L’indomani mattina, a quanto mi è stato raccontato, un aiutante del maresciallo Davoust venne a vedermi, e mi trovò nel delirio della febbre. Il pastore Glessgen, nella cui casa trascorsi tutto il tempo della malattia, mi assicurò in seguito che la febbre e i dolori erano comparsi verso l’alba, e che continuai a delirare per parecchie settimane. Il medico militare francese, che curava i feriti ricoverati a centinaia nelle case del villaggio, attribuì la febbre agli strapazzi degli ultimi giorni, alle fatiche e al digiuno; ma constatando, dopo qualche giorno, che l’infiammazione persisteva dovette procedere a un esame più particolareggiato, e riconobbe i sintomi dello scolo. Nonostante le assicurazioni di Pandaro, Cressida mi aveva impestato. Fino a quel momento, un attacco di gonorrea mi era sembrato una specie di scherzo, e mi ero sempre tratto d’impaccio senza troppo danno; ma questa volta ero solo, senza danari e senza domestici, in una casa da cui i soldati avevano portato via tutto, in mezzo a un paese devastato; il pastore mi dava un piatto di minestra ogni giorno, ed era quel che mangiava lui stesso, e i feriti acquartierati in casa sua non se la passavano meglio. Soffrivo di allucinazioni così potenti che il pastore, quando mi fui rimesso, stentò a convincermi che quel che credevo di ricordare era stato soltanto il frutto della mia immaginazione. Ero certo che Napoleone in persona fosse venuto a visitarmi, e ancor oggi, se chiudo gli occhi, me lo rivedo davanti. Mi par di ricordare un uomo di piccola taglia, magro, giallo, in vestaglia e berretto da notte, che beveva una tazza di caffè guardandomi in faccia; ma il pastore mi assicurò che si trattava di una visione prodotta dalla febbre. Finalmente, dopo quattro settimane, il console americano a Lipsia, Pack, informato delle mie condizioni venne a trovarmi, e mi fece rimettere una provvista di liquore di Van Swieten, grazie al quale ricuperai la salute, anche se per più di un anno, in seguito, ho continuato a portare i postumi della cura.
Era ormai la fine di dicembre quando mi ritenni abbastanza in forze da poter viaggiare, e Pack venne di nuovo a trovarmi, portandomi un passaporto francese che mi avrebbe permesso di raggiungere Amburgo, e là imbarcarmi per l’America. Molte cose erano avvenute nel frattempo, mentre io sudavo la mia gonorrea in casa del pastore Glessgen, sotto una montagna di coperte, mangiando pane e mercurio. Napoleone era entrato a Berlino fra le acclamazioni della folla, e poi aveva proseguito verso oriente, per far la guerra ai russi nel cuore dell’inverno. L’elettore di Sassonia si era affrettato a fare la pace, e l’imperatore, colpito da tanto buon senso, lo aveva promosso motu proprio re di Sassonia. Il re di Prussia, invece, aveva perduto in un sol giorno il suo esercito e il suo regno: tanto che avrebbe potuto dire, come Don Carlos, “afflavit Dominus, et dissipati sunt”. In quello stesso 14 ottobre in cui il maresciallo Davoust aveva fatto del suo meglio per ammazzarmi nella campagna intorno ad Auerstedt, il principe Hohenlohe, che aveva “battu les Français dans plus de soixante affaires”, era stato sbaragliato da Napoleone sull’altipiano che domina la città di Jena. Il barone Piré, dell’Institut, ha pubblicato appena due anni fa, come tutti sanno, il primo tomo della Corréspondance annotée de l’empereur Napoléon,89 dove chiunque può leggere il biglietto che l’imperatore scrisse a Giuseppina, all’indomani della duplice vittoria: “Amica mia, ho fatto delle belle manovre contro i prussiani. Ieri ho vinto una grande battaglia. Erano centocinquantamila uomini. Ho preso ventimila prigionieri, cento pezzi d’artiglieria e delle bandiere. Sono stato di fronte e vicino al re di Prussia. Ho evitato di catturarlo, come pure la regina. Bivacco da due giorni. Sto meravigliosamente. Addio, amica mia, stammi bene e amami. Nap”. Non ho mai più rivisto nessuno di coloro che conobbi in quei mesi. Il destino di alcuni di loro sta scritto nei libri di storia, e tutto il mondo ne è informato; di uno almeno voglio ricordare la fine, poiché mi pare che in caso contrario a queste pagine mancherebbe qualcosa. Il mattino della battaglia il duca di Brunswick, non appena alzata la nebbia, si era spinto a cavallo fino a duecento passi dalle prime case del villaggio, di quello stesso villaggio di cui scorgevo in lontananza il campanile, per cercar di capire come mai i granatieri non riuscivano a prenderlo; e lì una palla di fucile lo colpì in faccia, proprio come mi aveva detto Schill, entrando dall’occhio sinistro e uscendo dal destro. Il duca svenne e cadde da cavallo, ma i suoi aiutanti riuscirono a rimetterlo in sella e a condurlo via; gli coprirono il viso con un fazzoletto e lo portarono indietro, alla ricerca di una casa dove fosse possibile somministrargli le prime cure. Ma la rotta dell’esercito impedì di ricoverarlo, e il duca, accompagnato dal contadino Krippendorf, che gli aveva fatto da guida nelle prime ore della battaglia, e dal medico dottor Völker, fu condotto cieco e agonizzante, in fuga davanti all’incalzare della cavalleria francese; nel delirio affermava di vedere i propri occhi, e interrogato come ciò fosse possibile, concludeva logicamente di avere due teste. Il 20 ottobre giunse nella sua capitale; già cinque giorni dopo tuttavia, poiché i francesi rifiutavano di riconoscere la neutralità del suo Stato e si accingevano a invaderlo, dovette essere trasportato ancora più lontano, oltre l’Elba, in territorio danese, e là infine morì il 10 novembre, neppure un mese dopo il giorno fatale.
Molto diverso fu il destino del generale von Blücher; e voglio annotare anche questo, benché sia ancor più conosciuto. Unico fra i comandanti dell’esercito sbaragliato a Jena e Auerstedt, egli conservò la fiducia del re, e ufficiali e soldati riconobbero incarnato in lui lo spirito della Prussia. A più riprese si disse che soffriva di disturbi mentali, e che durante le crisi credeva di essere incinto di un elefante, generato dentro di lui da un granatiere francese; tuttavia il re non ritenne opportuno togliergli il comando supremo dell’esercito. Nella campagna del 1814 fu battuto da Napoleone ogni volta che lo incontrò, ma ogni volta si trovava più vicino a Parigi, finché non entrò nella capitale e si guadagnò il titolo di principe. L’anno seguente Napoleone lo batté ancora una volta, a Ligny, e fu a un punto dall’ammazzarlo, perché il vecchio cadde da cavallo mentre conduceva la sua cavalleria alla carica, e fu salvato a stento dal suo aiutante; ma due giorni dopo, la battaglia di Waterloo fece dimenticare ogni cosa. Più tardi, Blücher si coprì di ridicolo cercando di far saltare il ponte di Jena a Parigi, con sopra la sentinella inglese che il suo alleato il duca di Wellington vi aveva collocato appunto per impedirglielo; ma per tre volte di seguito i genieri non riuscirono a far brillare la mina, dopodiché egli dovette rinunziare, a malincuore, alla sua vendetta, per ingiunzione personale del re di Prussia. Andò a Londra, ricevuto con grandi onori, e lord Byron ha scritto di lui: “Ricordo di aver visto Blücher alle riunioni londinesi e non ho mai visto nessuno della sua età meno degno di rispetto. Con quei suoi modi e quella voce da sottufficiale di reclutamento ambiva agli onori di un eroe, come se si potesse adorare un sasso solo perché un grand’uomo ci è inciampato”. Poi cadde nuovamente da cavallo, procurandosi un trauma cranico da cui non si riprese più fino alla morte.
Altri, che solo brevemente e per una specie di scherzo avevano potuto comparire fra i grandi di questo mondo, hanno avuto un destino meno illustre; di loro hanno parlato i giornali, non i libri di storia. Pauline Wiesel è morta quest’anno a Parigi, in età di sessanta e più anni, e benché fosse passato tanto tempo, s’è trovato un giornalista francese per ricordare chi era stata, e scriverlo sulla sua gazzetta. Appena due mesi dopo la morte del principe Louis, quando Berlino era occupata da Napoleone, Pauline perse suo marito e subito sposò un ufficiale francese, seguendolo poi a Parigi; rimasta ancora vedova ne sposò un altro, e quando morì era conosciuta dai vicini e dai bottegai come la moglie del capitano Vincent, che si godeva la pensione in un comodo appartamento borghese a Neuilly. Il maggiore von Schack cadde nelle mani dei francesi il primo novembre, quando il reggimento dei Gensdarmes capitolò ad Anklam; liberato sulla parola, come la maggior parte degli ufficiali prigionieri, continuò a vivere a Berlino al di sopra dei suoi mezzi, finché nel 1815, carico di debiti, non pensò di togliersi d’impaccio sposando Victoire, che era destinata a ereditare una fortuna, poiché i suoi fratelli erano stati entrambi uccisi in guerra. I giornali, a quel tempo, lasciarono intendere che Schack era diventato da molto tempo il suo amante, e che Victoire aspettava un bambino da lui, ma non so che conto fare di questa notizia; è vero, invece, che il maggiore aveva più di cinquant’anni e la promessa sposa aveva passato la trentina. Berlino, a quanto pare, non era più la stessa che avevo conosciuto io; il re Federico Guglielmo, dopo la morte di sua moglie e i lunghi anni di esilio, amava ancor meno gli scherzi, e anche i suoi ufficiali non erano più allegri come prima. Al maggiore, i camerati del reggimento dissero in faccia che se avesse sposato quella signorina, già avanti negli anni com’era, e con la faccia scrostata dal vaiolo, e figlia, per di più, d’un borghese che aveva comprato il suo titolo nobiliare, un giurì d’onore lo avrebbe costretto a dimettersi. Quando a Berlino cominciarono a circolare vignette e versi satirici che si beffavano di lui, il maggiore si tirò un colpo nella sua casa sul viale dei Tigli; Victoire, sopraffatta dalla vergogna, fuggì con la madre e andò a stabilirsi in Italia. Più tardi, però, tornò a casa, ed è oggi, a quanto ho sentito dire, una delle vecchie signore più spiritose e divertenti di Berlino. Qualche anno fa le ho scritto una lunga lettera, ma non mi ha mai risposto.
Anche un’altra delle mie conoscenze europee si tirò un colpo di pistola, come il maggiore von Schack, e più o meno negli stessi giorni, benché in tutt’altre circostanze. Il conte Jan Potocki, con cui avevo conversato davanti al fuoco nel castello di Pulawi, non tornò più a Pietroburgo dopo la caduta del ministero Czartoryski, e andò a stabilirsi nelle sue proprietà in Ucraina. Per molti anni lavorò accanitamente ai suoi studi, pubblicando i Principes de Chronologie pour les temps antérieurs aux Olympiades 90 e l’Atlas archéologique de la Russie européenne,91 che gli valgono ancor oggi la gratitudine dei dotti. I suoi nervi, a quanto pare, si guastarono per il troppo studio; era soggetto a frequenti attacchi di malinconia, e a dolori che nessun medico sapeva curare. Durante questi accessi egli limava una palla d’argento, che ornava il coperchio della sua teiera. Il 20 novembre 1815, la palla raggiunse le dimensioni volute; dopo averla fatta benedire dal cappellano del castello, la introdusse nella canna della pistola e si fece saltare le cervella. Io ho parlato col medico ch’egli aveva fatto venire a casa sua dalla Francia, e che non aveva saputo curarlo, il dottor Caillois; costui in seguito è venuto ad abitare in America, e mi ha raccontato la storia del suo infelice paziente, parola per parola.
Su molti altri non ho più avuto notizie; e quando le ho avute, non sempre sono stato in grado di verificare se si riferivano davvero a coloro che mi era capitato di incontrare. Qualche anno fa, per esempio, un generale von Clausewitz cercò con tutti i mezzi di essere nominato ambasciatore prussiano a Londra, ma non ci riuscì; dev’essere lo stesso di cui si è poi pubblicata a Berlino un’opera in molti volumi sulla natura della guerra, quale solo un tedesco poteva pensare di scrivere; ma se sia il medesimo che molti anni prima serviva come aiutante di campo il principe August, non m’è riuscito di scoprire. Credo d’aver accertato, invece, che il luogotenente von Schill, da me incontrato in Jerusalemerstrasse e ritrovato in circostanze così eccezionali sul campo di battaglia, era quello stesso che tre anni dopo guadagnò un’effimera notorietà, conducendo il suo reggimento in campo contro i francesi, allorché Napoleone dichiarò guerra all’Austria. Il re Federico Guglielmo lo sconfessò prontamente, e promise all’imperatore tutto il suo aiuto per acchiapparlo, dopodiché immagino che quei due sovrani si sarebbero disputati l’onore di impiccarlo; ma non gli venne fatto. Inseguito da mezzo mondo, Schill tentò di raggiungere la costa baltica per imbarcarsi su una nave inglese, ma fu raggiunto a Stralsunda da forze danesi e olandesi, e cadde combattendo. Presso il comandante olandese si trovava per caso il professor d’Haauw, dell’Università di Leida, allievo del celebre Gall; egli andò a vedere il cadavere, ch’era stato portato nel municipio di Stralsunda, e rimase così colpito dalle protuberanze del suo cranio da chiedere che quel tesoro fosse conservato nell’interesse della scienza. Così, aggiunse, i dotti avrebbero potuto compiere una ricognizione precisa dei tratti frenologici che predispongono all’insubordinazione, alla ribellione e alla pazzia, con grande giovamento dell’impero. Perciò la testa di Schill venne segata dal corpo e messa in un vaso, per essere conservata sotto spirito; fino a poco tempo fa era ancora esposta nel museo di Leida.