Passo alcuni mesi all’anno a Berkeley e uno dei miei grandi piaceri, in quella città, è percorrere ogni giorno un sentiero che si inerpica per sei chilometri in collina e offre una bella vista della baia di San Francisco. Di solito controllo la velocità a cui vado e ho imparato parecchio sullo sforzo che questo comporta. Ho trovato il mio ritmo, che è di milleseicento metri in diciassette minuti, e questo ritmo me la fa vivere come una tranquilla passeggiata. Senza dubbio compio uno sforzo fisico e a quella velocità brucio più calorie che se sedessi in poltrona, ma non avverto tensione, conflitti o fatica. Riesco anche a pensare e lavorare mentre cammino a quel ritmo. Anzi, ho il sospetto che la lieve stimolazione fisica della camminata possa trasformarsi in maggiore prontezza mentale.

Pure il sistema 2 ha una sua velocità naturale. Anche quando la nostra mente non fa nulla di particolare, consumiamo una certa energia mentale in pensieri casuali e nel controllare che cosa succede intorno a noi, compiendo uno sforzo minimo. A meno che non ci troviamo in una situazione che ci rende insolitamente vigili e guardinghi, monitorare quello che accade nell’ambiente o nella nostra testa richiede ben poco sforzo. Prendiamo molte piccole decisioni mentre guidiamo la macchina, assorbiamo informazioni mentre leggiamo il giornale e scambiamo banali battute con un coniuge o un collega senza fare nessuno sforzo e senza affaticarci per niente. Proprio come fare una passeggiata.

Di norma è facile e anzi assai piacevole camminare e nel contempo pensare, ma se spinte all’estremo queste due attività possono entrare in competizione per contendersi le limitate risorse del sistema 2. Questa affermazione può essere verificata con un semplice esperimento. Mentre fai una bella passeggiata con un amico, digli di calcolare mentalmente 23 × 78 e di farlo seduta stante. Quasi sicuramente si arresterà di colpo. In base alla mia esperienza, posso pensare mentre passeggio, ma non posso impegnarmi in un esercizio mentale che imponga un pesante carico alla memoria a breve termine. Se devo elaborare un complesso ragionamento in un tempo limitato, preferisco fermarmi e magari stare seduto anziché in piedi. Naturalmente non tutto il pensiero lento richiede una così intensa concentrazione e un calcolo tanto faticoso: ho fatto le riflessioni più feconde della mia vita passeggiando tranquillamente con Amos.

Accelerare la velocità delle mie passeggiate sul sentiero di Berkeley modifica radicalmente l’esperienza del camminare, perché passare a una camminata più veloce provoca un forte deterioramento della mia capacità di pensare in maniera coerente. Quando accelero, la mia attenzione è attratta sempre più dall’esperienza di camminare e dalla necessità di conservare l’andatura a un ritmo più sostenuto, sicché la capacità di portare a conclusione una catena di pensieri è compromessa. Alla velocità più alta che riesco a mantenere nel sentiero in collina, circa milleseicento metri (un miglio) in quattordici minuti, non provo nemmeno a pensare a qualcosa di diverso dalla corsa. Oltre allo sforzo fisico di muovermi rapidamente lungo il sentiero, devo compiere uno sforzo mentale di autocontrollo per resistere all’impulso di rallentare. A quanto pare, l’autocontrollo e il pensiero intenzionale attingono allo stesso, limitato budget di sforzo.

Anche mantenere una catena coerente di pensieri e impegnarsi ogni tanto in ragionamenti complessi richiedono autocontrollo alla maggior parte di noi per la maggior parte del tempo. Benché non abbia condotto un’indagine sistematica sull’argomento, immagino che un frequente cambio di compiti e un lavoro mentale accelerato non siano cose intrinsecamente piacevoli, e che la gente cerchi di evitarle per quanto possibile. Ecco in che modo la legge del minimo sforzo finisce per essere legge. Anche quando non si è incalzati dal tempo, mantenere una catena coerente di pensieri richiede disciplina. Chiunque osservasse quante volte controllo l’e-mail o esploro il frigorifero durante un’ora dedicata alla scrittura avrebbe buone ragioni per attribuirmi un facile impulso alla fuga, oltre che per concludere che una prolungata attività di scrittura richiederebbe un autocontrollo ben maggiore di quello che riesco a chiamare a raccolta sul momento.

Per fortuna, il lavoro cognitivo non è sempre avversivo, e la gente a volte svolge compiti considerevoli per lunghi periodi di tempo senza dover impegnare eccessivamente la propria forza di volontà. Lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi si è dedicato più di tutti gli altri allo studio di questo stato di coscienza non contrassegnato dallo sforzo, e il termine che ha proposto per esso, «flusso», è entrato a far parte del linguaggio. Le persone che sperimentano il flusso lo descrivono come «uno stato di concentrazione naturale, una concentrazione così profonda da far perdere il senso del tempo, di se stessi e dei propri problemi». E la gioia che ne deriva è, a detta di chi la prova, così grande che Csikszentmihalyi l’ha definita «esperienza ottimale».1 Molte attività inducono un senso di flusso, come dipingere, correre in motocicletta e spesso, per alcuni fortunati autori di mia conoscenza, anche scrivere un libro. Il flusso separa nettamente le due forme di sforzo: la concentrazione sul compito e il controllo intenzionale dell’attenzione. Per guidare una motocicletta a duecentoquaranta chilometri all’ora e giocare una partita in un torneo di scacchi occorre sicuramente un notevole sforzo. Nello stato di flusso, invece, si mantiene l’attenzione concentrata su queste attività impegnative senza bisogno di autocontrollo, e quindi si liberano le risorse da indirizzare verso il compito in cui si è impegnati.

L’indaffarato e «svuotato» sistema 2

È ormai assodato che sia l’autocontrollo sia lo sforzo cognitivo sono forme di lavoro mentale. Diverse indagini psicologiche hanno dimostrato che chi è sottoposto simultaneamente a un compito cognitivo difficile e a una tentazione tende maggiormente a cedere alla tentazione. Immagina che ti sia chiesto di tenere a mente per uno o due minuti un elenco di sette cifre. Ti dicono che ricordare le cifre ha la precedenza assoluta. Mentre concentri l’attenzione sui numeri, ti offrono di scegliere tra due dessert: una lussuriosa torta alla cioccolata e una casta macedonia di frutta. Dalle prove raccolte risulta che, quando la mente è carica di cifre, si è più propensi a scegliere l’allettante dolce alla cioccolata. Il sistema 1 influisce di più sul comportamento quando il sistema 2 è indaffarato, e ha un debole per i dolci.2

Le persone che sono «cognitivamente indaffarate»3 hanno anche più probabilità di compiere scelte egoistiche, usare un linguaggio sessista e formulare giudizi superficiali in società. Quando si memorizzano e ripetono cifre, il sistema 2 allenta la sua presa sul comportamento, ma naturalmente il carico cognitivo non è l’unica causa di un autocontrollo indebolito. Qualche drink o una notte insonne hanno lo stesso effetto. L’autocontrollo di chi ama alzarsi presto la mattina è compromesso la sera, e viceversa per chi ama le ore piccole. Se si è troppo preoccupati di fare bene un compito, a volte si peggiora il proprio rendimento caricando la memoria a breve termine di inutili pensieri ansiosi.4 La conclusione è chiara: l’autocontrollo richiede attenzione e sforzo. Un altro modo di dirlo è che controllare pensieri e comportamenti è uno dei compiti del sistema 2.

Una serie di incredibili esperimenti condotti dallo psicologo Roy Baumeister e dai suoi colleghi ha dimostrato in maniera definitiva che tutte le varianti dello sforzo volontario – cognitiva, emozionale e fisica – attingono almeno in parte a un pool condiviso di energia mentale. I loro esperimenti riguardavano compiti consecutivi anziché simultanei.

Il gruppo di Baumeister ha scoperto a più riprese che uno sforzo di volontà o di autocontrollo genera stanchezza; se ci si è dovuti imporre di fare una cosa, si è meno disposti o meno capaci di esercitare l’autocontrollo quando insorge un nuovo problema. Il fenomeno è stato definito «deplezione dell’io». In una tipica dimostrazione, ad alcuni volontari viene chiesto di reprimere la propria reazione emotiva davanti a un film emozionalmente carico. In seguito, sottoposti a un test di energia fisica nel quale si richiede di mantenere una forte presa sul dinamometro a fronte di un disagio crescente, gli stessi volontari mostrano un rendimento molto scarso. Lo sforzo emotivo della prima fase dell’esperimento riduce la capacità di sopportare il dolore della contrazione muscolare prolungata, e quindi chi ha subito una deplezione dell’io cede prima all’impulso di mollare. In un altro esperimento, i soggetti erano prima «svuotati» da un compito in cui mangiavano cibo «virtuoso», come ravanelli e sedani, mentre resistevano alla tentazione di concedersi cioccolata e pasticcini squisiti. In seguito, posti davanti a un difficile compito cognitivo, essi rinunciavano prima della norma.

È lungo e variegato l’elenco delle situazioni e dei compiti che, come oggi si sa, portano alla deplezione dell’autocontrollo. Sono tutti compiti e tutte situazioni che comportano conflitto e necessità di reprimere una tendenza naturale. Ecco qualche esempio:

Evitare pensieri ossessivi.

Inibire la risposta emozionale a un film commovente.

Compiere una serie di scelte che comportano conflitto.

Cercare di fare colpo sugli altri.

Rispondere educatamente al cattivo comportamento del partner.

Interagire con una persona di razza diversa (per gli individui che nutrono pregiudizi).

Anche l’elenco dei sintomi di deplezione è alquanto variegato:

Sgarrare rispetto alla propria dieta.

Spendere troppo per acquisti impulsivi.

Reagire aggressivamente a una provocazione.

Resistere meno tempo in un compito in cui si deve stringere qualcosa in mano.

Registrare risultati mediocri in compiti cognitivi e processi decisionali logici.

Com’è facilmente dimostrabile, attività molto impegnative per il sistema 2 richiedono autocontrollo, e l’esercizio dell’autocontrollo è sempre spiacevole e «svuotante».5 Diversamente dal carico cognitivo, la deplezione dell’io è, almeno in parte, una perdita di motivazione. Dopo aver esercitato l’autocontrollo per affrontare un compito, non abbiamo più voglia di sottoporci a sforzo per affrontarne un altro, anche se ne saremmo in grado ove fosse proprio necessario. In diversi esperimenti, i soggetti resistettero agli effetti della deplezione quando fu dato loro un forte incentivo.6 Per contro, quando si devono conservare nella memoria a breve termine sei o sette cifre mentre si sta già eseguendo un altro compito, incrementare lo sforzo non è un’opzione. La deplezione dell’io non è lo stesso stato mentale di chi è cognitivamente indaffarato.

Come osserva Baumeister, la scoperta più sorprendente fatta dal suo gruppo è che l’idea di energia mentale sia qualcosa di più di una semplice metafora.7 Il sistema nervoso consuma più glucosio di quasi tutte le altre parti del corpo, e l’attività mentale impegnativa pare sia particolarmente costosa in termini di glucosio. Quando si è attivamente coinvolti in difficili ragionamenti cognitivi o impegnati in un compito che richiede autocontrollo, il livello di glucosio nel sangue cala. L’effetto è analogo a quello di un corridore che, durante uno scatto, consuma parecchio del glucosio immagazzinato nei muscoli. La chiara implicazione è che gli effetti della deplezione dell’io potrebbero essere neutralizzati attraverso un’assunzione di glucosio, e Baumeister e colleghi hanno confermato l’ipotesi nel corso di diversi esperimenti.8

In uno dei loro studi, fecero guardare ad alcuni volontari un breve filmato muto in cui una donna veniva intervistata, poi chiesero loro di interpretare il linguaggio del suo corpo. Mentre i soggetti eseguivano il compito, diverse parole attraversarono lo schermo in lenta successione. Ai volontari venne esplicitamente detto di ignorarle, e di tornare a concentrare l’attenzione sul comportamento della donna se scoprivano di essersi fatti distrarre. Si sapeva che quell’atto di autocontrollo causava deplezione dell’io. Prima che i soggetti partecipassero a un secondo compito, fu distribuita una limonata. A metà dei volontari fu servita una limonata zuccherata con glucosio, mentre agli altri ne fu servita una addolcita con sucralosio. Poi a tutti fu assegnato un compito in cui, per arrivare alla risposta corretta, dovevano vincere la tentazione di seguire la risposta intuitiva. Di norma gli errori intuitivi sono molto più frequenti tra le persone affette da deplezione dell’io, e i bevitori di sucralosio dimostrarono il previsto effetto depletivo. I bevitori di glucosio, invece, non erano «svuotati»: ripristinare il livello di zuccheri nel cervello aveva impedito che il rendimento si deteriorasse. Il tempo e molte altre ricerche ci diranno se i compiti che provocano deplezione del glucosio provochino anche la momentanea eccitabilità che si riflette nella midriasi e nell’aumento della frequenza cardiaca.

Un’inquietante dimostrazione degli effetti della deplezione sul giudizio è stata descritta di recente sulla rivista «Proceedings of the National Academy of Sciences».9 Le inconsapevoli «cavie» della ricerca erano otto giudici israeliani che dovevano concedere o negare la libertà sulla parola a dei detenuti. Per intere giornate queste persone passano in rassegna domande di libertà sulla parola. I casi sono presentati in ordine sparso e i giudici dedicano pochissimo tempo, in media sei minuti, a ciascuno di essi. (In genere la libertà non viene accordata; solo il 35 per cento delle domande è approvato. Il tempo preciso impiegato per ciascuna decisione è registrato, come sono registrate le pause dei giudici: pausa caffè la mattina, pausa pranzo e pausa merenda nel pomeriggio.) Gli autori dello studio tracciarono il grafico del rapporto tra percentuale di richieste approvate e tempo trascorso dall’ultima pausa. La percentuale di sì era più alta dopo ciascun pasto, quando veniva accettato circa il 65 per cento delle domande. Nelle due ore che passavano prima della pausa successiva, il tasso di approvazione delle richieste calava costantemente, scendendo a zero poco prima del pasto. Come puoi immaginare, fu un risultato sgradito e gli autori controllarono con cura molte spiegazioni alternative. L’interpretazione più logica dei dati non è certo consolante: i giudici stanchi e affamati tendevano a ripiegare sulla soluzione più ordinaria, negando la libertà sulla parola. È molto probabile che la stanchezza e la fame svolgano un ruolo nel giudizio.

Il pigro sistema 2

Una delle principali funzioni del sistema 2 è monitorare e controllare pensieri e azioni «suggeriti» dal sistema 1, permettendo ad alcuni di esprimersi direttamente nel comportamento e reprimendo o modificando gli altri.

Qui sotto riporto come esempio un semplice problema. Non cercare di risolverlo, ma ascolta la tua intuizione:

Una mazza da baseball e una palla costano un dollaro e dieci.

La mazza costa un dollaro più della palla.

Quanto costa la palla?

Ti viene in mente un numero e il numero è naturalmente dieci, dieci centesimi. La caratteristica peculiare di questo semplice problema è che evoca una risposta facile, intuitiva e sbagliata. Esegui il calcolo matematico e vedrai. Se la palla costasse dieci centesimi, il costo totale sarebbe un dollaro e venti (dieci per la palla e uno e dieci per la mazza), non uno e dieci. La risposta esatta è cinque centesimi. Si può assumere senza timore di sbagliare che la risposta intuitiva sia venuta in mente anche a chi ha finito per dire il numero corretto: in qualche modo, egli ha resistito all’intuizione.

Shane Frederick e io elaborammo insieme una teoria del giudizio basata sui due sistemi, e lui usò il problema della mazza e della palla per studiare una questione centrale: quanto è stretto il controllo del sistema 2 sui suggerimenti del sistema 1? Noi conosciamo, ragionava Shane, un fatto molto importante su chiunque dica che la palla costa dieci centesimi: quella persona non ha realmente controllato se la risposta era corretta e il suo sistema 2 ha avallato una risposta intuitiva che avrebbe potuto respingere senza troppo sforzo. Inoltre, sappiamo anche che a chi dà la risposta intuitiva è sfuggito un evidente indizio sociale: avrebbe infatti potuto chiedersi perché in un questionario fosse stato incluso un problema dalla risposta così ovvia. Non avere controllato la validità di una simile risposta è incredibile, perché controllarla costa pochissimo: qualche secondo di lavoro mentale (il problema è di difficoltà moderata), accompagnato da una leggera tensione dei muscoli e una lieve dilatazione delle pupille, avrebbe risparmiato al soggetto un errore imbarazzante. Chi risponde «dieci centesimi» si dimostra un convinto seguace della legge del minimo sforzo; chi evita quella risposta risulta avere una mente più attiva.

Molte migliaia di studenti universitari hanno risposto al problema della mazza e della palla, e i risultati sono sconvolgenti: oltre il 50 per cento degli studenti di Harvard, dell’MIT e di Princeton ha dato l’errata risposta intuitiva.10 In università meno selettive, la percentuale dell’evidente mancanza di controllo del sistema 2 era di oltre l’80 per cento. Il problema della mazza e della palla è il nostro primo incontro con un dato osservativo che rappresenterà un tema ricorrente del libro: molte persone sono troppo sicure delle loro intuizioni e tendono a riporre in esse troppa fiducia. A quanto pare, trovano lo sforzo cognitivo leggermente sgradevole e lo evitano più che possono.

Ora riporterò un sillogismo costituito da due premesse e una conclusione. Cerca di stabilire il più in fretta possibile se è valido dal punto di vista logico. La conclusione consegue alle premesse?

Tutte le rose sono fiori.

Alcuni fiori appassiscono presto.

Ergo, alcune rose appassiscono presto.

La stragrande maggioranza degli studenti di college afferma che il sillogismo è valido.11 In realtà non lo è, perché è possibile non vi siano rose tra i fiori che appassiscono presto. Proprio come nel caso della mazza e della palla, viene subito in mente una risposta plausibile. Vincere la tentazione di accettarla richiede un duro lavoro: l’idea insistente che sia esatta («è vero! è vero!») rende difficile controllare la logica del ragionamento, e la maggior parte della gente non si disturba a riflettere sul problema.

Questo esperimento ha scoraggianti implicazioni per la razionalità della vita quotidiana. Fa pensare che, quando la gente è convinta che una conclusione sia vera, tenda anche a credere alle argomentazioni che paiono corroborarla, benché tali argomentazioni siano infondate. Se nella risposta è coinvolto il sistema 1, la conclusione arriva per prima e le argomentazioni seguono.

Ora considera la seguente domanda e datti subito una risposta, prima di continuare a leggere:

Quanti omicidi all’anno si registrano nello Stato del Michigan?

La domanda, che fu ideata sempre da Shane Frederick, rappresenta ancora una volta una sfida al sistema 2. Il «trucco» sta nel fatto che l’intervistato potrebbe non ricordarsi che Detroit, una città ad alto tasso di criminalità, si trova nel Michigan. Gli studenti universitari degli Stati Uniti sono edotti e identificano correttamente Detroit come la più grande città del Michigan. Ma la conoscenza di un dato non implica che esso sia richiamato automaticamente alla memoria. I dati che conosciamo non sempre ci vengono in mente quando ne abbiamo bisogno. Chi si ricorda che Detroit è nel Michigan ritiene il tasso di omicidi in quello Stato più alto di chi non se lo ricorda, ma la maggior parte degli intervistati di Frederick non pensò a quella città quando fu interrogata in merito al Michigan. Anzi, la stima degli omicidi ipotizzata in media dagli intervistati era inferiore a quella di un gruppo analogo interrogato sul numero di omicidi di Detroit.

Se non si pensa a Detroit, la colpa va imputata sia al sistema 1 sia al sistema 2. Che la città venga in mente o no quando si nomina lo Stato del Michigan dipende in parte dalla funzione automatica della memoria. Le persone sono diverse sotto questo aspetto. Nella mente di alcuni soggetti la rappresentazione dello Stato del Michigan è assai dettagliata: coloro che ci vivono tendono a ricordare molti più fatti sul Michigan di coloro che vivono altrove; gli appassionati di geografia ricordano più degli appassionati di baseball che mandano a memoria i risultati delle partite; gli individui più intelligenti hanno più probabilità degli altri di avere ricche rappresentazioni della maggior parte delle cose. L’intelligenza non è solo la capacità di ragionare: è anche la capacità di trovare materiale pertinente nella memoria e di usare l’attenzione quando occorre farlo. La funzione della memoria è un attributo del sistema 1. Tutti, però, hanno la facoltà di «rallentare» per cercare attivamente in essa tutti i possibili dati pertinenti, proprio come si ha la facoltà di «rallentare» per controllare l’esattezza della risposta intuitiva al problema della mazza e della palla. L’entità del controllo e della ricerca intenzionali, caratteristici del sistema 2, varia da individuo a individuo.

Il problema della mazza e della palla, il sillogismo dei fiori e il problema Michigan/Detroit hanno qualcosa in comune. Fallire in questi mini-test testimonia, almeno fino a un certo punto, che non vi è sufficiente motivazione, che non ci si è dati abbastanza da fare. Chiunque sia ammesso a una buona università è senza dubbio capace di ragionare sui primi due test e di riflettere sul Michigan abbastanza a lungo da ricordare la principale città di quello Stato e il livello di criminalità che la affligge. Questi studenti risolvono problemi molto più difficili quando non cedono alla tentazione di accettare la prima risposta apparentemente plausibile che viene loro in mente. La facilità con cui, pur di non pensare, si accontentano di una riposta superficiale è abbastanza preoccupante. «Pigri» è un giudizio severo sul loro autocontrollo e su quello del loro sistema 2, eppure forse è giustificato. Coloro che evitano il peccato dell’indolenza intellettuale si potrebbero definire «impegnati». Sono più vigili, più attivi dal punto di vista intellettuale, meno disposti ad accontentarsi di allettanti risposte superficiali, più scettici nei confronti delle proprie intuizioni. Lo psicologo Keith Stanovich li definirebbe «più razionali».12

Intelligenza, controllo, razionalità

I ricercatori hanno utilizzato diversi metodi per analizzare la connessione tra pensiero e autocontrollo. Alcuni hanno affrontato il problema ponendo una domanda che correla le due cose: se gli individui fossero classificati in base all’autocontrollo e all’attitudine cognitiva, avrebbero posizioni analoghe nelle due categorie?

In uno dei più famosi esperimenti della storia della psicologia, Walter Mischel e i suoi studenti esposero dei bambini di quattro anni a un crudele dilemma.13 Diedero loro la possibilità di scegliere tra una piccola ricompensa (un biscotto Oreo), che potevano avere in qualsiasi momento, e una ricompensa più grande (due biscotti) per la quale dovevano aspettare un quarto d’ora in condizioni difficili. Dovevano rimanere da soli in una stanza davanti a un tavolo con due oggetti: un biscotto e una campanella che il bambino poteva suonare in qualsiasi momento per chiamare lo sperimentatore e ricevere il biscotto esposto e solo quello. Come si legge nella descrizione dell’esperimento: «Nella stanza non c’erano giocattoli, libri, fotografie o altri oggetti che potessero distrarre. Lo sperimentatore se ne andava e tornava solo dopo un quarto d’ora oppure quando il bambino suonava la campanella, mangiava le ricompense, si alzava o dava qualche altro segno di nervosismo».14

I bambini erano osservati attraverso un vetro a specchio, e il filmato che mostra il loro comportamento nel quarto d’ora di attesa suscita sempre grandi risate nel pubblico. Circa metà riuscirono nell’impresa di aspettare quindici minuti, soprattutto distogliendo gli occhi dalla ricompensa tentatrice. Dieci o quindici anni dopo, risultava esserci un grande divario tra i bambini che avevano resistito alla tentazione e quelli che non vi avevano resistito. Quelli che vi avevano resistito avevano maggiore controllo esecutivo nei compiti cognitivi, in particolare nella capacità di riallocare la loro attenzione in maniera efficace. Divenuti giovani adulti, mostravano meno tendenza ad assumere droghe. Emerse una notevole differenza nell’attitudine intellettuale: i ragazzi che avevano mostrato più autocontrollo a quattro anni registravano punteggi assai più alti nei test d’intelligenza.15

Un’équipe di ricercatori dell’Università dell’Oregon analizzò il nesso tra controllo cognitivo e intelligenza in vari modi, tra i quali il tentativo di aumentare l’intelligenza migliorando il controllo dell’attenzione. Durante cinque sessioni di quaranta minuti, bambini di quattro-sei anni furono esposti a vari videogiochi che richiedevano attenzione e controllo particolari. In uno degli esercizi, i bambini usavano il joystick per seguire un gatto virtuale e spostarlo in un’area erbosa facendogli evitare un’area fangosa. I prati a poco a poco diminuivano e le aree fangose si espandevano, per cui occorreva un controllo sempre più preciso. Gli sperimentatori scoprirono che addestrare l’attenzione migliorava non solo il controllo esecutivo, ma anche i punteggi nei test di intelligenza non verbale, e che il miglioramento veniva mantenuto per parecchi mesi.16 Durante altre ricerche condotte dalla stessa équipe, si identificarono i geni coinvolti nel controllo dell’attenzione e si dimostrò che anche tecniche di cura genitoriale influenzavano quell’abilità, e che esisteva una stretta connessione tra la capacità del bambino di controllare l’attenzione e la sua capacità di controllare le emozioni.

Shane Frederick ideò il «test di riflessione cognitiva», che consiste nel problema della mazza e della palla e in altre due domande, scelte perché anch’esse invitano a dare una risposta intuitiva irresistibile, ma errata (le domande sono riportate nel capitolo V). Studiò poi le caratteristiche degli studenti che avevano un punteggio molto basso in quel test (la funzione di controllo del sistema 2 è debole in tali soggetti) e scoprì che essi tendevano a rispondere alle domande con la prima idea che veniva loro in mente e non erano disposti a fare lo sforzo di verificare l’esattezza delle intuizioni. Chi segue acriticamente l’intuizione quando affronta un problema è anche incline ad accettare altri suggerimenti del sistema 1. In particolare, è impulsivo, impaziente e ansioso di ricevere gratificazione immediata. Per esempio, il 63 per cento degli intervistati intuitivi diceva che avrebbe preferito 3400 dollari quel mese che 3800 dollari il mese dopo, mentre solo il 37 per cento di quelli che avevano risolto tutti e tre i problemi correttamente preferiva, in maniera miope, ricevere una somma più bassa subito. Quando si chiedeva loro quanto avrebbero pagato per vedersi consegnare immediatamente un libro che avevano ordinato, gli studenti che avevano registrato bassi punteggi nel test di riflessione cognitiva erano disposti a pagare il doppio di quelli che avevano registrato punteggi alti. Le scoperte di Frederick fanno pensare che i personaggi del nostro psicodramma abbiano differenti «personalità». Il sistema 1 è impulsivo e intuitivo; il sistema 2 è cauto e capace di ragionare, ma, almeno in alcuni soggetti, è anche pigro. Riconosciamo analoghe differenze tra gli individui: alcuni sono più simili al sistema 2, mentre altri assomigliano di più al sistema 1. Il semplice test di riflessione cognitiva è risultato uno dei migliori metodi per prevedere il pensiero pigro.

Keith Stanovich e Richard West, per lungo tempo suo collaboratore, furono i primi a coniare le espressioni «sistema 1» e «sistema 2» (anche se oggi preferiscono parlare di «processo di tipo 1» e «processo di tipo 2»). Stanovich e i suoi colleghi hanno dedicato decenni allo studio delle differenze tra individui nei tipi di problemi di cui tratta il presente saggio. Si sono posti un interrogativo fondamentale in molti modi diversi: che cosa rende alcuni individui più soggetti di altri a errori sistematici di giudizio? Stanovich ha pubblicato le sue conclusioni in un saggio intitolato Rationality and the Reflective Mind (La razionalità e la mente riflessiva), che affronta l’argomento di questo capitolo in maniera audace e peculiare. Egli distingue tra due parti del sistema 2, anzi fa una distinzione così netta che le chiama addirittura «menti» separate. Una di queste menti (che lui definisce «algoritmica») gestisce il pensiero lento e i calcoli impegnativi. Alcuni soggetti sono più bravi di altri in questi compiti di potenza cerebrale: sono coloro che eccellono nei test di intelligenza e riescono a passare con rapidità ed efficienza da un compito all’altro. Tuttavia Stanovich sostiene che un’elevata intelligenza non rende le persone immuni da bias. Caratteristica di un’intelligenza elevata è anche un’altra capacità, che egli definisce «razionalità». Il suo concetto di «persona razionale» è simile a quello di «persona impegnata» cui ho fatto riferimento in precedenza. Il succo del ragionamento è che la «razionalità» andrebbe distinta dall’«intelligenza». A suo avviso, il pensiero superficiale o «pigro» è un difetto della mente riflessiva, un cattivo funzionamento della razionalità. È un’ipotesi interessante e provocatoria. Per corroborarla, Stanovich e i suoi colleghi hanno scoperto che il problema della mazza e della palla e altri analoghi sono in qualche modo migliori indici della nostra vulnerabilità agli errori cognitivi di quanto non lo siano misure convenzionali dell’intelligenza come i test del QI.17 Il tempo ci dirà se la distinzione tra intelligenza e razionalità può condurre a nuove scoperte.

A proposito di controllo

«Non dovette sforzarsi di restare concentrata sul compito per ore: era in uno stato di flusso.»

«Afflitto da deplezione dell’io dopo una lunga giornata di riunioni, adottò procedure operative standard invece di riflettere bene sul problema.»

«Non si disturbò a controllare se quello che aveva detto aveva senso. Ha sempre un sistema 2 pigro, o era insolitamente stanco?»

«Purtroppo, tende a dire la prima cosa che le viene in mente. Forse fa anche fatica a rimandare la gratificazione. Sistema 2 debole.»