5. Una «tempesta perfetta» di calamità?

Siamo ora nella posizione adatta per risolvere il nostro mistero, mettendo insieme i vari elementi che costituiscono le prove e tutti i possibili indizi, in modo da determinare perché il sistema internazionale stabile della tarda Età del Bronzo sia crollato di colpo dopo aver prosperato per secoli. Ci arriveremo liberi da pregiudizi e con l’ausilio «dell’uso scientifico dell’immaginazione» come ha detto una volta l’immortale Sherlock Holmes, perché «dobbiamo soppesare le probabilità e scegliere la più verosimile».1

Per cominciare, sarà ormai evidente che i Popoli del Mare e il cosiddetto collasso della fine della tarda Età del Bronzo sono temi che, nel corso dell’ultimo secolo, gli studiosi hanno discusso con passione. Soprattutto negli anni ottanta e novanta del Novecento, quando Nancy Sandars, nel 1985, pubblicò una nuova edizione del suo libro, intitolato semplicemente I Popoli del Mare, e, nel 1993, Robert Drews diede alle stampe il suo La fine dell’Età del Bronzo. Ci sono state almeno due conferenze accademiche consacrate esclusivamente a questi argomenti, che si sono tenute nel 1992 e nel 1997, e poi libri, tesi e conferenze più o meno indirettamente collegati alla questione.2 Tuttavia, come abbiamo notato all’inizio del libro, una grande quantità di nuovi dati si è resa disponibile negli ultimi decenni, e deve essere considerata nella nostra nuova interpretazione dei Popoli del Mare e delle forze complesse che hanno portato al declino di un’epoca caratterizzata da civiltà straordinarie.3

Come abbiamo già osservato nelle pagine precedenti, dobbiamo riconoscere innanzitutto che non è sempre chiaro chi, 0 cosa, abbia provocato la distruzione delle città, dei regni e degli imperi dell’Egeo e del Mediterraneo orientale. La distruzione del palazzo di Nestore a Pilo, nel 1180 a.C., è un esempio eccellente, come ha detto recentemente uno studioso: «Alcuni hanno suggerito che gli agenti di questa calamità fossero invasori provenienti dall’esterno del regno; altri hanno pensato che furono gli stessi abitanti di Pilo a rivoltarsi contro il loro re. Le cause precise rimangono ignote».4

Dobbiamo quindi ammettere che non è ancora stato raggiunto un consenso accademico rispetto alla causa, o alle cause, del crollo di queste società, così strettamente interconnesse, di tremila anni fa; i colpevoli, a cui recentemente alludono gli studiosi, comprendono «gli attacchi di nemici stranieri, i tumulti sociali, le catastrofi naturali, il crollo dei sistemi e le trasformazioni dovute alla guerra».5 Proprio come hanno fatto gli studiosi per oltre ottant’anni, vale ancora la pena ora di considerare quali siano state effettivamente le cause. Dovremmo tener conto oggettivamente delle prove disponibili, che confermano o inficiano le varie ipotesi.

Terremoti

Per esempio, l’idea che furono i terremoti a provocare la distruzione (o a contribuirvi) di alcune delle città della tarda Età del Bronzo era stata avanzata sin dall’epoca di Claude Schaeffer, il primo archeologo di Ugarit. Egli pensava che i terremoti avessero provocato la distruzione della città, avendo trovato i segni visibili della catastrofe in un lontano passato. Le fotografie degli scavi di Schaeffer mostrano lunghi muri in pietra sconquassati e fuori asse, tipico segno di danni dovuti a un terremoto.6

Tuttavia, le recenti congetture sul tema spostano la data del terremoto di Ugarit al 1250 a.C. o poco tempo dopo. Inoltre, dal momento che ci sono segni di attività di restauro nei decenni che intercorrono tra il terremoto e il declino finale, si pensa che il sisma avesse danneggiato la città, ma non fosse riuscito a distruggerla completamente.7

È evidentemente difficile distinguere tra una città distrutta da un terremoto e una distrutta dagli uomini e dalla guerra. Tuttavia, ci sono diversi indicatori che identificano un terremoto distruttore e che possono essere osservati dagli archeologi nel corso degli scavi. Tra questi, le mura cadute, rappezzate o rinforzate; gli scheletri schiacciati o i corpi trovati sotto le macerie; le colonne rovesciate che giacciono l’una parallela all’altra; le chiavi di volta fuori posto nelle arcate e nei vani delle porte; le mura disposte con angoli impossibili o deviati rispetto alla posizione originale.8 Al contrario, in una città distrutta dalla guerra in genere si troveranno armi tra le macerie. Nel sito di Aphek in Israele, per esempio, che fu distrutto verso la fine del XIII secolo a.C., gli archeologi hanno trovato punte di frecce conficcate nelle pareti delle case, proprio come a Troia VIIA.9

Grazie alle recenti ricerche degli specialisti di archeosismologia, oggi è chiaro che la Grecia, come gran parte dell’Egeo e del Mediterraneo orientale, aveva patito una serie di terremoti, iniziati verso il 1225 a.C. e durati cinquant’anni, fino al 1175 a.C. Il terremoto a Ugarit, identificato e descritto da Schaeffer, non fu un evento isolato; era soltanto uno dei numerosi sismi di quel periodo. Questi sconvolgimenti tellurici dell’antichità sono oggi noti come «terremoti seriali» o, in inglese, earthquake storm, il fenomeno che si verifica quando una faglia sismica rimasta aperta provoca una serie di scosse per anni, o anche decenni, finché non viene rilasciata tutta la pressione accumulata.10

Nell’Egeo ci furono probabilmente terremoti nello stesso periodo a Micene, Tirinto, Midea, Tebe, Pilo, Cino, Lefkandi, Menelaion, Kastanas in Tessaglia, Korakou, Profitis Elias e Gla. Nel Mediterraneo orientale i danni da terremoto che risalgono a questo periodo sono visibili in numerosi siti, come Troia, Karaoglun e Hattuša in Anatolia; Ugarit, Megiddo, Ashdod e Akko nel Levante ed Enkomi a Cipro.11

Proprio come oggi la gente viene uccisa dal crollo degli edifici e resta sepolta sotto le macerie quando un terremoto colpisce una zona abitata, così sono stati ritrovati, durante gli scavi di varie città dell’Età del Bronzo, almeno diciannove corpi di persone probabilmente uccise dai sismi. A Micene, per esempio, sono stati trovati gli scheletri di tre adulti e di un bambino nel piano terra di una casa, duecento metri a nord dalla cittadella, dove erano rimasti schiacciati sotto le pietre cadute a causa di un terremoto. Analogamente, in una casa costruita sulla salita della cresta nord del tesoro di Atreo, è stato trovato nel vano della porta tra la stanza principale e l’ingresso lo scheletro di una donna di mezza età, il cui cranio risultava schiacciato da un masso caduto. A Tirinto sono stati trovati gli scheletri di una donna e di un bambino sepolti dalle mura cadute dell’Edificio X, all’interno dell’Acropoli; due altri scheletri umani sono stati rinvenuti vicino alle mura di fortificazione, resti di persone uccise e poi coperti da macerie cadute dai muri. Analogamente, nella vicina Midea, sono stati rinvenuti altri scheletri, come quello di una ragazza in una stanza vicino alla porta orientale, il cui cranio e la cui colonna vertebrale erano stati sbriciolati dalla caduta delle pietre.12

Tuttavia, dobbiamo concludere che, anche se questi sismi indubbiamente provocarono gravi danni, è improbabile che, da soli, abbiano provocato il crollo definitivo di un’intera società, soprattutto perché è chiaro che molti siti, in tutta evidenza, sono poi stati di nuovo occupati e almeno parzialmente ricostruiti. È il caso di Micene e di Tirinto, per esempio, anche se le due città non ritrovarono più l’antico splendore.13 Dobbiamo quindi cercare altrove per avere una spiegazione diversa, o forse complementare, della fine della tarda Età del Bronzo.

Cambiamento climatico, siccità e carestia

Una delle interpretazioni preferite dagli studiosi, soprattutto quelli che cercano di spiegare non solo la fine della tarda Età del Bronzo, ma anche il motivo per cui i Popoli del Mare potrebbero aver dato inizio alle loro migrazioni, è quella del cambiamento climatico, in particolare della siccità, che ebbe come risultato la carestia. Anche se le teorie formulate dagli archeologi spesso riflettono le idee del momento, del decennio o perfino dell’anno in cui vengono pubblicate, le ipotesi su un possibile cambiamento climatico alla fine del secondo millennio a.C. anticipano di parecchi decenni le nostri attuali preoccupazioni sul nostro cambiamento climatico.

La siccità è stata a lungo la spiegazione prediletta dei primi studiosi delle migrazioni dei Popoli del Mare, dalle aree del Mediterraneo occidentale fino alle terre d’Oriente. L’ipotesi era che la siccità dell’Europa settentrionale avesse spinto le popolazioni a migrare verso le regioni del bacino del Mediterraneo, dove finirono per soppiantare gli abitanti di Sicilia, Sardegna e Italia, e forse anche quelli delle terre intorno all’Egeo. Se questo avvenne davvero, potrebbe aver dato inizio a una reazione a catena, che culminò con movimenti migratori lontani dal Mediterraneo orientale. Per altri esempi di siccità che hanno provocato migrazioni umane su larga scala, basta guardare agli Stati Uniti degli anni trenta e alla carestia che provocò il tristemente celebre «Dust Bowl» (una serie di tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti e il Canada tra il 1931 e il 1939), che diede origine a migrazioni su larga scala di intere famiglie dall’Oklahoma e dal Texas verso la California.

Ci si riferisce a questo tipo di migrazioni con il termine «push-pull», in cui le condizioni negative in patria spingono gli abitanti fuori dal proprio territorio e le condizioni positive nel paese di destinazione attirano i nuovi migranti in quella direzione. Come ha osservato l’archeologo inglese Guy Middleton, a questo modello possono aggiungersi le categorie dello «stanziarsi» e delle «competenze»: i fattori che contribuiscono al desiderio di rimanere in patria malgrado le circostanze avverse, e quelli che riguardano la capacità di emigrare davvero, comprese le competenze legate alla navigazione e alla scelta di rotte adeguate.14

Forse la più celebre delle argomentazioni che ipotizzano uno stato di carestia come fattore determinante nel declino dell’Età del Bronzo nell’area dell’Egeo è stata formulata cinquant’anni fa, verso la metà degli anni sessanta, da Rhys Carpenter, un professore di archeologia al Bryn Mawr College. Carpenter ha pubblicato un libro fondamentale, che è subito diventato molto autorevole, in cui sostiene che la civiltà micenea sia stata scalzata a causa di uno stato di prolungata siccità che aveva colpito le regioni del Mediterraneo orientale e dell’Egeo. La sua ipotesi era basata sul calo drammatico della popolazione nel continente greco dopo la fine dell’Eta del Bronzo.15

Ma nuove ricerche archeologiche e nuovi scavi hanno dimostrato che la diminuzione della popolazione non era poi così drammatica come aveva ipotizzato Carpenter. C’era stato piuttosto uno spostamento migratorio verso altre regioni della Grecia, nel corso dell’Età del Ferro, che però non sembra collegato a una carestia. La geniale teoria di Carpenter per il momento è stata accantonata, anche se forse potrebbe ritornare in auge alla luce di nuovi dati (vedi oltre).16

Lasciamo ora in ombra la teoria della siccità e rivolgiamoci alla carestia: gli studiosi hanno a lungo valutato l’esistenza di testi che parlano esplicitamente di carestie e del bisogno di procacciarsi il grano, sia nell’impero ittita sia altrove.17 Ma è anche giustamente stato notato che la presenza di carestie in questa regione non era un fenomeno limitato ai soli anni conclusivi della tarda Età del Bronzo.

Decenni prima, ad esempio, verso la metà del XIII secolo a.C., una regina ittita scrisse al faraone egizio Ramses II, dichiarando: «Non ho grano nelle mie terre». Subito dopo, probabilmente con una manovra ben concertata, gli Ittiti mandarono un’ambasciata in Egitto per procurarsi orzo e farina da trasportare in Anatolia.18 Un’iscrizione del faraone egizio Merenptah, in cui egli dichiara che «aveva ordinato che il grano fosse caricato sulle navi, per mantenere in vita la terra di Hatti», conferma l’esistenza di una carestia nella terra degli Ittiti verso la fine del XIII secolo a.C.19 Un’altra corrispondenza inviata dalla capitale ittita attesta la crisi in corso durante i decenni seguenti; in particolare c’è una lettera in cui l’autore retoricamente chiede: «Sapete che c’è la carestia nelle mie terre?».20

Alcune delle lettere trovate a Ugarit riguardano l’immediato invio di grandi quantità di grano agli Ittiti. Una missiva spedita dal re ittita di Ugarit riguarda un carico di duemila unità di orzo (o semplicemente di cereali). Il re ittita finisce la sua lettera con un tono drammatico, dichiarando: «È una questione di vita o di morte!».21 Anche un’altra lettera riguarda un carico di grano, ma chiede anche l’invio di numerose navi. Questo indizio ha spinto l’archeologo che per primo se ne occupò a ipotizzare che si trattasse di una reazione alle incursioni dei Popoli del Mare, cosa che può essere vera oppure no.22 Perfino l’ultimo re di Ugarit, Ammurapi, ricevette parecchie lettere dal re ittita Šuppiluliuma II all’inizio del XII secolo a.C., tra le quali una che lo rimproverava per essere in ritardo nell’invio del prezioso carico di cibo agli Ittiti proprio negli anni prima della distruzione.23

Itamar Singer, dell’Università di Tel Aviv, era convinto che le dimensioni della carestia durante gli anni finali del XIII secolo e i primi decenni del XII fossero state senza precedenti, e che la fame avesse colpito un territorio assai più vasto della sola Anatolia. Nella sua valutazione, le prove, sia testuali sia archeologiche, indicano che «i cataclismi climatici interessavano tutto il Mediterreneo orientale verso la fine del secondo millenio a.C.».24 Forse aveva ragione, perché una delle lettere trovate nella casa di Urtenu, a Ugarit, nel nord della Siria, si riferisce a una carestia che aveva dilaniato la città di Emar, nell’interno della Siria, all’epoca in cui fu distrutta, nel 1185 a.C. Nelle linee più significative di questa lettera, probabilmente inviata da un funzionario della ditta commerciale di Urtenu che risiedeva in città, si legge: «C’è carestia nella [nostra] casa; moriremo tutti di fame. Se non arrivate in tutta fretta, anche noi moriremo di fame. Non vedrete neppure un essere vivente nelle nostre terre».25

Perfino la stessa Ugarit non era rimasta immune, come attesta una lettera inviata da Merenptah e trovata nella casa di Urtenu, che dice esplicitamente «consegne di grano mandate dall’Egitto per alleviare la fame a Ugarit»,26 inviata da un re di Ugarit a un destinatario non identificato, probabilmente un dignitario anziano di lignaggio regale, in cui si aggiunge: «Qui con me, molti [patiscono] la fame».27 C’è anche un testo del re di Tiro, città dell’area costiera dell’odierno Libano, indirizzata al re di Ugarit. Informa il re che la sua nave, che stava ritornando dall’Egitto carica di grano, era rimasta intrappolata in una tempesta: «La nave che avete mandato in Egitto perì [naufragò] in una forte tempesta vicino a Tiro. Riuscì a salvarsi e il capo del salvataggio [il capitano] prese tutto il grano dalle anfore. Ma ho preso il loro grano, la loro gente e tutti i loro averi dal capo del salvataggio [il capitano] e li ho restituiti a loro. E (ora) la vostra nave è al sicuro ad Akko, disarmata». In altre parole, la nave aveva cercato rifugio, oppure era stata messa in salvo. In ogni caso, l’equipaggio e il grano che trasportava erano in salvo e aspettavano gli ordini del re di Ugarit.28 La nave era ancorata nel porto della città di Akko, dove oggi ci si può sedere in un gradevole ristorante sul lungomare a immaginare le attività incessanti che dovevano svolgersi in quel luogo più di tremila anni fa.

Resta poco chiaro quale fattore, o quale combinazione di fattori, abbia provocato la carestia nel Mediterraneo orientale durante questi decenni. Gli elementi che potrebbero essere considerati comprendono la guerra e le invasioni di insetti, ma è più probabile che sia stato un cambiamento climatico accompagnato dalla siccità a trasformare una terra verdeggiante in un semideserto arido. Tuttavia, fino a pochi anni fa i documenti testuali ugaritici e del Mediterraneo orientale che parlano della siccità forniscono solo prove potenziali a favore del cambiamento climatico, e anche in questo caso sono solo prove indirette. Il problema è stato affrontato dagli studiosi in lungo e in largo, e per decenni, senza mai venirne davvero a capo.29

Una nuova linfa è stata apportata grazie ai risultati pubblicati da un’équipe internazionale di studiosi, tra cui Daniel Kaniewski e Elise Van Campo, dell’Università di Tolosa, in Francia, e Harvey Weiss, della Yale University, i quali suggeriscono che potrebbe esserci una prova scientifica del cambiamento climatico e della siccità nella regione del Mediterraneo alla fine del XIII secolo e all’inizio del XII. Questa ricerca, che in un primo tempo aveva ipotizzato che la fine della prima Età del Bronzo, in Mesopotamia, verso la fine del terzo millennio a.C., potesse essere dovuta a un cambiamento climatico, suggerisce che lo stesso fattore potrebbe aver causato anche la fine della tarda Età del Bronzo.30

Utilizzando i dati del sito di Tell Tweini (l’antica Gibala), nel nord della Siria, l’équipe ha osservato che avrebbe potuto esserci «un’instabilità climatica e un grave episodio di siccità» nella regione alla fine del secondo millennio a.C.31 In particolare, gli scienziati hanno studiato il polline recuperato dai depositi alluvionali vicini al sito, i quali suggeriscono che «erano in atto condizioni climatiche più secche nella costa mediterranea della Siria dalla fine del XIII o inizio del XII secolo a.C., e sino al IX secolo a.C.».32

L’équipe di Kaniewski ha ora pubblicato altre prove di una probabile siccità a Cipro nello stesso periodo, servendosi dell’analisi del polline dal sistema lagunare, noto come il Lago Salato di Larnaka, vicino al sito di Hala Sultan Tekke.33 I dati suggeriscono che «importanti cambiamenti ambientali» avvennero in questa regione durante la fine della tarda Età del Bronzo e all’inizio dell’Età del Ferro, cioè durante il periodo che va dal 1200 a.C. all’850 a.C. In quest’epoca, la regione intorno a Hala Sultan Tekke, che in passato aveva avuto un porto importante, «si trasformò in un paesaggio arido [e] le precipitazioni e le acque sotterranee probabilmente diventarono insufficienti per mantenere un’agricoltura sostenibile nel luogo».34

Se Kaniewski e i suoi colleghi hanno ragione, hanno trovato la prova scientifica diretta che gli studiosi cercavano da anni per dimostrare che la siccità contribuì alla fine della tarda Età del Bronzo. Di fatto, i dati dalla Siria costiera e dalle coste di Cipro suggeriscono che «la crisi della tarda Età del Bronzo coincide con l’inizio di una siccità che durò 300 anni, circa 3200 anni fa. Questo cambiamento climatico aveva causato raccolti disastrosi, siccità e carestia, che precipitarono o accelerarono la crisi socio-economica e provocarono migrazioni di popolazioni alla fine della tarda Età del Bronzo nel Mediterraneo orientale e nell’Asia sud-occidentale».35

In un lavoro indipendente, Brandon Drake, dell’Università del New Mexico, ha fornito ulteriori prove e dati scientifici, che si sommano a quelli di Kaniewski e della sua équipe, e che sono pubblicati nel «Journal of Archeological Science». Drake cita tre nuove prove che confermerebbero l’idea che la prima Età del Ferro fosse più arida della precedente Età del Bronzo. Innanzitutto, i dati ottenuti con gli isotopi dell’ossigeno dai depositi minerali (speleotemi) nella grotta di Soreq, nel nord di Israele, dimostrano che c’erano basse precipitazioni annuali durante la transizione dall’Età del Bronzo all’Età del Ferro. In secondo luogo, i dati ottenuti con gli isotopi del carbonio nei pollini del lago Voulkaria, nella Grecia occidentale, dimostrano che le piante all’epoca si adattarono a un ambiente arido. Infine, le sedimentazioni del Mediterraneo rivelano che ci fu una diminuzione di temperatura sulla superficie del mare, che, a sua volta, avrebbe provocato una riduzione delle precipitazioni sulla terra (riducendo la differenza di temperatura tra mare e terra).36 Lo studio osserva che, anche se «è difficile identificare direttamente un momento cronologico in cui il clima diventò più secco», il cambiamento avvenne probabilmente prima del 1250-1197 a.C.,37 che corrisponde al periodo di cui parliamo in questo libro.

Drake osserva che non ci fu solo un aumento considerevole delle temperature dell’Emisfero Nord subito prima del crollo dei centri palaziali micenei, probabilmente in seguito a una pesante siccità, ma ci fu un calo impressionante della temperatura anche nel periodo in cui questi centri furono abbandonati, il che significa che prima diventarono più caldi e poi più freddi, creando in questo modo «condizioni climatiche più fredde e più aride durante il Medioevo ellenico». Come dice Drake, questi cambiamenti climatici, con un declino della temperatura di superficie del Mar Mediterraneo precedente al 1190 a.C., il cui risultato fu un minor numero di precipitazioni piovose (o nevose), potrebbero avere avuto un influsso senza pari sui centri palaziali, soprattutto quelli che dipendevano da alti livelli di produzione agricola, come la Grecia micenea.38

Israel Finkelstein e Dafna Langgut, dell’Università di Tel Aviv, con Thomas Litt, dell’Università di Bonn, in Germania, hanno aggiunto ulteriori dati a questo quadro. Osservano che le particelle di polline fossile di una carota geologica ottenuta con la perforazione di strati di sedimentazione sui fondali del Lago di Tiberiade indicano ancora una volta che la siccità nel Levante meridionale sarebbe effettivamente iniziata nel 1250 a.C. Una seconda sezione ricavata da un carotaggio sulla sponda occidentale del Mar Morto fornisce risultati analoghi, ma le due carote geologiche indicano anche che la siccità avrebbe potuto terminare già attorno al 1100 a.C., permettendo quindi un ripristino della vita nell’area, anche se forse con l’insediamento di popolazioni diverse.39

Ciononostante, per quanto questi risultati siano incoraggianti, a questo punto dobbiamo riconoscere che le siccità sono state frequenti nella regione per tutta la storia e non sempre hanno determinato collassi di civiltà. Sembra quindi che, di per sé, cambiamento climatico, siccità e carestia, anche se «hanno avuto un ruolo per inasprire le tensioni sociali e alla fine hanno favorito atteggiamenti antagonisti e competitivi dovuti alle risorse limitate», non bastano da soli a causare la fine della tarda Età del Bronzo. È necessario prendere in esame altri fattori concomitanti, come suggerisce Drake.40

Rivolte intestine

Alcuni studiosi pensano che le rivolte intestine possano aver contribuito allo stato di subbuglio che è proprio della fine della tarda Età del Bronzo. Le sommosse potrebbero essere state provocate dalla siccità, o essere state innescate dalle carestie, o dai terremoti e da altri disastri naturali, o ancora dall’interruzione delle rotte commerciali internazionali: ognuno di questi fattori avrebbe potuto avere un impatto drammatico sull’economia delle regioni che ci interessano, spingendo i contadini esasperati e le classi più povere a rivoltarsi contro la classe dominante, in una rivoluzione simile a quella del 1917 nella Russia zarista.41

Un quadro simile potrebbe spiegare, per esempio, la distruzione di Hazor nella terra di Canaan, dove non ci sono prove di terremoti, né indizi di un possibile stato di guerra o della presenza di invasori. Anche se Yadin e Ben-Tor, due dei primi archeologi che hanno lavorato sul sito, hanno entrambi ipotizzato una distruzione dovuta alla guerra, forse da parte degli Ebrei, il co-direttore degli scavi, Sharon Zuckerman, dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ha recentemente suggerito che la distruzione dello strato IA di Hazor, datata tra il 1230 e i primi decenni del XII secolo, potrebbe essere stata provocata da una rivolta intestina e non da un’invasione di popoli stranieri. Zuckerman afferma semplicemente che «nel sito non ci sono da nessuna parte prove archeologiche di uno stato di guerra, come potrebbero essere vittime umane o armi ... L’ipotesi di un crollo definitivo della tarda Età del Bronzo in seguito a un attacco improvviso e inaspettato a un regno stabile e prospero non corrisponde alle testimonianze archeologiche».42 Invece «una recrudescenza dei conflitti interni e un declino graduale, che sono culminati con un assalto finale ai principali centri politici e religiosi dell’élite cittadina, costituiscono la struttura concettuale alternativa più plausibile alla spiegazione della distruzione e dell’abbandono di Hazor».43

Anche se non si può dubitare delle distruzioni osservabili nei vari centri palaziali micenei e nelle città cananee, francamente non si può dire se i contadini in rivolta fossero stati o meno responsabili. Rimane un’ipotesi plausibile, ma non dimostrabile. In ogni caso, molte civiltà sono sopravvissute con successo alle rivolte interne, riuscendo a rimanere prospere sotto un nuovo regime. Quindi, per rendere conto del crollo delle civiltà della tarda Età del Bronzo nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale anche l’ipotesi della rivolta interna non è sufficiente.

(Possibili) invasori e il crollo del commercio internazionale

Tra gli avvenimenti che avrebbero potuto provocare una rivolta interna, abbiamo appena lasciato intravedere lo spettro degli invasori esterni, che potrebbero aver interrotto le rotte del commercio e sconvolto economie fragili, che forse dipendevano eccessivamente dalle materie prime straniere. Il paragone di Carol Bell tra l’importanza strategica dello stagno nell’Età del Bronzo e quella del petrolio greggio nel mondo di oggi potrebbe essere particolarmente utile per tracciare quest’ipotesi.44

Tuttavia, anche se l’esito finale non fu quello di una rivolta intestina, l’interruzione delle rotte commerciali avrebbe potuto avere un impatto grave e immediato sui regni micenei di Pilo, Tirinto e Micene, che avevano la necessità di importare ingenti quantità di materie prime supplementari, tra le quali oro, avorio, vetro, ebano e terebinto (resina di trementina), usato nella produzione dei profumi. Anche se disastri naturali come un terremoto avrebbero potuto provocare un’interruzione temporanea del commercio, causando potenzialmente un aumento dei prezzi e forse quella che oggi si definisce inflazione, è più probabile che ostacoli più duraturi avrebbero potuto essere il risultato di invasioni straniere. Ma chi potevano essere questi invasori? È ora che invochiamo i Popoli del Mare?

Invece di riferirsi ai Popoli del Mare, gli antichi Greci (storici come Erodoto e Tucidide nell’Atene del v secolo a.C., fino a Pausania) credevano che un gruppo etnico identificato con i Dori, alla fine dell’Età del Bronzo, avesse invaso la Grecia da nord, dando così inizio all’Età del Ferro.45 Questa concezione è stata a lungo discussa dagli archeologi e dagli storici dell’Egeo dell’Età del Bronzo; tutti basavano le loro considerazioni anche su un nuovo tipo di ceramica, con superficie lucida. Tuttavia, negli ultimi decenni è diventato chiaro che un’invasione da nord non è mai avvenuta in questo periodo e non c’è ragione di credere a un’«invasione dorica» che avrebbe portato alla fine la civiltà micenea. Malgrado la tradizione dei Greci dell’età classica, è chiaro che i Dori non hanno nulla a che vedere con il crollo avvenuto alla fine della tarda Età del Bronzo: il loro arrivo in Grecia è avvenuto molto tempo dopo che questi eventi si erano verificati.46

Studi recenti indicano anche che, durante il declino del mondo miceneo e dei primi anni della successiva Età del Ferro, il continente greco aveva presumibilmente conservato i suoi rapporti commerciali con il Mediterraneo orientale. Ma le connessioni probabilmente non erano più sotto il controllo delle classi dominanti che avevano abitato nei palazzi dell’Età del Bronzo.47

Nel nord della Siria, d’altra parte, abbiamo numerosi documenti che affermano che invasori provenienti dal mare avevano attaccato Ugarit proprio in questo periodo. Anche se sono poche le prove convincenti sull’origine di questi predatori, non possiamo scartare la possibilità che includessero i Popoli del Mare. Gli studiosi hanno recentemente rilevato che molte delle città-stato nel Mediterraneo orientale, e Ugarit in particolare, avrebbero potuto essere duramente colpite dal blocco delle rotte internazionali, che erano diventate facile preda del saccheggio dei pirati.

Itamar Singer, per esempio, ha suggerito che la caduta di Ugarit potrebbe essere stata provocata dal «crollo improvviso delle strutture tradizionali del commercio internazionale, che costituiva la linfa della prospera economia dell’Età del Bronzo». Christopher Monroe, della Cornell University, ha collocato quest’idea in un contesto più ampio, sottolineando il fatto che le città più prospere del Mediterraneo orientale erano state le più colpite dagli avvenimenti che si erano verificati nel XII secolo a.C., perché non solo erano i bersagli più appetibili, ma anche i più dipendenti dalle rete del commercio internazionale. Monroe suggerisce che la dipendenza, o forse la dipendenza eccessiva dall’impresa capitalistica e in particolare dal commercio a lunga distanza potrebbe aver contribuito all’instabilità economica che si è verificata alla fine della tarda Età del Bronzo.48

Tuttavia, non dovremmo trascurare il fatto che Ugarit avrebbe potuto essere una meta ambita sia per gli invasori stranieri sia per i pirati locali, come pure per molti altri gruppi. A questo proposito, dovremmo riprendere in considerazione la lettera degli Archivi del sud, trovata nel Cortile V del Palazzo di Ugarit (ma non in una fornace), che cita sette navi straniere che avevano provocato il caos nelle terre di Ugarit. Che avessero o meno a che fare con la distruzione definitiva di Ugarit, queste navi nemiche avrebbero potuto ostacolare il commercio internazionale, da cui Ugarit era totalmente dipendente.

Quando simili drammatiche situazioni si verificano oggi, sembra che tutti abbiano il loro parere da dare. Le cose non erano diverse allora. Una lettera trovata a Ugarit, forse mandata da un viceré ittita di Karkemish, dà al re di Ugarit il consiglio di come trattare con le navi nemiche. Comincia: «Mi avete scritto: “ Sono state viste al largo navi nemiche!” e allora il consiglio è “Rimanete inflessibili. Cioè, per quel che riguarda voi, dove sono i soldati e i carri? Sono vicino a voi? ... Circondate le vostre città di mura. Portate la fanteria e i carri dentro la cinta. Sorvegliate i nemici e fortificatevi!».49

Sicuramente a questa è collegata un’altra lettera, trovata nella casa di Rapanu e inviata da un uomo di nome Eshuwara, che era il governatore di Cipro. Nella lettera il governatore dice che non è responsabile dei danni arrecati a Ugarit e al suo territorio dalle navi, soprattutto perché sono le navi e gli uomini di Ugarit che stanno facendo delle atrocità, e che Ugarit deve essere pronta a difendersi da sola: «Come per la questione che riguarda i nemici: (era) il popolo del vostro paese e le vostre navi a fare questo! E fu il popolo del vostro paese a essere responsabile di queste trasgressioni… Sto scrivendo per informarvi e proteggervi. State in guardia!». Poi aggiunge che c’erano venti navi nemiche, ma si dirigevano in una direzione sconosciuta.50

Infine, una lettera nell’archivio di Urtenu di un ufficiale di Karkemish, nell’interno della Siria settentrionale, dichiara che il re di Karkemish stava ritornando con i rinforzi dal territorio degli Ittiti sino a Ugarit e che diverse persone citate nella lettera, compreso Urtenu e gli anziani della città, dovevano cercare di resistere fino al loro arrivo.51 È improbabile che siano giunti in tempo: se così avvenne, furono di poca utilità, perché un’altra lettera privata, che si pensa sia stata una delle ultime comunicazioni provenienti da Ugarit, descrive una situazione allarmante: «Quando è arrivato il vostro messaggero, l’esercito fu umiliato e la città saccheggiata. Il nostro cibo fu bruciato e le vigne distrutte. La nostra città saccheggiata. Sappiatelo! Sappiatelo!»

Come abbiamo già visto, gli archeologi di Ugarit raccontano che la città fu bruciata, con un livello di distruzione che, in alcuni punti, raggiunge due metri e che numerose punte di frecce furono trovate sparpagliate tra le rovine.52 C’erano anche parecchi piccoli tesori seppelliti nella città: alcuni contenevano articoli preziosi d’oro e di bronzo, idoli, armi e attrezzi, alcuni dei quali con iscrizioni. Sembra che fossero stati tutti nascosti prima della distruzione; i loro proprietari non ritornarono mai per recuperarli.53 Tuttavia, perfino il totale annientamento di una città non spiega perché i sopravvissuti non l’abbiano poi ricostruita, a meno che proprio non ci fossero più sopravvissuti.

Invece di una devastazione assoluta, potrebbero essere stati l’interruzione delle rotte commerciali e il crollo del sistema mercantile internazionale a rappresentare la spiegazione più logica e più completa del motivo per cui Ugarit non venne mai rioccupata dopo essere stata distrutta. Secondo uno studioso, «il fatto che Ugarit non rinacque mai dalle sue ceneri, come fecero altre città della tarda Età del Bronzo nel Levante, che ebbero lo stesso destino, deve avere delle ragioni più complesse della semplice distruzione inflitta alla città».54

Una controargomentazione a questo punto s’impone. Sembra che i rapporti internazionali di Ugarit fossero continuati senza problemi fino al crollo improvviso della città; c’è una lettera del re di Beirut mandata a un ufficiale ugaritico (il prefetto) che arrivò dopo che il re di Ugarit era già fuggito dalla città.55 In altre parole, Ugarit fu distrutta dagli invasori e non fu mai ricostruita, malgrado il fatto che il commercio internazionale fosse rimasto parzialmente, se non completamente, intatto, all’epoca della distruzione.

In effetti, quel che colpisce maggiormente del materiale degli archivi di Rapanu e di Urtenu è la straordinaria quantità di rapporti internazionali che ancora esistevano nel Mediterraneo orientale alla fine della tarda Età del Bronzo. È chiaro dai pochi testi pubblicati degli archivi di Urtenu che questi rapporti internazionali continuarono fino all’ultimo, poco prima della distruzione di Ugarit. Questa è la prova che la fine fu probabilmente repentina. Non ci fu un declino graduale dovuto all’interruzione delle rotte commerciali o a causa della siccità e della carestia. Ugarit fu distrutta dagli invasori, indipendentemente dal fatto che le truppe avessero o meno bloccato le rotte commerciali internazionali.

Decentralizzazione e nascita della figura del mercante privato

Bisogna prendere in considerazione un altro punto, che è stato suggerito recentemente e che potrebbe rappresentare un riflesso del pensiero attuale sul ruolo della decentralizzazione nel mondo odierno.

In un articolo pubblicato nel 1998, Susan Sherratt, ora all’Università di Sheffield, ha concluso che i Popoli del Mare rappresentano lo stadio finale di quello che fu un processo che sostituì i vecchi sistemi politico-economici centralizzati tipici dell’Età del Bronzo con i nuovi sistemi economici decentralizzati dell’Età del Ferro. Avvenne cioè un cambiamento dai regni e gli imperi che controllavano il commercio internazionale alle città-stato più piccole e ai singoli imprenditori, che facevano affari per conto proprio. Sherratt suggerisce che i Popoli del Mare potevano «essere considerati come un fenomeno strutturale, un prodotto dell’evoluzione naturale e dell’espansione del commercio internazionale nel terzo e nel secondo millennio a.C., che portava in nuce i semi della sovversione delle economie che facevano capo al palazzo, le quali avevano dato inizio al commercio internazionale».56

Quindi, anche se ammette la possibile interruzione delle rotte del commercio internazionale e l’effettiva coincidenza dei Popoli del Mare con alcune ondate di invasione, alla fine Sherratt conclude che non importa da dove provenissero i Popoli del Mare e neppure chi fossero o cosa facessero. È molto più importante il cambiamento sociopolitico ed economico che rappresentano e che portò da un’economia sostanzialmente controllata dal palazzo a un’altra, in cui i mercanti privati e le piccole entità commerciali riuscirono a ottenere una maggiore libertà di azione.57

Anche se l’argomentazione di Sheratt è condotta con grande perizia, altri studiosi avevano già avanzato ipotesi analoghe. Per esempio Klaus Kilian, archeologo di Tirinto, aveva scritto: «Dopo la caduta dei palazzi micenei, quando l’economia “privata” si era stabilita in Grecia, continuarono i contatti con i paesi stranieri. Il sistema palaziale, molto ben organizzato, fu sostituito da regni locali più modesti, certamente meno potenti nella loro espansione economica».58

Michal Artzy, dell’Università di Haifa, ha dato addirittura un nome ad alcuni dei mercanti privati immaginati da Sherratt, battezzandoli i «Nomadi del Mare». Artzy pensa che erano stati a lungo attivi come intermediari e avevano portato avanti il commercio marittimo durante il XIV e il XIII secolo a.C.59

Tuttavia, gli studi più recenti non confermano la transizione economica del mondo proposta da Sherratt. Carol Bell, per esempio, mostra il suo disaccordo, pur con molto tatto: «è semplicistico ... considerare il cambiamento tra la tarda Età del Bronzo e l’Età del Ferro come una sostituzione degli scambi organizzati dal palazzo con un commercio imprenditoriale. Un cambiamento completo da un paradigma all’altro non basta a spiegare questa trasformazione e questa ristrutturazione».60

Anche se è innegabile che la privatizzazione sia cominciata come un derivato del commercio palaziale, non è chiaro se tale privatizzazione alla fine scalfì davvero l’economia da cui derivava.61 A Ugarit, per esempio, gli studiosi hanno sottolineato che, anche se in tutta evidenza la città fu incendiata e abbandonata, non ci sono prove, né nei testi trovati sul sito, né tra i resti archeologici, che la distruzione e il crollo siano stati favoriti da prepotenti imprenditori capaci di mettere in crisi il controllo centrale e in grado di indebolire lo stato e di minarne il controllo sul commercio internazionale.62

In realtà, associando le osservazioni dei testi, la prova dell’incendio di Ugarit e la presenza di armi tra le macerie, possiamo senza remore ribadire che, anche se a Ugarit potrebbero esserci stati i presupposti di una decentralizzazione, quasi certamente a provocare la distruzione furono la guerra e i combattimenti. In definitiva, i responsabili della distruzione furono gli invasori. Si tratta di uno scenario sostanzialmente diverso da quello immaginato da Sherratt e dai suoi colleghi. Tuttavia non si sa con certezza se questi invasori fossero i Popoli del Mare, anche se è interessante il fatto che uno dei testi di Ugarit citi in modo specifico i Shikila/Shekelesh, già noti dalle iscrizioni dei Popoli del Mare di Merenptah e di Ramses III.

In ogni caso, anche se la decentralizzazione e l’avvento della figura del mercante come elemento privato opposto allo stato centrale sono stati sicuramenti fattori reali, sembra improbabile che abbiano provocato da soli il crollo della tarda Età del Bronzo. Invece di accettare l’idea che a compromettere l’economia dell’Età del Bronzo sia stato il commercio privato, con il suo nuovo modo di gestire gli affari, forse dovremmo prendere in considerazione una proposta alternativa: la figura del mercante indipendente emerse semplicemente dal caos dovuto al crollo del sistema, come ha suggerito vent’anni fa James Muhly, dell’Università della Pennsylavia. Per Muhly il XII secolo a.C. non è un mondo dominato da «predatori del mare, pirati e filibustieri prezzolati», ma un universo «di mercanti intraprendenti che sfruttavano le nuove opportunità economiche, i nuovi mercati e le nuove fonti di materie prima».63 Dal caos scaturiscono occasioni insperate, almeno per pochi fortunati, come è sempre successo.

Si trattava davvero dei Popoli del Mare? E dove andavano?

Eccoci finalmente pronti ad abbordare il tema dei Popoli del Mare, che rimangono enigmatici e sfuggenti come sempre. Che siano stati considerati predatori o che fossero popolazioni migranti, le prove archeologiche e testuali indicano che i Popoli del Mare, malgrado il loro appellativo, probabilmente si spostavano via mare e via terra, ovvero con tutti i mezzi possibili.

È probabile che coloro che provenivano dal mare seguissero la linea costiera, forse gettando l’ancora ogni sera in un porto sicuro. Tuttavia, non si sa se le navi nemiche citate nei testi ugaritici appartenessero ai Popoli del Mare o a membri rinnegati del loro stesso popolo, come sembra insinuare la lettera mandata da Eshuwara, il governatore di Alashiya.64 A questo riguardo, dovremmo tener conto di una lettera già citata, quella della casa di Urtenu a Ugarit, che menziona «il popolo Shikila», il quale, molto probabilmente, può essere identificato con gli Shekelesh delle cronache egizie. La lettera fu inviata dal re ittita, probabilmente Šuppiluliuma II, al governatore di Ugarit, e si riferisce a un giovane re di Ugarit, che «non sapeva nulla». Singer, tra gli altri studiosi, pensa che si riferisca ad Ammurapi che, all’epoca, era il nuovo re di Ugarit. Nella lettera, il re ittita dice che desidera interrogare un uomo di nome Ibnadushu, che è stato preso prigioniero dal popolo Shikila «che vive sulle navi», affinché porti maggiori informazioni su questi Shikila/Shekelesh.65 Tuttavia, non sappiamo se l’interrogatorio avvenne davvero e quali altre informazioni Ibnadushu avesse ottenuto.

È generalmente accettato che questo documento contenga la sola citazione esplicita con il nome dei Popoli del Mare oltre alle cronache egizie, anche se si pensa che ce ne possano essere altre. Il «nemico dalla terra di Alashiya» che attaccò l’ultimo re ittita, Šuppiluliuma II, dopo aver combattuto tre battaglie navali contro l’esercito di Alashiya (i Ciprioti), si riferisce forse ai Popoli del Mare. Analogamente si riferisce probabilmente a essi un’iscrizione trovata a Hattuša nel 1988, da cui si potrebbe dedurre che Šuppiluliuma II stava già combattendo i Popoli del Mare, che erano approdati sulla costa meridionale dell’Anatolia e stavano avanzando verso nord.66 Quasi tutti i documenti e le iscrizioni, diversamente dalle cronache egizie, contengono semplicemente la frase più generica «navi nemiche» e non specificamente il nome dei Popoli del Mare.

Gli esponenti dei Popoli del Mare che giunsero via terra quasi sicuramente si fecero strada lungo la principale rotta costiera, dove la distruzione delle città aveva reso loro disponibili regioni intere, proprio come, quasi mille anni dopo, le battaglie di Alessandro Magno presso i fiumi Granico, Isso e Gaugamela avevano aperto le porte delle terre del Medio Oriente antico al suo esercito. Assaf Yasur-Landau, dell’Università di Haifa, ha suggerito che alcuni gruppi dei Popoli del Mare potrebbero aver iniziato il loro viaggio in Grecia e da lì aver attraversato i Dardanelli fino alla Turchia occidentale e all’Anatolia. Altri, secondo lui la maggior parte, avrebbero semplicemente cominciato la spedizione da questo punto, forse raggiungendo coloro che provenivano dall’Egeo e continuando poi la strada lungo la costa meridionale della Turchia fino alla Cilicia orientale, e poi verso il Levante meridionale, sempre lungo la costa. Se avessero seguito questa strada, avrebbero incontrato la città di Troia, i regni di Arzawa e di Tarhuntassa in Anatolia e le città di Tarso e di Ugarit, rispettivamente nell’Anatolia sud-orientale e nel nord della Siria. Alcuni di questi siti, se non tutti, mostrano segni di distruzione e di conseguente abbandono, all’incirca nell’epoca in cui si pensa siano stati attivi i Popoli del Mare, anche se non si sa se siano stati loro i responsabili di tutto.67

Invece di puntare il dito contro i Popoli del Mare, le prove archeologiche ora sembrano suggerire che la maggioranza dei siti in Anatolia sia stata semplicemente abbandonata, completamente o parzialmente. Possiamo chiederci se il commercio internazionale, i trasporti e le rotte commerciali fossero stati interrotti dalle guerre, dalle carestie o da altri fattori e possiamo interrogarci per sapere se le città che dipendevano da queste rotte fossero sfiorite e poi perite, con il risultato di un progressivo esodo della popolazione o di una sua rapida fuga, proporzionale all’intensità del declino commerciale e culturale. Come uno studioso ha recentemente affermato, «anche se è ragionevole pensare che la Cilicia e la costa siriana siano state danneggiate dalle incursioni dei Popoli del Mare, tuttavia non c’è nessuna prova archeologica né storica di nessun tipo dell’attività dei Popoli del Mare nella patria degli Ittiti ... Le vere cause del crollo dello stato ittita sembrano essere interne e non esterne».68

Un esempio significativo, in cui si attribuiscono colpe senza prove, è la recente diatriba collegata alla datazione al radiocarbonio di Tell Tweini, il sito della città portuale di Gibala, nel regno di Ugarit. I risultati di laboratorio hanno spinto gli archeologi a concludere di aver trovato le prove della distruzione causata dai Popoli del Mare, datandola verso il 1192-1190 a.C.69 Si afferma senza mezzi termini: «I Popoli del Mare erano nemici che arrivarono via mare e avevano diverse origini. Lanciarono un’invasione sia per terra sia per mare, che destabilizzò il potere già indebolito di imperi e regni del Vecchio Mondo, e tentarono di penetrare nel territorio egizio o di controllarlo. I Popoli del Mare simboleggiano l’ultimo stadio di una lunga e complessa spirale di declino nell’antico mondo mediterraneo».70

Anche se non ci sono dubbi che la città fu distrutta più o meno nel periodo suggerito dagli archeologi, come conferma la datazione al radiocarbonio, considerare i Popoli del Mare i soli responsabili della distruzione è una mera fantasia. Gli archeologi non hanno fornito alcuna prova definitiva che confermi il loro ruolo devastatore; hanno semplicemente indicato che la cultura materiale presente nel luogo dell’insediamento sul tel dopo la distruzione attesta «un’architettura di tipo egeo, una ceramica micenea IIIC prodotta sul posto, una ceramica brunita e dischi d’argilla di tipo egeo».71 Secondo loro, «questi materiali, che sono tipici anche degli insediamenti filistei, sono indizi culturali della presenza di coloni stranieri, quasi sicuramente Popoli del Mare».72 Anche se Tweini potrebbe essere il miglior esempio di un sito probabilmente distrutto e poi ripopolato dai Popoli del Mare, non possiamo dirlo con assoluta certezza. Come ha osservato Annie Caubet riguardo a Ras Ibn Hani (si veda sopra), non si può essere sicuri che i popoli che hanno ricreato un sito dopo la sua distruzione siano gli stessi che l’hanno distrutto in prima istanza.

Possiamo fare ulteriori ipotesi sul fatto che, almeno in alcuni casi, gruppi che venivano identificati con i Popoli del Mare possano aver approfittato del vuoto creato dalla distruzione o dall’abbandono delle città e, che ne siano stati o meno gli autori, vi si siano stabiliti senza cambiare nulla e alla fine abbiano lasciato i loro manufatti, come avvenne a Tweini. I Popoli del Mare hanno probabilmente occupato con simili modalità soprattutto, anche se non esclusivamente, le città costiere, siti come Tarsin e Mersin sulla costa dell’Anatolia sud-orientale. Lo stesso probabilmente avvenne per la regione che ora si trova al confine tra la Turchia sud-occidentale e il nord della Siria, nell’area di Tell Ta’yinat, che, secondo prove recenti, dovrebbe coincidere con la «terra di Palistin (o Walistin, in aramaico)» dell’Età del Ferro.73

Effettivamente, ci sono tradizioni, soprattutto letterarie, che affermano esplicitamente che i Popoli del Mare si sono stabiliti a Tel Dor, nel nord di Israele. Ad esempio il romanzo egizio intitolato Il viaggio di Wenamun, della prima metà dell’XI secolo a.C., si riferisce a Dor come a una città dei Tjekker o dei Sikil (Shekelesh). Un altro testo egizio, l’Onomasticon di Amenemope, che risale al 1100 a.C., elenca i Shardana, i Tjekker e i Peleset, e cita anche i siti di Ashkelon, Ashdod e Gaza (tre dei cinque siti che si pensa facciano parte della Pentapoli filistea). Si è pensato che i siti lungo il litorale ai piedi del Monte Carmelo e nella valle di Akko, e anche forse Tel Dan, siano stati abitati dai Popoli del Mare, in particolare Shardana e Danuna. In molti di questi siti, compresi quelli con livelli di occupazione definiti come «filistei», come Ashdod, Ashkelon, Gaza, Ekron e altri, sono state trovate ceramiche in stile egeo, seppur ibride, e altri indizi culturali.74 Si potrebbe trattare delle uniche vestigia materiali lasciate dagli evanescenti Popoli del Mare, ma i resti archeologici in molti di questi siti, come pure più a nord, hanno probabilmente legami diretti più con Cipro che con l’Egeo. Ci sono, in ogni caso, chiari collegamenti con popolazioni non cananee nel XII secolo a.C.75

È interessante notare che non ci sono resti analoghi, né segni di distruzione, nell’area nota come Fenicia, che corrisponde al Libano moderno. Malgrado i numerosi dibattiti accademici, il motivo è ancora poco chiaro. Potrebbe anche trattarsi semplicemente di un abbaglio, dovuto alla relativa assenza di scavi nella regione, in confronto alla copia di ricerche archeologiche nelle altre aree costiere del Medio Oriente.76

Tra le molte possibili prospettive per spiegare gli ultimi giorni della tarda Età del Bronzo, la proposta avanzata da Israel Finkelstein, dell’Università di Tel Aviv, una decina di anni fa sembra la più verosimile. Finkelstein sostiene che la migrazione dei Popoli del Mare non fu un evento unico, bensì un lungo processo che comportò diverse fasi. Il primo stadio ebbe inizio nei primi anni di Ramses III, nel 1177 a.C., e l’ultimo è finito durante la dinastia di Ramses VI, nel 1130 a.C. In particolare Finkelstein scrive:

nonostante la descrizione nei testi egizi di un singolo avvenimento, la migrazione dei Popoli del Mare fu un processo che durò almeno mezzo secolo e che ebbe diverse fasi ... potrebbe essere iniziato con gruppi che, all’inizio del XII secolo a.C., seminarono la distruzione sulla costa del Levante, compresa la Filastinia settentrionale e che furono sconfitti da Ramses III nell’ottavo anno della sua dinastia. In seguito, alcuni di essi si stabilirono nelle guarnigioni egizie sul delta del Nilo. Nella seconda metà del XII secolo altri gruppi di Popoli del Mare riuscirono a porre fine al governo egizio nella terra di Canaan meridionale. Dopo aver distrutto le roccaforti egizie ... si insediarono nella Filastinia e stabilirono i loro centri principali ad Ashdod, Ashkelon, Tel Miqne e altri luoghi. Queste popolazioni (i Filistei dei testi biblici) sono facilmente identificabili da numerosi aspetti di tipo egeo che si rilevano nella loro cultura materiale.77

Quasi tutti gli studiosi concordano con Finkelstein e pensano che le prove archeologiche dovrebbero innanzitutto spingerci a considerare tappe intermedie lungo il cammino,78 le località dell’Egeo, forse raggiunte attraverso i canali dell’Anatolia occidentale e di Cipro, invece di pensare che Sicilia, Sardegna e Mediterraneo occidentale fossero i luoghi d’origine dei Popoli del Mare. Tuttavia, Yasur-Landau suggerisce che, se erano Micenei, non si trattava comunque degli stessi che fuggirono dai palazzi in rovina, a Micene e altrove, subito dopo la loro distruzione. Infatti nei siti anatolici e cananei non ci sono tracce di scrittura in Lineare B o di altri elementi del florido periodo palaziale del XIII secolo a.C. Le tracce materiali della civiltà di questi coloni indicano piuttosto che provenivano dalla «cultura assai più modesta che venne [subito] dopo», all’inizio del XII secolo a.C. Alcuni di essi, osserva, invece che guerrieri sanguinari, avrebbero potuto essere contadini che cercavano di migliorare la loro vita spostandosi in nuove regioni. Malgrado tutto, si trattava «di un’intera popolazione di famiglie in viaggio per trovare una nuova patria».79 In ogni caso, Yasur-Landau pensa che questi migranti non fossero i responsabili del crollo delle civiltà della tarda Età del Bronzo nella regione, ma semplicemente degli «opportunisti», che approfittarono del declino generale per trovarsi una nuova sistemazione.80

Yasur-Landau non concorda con il quadro tradizionale di un’occupazione militare filistea della terra di Canaan. Dice: «Le circostanze dell’insediamento non rispecchiano i criteri di un’incursione violenta. Scoperte recenti ad Ashkelon mostrano che i migranti [in realtà] si insediarono in un sito deserto, sulle rovine di una guarnigione egizia … Non ci sono segni evidenti di una distruzione violenta ad Ashdod ... gli indizi di distruzione descritti dagli archeologi potrebbero non essere altro che segni di incendio ... Ekron, il piccolo villaggio della terra di Caanan ... fu invece distrutto dal fuoco, ma ... fu sostituito da un altro villaggio cananeo ... prima dell’arrivo di altri migranti».81

Invece di un’incursione militare, Yasur-Landau pensa a matrimoni e famiglie interculturali, che conservavano la tradizione cananea ed egea, soprattutto a livello domestico. Secondo lui, «i resti materiali della Filastinia dell’Età del Ferro rivelano complesse interazioni, per lo più pacifiche, tra migranti e locali… Vorrei suggerire che la fondazione delle città filistee si associa a un’assenza generalizzata di ogni forma di violenza ... e la coesistenza di tradizioni culturali locali ed egee indica che c’era piuttosto una fusione di migranti egei e di popolazione locale e non un’opera di colonizzazione».82

Anche altri studiosi concordano, sottolineando che i Filistei distrussero solo le zone più in vista di alcuni dei siti, il palazzo e i suoi dintorni, per esempio, e che gli elementi che oggi identifichiamo come Filistei erano «di natura mista e comprendevano aspetti delle culture egea, di Cipro, dell’Anatolia e dell’Europa meridionale».83 Non sembra che elementi completamente stranieri abbiano semplicemente sostituito tutti gli aspetti materiali della precedente civiltà cananea (per esempio il vasellame, le tecniche di costruzione o altro); piuttosto, quello che oggi identifichiamo come cultura filistea può essere il risultato di un’ibridazione e di una contaminazione tra culture diverse, che contengono elementi più antichi e più moderni, sia dei Cananei sia degli invasori stranieri.84

In altre parole, anche se è fuori discussione che sono arrivate nuove popolazioni, che si sono insediate nella terra di Caanan, nel tentativo di ricostruzione storica lo spettro degli invasori – i Popoli del Mare/Filistei – è stato sostituito da un quadro decisamente più pacifico: quello di un gruppo misto di migranti alla ricerca di un nuovo inizio in una nuova terra. Invece di un’invasione militare assetata di distruzione, sembra che ci fu un esodo di rifugiati, che non necessariamente attaccarono e conquistarono la popolazione locale, ma semplicemente si stabilirono al suo fianco. D’altra parte, è molto improbabile che siano stati questi popoli ad aver messo fine alla civiltà nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale.85

Argomentazioni in favore di un crollo dei sistemi

Nel 1985, quando Nancy Sandars ha pubblicato una nuova edizione del suo classico sui Popoli del Mare, ha scritto: «Nelle terre che circondavano il Mediterraneo, c’erano sempre stati terremoti, carestie, periodi di siccità e inondazioni: i secoli bui sono un elemento ricorrente». Continua scrivendo che «le catastrofi hanno costellato la storia umana, ma in genere gli uomini sono sopravvissuti senza gravi perdite. Spesso i disastri sono stati seguiti da uno sforzo più intenso, che ha portato a un maggiore successo».86 Allora, che cosa c’era di diverso in questo periodo, la tarda Età del Bronzo? Perché la civiltà non si è semplicemente ripresa e non è andata avanti?

Come specula Sandars, «sono state date molte spiegazioni e poche hanno avuto la meglio. Una serie senza precedenti di terremoti, carestie e fame, un’invasione massiccia dalla steppa, dal Danubio e dal deserto: tutto ciò ha avuto un suo ruolo. Questo tuttavia non basta».87 Aveva ragione. Dobbiamo pensare all’idea di un crollo di interi sistemi, un declino con un effetto domino e un effetto moltiplicatore. Il vivace sistema della rete intersociale, internazionale e globalizzato, tipico della tarda Età del Bronzo non fu in grado di riscattarsi.

Colin Renfrew, dell’Università di Cambridge, uno dei più eminenti scienziati che hanno studiato la regione egea della preistoria, aveva già suggerito nel 1979 l’idea di un collasso dei sistemi. All’epoca l’aveva configurato nei termini della teoria delle catastrofi, in cui «il collasso di un elemento minore dà l’avvio a una reazione a catena che si ripercuote a una scala sempre maggiore, finché l’intera struttura è portata a crollare».88 Una metafora molto utile è il cosiddetto «effetto farfalla», secondo cui il battito d’ali di una farfalla potrebbe provocare una tempesta o un tornado dall’altra parte del mondo alcune settimane dopo.89 Potremmo per esempio citare l’attacco sferrato dal re assiro Tukulti-Ninurta I all’arrogante esercito ittita. La sua capacità di sconfiggere l’armata ittita, alla fine del XIII secolo a.C. durante il regno di Tudhaliya, a sua volta potrebbe aver spinto la vicina Kaška ad attaccare e incendiare la capitale ittita, Hattuša.

Renfrew analizza gli elementi generali del collasso dei sistemi, specificandoli come segue: 1) il collasso dell’organizzazione amministrativa centrale; 2) la scomparsa della classe dirigente tradizionale; 3) il collasso dell’economia centralizzata; 4) nuovi insediamenti e un declino della popolazione. Dovrebbe passare più o meno un secolo perché si verifichino tutti gli elementi di questo crollo, ha detto Renfrew, e non c’è un’unica causa ovvia. All’indomani di un simile declino ci dovrebbe essere un periodo di transizione a un livello più basso, con fenomeni quali l’integrazione socio-politica e lo sviluppo di miti «romantici» riferiti al periodo precedente. Non solo questo corrisponde alla regione dell’Egeo e del Mediterraneo orientale verso il 1200 a.C., ma, secondo lui, descrive anche il collasso della civiltà Maya, del Regno Antico d’Egitto e delle civiltà della Valle dell’Indo in epoche diverse.90 Come abbiamo già detto, questi argomenti sul «crollo» di una civiltà nella storia e l’ascesa e la caduta cicliche degli imperi sono stati reinterpretati anche da altri studiosi, dei quali il più noto è Jared Diamond.91

Il fatto che non tutti gli studiosi concordino con l’idea di un crollo dei sistemi alla fine della tarda Età del Bronzo non sorprende. Robert Drews, della Vanderbilt University, per esempio, respinge in linea di principio quest’idea, perché non pensa che ciò spieghi il motivo per cui i palazzi e le città vennero distrutti e incendiati.92

Tuttavia, come abbiamo visto, subito dopo il 1200 a.C., le civiltà dell’Età del Bronzo crollarono nell’Egeo, nel Mediterraneo orientale e nel Medio Oriente, rivelando tutti gli elementi tipici delineati da Renfrew, a partire dalla scomparsa della classe dirigente tradizionale e al crollo dell’amministrazione centrale e dell’economia centralizzata, sino all’avvicendarsi di nuovi insediamenti, al calo della popolazione e alla transizione a un livello più basso di integrazione sociopolitica, per non parlare della nascita di leggende come quelle della guerra di Troia, alla fine trascritta da Omero nell’VIII secolo a.C. Più che l’avvento dei Popoli del Mare nel 1207 e nel 1177 a.C., più che i terremoti seriali che sconquassarono la Grecia e il Mediterraneo orientale per un periodo di cinquant’anni dal 1225 al 1175 a.C., più della siccità e del cambiamento climatico che tormentarono queste regioni in questo stesso periodo, quello a cui assistiamo è il risultato di una «tempesta perfetta», che portò al declino di fiorenti civiltà dell’Età del Bronzo (dai Micenei ai Minoici sino agli Ittiti, agli Assiri, ai Cassiti, ai Ciprioti, ai Mitanni, ai Cananei e perfino agli Egizi).93

Secondo me, e secondo Sandars prima di me, nessuno di questi fattori, preso da solo, è stato sufficientemente drammatico da provocare la fine di una di queste civiltà, per non dire di tutte. Tuttavia, i fattori si sono combinati per produrre uno scenario in cui le ripercussioni di ogni fattore sono state amplificate, in quello che gli studiosi hanno definito un «effetto moltiplicatore» (vedi sopra).94 La caduta di una parte del sistema avrebbe potuto anche avere un effetto domino, in grado di provocare collassi in altre regioni. Il conseguente «collasso dei sistemi» potrebbe aver causato la disintegrazione di una società dopo l’altra, in parte anche a causa della frammentazione dell’economia globale e dell’allentarsi delle connessioni da cui le diverse civiltà erano dipendenti.

Nel 1987, Mario Liverani, dell’Università di Roma, ha dato la colpa alla concentrazione di potere e di controllo nei palazzi, sostenendo che, quando questi crollarono, le dimensioni del disastro vennero amplificate. Scrive: «La concentrazione peculiare nel palazzo di tutti gli elementi organizzativi e di trasformazione e scambio (concentrazione che sembra raggiungere il massimo nella tarda Età del Bronzo) ha l’effetto di trasformare il crollo fisico del palazzo in un disastro generalizzato per il regno intero».95 In altre parole, per tradurlo in termini finanziari moderni, i governanti dell’Età del Bronzo avrebbero dovuto diversificare le loro competenze, ma non lo fecero.

Due decenni dopo, Christopher Monroe ha citato l’opera di Liverani e suggerito che l’economia della tarda Età del Bronzo era diventata instabile a causa della sua crescente dipendenza dal bronzo e da altre merci pregiate. In particolare, ha considerato «l’impresa capitalistica» (di cui faceva parte il commercio a lunga distanza e che dominava il sistema palaziale tipico della tarda Età del Bronzo) come uno dei fattori che trasformò le modalità di scambio, di produzione e di consumo della tradizionale Età del Bronzo in modo tale che, quando le invasioni straniere e le catastrofi naturali si combinarono con un «effetto moltiplicatore», il sistema fu incapace di sopravvivere.96

Delineando la situazione della fine della tarda Età del Bronzo nel suo libro Scales of Fate, Monroe descrive le interazioni dei vari poteri nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale considerandole una «rete intersociale», che coincide con il quadro che abbiamo presentato. Proprio come ho fatto io, anche lui fa notare che questo periodo è «eccezionale per quanto riguarda trattati, leggi, diplomazia e scambi, che hanno creato la prima grande era internazionale nella storia del mondo».97

Tuttavia è ancora più interessante il fatto che, secondo Monroe, questa rete di scambi possiede la chiave per differire l’inevitabile collasso, che alla fine trascinò nell’abisso tutte le società. Così scrive: «Si sedano le rivolte, si trovano materie prime, si aprono nuovi mercati, si realizzano controlli efficaci sui prezzi, si confiscano le proprietà dei mercanti, si attuano embarghi e si combatte la guerra».98 Ma «in genere i governanti ai vertici delle grandi potenze trattano i sintomi anziché le cause dell’instabilità» e, conclude Monroe, «la violenta distruzione della civiltà palaziale della tarda Età del Bronzo, come dimostrato dai testi e dalle prove archeologiche, fu il risultato inevitabile di una visione miope, come è successo con il crollo di altre civiltà».99

Sono d’accordo con Monroe a eccezione di quest’ultimo punto, perché non penso che siamo autorizzati ad attribuire il crollo di una civiltà semplicemente a «una visione miope», considerata la pletora di altri fattori finora citati, che i governanti di quell’epoca non erano nella situazione di poter prevedere con lucidità. Sembra più probabile un imprevisto collasso di sistemi, probabilmente innescato dal cambiamento climatico, come ha recentemente ipotizzato Brandon Drake e l’équipe guidata da David Kaniewski,100 oppure accelerato da terremoti e invasioni. Le parole di Monroe possono tuttavia servire come un avvertimento per noi, oggi, dal momento che la sua descrizione della tarda Età del Bronzo, soprattutto a livello economico e politico, si potrebbe benissimo applicare alla nostra odierna civiltà globalizzata, che patisce anch’essa le conseguenze del cambiamento climatico.

Una sintesi delle ipotesi esposte e la teoria della complessità

Come abbiamo osservato all’inizio del capitolo, il cosiddetto collasso (o catastrofe) della tarda Età del Bronzo è stato a lungo discusso dagli studiosi. Robert Drews cerca di affrontare il problema in modo sistematico, consacrando ogni capitolo del suo libro, del 1993, a un dibattito sulle diverse cause possibili. Tuttavia potrebbe aver dato una valutazione errata di alcune di esse e averle sottovalutate; ad esempio, Drews liquida l’idea di un collasso di sistemi a favore della sua teoria, secondo cui i responsabili del declino furono i cambiamenti nell’arte della guerra, un’ipotesi su cui non tutti gli studiosi concordano.101

Ora, vent’anni dopo la pubblicazione del libro di Drews e dopo l’ondata di pubblicazioni e di infiammati dibattiti accademici sull’argomento, non c’è ancora un consenso unanime su chi, o cosa, abbia provocato la distruzione o l’abbandono dei maggiori siti delle civiltà che giunsero alla fine con il tramonto dell’Età del Bronzo. Il problema può essere sintetizzato come segue.

Osservazioni principali:

1. Ci sono alcune civiltà separate che fiorirono tra il XV e il XIII secolo a.C. nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, dai Micenei ai Minoici agli Ittiti agli Egizi, i Babilonesi, gli Assiri, i Cananei e i Ciprioti. Erano tutte indipendenti, ma interagivano tra loro, soprattutto attraverso le rotte internazionali del commercio.

2. Si sa con certezza che molte città furono distrutte e che, nel 1177 circa, o poco dopo, finirono le civiltà e la vita della tarda Età del Bronzo così come erano state sperimentate dagli abitanti nell’Egeo, nel Mediterraneo orientale, nell’Egitto e nel Medio Oriente.

3. Non sono state trovate prove inequivocabili su chi o cosa abbia provocato questo disastro, che ebbe come conseguenza il collasso di queste civiltà e la fine della tarda Età del Bronzo.

Discussioni delle varie possibilità:

Ci sono alcune possibili cause, che possono aver portato al collasso della tarda Età del Bronzo, o che vi hanno contribuito, ma nessuna sembra in grado di aver provocato da sola la fine.

A. In questo periodo, in tutta evidenza, ci sono stati terremoti, ma in genere le società sono in grado di riprendersi dopo simili catastrofi.

B. Ci sono testimonianze testuali che attestano le carestie e anche nuove prove scientifiche circa la siccità e i cambiamenti climatici, sia nell’Egeo sia nel Mediterraneo orientale, ma ancora una volta bisogna far presente che le società in genere si rigenerano anche dopo queste calamità.

C. Può esserci una prova circostanziata di rivolte intestine in Grecia e altrove, compreso il Levante, anche se non ve n’è certezza. Ancora una volta, è bene notare che di solito le società sopravvivono a questo tipo di avvenimenti. Inoltre, malgrado l’esperienza del Medio Oriente di oggi, che dimostrerebbe il contrario, è raro che le ribellioni si prolunghino in un’area così ampia e per tempi così lunghi.

D. Nel Levante, da Ugarit a nord a Lachish nel sud, i reperti archeologici dimostrano la presenza di invasori, o per lo meno di nuovi insediamenti di popolazioni, forse provenienti dall’Egeo, dall’Anatolia occidentale e da Cipro. Alcune di queste città sono state distrutte e poi abbandonate, altre sono state rioccupate e altre ancora non sono state coinvolte.

E. È chiaro che ci sono state ripercussioni sulle rotte del commercio: sono state colpite, o completamente bloccate, ma non si conosce l’impatto effettivo di questo fenomeno sulle civiltà interessate, anche se alcune società erano completamente dipendenti dalle materie prime straniere per la sopravvivenza, come i Micenei.

È vero che, a volte, una civiltà non è in grado di riprendersi dalle invasioni o da un terremoto, oppure non può sopravvivere dopo una carestia o una rivolta intestina. Oggi, tuttavia, in mancanza di spiegazioni più esaurienti, pensiamo che siano stati tutti i fattori nel loro complesso a contribuire al collasso delle civiltà di questo periodo. Basandoci sulle prove disponibili, abbiamo quindi di fronte quello che si può definire il collasso di un sistema, provocato da una serie di eventi concatenati e amplificati da un «effetto moltiplicatore», in cui un singolo fattore influisce sugli altri e lo accresce. Forse gli abitanti avrebbero potuto sopravvivere a un unico disastro, come un terremoto o una carestia, ma non hanno potuto resistere agli effetti sovrapposti di terremoti, carestie e invasioni in rapida successione. Ne è scaturito un «effetto domino», in cui la disintegrazione di una civiltà ha portato al declino e alla caduta delle altre. Considerata la natura globalizzata di quel mondo, le conseguenze sulle rotte commerciali e sull’economia anche solo del declino di una sola civiltà sarebbero state sufficientemente devastanti da provocare la caduta delle altre. Se è stato così, le civiltà non erano abbastanza grandi da resistere.

Ma, a prescindere dalle mie considerazioni personali, il collasso di un sistema è una spiegazione troppo semplicistica per essere accettata come ragione unica per la fine della tarda Età del Bronzo.102 Per capire appieno ciò che ha effettivamente provocato il collasso di queste civiltà è necessario rivolgersi a quella che viene chiamata «scienza della complessità» o, più appropriatamente, «teoria della complessità».

La teoria della complessità è lo studio di un sistema complesso e si propone di spiegare «i fenomeni che emergono da un insieme di oggetti interagenti». È stata utilizzata per spiegare, e a volte risolvere, problemi diversi come gli ingorghi stradali, il crollo della borsa, malattie come il cancro, i cambiamenti ambientali e perfino le guerre, come ha recentemente scritto Neil Johnson, dell’Università di Oxford.103 Anche se negli ultimi decenni tale approccio è per così dire migrato dal campo della matematica e della scienza computazionale a quello dei rapporti internazionali e degli affari, raramente è stato applicato all’archeologia. Con una sorta di presentimento, Carol Bell ha esplorato brevemente il tema nel suo libro del 2006 sull’evoluzione del commercio a lunga distanza nel Levante, dalla tarda Età del Bronzo all’Età del Ferro. Ha osservato che l’approccio teorico era molto promettente e avrebbe potuto essere utilizzato come modello interpretativo della causa del crollo e delle successive ristrutturazioni di questo periodo.104

Per far sì che un problema diventi un potenziale candidato della teoria della complessità, Johnson sostiene che deve comportare un sistema che «contiene un insieme di molti oggetti diversi, tra essi interagenti o “agenti”».105 Nel nostro caso, si tratterebbe delle diverse civiltà attive durante la tarda Età del Bronzo. Dal punto di vista della teoria della complessità, il comportamento di questi oggetti è condizionato dalla loro memoria e dal «feedback» rispetto a quanto è accaduto in passato. Questi oggetti sono in grado di adattare le loro strategie, in parte sulla base della conoscenza della storia passata. I conduttori automobilistici, per esempio, conoscono i modelli del traffico nelle zone a loro familiari e sono in grado di prevedere i percorsi più veloci per andare a lavorare e ritornare a casa. Se si verificano degli ingorghi, sono capaci di scegliere strade alternative per evitare il problema.106 Analogamente, verso la fine della tarda Età del Bronzo, è possibile che i commercianti di Ugarit abbiano preso provvedimenti per sfuggire alle navi nemiche o per evitare le regioni in cui attraccavano navi sospette e si insediavano popoli invasori, come la porzione costiera intorno a Lukka (cioè la regione più tardi nota come Licia, nell’Anatolia sud-occidentale).

Johnson sostiene anche che il sistema è «vivo», cioè che evolve in un modo non banale e spesso complesso, e che è anche «aperto», il che significa che può essere influenzato dall’ambiente esterno. Secondo lui, questo significa che oggi la borsa, di cui gli analisti finanziari parlano come se si trattasse di un essere vivente in grado di respirare, può essere influenzata, e demolita, da notizie sui profitti di una data compagnia o di qualsiasi avvenimento che si verifichi dall’altra parte del mondo. Sherratt, con la sua analogia pubblicata una decina d’anni fa e citata nella prefazione di questo libro, descrive la similitudine tra il mondo della tarda Età del Bonzo e l’«economia e la nostra cultura sempre più omogenee, ma incontrollabili, in cui ... le incertezze politiche da una parte del mondo possono pesantemente influire sulle economie di regioni che si trovano a mille miglia di distanza».107 Questi influssi o «agenti stressanti» che agirono sul «sistema» nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale alla fine della tarda Età del Bronzo furono probabilmente terremoti, carestie, siccità, cambiamenti climatici, rivolte intestine, invasioni e interruzioni delle rotte commerciali, come abbiamo detto.

La premessa essenziale, possiamo dire, è che Johnson sostiene che un sistema del genere rivela fenomeni che «sono generalmente sorprendenti e possono essere estremi». Inoltre, «significa che qualsiasi cosa può accadere e, se si aspetta abbastanza, in genere accadrà». Tutte le borse prima o poi subiranno un crollo e il traffico inevitabilmente produrrà un ingorgo. Si tratta di fenomeni che, al momento della loro comparsa, sono inaspettati e non possono essere ragionevolmente previsti in anticipo, anche se si sa che potrebbero succedere e che puntualmente succederanno.108

Nel nostro caso, poiché nella storia del mondo non è mai esistita una civiltà che alla fine non sia scomparsa, e poiché spesso le ragioni sono identiche, come hanno sostenuto Jared Diamond e molti altri, il crollo delle civiltà della tarda Età del Bronzo era prevedibile, ma, anche se si ha una discreta conoscenza del funzionamento di ciascuna civiltà, è difficile riuscire a prevedere quando effettivamente avverrà il crollo o addirittura capire se tutte le civiltà scompariranno nello stesso momento. Come scrive Johnson, «anche una conoscenza approfondita delle caratteristiche del motore di un’automobile, del suo colore e della sua forma, è inutile quando si cerca di prevedere dove e quando ci sarà un ingorgo in una nuova rete stradale. Analogamente, conoscere i singoli individui che si trovano in un bar affollato non darà alcuna informazione sull’eventualità di una possibile zuffa».109

Quindi che utilità può avere la teoria della complessità per spiegare il collasso alla fine della tarda Età del Bronzo, se non ci può aiutare a prevedere quando e perché è avvenuto? Carol Bell sostiene che le reti commerciali dell’Egeo e del Mediterraneo orientale sono esempi di sistemi complessi. Cita il lavoro di Ken Dark, dell’Università di Reading, che scrive che «tali sistemi diventano più complessi e aumenta il livello di interdipendenza tra i loro elementi costitutivi, rendendo più difficile il controllo del sistema nel suo complesso».110 Conosciuto con il nome di «ipercoerenza», ciò avviene, come dice Dark «quando ogni parte di un sistema diventa talmente dipendente da ogni altra che il cambiamento in una qualsiasi delle parti produce instabilità nel sistema nel suo complesso».111 Quindi, se le civiltà della tarda Età del Bronzo erano davvero globalizzate e dipendenti l’una dall’altra, per le materie prime e i servizi, allora il cambiamento sopraggiunto anche solo in uno dei regni chiave, come quello dei Micenei o degli Ittiti, avrebbe potuto influire sugli altri, destabilizzandoli.

È particolarmente importante che regni, imperi e società della tarda Età del Bronzo possano essere considerati come sistemi sociopolitici singoli. Come dice Dark, «i sistemi sociopolitici complessi mostreranno una dinamica interna che li spinge ad accrescere la loro complessità… Più un sistema è complesso, più tende a collassare».112

Quindi, nella tarda Età del Bronzo nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, abbiamo sistemi geopolitici individuali, cioè le diverse civiltà, che diventano sempre più complessi e quindi più inclini a crollare. Nello stesso tempo, abbiamo sistemi complessi, cioè le reti commerciali, che sono interdipendenti e complessi, e, al più piccolo mutamento, sono soggetti all’instabilità. Un unico ingranaggio poco funzionale in un meccanismo per altri versi ben oliato può trasformare l’intero sistema in un cumulo di immondizia, come un’asta di ferro può demolire il motore di un’automobile.

Quindi, invece di immaginare una fine apocalittica ovunque (anche se è probabile che città e regni come Ugarit abbiano in effetti subito una fine repentina e drammatica), è meglio immaginare il declino della tarda Età del Bronzo come una disintegrazione, caotica ma graduale, di regioni un tempo floride e tra loro in contatto, che deperirono e si isolarono, come Micene, a causa di cambiamenti interni ed esterni che avevano compromesso uno o più degli elementi costitutivi del sistema. È chiaro che un danno di questo tipo avrebbe condotto al crollo dell’intera rete. Possiamo immaginarci un impianto elettrico che va in tilt, magari a causa di una tempesta o di un terremoto: l’azienda elettrica è ancora in grado di produrre elettricità, ma non può più erogarla ai singoli consumatori; negli Stati Uniti assistiamo a fenomeni di questo tipo ogni anno, regolarmente provocati dai tornado o dalle tempeste di neve. Se lo sconvolgimento è permanente, come può accadere in una catastrofe di grande entità (come un’esplosione nucleare), alla fine anche la produzione dell’elettricità finirà per cessare. L’analogia può valere per la tarda Età del Bronzo, anche se a un livello tecnologico assai minore.

Come ha osservato Bell, la conseguenza di una simile instabilità è che quando un sistema complesso crolla, «si decompone in elementi più piccoli», il che è esattamente quel che avvenne nell’Età del Ferro che seguì la fine delle civiltà dell’Età del Bronzo. Sembra quindi che servirsi della teoria della complessità, che ci permette di avvalerci della teoria delle catastrofi e di quella del collasso dei sistemi, possa costituire l’approccio migliore per spiegare la fine della tarda Età del Bronzo negli anni successivi al 1200 a.C. Le vere domande non sono tanto «chi è il responsabile?» o «quale avvenimento ha provocato il collasso?», quanto «perché è successo?» e «come è successo?». Che il declino avesse potuto essere evitato, è un’altra faccenda.

Tuttavia, nel proporre la teoria della complessità come ausilio all’analisi delle cause del collasso della tarda Età del Bronzo, stiamo solo applicando un termine scientifico (o pseudoscientifico) a una situazione su cui non c’è una conoscenza sufficiente per trarre conclusioni definitive. Sembra che funzioni, ma permette davvero un progresso della nostra comprensione degli eventi? Oppure è un semplice escamotage per ribadire una banalità, e cioè che le cose complicate possono andare in fumo in mille modi diversi?

Non c’è dubbio che il crollo delle civiltà della tarda Età del Bronzo sia stato complesso sin dall’origine. Sappiamo che molte possibili variabili hanno avuto un loro ruolo, ma non siamo neppure certi di conoscere tutte le variabili e sicuramente non sappiamo quali siano state le più importanti, o se fossero importanti a livello locale ma con uno scarso effetto generale. Per riprendere l’analogia con il moderno ingorgo del traffico: in questo caso conosciamo quasi tutte le variabili. Sappiamo qualcosa sulla quantità di automobili presenti e sulle strade che percorrono (se sono strette o larghe) e siamo sicuramente in grado di prevedere ampiamente l’effetto di altre variabili, per esempio una tempesta su un’autostrada. Per quel che riguarda invece la tarda Età del Bronzo, anche se non lo sappiamo per certo, ci sono centinaia di variabili in più rispetto a quelle che concorrono in un ingorgo del traffico.

L’argomentazione secondo cui le civiltà dell’Età del Bronzo diventavano sempre più complesse e quindi erano più propense al declino in realtà non ha molto senso, soprattutto quando si considera la loro «complessità» in rapporto a quella delle civiltà dell’Europa occidentale degli ultimi trecento anni. Quindi, anche se è possibile che la teoria della complessità possa essere un sistema utile per considerare il crollo della tarda Età del Bronzo, una volta che si posseggano maggiori informazioni sui dettagli di tutte le civiltà più importanti, a questo stadio potrebbe essere di scarsa utilità. Semplicemente consolida la nostra consapevolezza del fatto che, alla fine dell’Età del Bronzo, erano presenti molti fattori che avrebbero potuto contribuire a destabilizzare e a indebolire un sistema internazionale che aveva funzionato in maniera eccellente per molti secoli.

Eppure, le pubblicazioni accademiche continuano a suggerire una progressione lineare per il crollo della tarda Età del Bronzo. Ma non è esatto limitarsi ad affermare che la carestia provocò la fame, la fame spinse i Popoli del Mare all’emigrazione e alla violenza, la violenza dei Popoli del Mare provocò il collasso.113 La progressione non fu così lineare; la realtà fu molto più caotica. Probabilmente non ci fu un’unica causa scatenante, ma una serie complessa di motivi, che obbligarono la gente a reagire in modi diversi per far fronte alla situazione. La teoria della complessità, soprattutto in relazione a una progressione non lineare e alla presenza di molti elementi scatenanti, è utile sia per spiegare il crollo della tarda Età del Bronzo sia per fornire un modello che ci permetta di studiare in modo più approfondito questa catastrofe.