandati, tanto era evidente dalla loro espressione ottusamente pervicace che non ne avrebbero ottenuto alcuno.

Un ufficiale con l’abito azzurro dei dragoni, seguito da un domestico vestito di nero, si avvicinò a Suckow, i cui carri erano stati costretti a fermarsi prima ancora di sboccare sulla piazza, e lo apostrofò con arroganza. «Che reggimento è questo?» «Arnim» rispose il tenente. «E lei come si chiama?» proseguì l’altro. «Mi chiamo Suckow, tenente al reggimento d’Arnim, ma vorrei proprio sapere come si chiama lei» replicò Suckow, seccato. «Kettelhorst. Porti via i suoi ronzini, altrimenti di qui non passa più nessuno» ordinò l’altro. «La prego di non parlarmi con questo tono» ribatté Suckow, sempre più irritato. L’altro lo guardò con un risolino, poi si rivolse al suo domestico. «Vieni, Barsch, il signore si riscalda» disse in tono beffardo, e fece per andarsene. Suckow stava per replicare, ma all’improvviso si udì il fischio di una palla che si avvicinava. Stupidamente, tutti e quattro chinammo il capo; la palla passò a poca distanza da noi e andò a piantarsi nel muro di una casa. Il dragone, che era a piedi, andò a osservarla con le mani in tasca, poi si volse verso di noi. «Attenzione» annunciò, «ne arriva un’altra.» Io e Suckow saltammo giù da cavallo; i conducenti e i facchini si erano già messi al riparo da un pezzo, e i cavalli, lasciati soli e aggiogati alle stanghe, si agitavano inquieti. In quel momento arrivò la palla, con un fischio che gelò a tutti il sangue nelle vene, e fracassò la mano di Kettelhorst, ch’egli aveva appena tratto di tasca per farci segno. Nonostante la violenza del colpo il tenente non cadde, ma si appoggiò con la schiena al muro; poi fece qualche passo e scomparve dietro l’angolo della casa. Il domestico, che era rimasto per un istante come istupidito, si affrettò a seguire il suo padrone, che aveva lasciato una scia insanguinata sull’intonaco.

L’arrivo di quelle palle aveva messo in agitazione tutti quanti; i soldati che fino allora erano rimasti tranquillamente sdraiati nella piazza se ne stavano andando piuttosto in fretta, e qualche carro si mosse. Prendendo il cavallo per il morso, precedetti Suckow e sbucai sulla piazza, dove ebbi l’immensa soddisfazione di vedere la mia carrozza, riparata sotto il portico della canonica, e con i cavalli aggiogati; Will e il vetturino se ne stavano tutt’e due a cassetta e si guardavano intorno, con l’aria di non sapere che cosa fare. «Will!» chiamai, ma il frastuono prodotto da uomini e bestie spaventati era sufficiente a coprire la mia voce, anche senza il rimbombo dell’artiglieria, che si faceva ad ogni istante più distinto; mi pareva anzi di cominciare a sentire anche il crepitio della fucileria. «Will!» ripetei, facendomi largo fra la folla. Will finalmente mi vide, scese con qualche cautela da cassetta, e salì in groppa al suo cavallo; e così tenemmo la nostra conferenza in sella, come due generali. «Will, appena c’è un po’ di spazio, infilati dentro con la carrozza; non aver paura di calpestare queste canaglie, e frusta finché ce n’è bisogno» aggiunsi, consegnandogli il mio frustino; «porta via di qui la carrozza, ché i francesi saranno qui fra poco.» Ripetei le stesse cose al vetturino, poi tornai indietro per salutare Suckow; a cavallo era relativamente facile farsi strada fra la moltitudine dei soldati appiedati. Non vedendo il mio amico pensai che fosse rimasto con Kettelhorst, e mi accostai alla casa dove avevo visto scomparire quest’ultimo; senza smontare da cavallo mi affacciai alla finestra del pianterreno, e lì vidi che il domestico in abito nero stava fasciando la mano del disgraziato, di cui non restava che un moncherino. Suckow non c’era. «Come va?» chiesi. «Un po’ di mal di stomaco» rispose il dragone, pallido come un morto. «Buona fortuna!» conclusi, e me ne andai. Le palle di cannone continuavano a piovere; la maggior parte sfondavano i tetti delle case, e andavano a fracassare l’interno, dove del resto non era rimasto più nulla da distruggere. Molti edifici, ora, bruciavano, e l’aria era piena di fumo nero, denso e soffocante; pareva d’essere all’eruzione di Pompei, e per un istante, mentre faticavo a farmi largo fra i fuggiaschi, pensai che avremmo fatto tutti la stessa fine. Come Dio volle riuscii a tornare indietro, e vidi che la mia vettura si era messa in movimento, e aveva passato il fossato che correva su uno dei lati della piazza; ma ora non poteva più andare avanti. Will, a cavallo a fianco della carrozza, mi informò che un cassone d’artiglieria si era sfasciato urtando contro una casa, e che i soldati stavano sgomberando il passaggio; altri carri, tuttavia, incalzavano da dietro, e i loro conducenti, bestemmiando, cercavano di passare per forza. Finalmente il carro davanti alla carrozza si mosse, e il vetturale impugnò la frusta; ma l’affollamento era tale che non riuscì a far muovere la vettura, benché dietro di lui tutti gli gridassero di spicciarsi. All’improvviso, in quella calca, uno dei miei cavalli, urtato forse dalla ruota di un carro, cadde e impacciato com’era dalle briglie e dalle zampe dei compagni non riuscì più a rialzarsi. Il vetturale saltò a terra, ma parecchi soldati, pazzi di rabbia poiché la mia carrozza impediva ai loro carri di procedere, lo anticiparono, e con le baionette tagliarono le tirelle. Il vetturale, prendendo per il morso i due cavalli di testa, cercò di indurli a rimettersi in cammino, ma quelli, spaventati, non volevano saperne; oltre a tutto, il carico era ormai diventato troppo pesante per loro. Io e Will assistevamo a questa scena in groppa alle nostre cavalcature, senza saper che fare. Il vetturale mi venne incontro col cappello in mano e con una faccia spaventata, e disse che non c’era niente da fare, bisognava sacrificare qualche baule. La calca era atroce; i cavalli nitrivano disperatamente, gli uomini imprecavano, e il suono secco delle fucilate si faceva sempre più vicino. Ordinai a Will di scendere e scaricare dall’imperiale il baule più pesante, ma prima ancora che il disgraziato avesse potuto mettere piede a terra i soldati, che il panico rendeva audaci, si erano già affollati attorno alla carrozza, e qualcuno aveva cominciato a staccare i cavalli. Il vetturale corse verso quegli scalmanati, ma vista la mala parata tornò indietro, saltò una staccionata e si dileguò fra le case e gli orti; non l’ho mai più rivisto. I miei cavalli nitrivano disperatamente mentre i soldati tagliavano le tirelle; non appena furono staccati, i più intraprendenti di quegli energumeni si arrampicarono in groppa e spronarono via. Will si voltò verso di me con un’espressione stravolta, poi raggiunse di corsa la carrozza, che i soldati stavano senz’altro rovesciando nel fossato. Prima che potessi fermarlo era arrivato alla portiera, e stava cercando di arrampicarsi all’interno; ma proprio in quel momento la carrozza oscillò e si capovolse, e Will rimase schiacciato in quella rovina. Senza pensare a quel che facevo saltai giù da cavallo e lo raggiunsi, ma mi accorsi subito che non c’era niente da fare; il tetto della vettura gli aveva sfondato il torace, ed era morto all’istante. I soldati, senza darsene pensiero, erano già risaliti sui loro veicoli, e frustavano senza pietà; tutti quei carri e vagoni si rimisero in movimento, passando sopra il cavallo caduto, che voleva rialzarsi, e rompendogli le gambe. In quel momento sentii nitrire il mio pomellato, che avevo abbandonato storditamente; mi voltai, lasciando andare la testa di Will che avevo tenuto sulle ginocchia, e vidi che un soldato aveva inforcato la mia cavalcatura, e la stava strapazzando grossolanamente; la brava bestia non voleva saperne, ma infine dovette obbedire, e l’uomo cavalcò via. Il cavallo di Will doveva aver fatto la stessa fine, poiché non ce n’era più traccia. Stordito, mi guardai intorno; la mia carrozza era stata sfasciata, i miei bagagli erano perduti, i miei cavalli rubati e il mio domestico era morto. Per un momento pensai di restare lì seduto sopra il relitto della carrozza, a far la guardia ai bauli, finché non fossero giunti i francesi; con loro, pensavo, avrei saputo spiegarmi. Poi ragionai che benché non avessi nulla da temere, giacché gli Stati Uniti erano neutrali, sarebbe stato comunque poco onorevole farmi catturare dal nemico, e Pinkney, a Londra, non sarebbe stato troppo contento di venirlo a sapere; così decisi di cercare scampo a piedi.

La prima cosa da fare era andarmene di lì, per evitare di finir schiacciato in quella bolgia; perciò entrai in una casa, la cui porta era già stata sfondata da qualcun altro, uscii dalla finestra sul retro, attraversai un orto e mi ritrovai in aperta campagna. Ma mentre mi guardavo intorno per stabilire la direzione da prendere sentii echeggiare delle fucilate, e capii che la battaglia mi aveva raggiunto. Corsi attraverso il campo, affondando fra le zolle smosse, e per poco non precipitai in mezzo a una moltitudine di cacciatori che marciavano di buon passo in una strada infossata, protetta da un parapetto di pietra. I cacciatori, che riconobbi dalle loro uniformi verdi, potevano essere un centinaio; infangati fino alle ginocchia e coperti di polvere, conservavano tuttavia un certo ordine, e ripiegavano ordinatamente lungo la strada. A ogni momento qualcuno di loro rimaneva indietro, prendeva accuratamente la mira e tirava, poi correva a raggiungere gli altri; e questo sistema pareva non garbare ai francesi, che li seguivano a prudente distanza, senza avvicinarsi troppo. A un tratto, però, un drappello di ussari francesi comparve a forse cento passi dalla strada, un po’ più in alto rispetto a noi, e spinse i cavalli a una discreta andatura, sicché apparve evidente che ci avrebbero tagliato la strada. A quella vista gli ufficiali dei cacciatori gridarono ai loro uomini di raccogliersi in quadrato, schiena contro schiena, e con orrende bestemmie minacciarono il primo che avesse osato sparare senza comando. Gli ussari si fermarono ad appena cinquanta passi dal ciglio della strada, poi un ufficiale spronò il cavallo in avanti di qualche passo; era anziano, rosso in viso come la carne di bue, e a giudicare dall’eleganza della sua uniforme verde e dalla quantità di galloni dorati che la adornavano doveva essere un colonnello. Giunto a metà strada fra noi e i suoi uomini, fermò il cavallo e gridò ai cacciatori di arrendersi, promettendo a tutti salva la vita. Gli uomini si guardavano l’un l’altro, indecisi. Il colonnello continuava a parlare, in francese, ma le parole che aveva da dire erano così semplici che tutti le comprendevano benissimo. Poi, senza preavviso, uno dei cacciatori alzò il fucile, prese la mira e tirò, e il colonnello stramazzò da cavallo e restò a terra come un burattino cui avessero tagliato i fili, mentre la bestia spaventata scalciava e rinculava. Gli ussari proruppero in un grido di indignazione, sguainarono le sciabole con gran rumore di ferraglia e spinsero i cavalli verso di noi; ma erano troppo vicini, e quando i cacciatori, tutti insieme, tirarono su quel bersaglio impossibile da mancare, neppure uno restò in sella. Soltanto un ufficiale riuscì a giungere fino al bordo della strada infossata, ma lì il suo cavallo si fermò, rifiutandosi di saltare addosso agli uomini che si affollavano nella strada sotto di lui; e mentre l’uomo disperatamente tirava le briglie per andarsene di lì, uno dei cacciatori gli sparò in bocca. L’ufficiale cadde sanguinando e arrancò con le braccia come per arrampicarsi, ma un altro cacciatore uscì dai ranghi e lo colpì brutalmente in testa col calcio del fucile, e allora non si mosse più.

Prima che gli uomini avessero il tempo di ricaricare i fucili, tuttavia, i francesi che ci avevano seguito a distanza fino a quel momento, e che avevano assistito a ogni cosa, urlando di rabbia corsero su per la stradina e in un istante furono in mezzo a noi, con le baionette inastate. I cacciatori, che non avevano baionetta, cercarono di difendersi usando i fucili come bastoni, ma la maggior parte fuggirono. I francesi li inseguivano dappresso, gridando: «Pas de pardon à ces coquins verts!»; e più d’uno si fermava a prendere la mira e sparare, abbattendo i fuggiaschi nella polvere. Uno degli ufficiali, che si difendeva con la spada, venne preso per il colletto da un ufficiale francese, che esclamò ai suoi uomini: «C’est ce coquin!».73 L’ufficiale si scrollò di dosso l’avversario, sfuggì a diversi colpi di baionetta e filò via, perdendo la spada, mentre i francesi gli sparavano dietro senza colpirlo, gridando sempre «Coquin!». Per conto mio, credo di essermi addossato al muro di sostegno della strada, coprendomi la testa con le braccia e gridando più forte che potevo: «Je me rends!»;74 non era il momento di intavolare una discussione diplomatica. Dopo un istante, quando già i fuggiaschi si erano dileguati in fondo alla strada, inseguiti dai francesi inferociti, sentii che qualcuno mi prendeva per il bavero e mi strattonava, costringendomi ad alzarmi; e allora aprii gli occhi. Un francese puzzolente di sudore e di tabacco, senza abbandonare il fucile con la baionetta inastata, mi frugava sotto il cappotto, finché non trovò l’orologio, lo strappò via sfondandomi la tasca del panciotto, lo intascò e corse via. Mi guardai intorno; non c’era più nessuno.

Non avevo alcuna idea della direzione in cui mi sarebbe convenuto incamminarmi, e del resto cominciavo a dubitare dell’opportunità di andarmene così a spasso da solo sul campo di battaglia; sicché mi fermai a considerare se non fosse meglio cercare senz’altro un ufficiale francese e consegnarmi a lui. Mentre così riflettevo vidi che uno dei cacciatori, che avevo creduto morto, si guardava cautamente intorno, e non vedendo altri che me si metteva a sedere; poi si alzò del tutto, con qualche fatica, e cominciò a scuotersi la polvere dall’abito. Un secondo cacciatore, che era stramazzato al suolo a pochi passi di distanza, aprì gli occhi e lo chiamò. «Herr Schmidt!» Costui si voltò, vide il camerata e gli si avvicinò; nel frattempo quell’altro si era rialzato e a sua volta cercava di ripulirsi dal fango e dalla polvere. «Herr Klabund! Anche lei è vivo?» «Come vede, per questa volta l’abbiamo scampata!» «Ma Herr Klabund» riprese dopo un istante il primo «se non sbaglio è lei che ha tirato il colpo al colonnello?» «Proprio io, e credo di averlo preso alla testa.» «Andiamo a vedere!» e i due si arrampicarono su per la scarpata, fino a raggiungere il cadavere del colonnello francese. «In fede mia, caro camerata, l’ha preso proprio in mezzo agli occhi!» esclamò il primo, dopo essersi chinato a esaminarlo. «Un gran bel tiro!» «Non era mica più difficile che tirare al cinghiale, Herr Schmidt» ribatté l’altro, e così dicendo i due tornarono verso di me, apparentemente alla ricerca dei loro fucili. Ascoltando questa conversazione, ricordai che i soldati del reggimento cacciatori erano tutti figli di guardacaccia e forestali, abituati fin da bambini a maneggiare la carabina; trattati con indulgenza dagli ufficiali, e avvezzi a considerarsi al di sopra dei semplici soldati, già altre volte mi avevano fatto sorridere con la loro abitudine di chiamarsi per cognome, e di darsi cerimoniosamente del lei.

Non volevo, comunque, farmi trovare in loro compagnia da quei francesi che erano passati di lì un momento prima, se mai fossero tornati; così mi diressi dalla parte opposta. Lì, fino alla mattina, c’era stato un campo di granturco; ma ora le stoppie avevano preso fuoco e bruciavano producendo un disgustoso fumo nero, che il vento portava nella mia direzione. Anziché attraversare il campo dovetti aggirarlo, perdendo molto tempo; finalmente raggiunsi la carrozzabile e m’imbattei in altri francesi, che parevano più tranquilli, sicché mi avvicinai. Sulla strada erano rovesciati dei cassoni presi ai prussiani, che i soldati stavano saccheggiando. Qualcuno, prevedendo saggiamente che il bel tempo non sarebbe durato per sempre, s’impadroniva di un lungo cappotto da ufficiale; altri, dopo aver buttato via le scarpe, ne infilavano di nuove. A rispettosa distanza, parecchi contadini s’erano riuniti e stavano a guardare; alcuni portavano vecchi tricorni di feltro, ma i più avevano certi cappelli di paglia sfondati, che da soli rendevano testimonianza eloquente della povertà del paese. Uno dei soldati si accorse di quei muti osservatori e disse loro qualcosa ridendo, e poiché i contadini, spaventati, arretravano, fece loro segno di avvicinarsi e prendere pure quel che volevano. Qualcuno si fece coraggio, e col cappello in mano i più arditi si avvicinarono al vagone, impadronendosi chi di un paio di scarpe, chi di una bottiglia di vino; i primi se ne andarono sani e salvi col loro bottino, ma quando videro il vino i francesi protestarono a gran voce e costrinsero i contadini a lasciare le bottiglie, al che tutti quanti giudicarono più prudente tornarsene a casa. Contadini, soldati e insomma tutti quelli che passavano calpestavano allegramente una quantità di carte, lettere, registri, libri e giornali, buttati nel fango senza tante cerimonie da chi cercava una preda più sostanziosa.

Passando oltre alla ricerca di un ufficiale trovai altri soldati che avevano catturato degli artiglieri, con i vestiti a brandelli e i volti neri come il carbone. La loro batteria era stata presa d’infilata dall’artiglieria francese, i cassoni delle munizioni erano saltati e la maggior parte dei loro compagni erano morti. Molti di quei disgraziati non ci vedevano più e si trascinavano a tastoni, tenendosi per mano. I francesi li spingevano avanti come bestie, e quando qualcuno faticava a muoversi riceveva un colpo nelle reni col calcio del fucile, così brutale da farlo barcollare. «En avant, couillons!»75 gridavano i francesi; credo che fossero così di cattivo umore perché i loro prigionieri non avevano più niente che potesse essere rubato. Poco più avanti scorsi tre francesi che circondavano un sottufficiale prussiano. I tre lo tenevano in mezzo e lo derubavano con comodo, ignorando tutto ciò che succedeva intorno a loro. Avevano appoggiato i fucili per terra e uno dei tre teneva fermo l’uomo mentre i suoi compari facevano man bassa dell’orologio e della cintura. Poi gli dissero di togliersi gli stivali, e il sottufficiale obbedì. Uno di loro se li legò alla cintola, poi raccolse il fucile e se ne andò tranquillamente, lasciando lì il prigioniero scalzo, di cui non gl’importava più nulla. I suoi compari gli corsero dietro e vidi che dopo averlo raggiunto discutevano animatamente, senza dubbio per la proprietà degli stivali; non dubito che siano giunti ai pugni, ma non posso testimoniarlo con certezza, poiché mi affrettai a passar oltre, lasciandomi indietro della gente così litigiosa.

Risalito un pendio vidi a poca distanza le prime case di un villaggio, e mi avviai in quella direzione. Nei campi, su entrambi i lati della strada, non c’erano cadaveri, ma un gran numero di cappelli; in una specie di campicello quadrato ce n’erano così tanti che mi fermai a contarli, e dovevano essere almeno un centinaio. Avvicinandomi al villaggio vidi le porte delle case crivellate di palle e in più punti i muri sfondati dagli obici. Il luogo era stato abbandonato dai suoi abitanti, che tuttavia non avevano avuto il tempo di portar via il bestiame; e ora i francesi, dopo aver messo in fuga il nemico, si battevano con entusiasmo ancora maggiore contro le povere bestie. In un recinto accanto a un orto si agitava un branco di oche; in un istante quattro o cinque soldati abbatterono a calci la staccionata, piombarono sulle oche e le decapitarono a colpi di sciabola, spettacolo che dopo tutti i macelli cui avevo assistito in quel giorno non mi divertì quanto avrebbe forse fatto in un’altra occasione. Subito dopo, un muggito disperato coprì le urla allegre dei soldati e lo schiamazzo delle galline in fuga; svoltai l’angolo e vidi che alcuni fanti avevano circondato un grosso vitello, e tenendosi a prudente distanza dalle sue corna lo lardellavano di colpi di baionetta, finché la bestia, coperta di sangue, non stramazzò al suolo con gli occhi vitrei, continuando sempre a muggire; allora i soldati la finirono e cominciarono a trascinarla via. Più avanti, un colpo di pistola proveniente da una cantina mi fece sobbalzare; ma subito compresi che doveva essere un bevitore impaziente, che aveva tirato su una botte di birra. Nella piazza del villaggio, davanti alla chiesa, era ferma una vettura, e nella vettura sedeva un generale francese gallonato, con la feluca di traverso, tutto rosso e sudato, un paio di occhialini rotondi davanti agli occhietti malvagi; seppi poi, quando tornai a incontrarlo quella notte stessa, che si trattava del maresciallo Davoust. Sedeva con i piedi sul predellino e si sforzava di leggere una carta nella luce incerta del crepuscolo; sui cavalli della carrozza, che dovevano essere stati requisiti sul posto, sedevano due contadini, masticando un filo di paglia, in attesa che fosse loro ordinato di muoversi. Nel villaggio non c’era nemmeno un abitante, tutto era aperto e sfasciato, ovunque masserizie trascinate in mezzo alla strada e bestiame macellato a colpi di baionetta; e in mezzo a tanto disastro, quei bravi contadini tedeschi sedevano tranquillamente sui loro cavalli, di null’altro preoccupati se non di aspettare gli ordini del padrone. Ecco in verità una nazione flemmatica!

Ponderai la possibilità di rivolgermi al generale, ma poi conclusi ch’era meglio non seccare un personaggio così potente, che avrebbe potuto rivelarsi di cattivo carattere; era meglio parlamentare con un ufficiale subalterno. Perciò passai davanti alla carrozza e proseguii. Accanto all’uscio sfondato di una casa c’era appunto un ufficiale francese, ma era impegnato a picchiare un soldato con l’impugnatura della sciabola, per chissà quale colpa; poiché la lama della sciabola roteava nell’aria, girai prudentemente al largo. Le ultime case del villaggio non erano soltanto saccheggiate, ma bruciate; qualcuna anzi finiva ancora di bruciare. Scavalcai la carogna di un cavallo che riempiva la strada, e quando vidi quel che c’era dall’altra parte dovetti portarmi la mano alla bocca per non lasciarmi sopraffare dalla nausea. A perdita d’occhio, fino ai campi che si stendevano oltre il villaggio, il terreno era coperto di cadaveri bruciati. Squadre di soldati portavano fuori dalle case incendiate i cadaveri e li ammucchiavano a terra; alcuni erano così sfigurati dalle fiamme che si riconosceva a stento la forma dello scheletro, e braccia e gambe si sbriciolavano fra le mani dei portatori. Seppi poi che i francesi, dopo aver conquistato il villaggio, avevano trasportato i loro feriti in gran numero nelle case. Una batteria prussiana aveva tirato sul villaggio a granate incendiarie, e nessuno si era preoccupato di spegnere il fuoco, sicché tutti quei poveretti erano bruciati vivi. La mancanza di cibo, il puzzo atroce di carne bruciata e l’orrore di quello spettacolo mi fecero mancar le gambe, ma se fossi caduto sarei finito sopra a qualche cadavere; sicché mi feci forza e scavalcando l’ammasso di corpi uscii dal villaggio.

Nei campi lo spettacolo era diverso, ma non meno orrendo. Là dove i prussiani avevano attaccato per cercar di riconquistare il villaggio alla baionetta giacevano innumerevoli cadaveri, falciati dalla mitraglia. Soldati francesi e contadini del posto si aggiravano fra i morti, frugavano le saccocce e i tascapane, e in mancanza di meglio si accontentavano di cavare gli stivali o addirittura i calzoni ai disgraziati; più d’uno giaceva già mezzo nudo. La miseria dei contadini in queste plaghe è tale, che nulla viene buttato via, se appena può essere impiegato in qualche modo; ed io vidi un disgraziato in camicia, con certe brache strappate tenute su alla meglio da una sola bretella, provarsi con soddisfazione la giubba tolta a un cadavere, sfondata dalle palle e intrisa di sangue, e poi andarsene contento col suo bottino. Fra quei relitti d’uomini, che fino a stamattina avevano costituito battaglioni e reggimenti schierati a battaglia, qualcuno ancora si muoveva, e cercava di attirare con rauche grida l’attenzione dei barellieri che si aggiravano in mezzo a loro; ma anche qui la più gran parte dei feriti erano crepati mentre ancora si combatteva, e tutti, da una parte e dall’altra, avevan di meglio da fare che portare loro soccorso. Ora quelli che avevano il potere di decidere, desiderando evidentemente che un lavoro così ben fatto fosse completato al più presto, avevano dato gli ordini necessari, in modo che non si dovesse pensarci più. In mezzo a un campo arato, dove il terreno argilloso offriva minor resistenza, una squadra di prigionieri prussiani disarmati lavorava di pala per scavare un’enorme fossa, al comando di un sottufficiale francese; e diversi carri colmi di cadaveri, per lo più nudi e orribilmente sfigurati, attendevano di poter scaricare il loro livido carico. È curioso come l’uomo sia attratto, contro la sua volontà, dagli spettacoli più orridi: ognuno dovrebbe naturalmente cercar di sfuggire una vista degna della geenna, come quella che mi si presentava agli occhi, eppure non sono alieno dal credere che si potrebbe far pagare per vedere simili spettacoli, e si troverebbe sempre qualcuno disposto a metter mano alla borsa. Io, almeno, nonostante la ripugnanza che mi suscitavano quelle immagini, non riuscivo a staccar gli occhi dai carri infernali, e distolsi lo sguardo solo quando, a un comando del sergente, il primo di quei veicoli venne ribaltato dai soldati, riversando nella fossa ciò che conteneva. Quando tornai a guardare, i prigionieri, scesi nello scavo che arrivava loro alla vita, stavano sollevando i cadaveri per le braccia e per le gambe, e li disponevano uno accanto all’altro in una fila interminabile. Credevo che uno spettacolo simile fosse quanto di peggio poteva presentare un campo di battaglia, ma mi ingannavo; poiché non appena la fossa fu piena vidi arrivare un altro carro. Tre o quattro ussari lo accompagnavano, e ognuno di loro si tirava dietro per le briglie almeno uno o due cavalli senza cavaliere, che dall’equipaggiamento riconobbi per prussiani; gli ussari, evidentemente, avevano fatto il loro bottino durante il combattimento, e non intendevano separarsene neppure ora che erano stati comandati per quell’incarico. Il veicolo proveniva evidentemente da qualche casa dove i chirurghi stavano operando i loro infelici pazienti, poiché conteneva un carico sanguinoso di membra amputate. Braccia e gambe vennero rovesciate senza tanti complimenti nella fossa già colma di cadaveri, dopodiché i prigionieri posero mano alle pale e cominciarono a riempire la trincea, ricoprendo tutta quella carne livida e insanguinata di un sottile strato di terra; gli ussari, seduti in sella ai loro cavalli, se ne stavano tranquillamente a guardare, e uno di loro si accese perfino la pipa.

Proprio in quel momento mi sentii battere sulla spalla, e voltandomi mi trovai di fronte due francesi. Ero così prostrato che non riuscii ad aprire bocca, e così venni trattato senz’altro come un prigioniero, benché fossi vestito in abiti civili. Il primo mi frugò senza tanti complimenti, trovò la borsa del denaro che tenevo in una tasca interna della redingote, l’aprì e poi, evidentemente soddisfatto del contenuto, l’intascò; il secondo cercò l’orologio, ma dovette accorgersi, dallo strappo nel panciotto, che qualcuno era già arrivato prima di lui. Tuttavia non si diede per vinto e continuò a frugare, finché non trovò la tasca dove conservavo un fascio di biglietti di banca prussiani; quando comprese di che cosa si trattava, fece una smorfia di disgusto, ma tuttavia li intascò e se ne andò. Intanto ne era arrivato un terzo, e non appena mi vide si mise a gridare: «L’argent!»76 in tono poco amabile. Mi frugai le tasche, nella speranza di trovare ancora qualcosa per soddisfare quell’ultimo creditore, ma non riuscii a far saltar fuori che un unico soldo; l’uomo non parve sdegnarlo, ma dopo averlo intascato tornò a gridarmi in faccia: «L’argent!» e per dare maggior forza alle sue parole impugnò la pistola e me la spianò davanti al naso. Col tono più umile possibile obiettai: «Je n’ai plus d’argent, Monsieur; on m’a déjà pris tout».77 Questa risposta ottenne un effetto impreveduto; l’uomo, sentendo che parlavo la sua lingua, spalancò gli occhi, poi rimise a posto la pistola e si voltò verso i suoi compagni. «Hé! Maréchal-des-logis! Celui-ci parle français!»78 gridò.

Il sottufficiale cui si era così rivolto era un omaccione dalla fisionomia poco raccomandabile, che sembrava svolgere le funzioni di tesoriere; i soldati gli consegnavano il denaro trovato sui morti e sui prigionieri, ed egli lo faceva sparire in un fazzoletto sporco, che doveva evidentemente servire da cassa comune della compagnia. Sentendo quella notizia straordinaria mosse qualche passo verso di me e m’interrogò in tono cortese, per quanto le circostanze lo permettevano.

«Vous n’avez donc plus d’argent, Monsieur?»79

«Non, Monsieur, on m’a tout pris.»80

«Mais vous n’êtes-pas Français, par hasard?»81

«Non Monsieur, vous me flattez, mais je suis Américain.»82

Dopo questa conversazione il brav’uomo si grattò la testa; era evidente che non sapeva cosa fare di me. Il caso volle che in quel momento un ufficiale si trovasse a passare lì vicino, e subito il maresciallo d’alloggio lo chiamò e gli spiegò brevemente la mia situazione. L’ufficiale, un capitano a quanto credo, corrugò la fronte; mi prese per un braccio e mi condusse in disparte. Era un uomo ancor giovane, con folti favoriti biondi.

«On me dit que vous êtes Américain. Que faites-vous donc en ce lieu?»83

«Monsieur, je suis l’ambassadeur des Etats-Unis d’Amérique chez Sa Majesté Prussienne»84 risposi, giudicando che ormai la verità mi avrebbe giovato più di qualunque dissimulazione. Il capitano mi guardò senza manifestare quel rispetto che un titolo così altisonante avrebbe dovuto meritare.

«Les ambassadeurs, pourtant, ne voyagent pas souvent à pied et sans domestique»85 osservò sospettoso.

«J’ai perdu mon carrosse et mes chevaux, et mon domestique est tué. En plus, on m’a volé tout ce que j’avais sur moi, jusqu’au mouchoir.»86

Il brav’uomo parve scosso da questa rivelazione.

«Comment a-t-on pu vous piller, vous qui parlez notre langue?»87

Subito dopo, tuttavia, una considerazione più importante si fece strada nella sua mente.

«Il faut que le Maréchal vous parle. Venez!»88

Era ormai buio quando raggiunsi, sotto scorta, quello stesso villaggio di Auerstedt dove avevo passato la notte precedente, e dove avevo perduto da poco tutti i miei averi; qui giunti, i miei guardiani s’informarono del maresciallo Davoust, e seppero che si era insediato in casa del pastore. Il maresciallo era seduto a tavola in compagnia di un gran numero di generali, dalle uniformi luccicanti di galloni, e in piedi davanti a lui, quando venni introdotto nella stanza, c’era appunto il padron di casa.

«Lei è il predicatore del villaggio?» chiese il maresciallo; un aiutante si affrettò a tradurre le sue parole in tedesco.

«Sì!» rispose quel degno ecclesiastico, con un fil di voce.

«Ha perduto molto nel saccheggio?»

«Purtroppo ho perduto tutto!»

«A quanto valuta le sue perdite?»

«Valutarle non posso, ma se dico di aver perduto più di duemila talleri, non dico troppo» esclamò il pastore, che cominciava a rianimarsi.

«È molto. La guerra è un gran male. Noi non combattiamo volentieri» osservò gravemente il maresciallo. «Da quanto tempo abita qui?» riprese poi in tono duro.

«Dieci anni.»

«Conosce bene la sua gente?»

«Credo proprio di sì!»

«Mi porti qualcuno di cui possa fidarmi, per farmi da guida nei dintorni.»

«Non sarà facile trovare qualcuno, sono scappati tutti.»

«Vada e cerchi qualcuno!»

A queste parole un ufficiale prese per il braccio il pastore e lo condusse fuori. Il maresciallo scrisse qualcosa su un pezzo di carta, lo piegò, lo consegnò a un aiutante che subito sbatté i tacchi e si precipitò fuori; poi si volse verso di me.

«Così, lei è americano, e non è una spia?»

Non più di qualche settimana fa, in un caffè di Berlino, Schack si era fatto beffe di quell’uomo, del suo castello malandato, dei suoi servi male in arnese, della sua arcigna moglie e delle sue quaglie; ed ora stava lì seduto davanti a me, impaziente, e gli sarebbe bastata una parola per farmi fucilare.

«Sono americano, e sono l’inviato accreditato dal governo degli Stati Uniti alla corte del re di Prussia» ripetei.

La fisionomia del maresciallo era del tutto inespressiva, sicché nulla permetteva di comprendere che cosa passava dietro quella fronte calva e quelle lenti rotonde.

«Ha delle credenziali che lo dimostrino?»

«Ho perduto tutto, i miei bagagli e i miei cavalli. Anche il mio domestico è morto.»

Il maresciallo mi fissò per un attimo, si tolse gli occhiali e mi fissò di nuovo, come per mettere meglio a fuoco la mia immagine, poi aprì la bocca e stava per parlare, quando la porta si aprì e rientrò il pastore, in compagnia di un contadino scalzo, col cappello in mano. L’ufficiale che li accompagnava s’inchinò profondamente davanti al maresciallo:

«Monseigneur, il prete ha trovato quest’uomo.»

In un altro momento avrei riso al vedere questi francesi, che si sono tanto scaldati per fare la loro rivoluzione e spazzar via il re e la nobiltà, inchinarsi con deferenza davanti a un antico sergente, e dargli del “Monseigneur” come se fosse un principe del sangue; ma non ero nello stato d’animo adatto per divertirmi a simili particolari. Il pastore si fece avanti, s’inchinò ancor più profondamente e presentò il suo uomo.

«Ecco Johann Christian Kahle. Non aveva niente da perdere, è l’unico che è rimasto. Sua moglie e i suoi bambini dormono nei pagliai.»

Il maresciallo si mise gli occhiali sul naso e avvicinò la candela al contadino, osservandolo per un istante in silenzio; poi parlò, puntando col dito la carta che teneva spiegata sulle ginocchia. Come prima, parlava francese, e un giovane ufficiale degli ussari, che parlava perfettamente tedesco, traduceva le domande e le risposte.

«Siete del posto, voi?»

«Sissignore.»

«Conoscete anche il paese?»

«Sono nato qui.»

«Rispondete con precisione. Quanto c’è da qui a Rannstedt?»

«Mezz’ora.»

«Da dove passa la strada?»

«Attraverso il villaggio.»

«Non c’è nessun’altra strada?»

«Sì, la strada maestra di Weimar, ma si allunga.»

«Bisogna passare il fiume?»

«No, la strada è tutta al di qua del fiume.»

«E com’è la strada? I cannoni possono passare?»

«Credo di sì. I carri passano.»

«E fra Rannstedt e Weimar, ci sono fiumi, o gole?»

«No.»

«Ma bosco?»

«Sì.»

«E che bosco è?»

«In parte pini, in parte faggi.»

«Non c’è nessuna strada per Weimar oltre la strada maestra?»

«Forse qualche strada campestre.»

Il maresciallo ponderò per qualche istante col capo chino sulla carta, poi si volse al pastore, con gli occhietti che brillavano malignamente sotto gli occhiali.

«Quest’uomo mi farà da guida, ma verrà anche lei con noi. Lei ha studiato, sa leggere una carta, e parla francese. Tutto quel che ha perduto nel saccheggio le sarà rimborsato, e guadagnerà il favore speciale dell’imperatore Napoleone.»

«Ma mia moglie è malata!» si smarrì il pastore. «E ho due bambini! Non posso lasciarli soli, con i soldati in casa!»

«Non gli accadrà niente, li prendo sotto la mia protezione.»

«Ma il mio ufficio non mi permette! Tutti mi crederanno un traditore! Perderò il posto!» volle ancora difendersi il disgraziato, ma già due ufficiali lo prendevano sotto braccio e lo conducevano fuori.

«Non ho mangiato da due giorni! I soldati mi hanno picchiato! Non ho le scarpe adatte! E non ho neppure un cappello!» strillò ancora il pastore, mentre varcava la soglia.

«Dategli da mangiare, e un berretto!» ordinò Davoust, con perfida sollecitudine. Poi, volgendosi verso di me: «Quanto a voi, signor Americano, poiché avete perduto tutte le vostre credenziali, mi permetterete di considerarvi mio ospite, fino a quando non avrò presentato il mio rapporto a Sua Maestà l’Imperatore»; e con un cenno del capo uscì. Generali e ufficiali uscirono con lui, chiudendosi la porta a chiave alle spalle, sicché rimasi solo e al buio. Ero così stanco che non sentivo neppur più la fame. Distesi il mio mantello sul tavolo, mi sdraiai su quell’incomodo giaciglio e in pochi secondi mi addormentai.