Scena IV

Rubare a chi ha rubato

I due vincitori rientrano nel loro ambiente con il prigioniero legato stretto; Alberich ha ancora oro e anello, ma sarà facile spogliarlo di tutto, e Wotan e Loge giocano con lui come il gatto col topo; specie Loge si lascia andare a lazzi e battute, accenna perfino un balletto attorno alla vittima; la musica si fa frivola, saltellante; un passo dei violini (partitura, p. 217) ripete lo spunto ritmico che dà l’avvio al coro delle filatrici nell’Olandese volante; ad Alberich non resta che aggredire Loge con una serqua di contumelie: «Furfante, imbroglione! miserabile! sciogli la corda! liberami!», ogni epiteto scandito da un accordo come nel consueto recitativo; ma davanti alla necessità di pagare il riscatto, senza via d’uscita, si piega a consegnare il tesoro.

Tuttavia in un «a parte», su un lungo pedale dei timpani, mormora fra sé che potrebbe pure rinunciare all’oro già accumulato, purché gli resti l’anello, garanzia di nuove conquiste; con la mano liberata dai carcerieri avvicina l’anello alle labbra e ordina alla turba di schiavi di portare su il tesoro; ma Wotan e Loge non lo liberano ancora: prima vogliono vedere l’oro, avere il mucchio davanti. E questo dà l’occasione a Wagner, grande conoscitore d’istinti e moti oscuri dell’animo, di entrare nella sua regione prediletta; più penosa dell’angoscia dei nibelunghi, che salgono dalle miniere strisciando sotto il peso delle ceste colme, è quella che affligge Alberich: è ancora il re, ma deve affrontare lo smacco atroce di farsi vedere prigioniero dai suoi sottoposti: «O scorno ignominioso, che i miei servi paurosi proprio me vedono legato!»; e sotto la marcia incessante della fatica, fra la cupezza sinistra di fagotti e tube, scocca ordini fulminei perché nessuno indugi a contemplare la sua miseria: portare su, ammucchiare, e poi via a lavorare nei pozzi, guai se si fanno trovare inerti, e ancora li minaccia, in virtù di un potere che non ha più.

Conclusa la fantastica marcia notturna, scomparsi sotto terra i nibelunghi, riprende l’andamento di recitativo: l’elmo magico è rimasto in mano a Loge, Alberich lo richiede, ma anche questo deve finire nel riscatto; ancora Alberich si controlla, manda giù, contando sempre sull’anello; ma Wotan, che certo lo cercava, glielo vede brillare al dito e lo pretende come parte integrante del tesoro. Alberich è atterrito, ormai viveva in simbiosi con l’anello; c’è nel suo terrore qualcosa che sembra superare il valore del potere connesso al gioiello, qualcosa di legato alle radici stesse dell’esistenza: «la vita – ma non l’anello!». Wotan, lasciata la maschera del padre degli dei, appare nella brutalità dell’affarista: «voglio quel cerchio: della tua vita fa’ quel che vuoi».

Anello maledetto

Lo scontro fra Wotan e Alberich che segue è una delle più vigorose scene dell’opera, scontro di anime nere, malfattori allo stesso titolo divorati dall’avidità del potere; il rango superiore di Wotan si dissolve, Alberich lo ha trascinato sul suo piano e Wagner, grande pessimista della natura umana, dà alla rappresentazione del male una grandezza epica, quasi eroica. Per primo Alberich rivendica l’anello come suo, parte del suo corpo, e Wotan lo incalza con il ricordo del furto dell’oro strappato al fondo del Reno; si rinfacciano i misfatti a colpi di «ladrone», «svergognato», «furfante»; la musica sostiene lo scontro con la mobilità (lisztiana) di progressioni continue sfruttando il trasformismo armonico del tema dell’anello, con battute incalzanti, composti armonici violenti che si contrappongono, si azzannano fra loro. Alberich testimonia una fiera, quasi nobile coscienza del Male, come certe grandi figure dello Sturm und Drang: per avere l’anello ha peccato «consumato dall’angoscia», ha compiuto la maledetta, tremenda azione nell’impulso dell’ira; è la passione disperata, già tormento e pena a se stessa, che gli dà un diritto di proprietà acquisita sull’anello; mentre in Wotan, incalza Alberich, il dolore da lui provato nel peccare si muterebbe in svago principesco, la passione che lui sconta in salubre gioia; e infine: «Se fu colpa la mia, fu colpa libera a mio danno, mentre tu, eterno di razza superiore, peccheresti contro tutto ciò che fu, ciò che è e sarà, scardinando quelle regole di cui sei garante».

Certo, l’elfo nero grandeggia di fronte all’olimpico, sembra esserne divenuto la coscienza. Ma non è il momento di ascoltarne la voce, il potere del mondo è lì a un passo, basta fare un gesto, e Wotan strappa di forza l’anello dal dito del nibelungo inerme; il quale lancia un grido disumano, spaventoso, seguito dal rullo sordo dei timpani e dal suono sforzato ma sterile dei corni con sordina: Alberich è ora il più miserabile dei miseri. A un cenno di Wotan, Loge lo libera dai lacci.

Tema malefico

Alberich è ancora incredulo della sua sorte; Wotan s’infila l’anello, è sulla cima dei suoi desideri, come chiarificano le tonalità in relazione di terza (Fa-La-Fa diesis) che ne scandiscono l’ascesa sublime: «io dei forti il più forte sovrano!». Il tempo ormai è diventato lento; dalla quiete piena di tensione un nuovo tema, un nuovo protagonista, si fa strada, e conviene fissarne bene le fattezze per l’importanza che assumerà nel seguito della tetralogia. Prendendo lo spunto dagli innocenti svolazzi dei violini serviti a descrivere lo sciogliersi dei lacci che imprigionavano Alberich, i violoncelli insinuano una veloce cinquina ascendente; sull’ultima nota (Do diesis) si aggiunge un Sol naturale pizzicato dei contrabbassi e un Do diesis nella sonorità stoppata, innaturale, del corno con sordina; subito dopo i tre clarinetti introducono l’affanno di un ritmo sincopato: il risultato è un tema repellente, con qualcosa di fetale e abortivo nei suoi avvolgimenti; attorno tutto è fermo, sospeso in un’armonia di tritono, senza articolazione melodica. In questo spazio, Alberich pronuncia una seconda, più letale maledizione: dopo aver maledetto l’amore nel fondo del Reno, ora davanti agli dei maledice l’anello, «generi il suo maleficio morte a colui che lo porta!», e quel tema lubrico accompagna ogni articolo dell’invettiva, divenendo l’incarnazione quasi fisica della Sorge: la «cura» dei latini, l’ansia che si arrovella senza requie, l’angoscia, la paura di vivere; per il carattere stregato e dileguante di tutto l’episodio viene da pensare che Wagner non avrebbe musicato in modo diverso la «ballata» delle quattro donne grigie, una delle quali è la Sorge, nel Faust II.

Consegnato ai due vittoriosi il viatico maledetto, Alberich esce di scena scomparendo furiosamente in un crepaccio.

Il riscatto

Wotan non sembra aver sentito la maledizione, tanto è rapito nella contemplazione dell’anello al suo dito; la nebbia si dirada, cresce il chiarore su un lungo pedale di Sol che i timpani scandiscono in un lontano, misurato passo di marcia. A Loge Wagner impresta sempre più il ruolo di narratore di quanto sta avvenendo; ora avvista i giganti che arrivano con Freia, e il tema dei frutti immortali si diffonde nel molle tessuto dei corni, se ne percepisce anche a distanza il beneficio, il sangue nuovo che scorre per le vene degli dei.

Escono all’aperto Froh, Donner, Fricka ansiosa, a sentire il risultato della spedizione, che Loge riassume senza peli sulla lingua indicando l’oro ammucchiato: «con astuzia e violenza il lavoro è riuscito: ecco là quel che libera Freia»; ma, accantonato ogni scrupolo sui mezzi illeciti, Wotan e Loge sono accolti come salvatori, e Froh, il dio della fertilità primaverile, fratello di Freia, si fa avanti a cantare una sorta di Lied sull’eterna giovinezza, incapsulato nel fluire consueto come una chiocciolina nel granito: due quartine con arsi regolarmente distribuite e rime allitteranti sulla radice delle parole, secondo il solito Stabreim: «Wie liebliche Luft/ wieder uns weht» («Che aria soave/ di nuovo a noi soffia»); una certa scipitaggine, nella cantabilità di maniera di quel tenore che indugia sugli intervalli delle triadi di Sol e di Do, è certo voluta per dipingere la vita in bianco di questi dei. L’arcadico bozzetto serve comunque come mezzo retorico per trattenere la narrazione aumentando l’attesa: tutti stanno per abbracciare Freia, ma l’idillio è presto interrotto da Fasolt: altolà, la ragazza non si tocca, prima il riscatto.

«È là pronto, dice Wotan, la quantità di oro qui si misuri tra amici» (spera ancora, evidentemente, di conservare per sé qualcosa del gruzzolo). Ma le condizioni sono dettate da Fasolt, il bestione dal cuore tenero, sempre preso d’amore per Freia; non vederla più gli pesa sul cuore, per cui la massa del tesoro consegnata dovrà essere tale da coprire la dolce alla vista. Si pongono i randelli dei giganti come pali laterali della misura, Freia in mezzo, davanti a lei il mucchio dell’oro che verrà su secondo la sua forma; da un tremolo delle viole e dalla frigida sonorità del flauto sembra di vedere la giovinetta tremare di umiliazione, toccata da un brivido di pudore. L’operazione della carica e della pesa del tesoro è scandita da una marcia volutamente volgare, che ricorda le marce alla corte di Enrico il Saggio nel Lohengrin, con spostamento d’ingombranti armature; gli dei hanno fretta di concludere, ripugnando all’operazione mercantile; Loge e Froh versano oro tra i pali, Fafner avverte di non scaricare i gioielli così come vengono, ma di compattare bene, e si mette a pigiare sul mucchio; il senso estetico di Loge, che nei suoi viaggi si è certo fatto esperto di oggetti rari e preziosi, si ribella: «zotico, indietro, non fracassarmi nulla!».

L’anello conteso

L’ingordigia dei giganti sembra aumentare con il ribollire dell’orchestra, dove timpani, tube, corni aggressivi, fagotti e basso tuba nel profondo si mescolano in una devastata polifonia. Fricka per la vergogna imposta a Freia se la prende con Wotan; Donner schiuma rabbia e mette mano al martello; Wotan, pensando che la quantità di oro sia bastevole, cerca di tenere la calma. Ormai la figura di Freia sembra scomparsa dietro l’ammasso; ma si ripete la progressione oro-elmo-anello, come prima ai danni di Alberich, secondo un meccanismo graduale tipico dei racconti di fiabe: Fafner vede ancora una ciocca della capigliatura che spunta, e Loge deve cedere l’elmo magico a copertura; sembra fatta, tutte le fessure sono tappate.

Ma Fasolt ha ancora un momento di debolezza: «non la vedrò più? è sparita alla mia vista, Freia la bella?» e si dà a guardare nella catasta; ahi! ché nel suo intravvedere scorge attraverso uno spicchio vuoto l’occhio raggiante della dea; il suo animo s’intenerisce, diventa infantile e fa un capriccio: io Freia non la dò, finché vedo quell’occhio adorabile! Fafner ha pronta la soluzione: la finestrina tonda può essere colmata dall’anello che brilla al dito di Wotan. Come prima Alberich, anche Wotan punta i piedi: «mai, tutto concedo; ma per il mondo intero all’anello non rinuncio!», e deve difenderlo dai giganti, ma anche da Loge che si è impegnato a restituirlo alle figlie del Reno. Si rompono le trattative (Fasolt forse lo sperava): Freia si sente risucchiata e invoca aiuto, cresce l’agitazione, come in un concertato finale d’atto: tutti, Fricka, Froh, Donner, contro Wotan: «dio spietato, fa’ come dicono!», e siccome ne va della vita beata le suppliche a mollare l’oro si fanno concitate. Ancora Wotan se li scrolla di dosso, irremovibile, ma sulla costernazione generale piomba il colpo di teatro, secondo la migliore tradizione del deus ex machina: nell’eco formidabile di un Do diesis fortissimo dei tromboni, avviene l’apparizione di Erda, la dea Terra che emerge da uno spacco del suolo circondata di luce azzurrina.

L’ammonimento della Madre Terra

La mitologia sale in cattedra. Il tempo è langsam (adagio), e dopo i contrasti di prima, il darsi sulla voce, il minacciare, il leticare tumultuoso, il cambio di registro è un tocco da grande architetto teatrale. Dopo l’intervento dei tromboni, usi da secoli ad annunciare gli oracoli, l’emersione della grande Madre avviene sulle lente salite, magicamente ritmate, del tema del divenire elaborato negli abbozzi del preludio d’apertura; ma qui in tonalità minore, aggiungendo qualcosa di faticato e dolente, come una pena della dea per districarsi dalle sue radici profonde. Il primo avvertimento avviene quasi a voce nuda (soprano basso), su un’orchestra ridotta al minimo, «Cedi, Wotan, cedi!», articolato su un recitativo classico alla Gluck, «fuggi il maleficio dell’anello!»; un’aura di classicità promana anche da quel «des Ringes Fluch» («il maleficio dell’anello»), intonato su un intervallo di tritono: come fa Bach nei recitativi delle Passioni quando si affacciano forze infere.

Il canto della dea poggia sulle note della tonalità, e come una formula solenne ritorna più volte il salto di ottava discendente; alla domanda di Wotan esterrefatto, l’apparizione si fa conoscere come colei che dorme e nel sogno vede gli accadimenti, cioè la prima Veggente, Erda. Per statuto Erda è veggente senza essere operante, ma questa volta, strappandosi al sonno cosmico, ha voluto venire di persona per la gravità del pericolo: e il tema angoscioso della «cura» prende il posto del nome di Alberich non pronunciato. Per tre volte, come nei vaticinî, Erda ripete: «Ascolta! Ascolta! Ascolta!», ogni volta principiando da una nota più alta: «Tutto ciò che esiste, ha fine. Un fosco giorno agli dei albeggia», e ripete il consiglio di scansare, evitare l’anello a ogni costo perché il crepuscolo non piombi addosso agli dei prima del tempo. Come sempre, gli oracoli sono incompleti quanto più minacciosi, e Wotan, terrorizzato, vorrebbe fermare la dea per saperne di più; ma la messaggera d’arcani sgomenti sta già scomparendo per tornare nel grembo della terra; Wotan, ancora trasognato, quasi sta per seguirla nel profondo, tuttavia trattenuto da Froh e Fricka.

Prima vittima

L’apparizione di Erda è la linea di displuvio da cui L’oro del Reno imbocca la via verso la conclusione: gli sguardi di tutti sono su Wotan, che alla fine abbandona la sua fissità meditabonda, si riprende e scotendo la lancia chiama a sé Freia, quindi si sfila l’anello e lo getta nel mucchio destinato ai giganti. Freia, tornata in famiglia, è vezzeggiata quanto basta a Wagner per inserire ai violini una gemma di affettuosa dolcezza (partitura, p. 272), una di quelle miniature che passano inosservate al pubblico in sala, come se il compositore le scrivesse per sé, per un dovere di compiutezza interiore.

Pochi passi più in là il clima è tutt’altro: Fasolt vede il fratello che arraffa e insacca oro senza pensare a dividere; Fafner lo sbeffeggia pure come «galante innamorato», rammentandogli che in fondo a lui interessava più la ragazza del tesoro. Fasolt, ingenuo, si appella invano a Wotan per un’equa spartizione; «Mio è l’anello», reclama il «galante», convinto che gli tocchi per lo sguardo di Freia che raggiava dalla fessura, e sul possesso del cerchietto fatale i due bruti vengono alle mani. Ma un bruto sensibile è un bruto degenerato, e Fasolt è destinato a soccombere, colpito a morte dal randello di Fafner: barbarie resa selvaggia dai nove colpi di timpano e contrabbassi. Il fratricidio segna la prima vittima dell’anello, e Wotan constata la verità dell’avvertimento di Erda e la forza terrifica della maledizione.

Sempre più inquieto, Wotan vorrebbe ancora consultare Erda, la Veggente, per conoscere il suo destino; ne è distolto, per il momento, da Fricka, tutta affetto coniugale, che, con il flusso melodico già ascoltato in scene precedenti per celebrare l’amore come bene irrinunciabile, fra lusinghe e carezze gli indica la rocca: cioè la realtà di adesso, che ospitale attende la famiglia reale e il suo seguito; frutto di «malvagio tributo», commenta Wotan, turbato nella coscienza: anche se, più del tributo, è l’apparizione di Erda che gli ha avvelenato l’animo.

Arcobaleno d’incertezza

Dopo tanti bozzetti, dovuti all’obbligo della musica di smaltire fatti e detti in quantità, l’opera si conclude con un grande affresco di natura per il quale Wagner mobilita la sua fantasmagoria sinfonica. Donner, dio del tuono, vuole purificare l’aria dai vapori stagnanti sollevando una tempesta e da una roccia più alta raduna la nuvolaglia, mentre in orchestra, pianissimo, incomincia una sequenza di sestine arpeggiate che da violoncelli e viole sale ai violini secondi poi ai primi, sempre tutti divisi a sei leggii, sì che l’armonia di Si bemolle maggiore vibri come una massa di luce iridescente. Donner chiama a raccolta le nubi al grido di «Hedà! Hedà! Hedò!»: il salto di quarta ascendente è subito ripreso dai quattro corni che si stagliano nell’armonia fluttuante; il dio sparisce nelle caligini sempre più scure, si sente il colpo del martello sulla roccia da cui sprizzano folgori. Purificata l’aria, tornano visibili Donner e Froh dai cui piedi s’innalza un arcobaleno a foggia di ponte fino alla rocca, ormai splendente in piena luce nei raggi del sole al tramonto.

Mentre gli archi riprendono il loro arpeggiare, si aggiungono, con tecnica e gusto «divisionista», le terzine dei legni e le gocciole dorate di sei arpe; nel registro basso, corni, clarinetto basso, fagotti e violoncelli tracciano un disegno ad arco che si espande a rampe sempre più elevate per ridiscendere simmetrico, sempre articolato sugli intervalli della triade: anche questo tema dell’arcobaleno, della stessa pasta di quello del divenire e di quello di Erda, si origina dal processo compositivo del preludio, saldando dal fondo la compagine formale dell’opera.

Ormai Froh invita gli dei a incamminarsi sul ponte; Wotan, quasi a coprire l’angoscia nell’animo, esalta la grandiosità della scena, la sicurezza della rocca conquistata a prezzo di pena e angoscia; ma, prima di muovere il passo, recita la didascalia, è come afferrato da un grande pensiero, una grande idea: lo possiamo capire da un gesto enfatico dell’interprete e da una entrata altrimenti immotivata della tromba che suona un tema, detto poi «della spada», in piena evidenza nelle giornate successive della tetralogia. E la «grande idea» è questa: generare una schiatta da cui nascerà un eroe (quindi la spada, appunto) che, inconsapevole dei patti violati, libero si conquisti l’anello, immune dalla sua maledizione. Wagner, profittando dell’accelerazione degli eventi verso la fine, fa lavoro didattico preparandosi il terreno per l’opera successiva.

4. Franz Stassen, Gli dei sull’arcobaleno, 1914.

4. Franz Stassen, Gli dei sull’arcobaleno, 1914.

Accantonata per ora la «grande idea», il corteo degli dei può avviarsi, anche se c’è ancora tempo per alcune minuzie: Fricka è presa da curiosità lessicali, chiede al marito che significa la parola Walhall non ancora sentita (in effetti, prima era sempre nominata come Burg, la rocca, la fortezza); ma sopra tutto due appendici devono ancora essere messe a punto dall’inesorabile scrupolo wagneriano di completezza. Prima un breve monologo di Loge: in poche parole, nel solito ironico falsetto, lo snob mostra poca voglia di fare combriccola con gli altri dei, avviati a estinzione; spirito elementare, Loge ha capito la situazione precaria dei luminosi (anche lui ha sentito le parole di Erda) ed è in forse, se restare con loro, oppure ritornare fuoco e magari arrostire questa genia che in passato non lo aveva certo trattato coi guanti; ci penserà su, e intanto se ne va verso il Walhalla dietro agli altri.

L’ultima appendice ha più importanza strutturale perché chiude il cerchio con il ritorno delle figlie del Reno, che piangono la vedovanza dell’oro, la luce sottratta; dal Reno in fondo alla valle il lamento arriva a Wotan già incamminato, che infastidito («Ninfe dannate!») chiede a Loge di farle tacere; il quale, segretario zelante, non si fa pregare: «Ehi voi là nell’acqua! – con fare canzonatorio –. Ascoltate l’augurio di Wotan: se ormai non più splende a voi fanciulle l’oro, al nuovo splendore degli dei scaldatevi beate da oggi!». Gli dei ridono alla battuta; ma nessuna battuta o motto può sanare rovelli aperti o scalfire la serietà morale della sentenza intonata dalle ninfe: «solo nel profondo sta il vero e il fedele, falso e vile è ciò che esulta là in alto!»; e, mentre avanzano le armate degli ottoni, gli dei salgono in corteo al Walhalla sulla musica dell’arcobaleno, in un fortissimo dal trionfalismo imporrato.

1 Locuzione divenuta funestamente famosa perché utilizzata come titolo di un decreto emanato da Adolf Hitler il 7 dicembre 1941, per cui gli oppositori al regime nazista dovevano essere fermati e fatti scomparire segretamente.