Scena III

Nel regno sotterraneo

Il viaggio all’ingiù di Wotan e Loge finisce in una caverna satura di vapori sulfurei; quando si distingue qualcosa, l’azione è già incominciata, infatti si vede Alberich che trascina per un orecchio uno gnomo come lui, il fratello Mime, che strilla di dolore; la musica (affrettato) si muove a spasmi e singulti, a scivolamenti grotteschi che tratteggiano la bruttezza fisica di queste creature, che in Alberich diventa anche abbietta crudeltà. Mime voleva nascondere qualcosa che il fratello gli fa mollare, un oggetto che lui, fabbro consumato, voleva tenere per sé con la scusa che non era ancora pronto: un elmo magico che rende invisibile chi lo indossa o gli fa assumere qualsivoglia forma. Mime sperava di servirsene per liberarsi dalla schiavitù del fratello, ma, misero, non ha imbroccato la formula che apre l’incantesimo, ed è stato beffato e scoperto con ignominia.

In questo pullulare di musica a chiazze, che parla dei lamenti di Mime come delle sevizie di Alberich, spicca la natura immobile, perfetta come un simbolo araldico, dell’elmo magico: due triadi minori dei corni con sordina che risolvono su una quinta vuota, armonie che lo Schubert più visionario aveva sondato a fondo nel Viaggio d’inverno e nel Lied Der Doppelgänger. Alberich, estorto l’elmo al fratello, ne fa subito la prova indossandolo e pronunciando la formula con voce spettrale: «Nacht und Nebel niemand gleich!»1, nella traduzione di Franco Serpa: «Notte e nebbia, e più nessuno». Detto fatto, scompare alle viste, e come invasato del portento che lo fa invisibile frusta Mime e in un delirio di potenza minaccia i nibelunghi tutti, che non avranno più un minuto di pace, costretti a scavare spiati da lui, ubiquo e invisibile.

Mentre Alberich si allontana, il terrore si amplifica in orchestra in una pagina di barbarica e grandiosa potenza: il tema del lavoro fisico, dei nibelunghi alle incudini, prende la sua forma definitiva, debitrice per la sua plasticità al tema dello Scherzo nel Quartetto di Schubert D 810; mentre gli archi continuano a martellarlo sul pulsare dei timpani, risplende nel nero fulgore degli ottoni il semitono discendente, nucleo di minaccia e oppressione che nel futuro del Ring avrà molteplici impieghi; il «terrifico fantastico» è dato invece dalle acciaccature di tutti i fiati in fortissimo, dall’ottavino ai fagotti, compresi i corni, uno scuotimento come di crotali selvaggi. Dai cunicoli s’inseguono urla di terrore, il solo suono che esca da quelle bocche di scavatori; non fanno un coro, come nell’opera sarebbe loro diritto: Wagner li limita realisticamente al loro grido naturalistico, che è l’equivalente vocale del battere dei martelli. L’inferno di Nibelheim, malgrado i sortilegi, è molto storicamente determinato: un inferno da industria pesante dell’Ottocento, dove la condanna è la produzione senza sosta.

Mime il fabbro

Segue un episodio dall’ossatura discorsiva, quindi con ampi residui recitativici, nei cui interstizi s’introducono per lo più il ritmo del martellare e il motivo della seconda minore discendente, quasi traduzione della parola Mühe: pena, fatica.

Giù da un anfratto di roccia arrivano Wotan e Loge; mentre rosseggiano nel buio i fuochi delle miniere, i nuovi arrivati sentono un lamento e scorgono Mime, rimasto accasciato in un angolo. Loge, che gira il mondo, sa bene chi è Mime, la sua fama di fabbro insigne è conosciuta da ogni parte. Lo tira su a fatica, gli chiede il perché di tanta ambascia; la risposta è un seguito di lamenti e singulti, musica saltellata, spesso inutilmente enfatizzata nelle esecuzioni, tanto da stuccare. Mime vuol esser lasciato in pace, e poi nessuno lo può aiutare, perché è costretto a ubbidire al fratello carnale che l’ha incatenato al lavoro forzato: questo stato è sottolineato da nudi intervalli di bicordi dei fagotti, che paiono simboleggiare un annodato intrecciamento. Sempre insinuante, Loge lo interroga su che cosa renda così potente il fratello e Mime ora non si fa pregare. (La situazione rientra nella tipicità dell’Anello: un personaggio domanda a un altro di raccontare fatti che lo spettatore in buona parte già conosce; ma nel racconto questi fatti vengono arricchiti non solo di particolari inediti, ma di punti di osservazione diversi che diventano doppi e possono diventare tripli in ulteriori racconti, in una struttura circolare, concentrica, secondo la sensibilità narrativa più moderna).

I dati qui rivelati da Mime e già noti al lettore sono proprio quelli che più interessano i due visitatori: è l’anello magico foggiato dall’oro rubato al Reno che tiene in terrore e schiavitù tutti gli abitatori di Nibelheim; mentre racconta, Mime si abbandona a una specie di piccolo Lied «del buon tempo antico» (sehr gemächlich, molto tranquillo): quando i fabbri, allegri e senza sentire la fatica, foggiavano invidiabili gioielli per le loro mogliettine; età aurea (precapitalista, diremmo noi) idoleggiata nello spianarsi in una orecchiabile filastrocca, che tuttavia non tarda a farsi angosciosa nel paragone con la condizione attuale di lavoro bestiale e asservito; e la fatica è senza fine, ché Alberich con l’anello – a guisa di contatore Geiger – scopre sempre nuovi filoni d’oro, dove la frotta dei fabbri si getta senza requie a scavare, fondere e temprare. Quindi racconta per i visitatori la disavventura dell’elmo magico, aggiungendovi una semicomica commiserazione della propria dabbenaggine: occasione ai due olimpici di manifestare la loro superiorità, ridendo e facendo dello spirito in faccia al povero nano. Mime, distratto un secondo dai suoi guai, considera i due stranieri: «Chi siete?». «Amici – risponde Loge –, venuti qui per liberare la schiatta dei nibelunghi». Ma non c’è tempo di aggiungere altro, ché sta rientrando il signore dell’oro; Wotan, calmo, si siede su un sasso per attenderlo.

La minaccia

Il ritmo dei martelli annuncia il ritorno in scena di Alberich, che a colpi di frusta spinge avanti schiere di nibelunghi carichi d’oro e d’argento da scaricare e ammucchiare ai suoi piedi. Adocchiati i due dei, li tratta da vagabondi e incolpa Mime di aver troppo ciarlato con loro, ricacciandolo nella turba disgraziata verso i nuovi pozzi da scavare: alza l’anello come un ostensorio, e un trionfale accordo di Fa maggiore, cui il suono cartilaginoso del tam tam aggiunge un tocco di stregonesco terrore, conclude questa esibizione un po’ buffonesca di potere.

«Cosa fate qui, che volete?», chiede Alberich come si trova solo con Wotan e Loge. Gli incontri fra Wotan e Alberich, ora e più avanti, hanno tutti una dinamica morale comune: i due lottano per il potere sullo stesso piano, ma Wotan si copre dietro un ruolo solenne, una carica paludata, che Alberich si affretta a smascherare. Avvolta di aulicità è infatti la risposta di Wotan: «Abbiamo sentito di cose meravigliose operate da Alberich qui a Nibelheim e siamo venuti a vederle con i nostri occhi». Chi parla è certo un gran signore, un turista d’alto bordo, ma Alberich brusco: «Altro che conoscere, è per invidia che siete qui, spinti da qualche losco disegno!». Loge, al solito, prende in mano con pazienza il discorso incominciando con una diversione: «Hai capito chi sono? Guardami bene, tu che mi abbai contro: sono Loge; quello che ti ha dato la fiamma quando stavi in una gelida tana; sono tuo cugino e ti sono stato amico». «Ma ora stai con gli dei luminosi, astuto briccone!», e gli arabeschi del tema di Loge, tessitore d’inganni, si incuneano nel sarcastico dialogo.

Alberich, in ogni caso, non ha bisogno di amici: ha il tesoro che i servi gli raccolgono, ora un mucchietto, ma in breve crescerà a cumulo possente che gli darà il possesso del mondo; fagotti e clarinetto basso lavorano nell’oscurità a imprimerne lo spavento nell’animo dei due curiosi. S’intromette Wotan, simulando l’apprensione: che ti serve un tesoro in questo regno buio e come farai a raccoglierlo? È la domanda che Alberich aspettava per dare fuori in una pagina incandescente il suo odio atavico, la sua libidine di vendetta verso la razza superiore degli dei: e prima li descrive nella loro beatitudine, su alture luminose, accarezzati da fresche aurette, allietati da Freia la dolce (dolcezza furbescamente sottolineata dall’intimità del violino solo); beatitudini ora spazzate via, perché, «come io ho negato l’amore, ogni cosa che ha vita all’amore deve rinunziare», e il tema della rinuncia ricompare sulla sua bocca contratta; poi, come trascinato da un fiotto di bile, Alberico riprende il tono invettivale per trascendere alle più efferate minacce: «State in guardia! Quando voi sarete miei servi, il nano sprezzato costringerà le vostre donne alle sue voglie, anche se amore non gli sorride» (brucia ancora il rifiuto delle ondine?); e a celebrare la conquista degli spazi luminosi la musica si fa addirittura militaresca, eroica. Wotan non resiste all’improntitudine e perde il controllo: «Che tu possa crepare, empio idiota!»; ma prima che Alberich abbia afferrato l’insulto si è già intromesso Loge, che incomincia uno dei suoi raggiramenti più riusciti.

3. Arthur Rackham, Alberich schiavizza i nibelunghi, 1910.

3. Arthur Rackham, Alberich schiavizza i nibelunghi, 1910.

Alberich turlupinato

Crudeltà e infantilismo camminano spesso insieme; Alberich, come già visto, approfitta della magia per esaltarsi nel suo strapotere, e ancora di più farà tra poco con l’elmo, il giocattolo più portentoso, con suo gravissimo danno. La presenza di spirito di Loge passa di colpo all’astuta adulazione, mentre note staccate dei legni, trilli degli archi, brevi fanfarette militari volgono a un episodio brillante, leggero, tipo Scherzo in una partitura sinfonica: «Chi non sarebbe maravigliato a vedere tale potenza? Se riuscirai a completare quello che il tesoro ti promette, sarai celebrato padrone dell’universo… ma…», e con voce fattasi acuta, falsettata, gli chiede come si salverebbe se un ladro svelto gli strappasse l’anello nel sonno; riprende, subdolo in pianissimo, il ritmo del martellare, a creare il contesto appropriato all’eloquenza del grande parlatore, il clima dell’intrigo, dell’insicurezza del potere.

Alberich risponde motteggiando fra acciaccature e pizzicati, e con calcata solennità (più lento, sillabando su una medesima nota) rivela che proprio per questo si è inventato da sé l’elmo magico, che gli dà il potere di essere ovunque non visto, di assumere qualsivoglia forma, di passare da un luogo all’altro come il fulmine; nuovo contesto per l’elenco prodigioso, uno squarcio di musica fiabesca, da opera magica di primo Ottocento, sulle armonie arcane e trascoloranti del tema dell’elmo. L’infaticabile Loge ammette di aver molto girato e osservato, ma di non aver mai assistito a un prodigio del genere, da non poterlo credere; la trappola dell’astuto ulisside è pronta, il seguito prevedibile. La vanità di Alberich aiuta il disegno di Loge: vanità di trasformazioni, virtuosismi di forme diverse, dapprima verso l’immenso, nella torpida mole di un drago, poi verso il minimo, nel rospo che sparisce nelle fessure; una nota isolata, sbucata fuori a un tratto dal corno inglese, rivela la circospezione dell’animaletto, i tre clarinetti la punzecchiano e il rospo sembra muoversi e saltellare; gli si buttano sopra in due, Wotan lo preme sotto il piede, Loge gli toglie l’elmo, lo legano stretto e si dirigono in fretta a uscire dal regno delle nebbie.

Ci si può chiedere, fra parentesi, come Alberich, essere esperto del male come nessuno, possa essere tanto ingenuo da prendersi una tale buggeratura; e allora bisognerà osservare una volta per tutte che nel Ring i personaggi prestano il loro nome a sentimenti, pulsioni, zone della psiche umana di conturbante intensità e profondità, ma non sono «personaggi» coerenti a se stessi dall’inizio alla fine; talvolta caratteri realistici si mutano senza motivo in mitici o fiabeschi, come qui Alberich, il nero nibelungo, che smette l’abito del sarcasmo penetrante, che riprenderà poco dopo, e si comporta come un personaggio di una favola morale di La Fontaine: l’ingenuo, tanto accecato dall’ambizione che una piccola furberia basta ad accalappiare.

La scena si cambia alla rovescia e un nuovo intermezzo sinfonico rappresenta alla fantasia dell’ascoltatore la risalita dalla voragine di Nibelheim all’aria libera: viole e contrabbassi riprendono il ritmo del lavoro insonne, reso sinistro dal peso delle tube al basso che premono sull’intervallo di seconda minore; si attraversa di nuovo il piano degli scalpellatori, con il rumore assordante di martelli e incudini. Il ritmo cambia in quattro quarti, per adeguarsi al passo di marcia dei giganti sul quale s’innestano fanfare positive a tutto tondo, un po’ come al principio della Prima sinfonia di Mahler. Si risale, e ogni episodio parte in progressione da un grado più su, Do Re Mi Fa diesis; tutta la partitura è in fermento, dai bassi all’ottavino, in una pagina non meno aspramente tormentata di quella che aveva segnato la discesa. Quando i tre emergono sull’altipiano fra i monti, siamo ancora in una luce incerta, come alla conclusione della seconda scena, quando le figure degli dei, privati della dea della giovinezza, scomparivano fra le nebbie.