La fallacia della pianificazione è solo una delle manifestazioni di un bias ottimistico pervasivo. Quasi tutti noi consideriamo il mondo più benevolo, i nostri attributi più positivi e i nostri obiettivi più raggiungibili di quanto non siano realmente. Tendiamo anche a esagerare la nostra capacità di prevedere il futuro, il che induce in noi un’eccessiva, ottimistica sicurezza. Per quanto riguarda la sua influenza sulle nostre decisioni, il bias ottimistico è forse il più importante dei bias cognitivi. Poiché da un lato rappresenta una benedizione ma dall’altro anche un rischio, dovresti essere sia felice sia prudente qualora fossi di temperamento ottimista.

Gli ottimisti

L’ottimismo è normale, ma alcuni individui fortunati sono più ottimisti degli altri. Se si è geneticamente dotati di un bias ottimistico, non si ha bisogno di sentirsi dire che si è fortunati: ci si sente già tali.1 Un atteggiamento ottimistico è in gran parte ereditario e fa parte di una generale disposizione al benessere, che potrebbe anche includere la tendenza a vedere il lato positivo di ogni cosa.2 Se ti fosse concesso di augurare qualcosa di bello a tuo figlio, potresti seriamente considerare di augurargli l’ottimismo. Gli ottimisti sono in genere allegri e felici, e quindi simpatici a tutti; sanno adattarsi con duttilità ai fallimenti e ai sacrifici, hanno una ridotta probabilità di ammalarsi di depressione clinica, sono dotati di un sistema immunitario più forte, hanno maggiore cura della loro salute, si sentono più sani degli altri e hanno, di fatto, più probabilità di vivere a lungo. Uno studio effettuato su persone la cui aspettativa di vita superava le previsioni attuariali ha dimostrato che esse lavorano più ore delle altre, sono più ottimiste in merito al reddito futuro, tendono maggiormente a risposarsi dopo il divorzio (il classico «trionfo della speranza sull’esperienza»)3 e sono più inclini a scommettere su singole azioni che a mettere i soldi nei fondi comuni di investimento. Naturalmente i vantaggi dell’ottimismo sono offerti solo agli individui che hanno soltanto una leggera tendenza a vedere tutto rosa e che riescono a «accentuare il lato positivo» senza però perdere di vista la realtà.

Gli individui ottimisti svolgono un ruolo sproporzionato nel plasmare la nostra vita. Le loro decisioni sono di fondamentale importanza: sono loro, non l’uomo medio, gli inventori, gli imprenditori, i capi politici e militari. Sono arrivati dove sono arrivati raccogliendo sfide e correndo rischi. Hanno talento e sono stati fortunati, quasi sicuramente più fortunati di quanto non siano disposti ad ammettere. Sono probabilmente ottimisti per temperamento; da uno studio effettuato sui fondatori di piccole imprese risulta che gli imprenditori sono più sanguigni dei manager di medio livello nei confronti della vita in genere.4 Nelle esperienze di successo hanno trovato conferma alla loro fiducia nel proprio giudizio e nella propria capacità di controllare gli eventi. La loro sicurezza di sé è rafforzata dall’ammirazione degli altri.5 Il ragionamento conduce a formulare un’ipotesi: è probabile che le persone che hanno maggiore influenza sulla vita degli altri siano ottimiste e piene di fiducia in se stesse, e che corrano più rischi di quanto non si accorgano.6

Dalle prove è lecito arguire che il bias ottimistico svolga un ruolo, a volte il ruolo dominante, nei casi in cui individui o istituzioni si assumono volontariamente rischi significativi. Spesso e volentieri, chi rischia sottostima le probabilità delle circostanze che si trova ad affrontare e non investe sufficienti energie per scoprire quali esse siano. Poiché non sanno interpretare i rischi, gli imprenditori ottimisti spesso credono di essere prudenti anche quando non lo sono. La loro fiducia nel successo futuro corrobora uno stato d’animo positivo che li aiuta a ottenere risorse dagli altri, sollevare il morale dei dipendenti e rafforzare le prospettive di successo. Quando occorre agire, l’ottimismo, anche se del tipo leggermente delirante, è forse una cosa positiva.

Illusioni imprenditoriali

Le probabilità che, negli Stati Uniti, una piccola impresa sopravviva cinque anni sono circa del 35 per cento. Ma gli individui che fondano tali aziende non credono che le statistiche valgano per loro. Da un’indagine risulta che gli imprenditori americani tendono a giudicare il loro settore d’attività promettente: la loro stima media delle probabilità di successo di «qualunque impresa come la vostra» era del 60 per cento, quasi il doppio del valore reale. Il bias risultava più macroscopico quando i soggetti valutavano le probabilità della loro personale attività. Ben l’81 per cento degli imprenditori riteneva che le sue personali probabilità di successo fossero 7 su 10 o anche più, e il 33 per cento affermava che le sue probabilità di insuccesso erano nulle.7

La direzione del bias non stupisce. Se ti capitasse di parlare con qualcuno che di recente avesse aperto un ristorante italiano, non ti aspetteresti che sottostimasse le sue prospettive di successo o ritenesse di non saper fare il ristoratore. Ma devi chiederti: avrebbe investito tempo e denaro anche se avesse fatto un discreto sforzo per informarsi sulle probabilità a priori e, una volta informatosi (il 60 per cento dei nuovi ristoranti chiude dopo tre anni), le avesse soppesate con attenzione? È quasi certo che non gli sia venuto in mente di adottare la visione esterna.

Uno dei vantaggi del temperamento ottimista è quello di persistere nonostante gli ostacoli. Ma la persistenza costa spesso cara. Una bella serie di indagini condotte da Thomas Åstebro fa luce su quello che accade quando gli ottimisti ricevono cattive notizie. Åstebro ricavò i dati da un’associazione canadese, l’Inventor’s Assistance Program, che in cambio di un piccolo compenso fornisce agli inventori una valutazione obiettiva delle prospettive commerciali delle loro idee. L’associazione classifica con cura ciascuna invenzione in base a trentasette criteri, tra cui la necessità del prodotto, il costo di produzione e la tendenza stimata della domanda. Gli analisti riassumono il loro rating con un voto espresso da una lettera; D e E prevedono il fallimento, una previsione che riguarda oltre il 70 per cento delle invenzioni prese in esame. Le previsioni di fallimento sono straordinariamente precise: solo 5 dei 411 progetti cui fu assegnato il voto più basso sono stati commercializzati, e nessuno ha avuto successo.8

Le notizie scoraggianti indussero circa metà degli inventori ad abbandonare il progetto dopo avere ricevuto un voto che lasciava inequivocabilmente presagire il fallimento. Tuttavia il 47 per cento continuò a cercare di portarlo avanti anche dopo il verdetto negativo dell’Inventor’s Assistance Program, e in media questi individui tenaci (o ostinati) raddoppiarono le perdite iniziali prima di gettare la spugna. Particolare significativo, persistere dopo il consiglio contrario era una reazione abbastanza diffusa tra gli inventori che risultavano avere un elevato grado di ottimismo nel test caratterologico (e gli inventori perlopiù risultavano avere un ottimismo maggiore della popolazione generale in quel tipo di test). Nel complesso, il rendimento dell’invenzione privata appariva modesto, «inferiore al rendimento del private equity e dei titoli ad alto rischio». Più in generale, i vantaggi finanziari del lavoro autonomo sono mediocri; a parità di qualifiche, le persone ottengono rendimenti medi più alti vendendo le loro competenze a datori di lavoro esterni che mettendosi in proprio. Le prove lasciano pensare che l’ottimismo sia diffuso, ostinato e costoso.9

Gli psicologi hanno confermato che quasi tutti gli individui credono di essere superiori alla maggior parte degli altri individui nelle caratteristiche più desiderabili e, nelle indagini di laboratorio, sono disposti a scommettere piccole somme su queste credenze.10 Sul mercato, naturalmente, credere nella propria superiorità ha conseguenze importanti. A volte i leader di grandi imprese fanno scelte di grande rischio optando per costose fusioni e acquisizioni e agendo in base alla credenza errata di poter gestire gli asset di un’altra industria meglio di quanto non facciano i suoi attuali proprietari. Il mercato azionario reagisce di solito abbassando il valore dell’azienda acquirente, perché l’esperienza ha dimostrato che i tentativi di integrare grandi industrie sono più spesso fallimentari che di successo. Le acquisizioni infelici sono state spiegate con una «ipotesi della hybris»:11 in poche parole, i dirigenti dell’industria acquirente sarebbero meno competenti di quanto non credano.

Gli economisti Ulrike Malmendier e Geoffrey Tate identificarono i CEO ottimisti in base al numero di azioni dell’azienda che essi possedevano personalmente, e osservarono che quelli molto ottimisti correvano rischi eccessivi: assumevano debito anziché fare aumenti di capitale e tendevano più degli altri a «pagare troppo le aziende bersaglio e a effettuare fusioni che distruggevano il valore della compagnia».12 Particolare notevole, il capitale azionario dell’azienda acquirente soffriva molto di più in occasione delle fusioni se il CEO risultava, secondo i parametri degli autori, troppo ottimista. A quanto pare, il mercato azionario è in grado di identificare i CEO troppo sicuri di sé. Questa constatazione li assolve da una data accusa nel momento stesso in cui li inchioda a un’altra: quelli che fanno scelte di rischio non le fanno perché scommettono con il denaro altrui, ma, al contrario, assumono rischi maggiori quando posseggono personalmente più azioni. Il danno causato da amministratori delegati troppo sicuri di sé viene aggravato quando i giornali economici li consacrano star: da varie prove risulta che i prestigiosi premi assegnati dalla stampa ai CEO sono costosi per gli azionisti. Scrivono i due autori: «Abbiamo scoperto che le aziende con amministratori delegati che avevano vinto premi in seguito andavano peggio sia in termini di quotazione azionaria sia in termini di performance operativa. Nel contempo, i compensi per gli amministratori aumentano, i CEO dedicano più tempo ad attività extra-aziendali, come scrivere libri e sedere in altri consigli di amministrazione, e tendono maggiormente a impegnarsi nella gestione dei loro cospicui guadagni».13

Diversi anni fa, mia moglie e io andammo in vacanza nell’isola di Vancouver e cercammo un albergo in cui soggiornare. Trovammo un motel bello, ma vuoto, su una strada poco frequentata nel cuore di una foresta. I proprietari, una coppia deliziosa, non dovettero essere pungolati troppo per raccontarci la loro storia. Ex insegnanti della provincia di Alberta, i due avevano deciso di cambiare vita e avevano investito i risparmi di decenni nell’acquisto di quel motel, che era stato costruito una dozzina di anni prima. Ci dissero senza ironia né imbarazzo che avevano potuto comprarlo a poco prezzo «perché sei o sette precedenti proprietari non erano riusciti a farlo decollare». Dissero anche che intendevano chiedere un prestito per costruirci vicino un ristorante e attirare così più clienti. Non sentirono il bisogno di spiegare perché si aspettassero di avere successo quando altre sei o sette persone avevano fallito nell’impresa. Un filo rosso di audacia e ottimismo lega tra loro gli imprenditori, dai proprietari di motel fino ai CEO superstar.

L’ottimistica assunzione di rischio degli imprenditori contribuisce senza dubbio al dinamismo economico della società capitalistica, anche se nella maggior parte dei casi il coraggio non viene ripagato. Marta Coelho, della London School of Economics, sottolinea però come insorgano spinosi problemi politici quando le piccole imprese chiedono allo Stato di sostenerle in decisioni destinate quasi infallibilmente all’insuccesso. Lo Stato dovrebbe concedere prestiti ad aspiranti imprenditori che falliranno con tutta probabilità nel giro di pochi anni? Molti economisti comportamentali vedono con favore le pratiche di «paternalismo liberista», con le quali si cerca di aiutare la gente a risparmiare, in piena libertà di scelta, una quota maggiore dello stipendio di quella che risparmierebbe senza un piccolo aiuto. La questione se e come lo Stato debba sostenere le piccole imprese non ha una risposta altrettanto soddisfacente.

Disattenzione per la competizione

Si è tentati di spiegare l’ottimismo imprenditoriale con il wishful thinking, ma le emozioni rappresentano solo una parte della storia. I bias cognitivi svolgono un ruolo importante, in particolare il principio del WYSIATI, tipico del sistema 1.

• Ci concentriamo sul nostro obiettivo, ci ancoriamo al nostro piano e trascuriamo le fondamentali probabilità a priori, esponendoci alla fallacia della pianificazione.

• Ci concentriamo su quello che vogliamo e possiamo fare, trascurando i piani e le competenze altrui.

• Sia nello spiegare il passato sia nel predire il futuro, ci concentriamo sul ruolo causale dell’abilità trascurando quello della fortuna. Siamo quindi inclini a una «illusione di controllo».

• Ci concentriamo su quello che sappiamo e trascuriamo quello che non sappiamo, e questo ci rende troppo sicuri delle nostre credenze.

L’osservazione secondo la quale «il 90 per cento dei guidatori è convinto di essere più bravo della media» è confermata in maniera inequivocabile dalle ricerche psicologiche, è divenuta parte della cultura e spesso viene addotta come efficace esempio di un generale «effetto di superiorità rispetto alla media». Tuttavia l’interpretazione del dato è cambiata negli ultimi anni, e se prima si considerava la credenza nella propria superiorità una forma di autoesaltazione, ora la si considera un bias cognitivo.14 Prendiamo questi due quesiti:

Sei un bravo guidatore?

Come guidatore, sei superiore alla media?

La prima domanda è facile e la risposta arriva subito: la maggior parte dei guidatori dice di sì. La seconda è molto più difficile e la maggior parte degli intervistati non può rispondervi in maniera seria e corretta, perché dovrebbe valutare la qualità media dei guidatori. A questo punto del libro i lettori non si stupiranno di apprendere che la gente affronta un quesito difficile rispondendo a uno più facile. Le persone si confrontano con la media senza nemmeno pensare a come essa sia realmente. Le prove dell’interpretazione cognitiva dell’«effetto di superiorità rispetto alla media» sono date dal fatto che, quando a qualcuno viene rivolta una domanda su un compito difficile (che per molti di noi potrebbe essere: «Sei più bravo della media nell’avviare una conversazione con sconosciuti?»), egli si classifica subito «sotto la media». La conclusione è che la gente tende a essere troppo ottimista quando giudica la propria posizione relativa in un’attività che sa fare moderatamente bene.

In parecchie occasioni ho rivolto a fondatori e membri di start-up innovative una domanda: «In che misura il risultato del vostro sforzo dipende da quello che fate nella vostra azienda?». È chiaramente una domanda facile; la risposta arriva subito e nel mio piccolo esempio non è mai stata inferiore all’80 per cento. Anche quando non sono sicuri di avere successo, questi individui audaci pensano che il loro destino sia quasi interamente nelle loro mani. È chiaro che si sbagliano: il successo delle start-up dipende tanto dagli sforzi dei loro membri quanto dai successi dei loro concorrenti e dalle trasformazioni che avvengono nel mercato. Tuttavia, WYSIATI fa la sua parte, e gli imprenditori si concentrano istintivamente su quello che conoscono meglio: i loro piani e azioni e le minacce o le opportunità più immediate, come la disponibilità di finanziamenti. Conoscono meno i loro concorrenti e quindi trovano naturale immaginare un futuro in cui i concorrenti svolgano una parte insignificante.

Colin Camerer e Dan Lovallo, che descrissero per primi la «disattenzione per la competizione», illustrarono il concetto citando l’allora CEO dei Disney Studios. Quando gli chiesero perché tanti film ad alto budget uscissero tutti negli stessi giorni (come la festa dei Caduti e la festa dell’Indipendenza), egli rispose:

Hybris. Hybris. Se vedi all’orizzonte solo la tua azienda, pensi: «Ho una buona divisione sceneggiature e una buona divisione marketing, quindi realizzerò questo progetto». Non ti viene in mente che tutti gli altri pensano nello stesso esatto modo. Così scopri che in un dato weekend dell’anno escono tutti insieme cinque film e non c’è abbastanza pubblico che li veda tutti.

Nella sua candida risposta, l’amministratore delegato parla di hybris, ma non suona arrogante, non mostra di ritenersi superiore agli studios concorrenti. Semplicemente, la competizione non fa parte della decisione, nella quale a un quesito difficile è stato ancora una volta sostituito un quesito più facile. La domanda che richiede una risposta è: «Considerato quello che fanno gli altri, quante persone vedranno il nostro film?». La domanda che invece si sono posti i dirigenti dello studio è più semplice e concerne un dato che è loro facilmente accessibile: «Abbiamo un buon film e una buona organizzazione per venderlo sul mercato?». I noti processi di WYSIATI e di sostituzione del sistema 1 producono sia disattenzione per la competizione sia effetto di superiorità rispetto alla media. La conseguenza della disattenzione per la competizione è l’entrata in eccesso: entrano nel mercato più concorrenti di quanti il mercato stesso possa proficuamente sostenere, sicché il risultato medio è una perdita.15 L’esito è deludente per il tipico competitore sul mercato, ma l’effetto sull’economia nel suo complesso potrebbe essere positivo. Di fatto, Giovanni Dosi e Dan Lovallo chiamano le imprese che falliscono, ma segnalano nuovi mercati ad altri competitori qualificati, «martiri ottimiste», buone per l’economia, ma cattive per i loro investitori.

L’eccessiva sicurezza

Per diversi anni, alcuni professori della Duke University condussero un’indagine nella quale i direttori finanziari di grandi multinazionali stimavano l’andamento degli indici di borsa di Standard & Poor’s per l’anno successivo. Gli studiosi della Duke misero insieme 11.600 previsioni del genere e analizzarono la loro esattezza. La conclusione fu chiara: i direttori finanziari delle grandi multinazionali non avevano idea di come sarebbe andato, a breve termine, il mercato azionario; la correlazione tra le loro stime e i valori reali era leggermente sotto lo zero! Quando dissero che il mercato sarebbe sceso, era leggermente più probabile che salisse. Tali scoperte non stupirono nessuno. La notizia realmente brutta è che i direttori finanziari non parevano consapevoli del fatto che le loro previsioni fossero prive di valore.

Oltre alla loro migliore stima dell’indice di borsa S&P, i partecipanti fornivano altre due valutazioni: un valore che erano sicuri al 90 per cento fosse troppo alto e uno che erano sicuri al 90 per cento fosse troppo basso. L’intervallo tra i due valori è chiamato «intervallo di confidenza all’80 per cento» e i risultati che ne cadono al di fuori sono definiti «sorprese». Un individuo che stabilisce intervalli di confidenza in molteplici occasioni si aspetta che circa il 20 per cento dei risultati sia costituito da sorprese. Come spesso accade in simili esercizi, vi furono troppe sorprese: la loro incidenza fu del 67 per cento, oltre il triplo del previsto. Questo dimostra che i direttori finanziari erano di gran lunga troppo sicuri della loro capacità di prevedere il mercato. L’«eccessiva sicurezza» è un’altra manifestazione del WYSIATI: quando stimiamo una quantità, ci affidiamo alle informazioni che ci vengono in mente ed elaboriamo una storia coerente in cui la stima ha senso. Tenere conto di informazioni che non vengono in mente, magari perché non si sono mai apprese, è impossibile.

Gli autori calcolarono gli intervalli di confidenza che avrebbero ridotto al 20 per cento l’incidenza delle sorprese. I risultati furono incredibili. Per conservare il tasso di sorprese al livello desiderato, i direttori avrebbero dovuto dire, anno dopo anno: «C’è una probabilità dell’80 per cento che l’indice di borsa di S&P l’anno prossimo sia tra – 10 per cento e + 30 per cento». L’intervallo di confidenza che riflette propriamente la conoscenza (o meglio l’ignoranza) dei direttori finanziari è oltre il quadruplo degli intervalli che essi avevano stabilito nella realtà.

A questo punto entra in scena la psicologia sociale, perché la risposta che dovrebbe dare un direttore finanziario sincero è decisamente assurda. Un direttore finanziario che informasse i colleghi di come «vi siano buone probabilità che i rendimenti di S&P siano tra – 10 per cento e + 30 per cento» sarebbe costretto a lasciare la stanza tra le risate generali. Un così ampio intervallo di confidenza equivale a un’ammissione di ignoranza che non è socialmente accettabile per una persona che è pagata per essere ben informata in materia finanziaria. Quand’anche sapessero di sapere molto poco, i dirigenti sarebbero penalizzati se lo ammettessero. Com’è noto, una volta il presidente Truman invocò l’intervento di un «economista unilaterale» che prendesse una posizione chiara, perché non ne poteva più di economisti che continuavano a dire: «Da un lato è così, ma dall’altro…».

Le società che credono sulla parola a esperti troppo sicuri di sé si aspettino conseguenze costose. L’indagine sui direttori finanziari dimostrò che quelli più sicuri e ottimisti riguardo all’indice di borsa S&P erano anche troppo sicuri e ottimisti riguardo alle prospettive della loro azienda, la quale finiva per assumersi più rischi delle altre. Come sostiene Nassim Taleb, non comprendere abbastanza l’incertezza dell’ambiente induce inevitabilmente gli agenti economici a correre rischi che andrebbero evitati. Tuttavia, l’ottimismo è ritenuto assolutamente prezioso sia a livello sociale sia a livello di mercato; persone e aziende ricompensano i fornitori di informazioni pericolosamente fuorvianti più di quanto non ricompensino chi dice la verità. Una delle lezioni che si sono apprese dalla crisi finanziaria da cui è scaturita la Grande Depressione è che vi sono periodi in cui la competizione tra gli esperti e tra le organizzazioni genera forze potenti, le quali favoriscono una cecità collettiva verso il rischio e l’incertezza.

Le pressioni sociali ed economiche che favoriscono l’eccessiva sicurezza non riguardano soltanto le previsioni finanziarie. Altri professionisti sono costretti ad affrontare il fatto che ci si aspetta che un esperto degno di questo nome si mostri molto sicuro di sé. Philip Tetlock osservò che gli esperti più sicuri di sé erano quelli che venivano più invitati a illustrare le loro teorie nei talk-show. L’eccessiva sicurezza pare endemica anche in campo medico. Uno studio condotto sui pazienti morti nei reparti di terapia intensiva confrontò i referti autoptici con la diagnosi che i medici avevano fatto quando i pazienti erano ancora in vita. I medici avevano anche riferito il loro grado di sicurezza diagnostica. Risultato: «Quelli che si erano dichiarati “assolutamente sicuri” della loro diagnosi ante mortem si erano sbagliati il 40 per cento delle volte».16 Anche in questo caso, l’eccessiva sicurezza degli esperti è incoraggiata dai clienti: «In genere, è considerato una debolezza e un segno di vulnerabilità il fatto che un clinico si mostri incerto. La sicurezza di sé è stimata più dell’incertezza e vi è una generale censura riguardo al rivelare i propri dubbi al paziente».17 Gli esperti che riconoscono la piena estensione della loro ignoranza possono aspettarsi di essere rimpiazzati da concorrenti più sicuri di sé, più abili a guadagnarsi la fiducia dei clienti. Una valutazione imparziale dell’incertezza è una pietra angolare della razionalità, ma non è quello che vogliono le persone e le organizzazioni. L’estrema incertezza è paralizzante in circostanze pericolose, e ammettere che si sta solo tirando a indovinare è tanto più inaccettabile quanto più è alta la posta in gioco. Agire fingendo di sapere è spesso la soluzione preferita.

Quando si ritrovano insieme, i fattori emozionale, cognitivo e sociale che sorreggono l’ottimismo esagerato sono una miscela inebriante, e questa miscela a volte induce la gente a correre rischi che eviterebbe se conoscesse le probabilità. Niente dimostra che chi si assume rischi in campo economico abbia un’insolita smania di lanciarsi in scommesse azzardate: semplicemente, egli è meno consapevole dei rischi di chi è più timoroso. Dan Lovallo e io coniammo l’espressione «previsioni audaci e decisioni timide» per descrivere il background dell’assunzione di rischio.18

Gli effetti di uno spiccato ottimismo nel processo decisionale sono, nella migliore delle ipotesi, un misto di vantaggi e svantaggi, ma il contributo dell’ottimismo alla buona attuazione è senza dubbio positivo. Il principale vantaggio dell’ottimismo è la duttilità davanti agli intoppi. Secondo Martin Seligman, fondatore della psicologia positiva, uno «stile di spiegazione ottimistico» contribuisce alla duttilità difendendo l’immagine di sé. In sostanza, questo stile consiste nell’attribuirsi il merito dei successi e praticamente nessuna colpa per gli insuccessi. Esso si può, almeno fino a un certo grado, insegnare, e Seligman ha documentato gli effetti di questo tipo di istruzione su varie occupazioni caratterizzate da un alto tasso di insuccessi, come la vendita di polizze assicurative attraverso telefonate o visite senza preavviso (una pratica comune nell’era pre-Internet). Quando una casalinga arrabbiata ci ha appena sbattuto la porta in faccia, il pensiero «che donna orribile» ha chiaramente la meglio sul pensiero «sono un venditore inetto». Ho sempre pensato che quello della ricerca scientifica fosse un altro campo in cui una qualche forma di ottimismo è essenziale al successo. Devo ancora conoscere uno scienziato di successo che non sia abbastanza abile da esagerare l’importanza di quello che fa, e credo che chi non abbia una percezione delirante dell’importanza del proprio lavoro si deprimerebbe costantemente davanti alla reiterata esperienza dei molti piccoli fallimenti e dei rari successi cui è destinata la maggior parte dei ricercatori.

Il «pre mortem»: un rimedio parziale

L’ottimismo intriso di sicumera può essere vinto dall’istruzione? Non sono ottimista. Vi sono stati numerosi tentativi di insegnare alle persone a stabilire intervalli di confidenza che riflettano l’inesattezza dei loro giudizi, ma tali tentativi hanno registrato solo modesti successi. Un esempio spesso citato è quello dei geologi della Royal Dutch Shell,19 la cui eccessiva sicurezza in merito ai possibili siti di trivellazione diminuì dopo che ebbero saputo di molti casi passati dei quali si conosceva il risultato negativo. In altre situazioni, l’eccessiva sicurezza fu mitigata (ma non eliminata) quando si incoraggiarono i giudici a prendere in considerazione ipotesi alternative. Tuttavia l’eccessiva sicurezza è una conseguenza diretta di caratteristiche del sistema 1 che si possono tenere sotto controllo, ma non eliminare. Il principale ostacolo è rappresentato dal fatto che la sicurezza soggettiva è determinata dalla coerenza della storia elaborata, non dalla qualità e quantità delle informazioni che la sostengono.

Le grandi organizzazioni sono forse più brave degli individui a tenere a freno l’ottimismo e gli individui. L’idea migliore in questo senso l’ha avuta Gary Klein, il mio «collaboratore antagonistico», che in genere difende il processo decisionale intuitivo dalle accuse di bias ed è perlopiù ostile agli algoritmi. Egli ha denominato la sua proposta «pre mortem». La procedura è semplice: quando una società è quasi giunta a una decisione importante, ma non si è ancora impegnata in maniera ufficiale, Klein propone di convocare per una breve sessione un gruppo di individui che sanno della decisione in corso. La premessa della riunione è un breve discorso: «Immaginate che sia passato un anno da oggi. Abbiamo implementato il piano secondo le direttive indicate sulla carta. Il risultato è stato disastroso. Si prega di scrivere in 5-10 minuti un breve resoconto di quel disastro».

L’idea di Gary Klein del «pre mortem» di solito suscita grande entusiasmo. Dopo che la ebbi illustrata incidentalmente a un convegno a Davos, qualcuno alle mie spalle mormorò: «Valeva la pena venire a Davos solo per questo!». (In seguito mi accorsi che chi aveva parlato era l’amministratore delegato di una grande multinazionale.) Il pre mortem ha due principali vantaggi: ha la meglio sul pensiero di gruppo che si instaura in molti team una volta che è stata presa una decisione, e libera l’immaginazione di individui competenti, spingendola in una direzione decisamente utile.

Quando un team converge verso un obiettivo, in particolare quando il leader rivela inavvertitamente quale sia quell’obiettivo, i dubbi generali in merito alla saggezza della mossa programmata vengono pian piano soffocati e alla fine sono trattati come prova di una mancanza di lealtà verso il team e i suoi capi. Soffocare i dubbi contribuisce all’eccessiva sicurezza in un gruppo in cui hanno voce solo i sostenitori della decisione. La principale virtù del pre mortem è che legittima i dubbi. Inoltre, incoraggia gli alfieri di quella particolare decisione a verificare se non si sia trascurato in precedenza di prendere in considerazione possibili minacce. Il pre mortem non è una panacea, né fornisce totale protezione da brutte sorprese, ma riduce abbastanza i danni causati dai piani distorti da WYSIATI e da un ottimismo acritico.

A proposito di ottimismo

«Hanno un’illusione di controllo. Sottovalutano parecchio gli ostacoli.»

«Mi pare rappresentino un grave caso di disattenzione per la competizione.»

«È un caso di eccessiva sicurezza. Credono di sapere più di quanto non sappiano davvero.»

«Dovremmo indire una sessione pre mortem. Qualcuno potrebbe scoprire l’esistenza di una minaccia che abbiamo trascurato.»