Tranne che per i poverissimi, cioè per chi ha un reddito che gli permette appena di sopravvivere, i principali fattori che inducono alla ricerca del denaro non sono necessariamente economici. Per il miliardario che aspira al miliardo in più, e in fondo anche per il partecipante a un progetto di economia sperimentale che cerca il dollaro in più, il denaro è il proxy dei punti che si segnano sulla scala di un’egocentrica ricerca del successo. Le relative ricompense e punizioni, promesse e minacce, sono tutte nella nostra testa. Noi ce le appuntiamo con cura nel nostro quaderno. Esse forgiano le nostre preferenze e motivano le nostre azioni, come gli incentivi forniti dall’ambiente sociale. Di conseguenza, ci rifiutiamo di ridurre le perdite quando farlo sarebbe un’ammissione di fallimento, abbiamo un bias nei confronti delle azioni che potrebbero condurre al rammarico e operiamo una distinzione illusoria ma netta tra omissione e commissione, non fare e fare, perché il senso di responsabilità è maggiore per l’una cosa che per l’altra. Alla fin fine la vera moneta che ricompensa o punisce è spesso emozionale, una forma di autogestione mentale che produce inevitabilmente conflitti di interesse quando l’individuo agisce in rappresentanza di un’organizzazione.
Contabilità mentale
Richard Thaler è stato affascinato per molti anni dalle analogie tra il mondo della contabilità e la contabilità mentale che noi elaboriamo per organizzare e gestire la nostra vita con risultati a volte stupidi, altre molto utili. Vi sono varie forme di conti mentali. Teniamo i nostri soldi in conti diversi, che a volte sono fisici, altre solo mentali. Abbiamo il denaro per le spese, i risparmi generali, i risparmi destinati all’istruzione dei figli o alle emergenze mediche. Vi è una chiara gerarchia nella nostra disposizione ad attingere a questi conti per coprire le necessità correnti. Usiamo conti a scopi di autocontrollo, come quando destiniamo un budget alle spese familiari, limitando il consumo quotidiano di caffè o aumentando il tempo destinato alla ginnastica. Spesso paghiamo l’autocontrollo, per esempio mettendo denaro in un conto di risparmio, e mantenendo il debito sulle carte di credito. Gli Econ del modello dell’agente razionale non ricorrono alla contabilità mentale: essi hanno una visione ampia dei risultati e sono spinti da incentivi esterni. Per gli Umani, i conti mentali sono una forma di framing ristretto: mantengono le cose controllabili e gestibili da una mente finita.
I conti mentali sono usati abbondantemente per segnare i punti. Ti ricordi i golfisti professionisti che eseguivano putt più efficaci quando cercavano di evitare un bogey che quando cercavano di ottenere un birdie? Una delle conclusioni che possiamo trarre è che i migliori golfisti creano un conto separato per ciascuna buca anziché tenere un unico conto per il loro successo generale. Un esempio paradossale che Thaler riportò in uno dei suoi primi articoli resta una delle migliori illustrazioni di come la contabilità mentale influenzi il comportamento:
Due accaniti fan sportivi decidono di andare in una città a 65 chilometri di distanza per vedere una partita di pallacanestro. Uno di loro ha comprato il biglietto per sé, l’altro stava per comprarlo, quando ne ha avuto uno gratis da un amico. È annunciata una bufera di neve la sera della partita. Quale dei due detentori di biglietto è più probabile che sfidi la tempesta per andare a vedere il match?
La risposta è immediata: sappiamo che è più probabile che si metta al volante il fan che ha pagato il biglietto. La contabilità mentale fornisce la spiegazione del fenomeno. Assumiamo che entrambi gli appassionati aprano un conto per la partita che vorrebbero vedere. Perdersela significherebbe chiudere il conto con un bilancio negativo. Indipendentemente da come si siano procurati i biglietti, entrambi saranno delusi, ma il bilancio di chiusura è decisamente più negativo per quello che, tra i due, ha comprato il biglietto e adesso è senza soldi e per giunta senza partita. Poiché per lui restare a casa è peggio, è più motivato a vedere il match e quindi è più probabile che si arrischi a guidare in mezzo alla tormenta.1 Vi sono taciti calcoli di bilancio emotivo, del tipo che il sistema 1 esegue senza riflessione. Le emozioni che le persone associano alla loro contabilità mentale non sono riconosciute dalla teoria economica standard. Un Econ capirebbe che il biglietto è già stato pagato e non può essere restituito: il suo costo è «sommerso» e all’Econ non importerebbe averlo comprato o ricevuto gratis da un amico (ammesso che gli Econ abbiano amici). Per attuare questo comportamento razionale, il sistema 2 dovrebbe essere consapevole della possibilità controfattuale: «Mi metterei a guidare in mezzo alla tormenta di neve se avessi ricevuto gratis il biglietto da un amico?». Occorre una mente attiva e disciplinata per sollevare un interrogativo così difficile.
Un errore correlato affligge i singoli investitori quando questi vendono azioni del loro portafoglio titoli:
Occorre denaro per coprire le spese del matrimonio di tua figlia e dovrai vendere delle azioni. Ti ricordi il prezzo al quale hai comprato ciascuna di esse e sei in grado di identificarle come «vincenti», ovvero azioni che oggi valgono più di quanto le hai pagate, o come «perdenti», ovvero azioni che nel frattempo si sono svalutate. Tra quelle in tuo possesso, le Blueberry Tiles sono vincenti; se le vendessi oggi realizzeresti un guadagno di 5000 dollari. Hai un’uguale quantità di denaro investita in Tiffany Motors, che attualmente valgono 5000 dollari meno di quanto le pagasti all’epoca. Il valore delle une e delle altre è stato stabile nelle ultime settimane. Quale titolo è più probabile che vendi?
Un modo plausibile di formulare la scelta è questo: «Potrei chiudere il conto Blueberry Tiles e registrare un successo nel mio curriculum di investitore, oppure potrei chiudere il conto Tiffany Motors e aggiungere al curriculum un insuccesso. Che cosa preferisco fare?». Se il problema fosse formulato come scelta tra concedersi un piacere e procurarsi un dolore, sicuramente venderesti Blueberry Tiles e ti godresti la tua abilità di investitore. Come si potrà forse immaginare, dalla ricerca nel settore finanziario risulta che c’è una preferenza massiccia per la vendita di vincenti rispetto alla vendita di perdenti, un bias cui è stato dato un nome oscuro: «effetto inclinazione».2
L’effetto inclinazione è un esempio di framing ristretto. L’investitore ha aperto un conto mentale per ogni azione che ha comprato e vuole chiudere ogni conto guadagnandoci. Un agente razionale avrebbe una visione onnicomprensiva del portafoglio titoli e venderebbe le azioni che ha meno probabilità di vendere bene in futuro, senza considerare se siano vincenti o perdenti. Amos mi parlò di una conversazione che aveva avuto con un consulente finanziario, il quale gli aveva chiesto un elenco completo delle azioni del suo portafoglio, compreso il prezzo a cui ciascuna di esse era stata acquistata. Quando Amos aveva chiesto timidamente: «Non dovrebbe essere privo d’importanza, il prezzo a cui le ho comprate?», il consulente lo aveva guardato sbalordito. A quanto pareva, aveva sempre ritenuto lo stato del conto mentale un valido argomento da considerare al momento di vendere.
Amos aveva probabilmente intuito bene le credenze del consulente finanziario, ma sbagliava a bollare come irrilevante il prezzo a cui le azioni erano state comprate. Il prezzo d’acquisto importa eccome, e dovrebbe essere tenuto in considerazione, anche dagli Econ. L’effetto inclinazione è un bias costoso, perché il problema se sia il caso di vendere titoli vincenti o perdenti ha una risposta chiara, una risposta tutt’altro che irrilevante. Se si tiene alla propria ricchezza anziché alle proprie emozioni immediate, si venderanno le perdenti Tiffany Motors e si conserveranno le vincenti Blueberry Tiles. Almeno negli Stati Uniti, le tasse rappresentano un forte incentivo: vendere perdenti fa calare le tasse, mentre vendere vincenti espone alle tasse. Questo dato elementare della vita finanziaria è ben noto a tutti gli investitori americani e determina le decisioni che essi prendono durante un particolare mese dell’anno: gli investitori vendono più perdenti in dicembre, quando hanno in mente le tasse. Il vantaggio di pagare tasse meno onerose è presente tutto l’anno, naturalmente, ma per undici mesi la contabilità mentale prevale sul buon senso finanziario. Un altro argomento a sfavore della vendita di vincenti è la ben documentata anomalia del mercato per cui le azioni che di recente sono salite tendono a continuare a salire ancora per qualche tempo. L’effetto netto è vasto: il rendimento in più atteso al netto delle tasse per la vendita delle Tiffany anziché delle Blueberry è del 3,4 per cento nell’anno successivo. Chiudere un conto mentale incassando un guadagno è un piacere, ma è un piacere costoso. È un errore che un Econ non farebbe mai e gli investitori esperti, che usano il sistema 2, in genere lo commettono meno dei pivelli.3
Una persona che compie scelte razionali è interessata solo alle future conseguenze degli investimenti correnti. Giustificare gli errori precedenti non rientra negli interessi dell’Econ. La decisione di investire ulteriori risorse in un conto perdente, quando sono disponibili investimenti migliori, è chiamata «fallacia dei costi sommersi», un costoso errore che si osserva in decisioni piccole e grandi. Mettersi in viaggio nel bel mezzo di una tormenta di neve solo perché si è pagato il biglietto è un errore del costo sommerso.
Immaginiamo un’azienda che abbia già speso 50 milioni di dollari in un progetto. Il progetto adesso è indietro rispetto alla tabella di marcia e le previsioni dei profitti finali sono meno favorevoli di quanto non fossero allo stadio iniziale. Occorre un ulteriore investimento di 60 milioni di dollari per dare al progetto una possibilità. Una proposta alternativa è investire la stessa quantità di denaro in un nuovo piano che al momento pare possa garantire maggiori profitti. Che cosa farà l’azienda? Spesso e volentieri un’azienda afflitta da costi sommersi guida nella tormenta: piuttosto che accettare l’umiliazione di chiudere il conto di un fallimento costoso, getta via denaro buono dopo il cattivo che ha già speso. La situazione è quella della cella in alto a destra dello schema a quattro celle (figura 29.1), dove la scelta è tra una perdita sicura e un azzardo sfavorevole, che spesso è quello che viene incautamente preferito.
L’escalation dell’impegno in progetti fallimentari è un errore dal punto di vista dell’azienda, ma non necessariamente dal punto di vista del dirigente che considera «suo» un piano traballante. Cancellare il progetto lascerebbe una macchia permanente nel curriculum del dirigente, ed egli segue forse il suo interesse personale mettendo ulteriormente a repentaglio le risorse dell’azienda nella speranza di recuperare l’investimento originario, o almeno di rimandare il giorno della resa dei conti. In presenza di costi sommersi, gli incentivi del manager non sono in sintonia con gli obiettivi dell’azienda e dei suoi azionisti, un noto caso di quello che è chiamato «problema della rappresentanza». I consigli di amministrazione sono ben consapevoli di questi conflitti e spesso rimpiazzano un CEO che è invischiato in decisioni precedenti e restio a ridurre le perdite. Non è detto che i membri del consiglio di amministrazione ritengano il nuovo amministratore delegato più competente di quello precedente. Sanno però che il nuovo arrivato non ha la stessa contabilità mentale e sarà quindi più capace di ignorare i costi sommersi dei trascorsi investimenti nel valutare le opportunità correnti.
La fallacia dei costi sommersi mantiene la gente abbarbicata troppo a lungo a lavori cattivi, matrimoni infelici e progetti di ricerca poco promettenti. Ho spesso osservato giovani scienziati sforzarsi di salvare un progetto condannato, quando avrebbero fatto meglio a lasciar perdere e cominciarne uno nuovo. Per fortuna, le ricerche suggeriscono che, almeno in alcuni contesti, la fallacia si può superare.4 Si descrive e insegna la fallacia dei costi sommersi sia nei corsi di economia sia in quelli di gestione aziendale, a quanto pare con profitto: da alcune prove risulta che gli studenti di quei corsi di laurea sono più disposti di altri a lasciar perdere un progetto destinato al fallimento.
Rammarico
Il rammarico è un’emozione, ed è anche una punizione che infliggiamo a noi stessi. La paura del rammarico agisce come fattore di molte delle decisioni che le persone prendono («Non farlo, te ne pentirai» è un comune avvertimento), e la vera e propria esperienza del rammarico è nota a tutti. Questo stato emozionale è stato descritto bene da due psicologi olandesi, i quali hanno osservato che il rammarico «si accompagna all’idea che si sarebbe dovuto capire che non si doveva fare quella certa cosa, a un senso di vuoto alla bocca dello stomaco, a pensieri riguardanti l’errore fatto e le opportunità perdute, alla tendenza a mordersi le mani e rimediare all’errore, e al desiderio di tornare indietro, azzerare quanto si è compiuto e avere una seconda chance».5 Il rammarico intenso è quello che si sperimenta quando si immagina facilmente di fare una cosa diversa da quella che si è fatta.
Il rammarico è una delle emozioni controfattuali che sono innescate dalla disponibilità di alternative alla realtà. Dopo ogni disastro aereo si narrano storie particolari di passeggeri che «non avrebbero dovuto» essere a bordo di quell’aereo: o hanno trovato un posto all’ultimo momento o sono stati trasferiti da un’altra linea aerea su quell’apparecchio o sarebbero dovuti partire un giorno prima, ma sono stati costretti a rimandare la partenza. La caratteristica comune di queste storie struggenti è che riguardano eventi insoliti, ed è più facile annullare con l’immaginazione gli eventi insoliti che quelli normali. La memoria associativa contiene una rappresentazione del mondo normale e delle sue regole. Un evento anormale attira l’attenzione e attiva anche l’idea dell’evento che sarebbe stato normale nelle medesime circostanze.
Per comprendere bene il legame tra rammarico e normalità,6 considera il seguente scenario:
Il signor Brown non prende mai a bordo autostoppisti. Ieri ha dato un passaggio a un uomo ed è stato rapinato.
Il signor Smith prende spesso a bordo autostoppisti. Ieri ha dato un passaggio a un uomo ed è stato rapinato.
Chi dei due proverà maggior rammarico per l’accaduto?
I risultati non sono sorprendenti: l’88 per cento dei soggetti ha detto il signor Brown, il 12 per cento il signor Smith.
«Rammarico» non è la stessa cosa che «colpa». Ad altri soggetti è stata rivolta questa domanda riguardo allo stesso scenario:
Chi sarà criticato più severamente dagli altri?
Il 23 per cento ha risposto il signor Brown, il 77 per cento il signor Smith.
Sia il rammarico sia la colpa sono evocati dal confronto con la norma, ma le norme variano a seconda dei casi. Le emozioni esperite dal signor Brown e dal signor Smith sono dominate dal loro comportamento usuale con gli autostoppisti. Prendere a bordo un autostoppista è un evento anomalo per il signor Brown, e la maggior parte della gente quindi si aspetta che egli provi il rammarico maggiore. Un osservatore critico, però, giudicherà entrambi gli uomini in base alle norme convenzionali del comportamento ragionevole e con tutta probabilità darà al signor Smith la colpa di correre abitualmente rischi irragionevoli.7 Siamo tentati di dire che il signor Smith meritava il suo destino e che il signor Brown è stato sfortunato. Ma è più probabile che sia il signor Brown a essere rimproverato, perché, in quell’unica circostanza, non si è comportato in linea con il suo carattere.
I decisori sanno di essere inclini al rammarico, e la previsione di quel doloroso sentimento ha un ruolo in molte scelte. Le intuizioni sul rammarico sono singolarmente uniformi e inequivocabili,8 come nel seguente esempio:
Paul possiede delle azioni dell’azienda A. L’anno scorso ha riflettuto se venderle per comprare invece azioni dell’azienda B, ma ha deciso di non farlo. Ora ha saputo che se l’avesse fatto avrebbe guadagnato 1200 dollari.
George possedeva azioni dell’azienda B. L’anno scorso le ha vendute per comprare azioni dell’azienda A. Ora ha saputo che avrebbe guadagnato 1200 dollari se si fosse tenuto le sue azioni dell’azienda B.
Chi prova maggior rammarico?
I risultati sono stati netti: l’8 per cento ha detto Paul, il 92 per cento George.
È curioso, perché le situazioni dei due investitori sono obiettivamente identiche. Entrambi oggi posseggono azioni A, ed entrambi avrebbero guadagnato 1200 dollari se avessero posseduto azioni B. L’unica differenza è che George è arrivato alla situazione attuale agendo, mentre Paul è nella sua stessa situazione per non avere agito. Questo breve esempio illustra un concetto generale: le persone si aspettano di avere reazioni emotive (compreso il rammarico) più forti nei confronti di un risultato quando questo è prodotto dall’azione che quando è prodotto dall’inazione. Il dato è stato verificato nel contesto dell’azzardo: le persone si aspettano di essere più felici se giocano e vincono che se si trattengono dal giocare e ottengono la medesima quantità di denaro. L’asimmetria è almeno altrettanto forte nel caso delle perdite, e vale sia per il rammarico sia per la colpa.9 La chiave non è la differenza tra commissione e omissione, ma la distinzione tra opzioni di default e azioni che deviano dal default.10 Quando si devia dal default, si immagina facilmente la norma; e se la deviazione dal default è associata a cattive conseguenze, la discrepanza tra le due opzioni è fonte di emozioni dolorose. Quando si possiedono azioni, l’opzione di default è non venderle, mentre quando si incontra il proprio collega la mattina, l’opzione di default è salutarlo. Vendere delle azioni e non salutare il proprio collega sono entrambe delle deviazioni dall’opzione di default, e dei candidati naturali al rammarico e alla colpa.
In un’affascinante dimostrazione del potere delle opzioni di default, dei soggetti giocarono a blackjack in una simulazione al computer. Ad alcuni giocatori fu chiesto: «Carta?», ad altri: «Stai?». Indipendentemente dalla domanda, dire di sì era associato a molto più rammarico che dire di no se il risultato era cattivo! La domanda evidentemente suggerisce una risposta di default, che è: «Non ho una gran voglia di farlo». È la deviazione dal default a produrre rammarico. Un’altra situazione in cui l’azione è il default è quella dell’allenatore la cui squadra subisce una grossa sconfitta nell’ultima partita di campionato. Ci si aspetta che cambi giocatori o strategia, e il fatto che non lo faccia genera colpa e rammarico.11
Questa asimmetria nel rischio di rammarico favorisce le scelte convenzionali e avverse al rischio. Il bias appare in molti contesti. I consumatori cui si ricorda che potrebbero provare rammarico in conseguenza delle loro scelte mostrano un’aumentata preferenza per le opzioni convenzionali, preferendo i prodotti di marca a quelli generici.12 Anche i manager che gestiscono titoli, quando si avvicina la fine dell’anno, hanno un comportamento più prudente in vista della valutazione imminente: tendono a eliminare dal portafoglio titoli le azioni poco convenzionali o in qualunque modo discutibili.13 Perfino le decisioni di vita o di morte sono influenzate dal timore del rammarico. Immaginiamo un medico di fronte a un paziente gravemente malato. Ha a disposizione una terapia convenzionale e un’altra che è invece sperimentale. Ha qualche motivo di credere che la cura anticonvenzionale migliori le probabilità di sopravvivenza del paziente, ma le prove non sono schiaccianti. Il medico che prescrive la cura sperimentale si trova ad affrontare un notevole rischio di rammarico, colpa e forse anche causa legale. Con il senno del poi, sarebbe più facile immaginare la scelta normale; la scelta anomala sarebbe più facile da annullare. Certo, un buon risultato contribuirebbe alla reputazione del medico che ha osato, ma il potenziale beneficio è più piccolo del potenziale costo, perché il successo in genere è un risultato più normale dell’insuccesso.
Responsabilità
Le perdite sono ponderate circa il doppio dei guadagni in diversi contesti, come la scelta tra opzioni di rischio, l’effetto dotazione e le reazioni a variazioni di prezzo. Il coefficiente di avversione alla perdita è molto più alto in alcune situazioni. In particolare, forse si è più avversi alla perdita in sfere della propria vita che sono più importanti del denaro, come la salute.14 Inoltre, la riluttanza a «vendere» importanti dotazioni aumenta notevolmente quando farlo potrebbe renderci responsabili di un esito orribile. Uno dei primi studi di Richard Thaler sul comportamento dei consumatori,15 divenuto ormai un classico, comprendeva un esempio molto significativo, che appare leggermente modificato nel seguente quesito:
Siete stati esposti a una malattia che, se contratta, conduce a una morte rapida e indolore nel giro di una settimana. La probabilità che abbiate la malattia è di 1/1000. Esiste un vaccino che è efficace solo prima che appaia il minimo sintomo. Qual è la somma massima che sareste disposti a pagare per il vaccino?
La maggior parte della gente è disposta a pagare una somma notevole, ma limitata. Trovarsi di fronte alla possibilità di morire è spiacevole, ma il rischio è ridotto e pare irragionevole rovinarsi per evitarlo. Ora considera la leggera variazione:
Occorrono volontari per la ricerca sulla suddetta malattia. Vi viene chiesto di esporvi solo a una probabilità di 1/1000 di contrarla. Qual è la somma minima che chiedereste a compenso per offrirvi volontari nel programma? (Non vi sarebbe permesso di acquistare il vaccino.)
Come forse avrai intuito, il compenso che i volontari chiedono è molto più alto del prezzo che erano disposti a spendere per il vaccino. Thaler riferì informalmente che il rapporto tipico era di circa 50:1. Il prezzo estremamente alto che i soggetti fissavano per vendere la propria esposizione rispecchia due caratteristiche del problema. In primo luogo, non si dovrebbe vendere salute; la transazione non è considerata legittima e la riluttanza a impegnarvisi è espressa con un prezzo più alto. Particolare forse più importante, si è responsabili del risultato se le cose vanno male. Si sa che, se ci si sveglierà una mattina con i sintomi di una malattia letale, si proverà più rammarico nel secondo caso che nel primo, perché si sarebbe potuta rifiutare l’idea di vendere la propria salute qualunque fosse stato il compenso. Ci si sarebbe potuti attenere all’opzione di default e non fare niente, e adesso questa emozione controfattuale ci perseguiterà per il resto della vita.
Anche l’indagine sulle reazioni dei genitori a un insetticida potenzialmente rischioso, menzionata in precedenza, includeva una domanda sulla disposizione ad accettare un rischio aumentato. Ai soggetti era stato detto di immaginare di usare un insetticida la cui nocività, in termini di inalazione e di avvelenamento dei bambini, era di 15 ogni 10.000 flaconi. Era disponibile un insetticida meno costoso, la cui nocività era di 15-16 per 10.000 flaconi. Ai genitori si chiedeva quale sconto li avrebbe indotti a passare al prodotto meno costoso (e meno sicuro). Oltre due terzi dei genitori dell’indagine rispondevano che non avrebbero acquistato il nuovo prodotto a nessun prezzo. Erano evidentemente disgustati soltanto all’idea di fare della salute dei loro figli una merce di scambio. Vale però la pena notare che questo atteggiamento è incoerente e potenzialmente dannoso per la sicurezza di coloro che desideriamo proteggere. Anche i genitori più affezionati hanno risorse di tempo e denaro finite per proteggere i loro figli (il conto mentale «garantire la sicurezza di mio figlio» ha un budget limitato), e pare ragionevole usare tali risorse in maniera che siano sfruttate al meglio. Il denaro che si potrebbe risparmiare accettando un minimo aumento di nocività di un pesticida potrebbe senza dubbio essere usato nella maniera più opportuna per ridurre l’esposizione dei bambini ad altri danni, magari acquistando un sedile della macchina più sicuro o delle protezioni per le prese elettriche. Il «tabù del tradeoff»,16 che vieta di accettare qualsiasi incremento di rischio, non è un modo efficace di usare il budget della sicurezza. Di fatto, la resistenza potrebbe essere motivata più dalla paura egoistica del rammarico che dal desiderio di ottimizzare la sicurezza dei figli. Il pensiero «e se…?», che verrebbe in mente a qualunque genitore accettasse deliberatamente un simile scambio, è un’immagine del rammarico e della vergogna che egli proverebbe qualora il pesticida provocasse danni.
L’intensa avversione per l’idea di accettare un aumento del rischio in cambio di qualche altro vantaggio è evidente, su larga scala, nelle leggi e nei regolamenti che governano il rischio. Questa tendenza è particolarmente forte in Europa, dove il principio cautelativo,17 che vieta qualunque azione potenzialmente dannosa, è una dottrina accettata da tutti. Nel contesto normativo, il principio cautelativo impone l’intero onere di dimostrare l’assenza di pericolo a chiunque intraprenda azioni che potrebbero danneggiare le persone o l’ambiente. Diversi organismi internazionali hanno decretato che la mancanza di prove scientifiche di danni potenziali non è una giustificazione sufficiente per correre rischi. Come osserva il giurista Cass Sunstein, il principio cautelativo è costoso e, se rigidamente interpretato, spesso paralizzante. Egli cita un impressionante elenco di innovazioni che non avrebbero superato il test, tra cui «aeroplani, condizionatori d’aria, antibiotici, automobili, disinfezione con il cloro, vaccino contro il morbillo, chirurgia a cuore aperto, radio, refrigeratori, vaccino antivaioloso e raggi X». La versione più rigorosa del principio cautelativo è chiaramente insostenibile. Ma l’avversione rafforzata alla perdita è inclusa in un’intuizione morale forte e ampiamente condivisa: essa origina dal sistema 1. Il dilemma tra atteggiamenti morali intensamente avversi alla perdita e gestione efficiente del rischio non ha una soluzione semplice e incontrovertibile.
Passiamo gran parte delle nostre giornate a prevedere, e cercare di evitare, le pene emozionali che infliggiamo a noi stessi. Quanto dobbiamo prendere sul serio questi risultati intangibili, queste punizioni (e a volte premi) autoinflitte che sperimentiamo a mano a mano che segniamo i punti della nostra vita? Gli Econ non dovrebbero registrarli, mentre per gli Umani tali risultati hanno un costo. Queste punizioni conducono ad azioni che sono deleterie per la salute degli individui, l’efficacia delle politiche e il benessere della società. Ma le emozioni di rammarico e responsabilità morale sono reali, e il fatto che gli Econ non le abbiano potrebbe non essere rilevante.
In particolare, è ragionevole lasciare che le proprie scelte siano influenzate dalla previsione del rammarico? Essere soggetti al rammarico, come essere soggetti allo svenimento, è un fatto della vita al quale ci si deve adattare. Se siamo investitori, abbastanza ricchi e in cuor nostro prudenti, magari possiamo permetterci il lusso di un portafoglio che riduca al minimo l’aspettativa del rammarico, anche se questo non massimizzasse l’incremento della ricchezza.
Si possono anche prendere precauzioni che immunizzino dal rammarico. Se, quando le cose vanno male, ci si ricorda che prima di decidere si era presa in seria considerazione la possibilità del rammarico, è probabile che ci si rammarichi meno. Bisogna anche tenere presente che il rammarico e il bias del senno del poi si presentano insieme, per cui qualunque cosa si faccia per scongiurare il bias del senno del poi è probabile sia d’aiuto. La mia personale politica «anti-senno del poi» è di essere molto minuzioso o del tutto noncurante quando prendo una decisione con conseguenze a lungo termine. Il senno del poi è peggiore quando si riflette un poco ma non tanto, solo quanto basta per dirsi in seguito: «Per un pelo non ho fatto una scelta migliore».
Daniel Gilbert e i suoi colleghi affermano provocatoriamente che in genere prevediamo di provare più rammarico di quello che poi proveremo realmente, e questo perché tendiamo a sottovalutare l’efficacia delle difese psicologiche cui faremo ricorso, quelle che essi definiscono il nostro «sistema immunitario psicologico».18 Il loro consiglio è di non assegnare troppo peso al rammarico; anche se ne proveremo un po’, farà meno male di quanto pensiamo adesso.
A proposito di segnare i punti
«Ha una contabilità mentale separata per gli acquisti in contanti e per gli acquisti con la carta di credito. Gli ricordo sempre che i soldi sono soldi.»
«Ci teniamo quelle azioni solo per evitare di chiudere il nostro conto mentale in perdita. È l’effetto inclinazione.»
«Abbiamo scoperto un eccellente piatto in quel ristorante e non proviamo mai nient’altro per evitare il rammarico.»
«Il commesso mi ha mostrato il sedile per bambini più costoso di tutti e ha detto che era il più sicuro, e io non me la sono sentita di comprare un modello meno caro. Ha tutta l’aria di un tabù del tradeoff.»