Boone vuol dire affari

Se Warhol rappresentò quella figura paterna di cui Basquiat fu sempre in cerca, per poi rinnegarla, la sua successiva gallerista, Mary Boone, fu l'antitesi di un genitore surrogato. Sin dall'inizio fu perplessa nel prendere tra i suoi artisti il giovane selvaggio.

La verità è che il rapporto di Basquiat con la Boone probabilmente non sarebbe mai iniziato senza le macchinose manovre di Bruno Bischofberger, che era in affari con la Boone, la quale racconta: «Bruno era un uomo d'affari molto intelligente. Aveva già intuito che Jean-Michel sarebbe stato un artista incostante e che sarebbe stato opportuno coinvolgere un altro gallerista. Ci misi un po' a convincermi»19-1.

In quanto suo gallerista internazionale, Bischofberger era completamente coinvolto in ogni aspetto della carriera di Basquiat. Circa un anno dopo che iniziò a rappresentarlo in Europa, portò Beth Phillips a Great Jones Street per fotografare gli ultimi lavori di Basquiat. Spiega Bischofberger:

Aveva perso le speranze che riuscissi a trovare una buona galleria per lui, e logicamente io avrei voluto Leo Castelli. Ma Leo a quel tempo non era pronto per lui. Così chiesi a Mary, con la quale collaboravo per altri progetti. Insieme rappresentavamo Schnabel e Salle. C'era questa bella serie di lavori e facemmo delle Polaroid per Mary. Fu difficilissimo riuscire a convincerla. Era molto riluttante. Cambiava continuamente idea e non era nemmeno convinta che Basquiat fosse un grande artista. E io stavo lì a farle pressioni19-2.

A quel tempo Bischofberger non era il solo gallerista a cercare una nuova galleria per Basquiat. Annina Nosei aveva cercato di far entrare Basquiat alla Blum/Helman Gallery. Ma anche se Blum era interessato a prendere Basquiat, il suo comportamento tipicamente smodato mandò rapidamente in fumo l'accordo. Ricorda Irving Blum:

Annina era una mia cara amica. Su suo consiglio telefonammo a Basquiat e lui ci invitò al suo studio. Andammo lì parecchio entusiasti e ci entusiasmammo sempre più man mano che vedevamo i suoi lavori. E man mano che il nostro entusiasmo aumentava, era come se lui in qualche modo si tirasse sempre più indietro, che fosse paranoia, droga o chissà che altro. Cercò in tutti i modi di venire al dunque, ma diventò sempre più vago19-3.

Eppure, per quanto riguardava Blum, l'accordo era fatto:

A fine visita ci stringemmo la mano calorosamente. Quando lasciammo lo studio eravamo felicemente convinti che l'avremmo rappresentato. Trovavamo i suoi lavori eccitanti e provocatori. Aveva una specie di brutalità da strada e un'immediatezza che consideravo decisamente notevole. Scegliemmo una serie di opere. Ed eravamo rimasti che una parte dei quadri ci sarebbe stata mandata in galleria il giorno dopo. Un paio di giorni dopo lo chiamai, e disse che mi avrebbe richiamato ma non mi richiamò più. C'era così tanta gente che lo spingeva in così tante direzioni19-4.

Bischofberger ricorda come Basquiat utilizzò intelligentemente l'interesse di Blum e Helman come ricatto:

Mi disse che stava andando a Los Angeles con Irving Blum e Joe Helman, e che loro avrebbero portato Roy Lichtenstein alla sua inaugurazione, e che nei prossimi giorni avrebbe deciso se sarebbe andato con loro. Mi disse: «Se Mary non si chiarisce le idee, lo farò»19-5.

Lo stratagemma funzionò. «Chiamai Mary e le dissi che doveva decidere. E lei mi disse: "Ok, lo farò". Rischiava di andare in fumo tutto quanto»19-6.

Beth Phillips aveva iniziato a lavorare per Bischofberger nel novembre del 1983. «Bruno ci faceva sempre venire in mente Goldfinger. Solo che voleva tutta l'arte invece che tutto l'oro»19-7, dice. Il suo primo incontro con Basquiat fu il giorno in cui accompagnò Bischofberger in una delle sue missioni search-and-destroy:

Venne a prendermi in macchina. Conobbi Andy e Julian. Poi andammo a incontrare Jean-Michel Basquiat. Avevo sentito parlare di Julian e di Andy, ma Jean-Michel cominciava a farsi conoscere adesso nell'East Village. La prima volta che lo vidi fu nel suo studio, in una zona assolutamente spettrale, su Great Jones Street. Bruno cominciò a bussare alla porta, ma nessuno rispose. E così tornammo dopo un'ora o due. Riuscivamo a vedere dalla finestra che c'era un uomo sdraiato sul pavimento. «È Jean-Michel. Deve essere svenuto». Bussammo una terza volta e Jean-Michel venne ad aprirci. Era tutto arruffato. Puzzava. Era coperto di vernice. Tutto lo studio era in disordine. Io ero in tailleur, e Bruno era in giacca e cravatta. Jean-Michel era arrabbiatissimo, e disse: «Vattene! Chi sei, il mio magnaccia?». Ma Bruno si mise a ridere e disse: «Torniamo tra un po'». Poi mi disse: «Trova un camion che adesso compriamo trenta quadri. Non lo dire a Mary Boone». Bruno pagava sempre i quadri in contanti. Prendemmo trenta quadri dallo studio. Sembravano opere di un bambino ritardato. Erano dei quadri giganteschi, alti circa due metri. Bruno voleva che li fotografassi. Disse che era una cosa top secret, e che non ne avrei dovuto parlare con nessuno. Dopo un'ora o due Mary Boone chiamò e disse: «Ho sentito che avete dei quadri». Le dissi che erano già stati spediti19-8.

Bischofberger dice che tutti i suoi accordi stipulati con la Boone furono sempre onesti. Se gli si fa presente che la Boone a volte riuscì ad avere quadri da Basquiat a sua insaputa, lui insiste sul fatto di non avere mai adoperato tattiche simili. Ma Basquiat era contento di vendere i suoi quadri praticamente a chiunque se pagato in contanti. Dice la Phillips:

Iniziai a capire che Bruno faceva dei brutti scherzi a gente che si fidava di lui. Mary si fidava di Bruno, ma lui sborsava contanti per i quadri, e li spediva direttamente in Svizzera. Sui documenti di trasporto scrivevamo che ogni quadro valeva mille dollari invece di diecimila. Comprava in contanti così non avrebbe dovuto pagarci sopra le tasse19-9.

Ma Bischofberger dice che quanto ricorda la Phillips sul valore delle opere dichiarato al momento della spedizione è sbagliato. In quanto cittadino svizzero che importava opere che avrebbe venduto in Paesi diversi dalla Svizzera, gli veniva chiesto solo di pagare una tassa di importazione temporanea.

A detta della Phillips Bischofberger aveva un conto in una banca svizzera di New York. «Prendevamo un massimo di diecimila dollari al giorno per la gente che avremmo dovuto pagare», dice. Bischofberger si faceva anche carico dell'acquisto di materiali artistici per Jean-Michel e gli altri suoi artisti. Dice la Phillips:

Giravo con una borsa piena di contanti per comprare materiali per Jean-Michel. Avevamo conti aperti da Pearl Paint e New York Central. Bruno diceva: «Che tipo di colori vuole? Che tipo di tele gli piacciono?». E prendevamo immediatamente venti o trenta di quelle19-10.

Bischofberger era responsabile anche del pagamento di quattromila dollari al mese per l'affitto del loft di Great Jones Street, un piccolo due piani con una cucina giallo brillante e un grande studio al piano di sotto. Al piano di sopra c'erano la stanza da letto e il bagno. La Phillips riceveva di continuo messaggi dalla Factory in cui le veniva fatto presente che Basquiat era tre o quattro mesi in ritardo con l'affitto.

A quel tempo Basquiat era entrato stabilmente nel circolo privato di Warhol, ma Warhol non si fidò mai del tutto di lui. Scrisse il 14 dicembre del 1983:

Bruno è venuto e ci ha fatti ammattire. Non ha portato i soldi dell'affitto di Jean-Michel, e così più tardi ho telefonato io a Jean-Michel per l'affitto che deve. E poi ho litigato con Jay perché ha dato a Jean-Michel il mio telefono di casa. […] Gli ho urlato: «Ma dove hai il cervello?». Voglio dire, lui sapeva che non avrei voluto che Jean-Michel venisse a casa mia, voglio dire, è un drogato, non ci si può fidare di lui19-11.

Basquiat non nascose mai il suo smodato uso di droghe. La Phillips ricorda che quando andarono a prendere i trenta quadri, vide «la più grande busta di cocaina che avesse mai visto dal vero. Jean-Michel la versava su un piatto e la sniffava. Per sniffarla usava la prima pagina del "New York Times". Era sempre lì che si rollava canne gigantesche»19-12.

Una volta che Barbra Jakobson voleva comprare un Basquiat da Bischofberger, lui la portò nello studio dell'artista. «Sembrava una scena di Scarface», racconta lei, «c'era questa montagna di coca sul tavolino e lì vicino c'era questo ragazzo che se la spassava»19-13.

Il rapporto che Basquiat ebbe con Bischofberger, come ogni suo rapporto con un gallerista, procedeva per vertiginosi alti e bassi. Partiva per Zurigo e se ne andava in giro con Bischofberger, sua moglie Yo Yo e i loro tre bambini, comportandosi come fosse un membro della famiglia. Ma sapeva anche fingere. Yo Yo Bischofberger si ricorda di una volta in cui, per la vigilia di Natale, Basquiat si rifiutò di uscire dalla sua stanza:

Jean-Michel aveva insistito nel voler venire per Natale, ma poi non volle nemmeno alzarsi dal letto. Bruno disse che era strafatto di droga. Io mi infuriai talmente tanto che fracassai tutta una pila di piatti e gli urlai contro. Lui sgattaiolò al piano di sotto, chiamò un taxi e andò a Zurigo. Mi ricordo che mi guardai allo specchio – ero così bella, con quegli occhi e il tracco – e dopo mezz'ora mi ero talmente arrabbiata che avevo tutta la faccia imbrattata. Poi compresi che Jean-Michel non aveva capito in che modo si festeggiava il Natale da noi. E poi era imbarazzato perché i quadri che voleva dare a ognuno di noi come regalo non erano arrivati dalla Svezia. Arrivarono qualche giorno dopo. Io mi ero comportata con lui come fosse una persona normale, come mi sarei comportata con un bianco, ma i neri non sono abituati ad essere trattati così. In America godono di un trattamento speciale, la gente è sempre tanto gentile con loro19-14.

Il business dell'arte di Bischofberger a New York era abbastanza semplice. Comprava opere direttamente dagli studi degli artisti, garantendosi la prima scelta. La Phillips dice che spesso pagava gli artisti in contanti, ma Bischofberger sostiene che i soldi di solito venivano versati nei loro conti. Le opere venivano poi trasportate con dei camion in un magazzino di Long Island prima di essere spedite alla galleria di Zurigo per i vari clienti che aveva in Europa.

Bischofberger e la Phillips divennero presto volti noti nell'ambiente delle case d'aste. «A inizio anni Ottanta andavamo alle aste e compravamo le opere degli artisti per impedire che i prezzi scendessero. Faceva salire i prezzi finché non aumentavano del doppio rispetto al loro massimo valore, anche se poi non le compravamo. Serviva a tenere alti i prezzi», dice la Phillips, aggiungendo che facevano regolarmente offerte per opere di Schnabel, Basquiat, McDermott & McGough e Salle. «Avrei dovuto farlo anonimamente, ma dopo un po' la gente che lavorava alle case d'aste iniziò a riconoscermi»19-15.

Anche se non era insolito che i galleristi cercassero di inflazionare il prezzo delle opere degli artisti che rappresentavano, Bischofberger dice che non adoperò mai simili pratiche, e che faceva offerte solo per opere che aveva intenzione di comprare. Bischofberger sostiene che il suo accordo con la Boone era onesto: «Andavo a New York più o meno una volta al mese per tre o quattro giorni, e ogni volta andavo da Basquiat. Il più delle volte sceglievo dei quadri che andavano bene sia a Mary sia a me sia a entrambi19-16.

A detta della Boone lei e Bischofberger prendevano ognuno una commissione del venticinque per cento, e a Basquiat andava il restante cinquanta per cento. Basquiat, dice Bischofberger, era eccitato all'idea di essere nella stessa galleria di Schnabel e Salle: «Era iperpubblicizzata come nuova galleria con nuovi artisti. Più della Blum/Helman, che esponeva cose più classiche. E anche a me piaceva perché dal punto di vista profezzionale ero più vicino a Mary19-17. Come sempre Bischofberger teneva gli occhi puntati sugli incassi:

Feci a Mary una proposta: «Potremmo, per favore, diventare soci in tutto? Così non dobbiamo più competere tra noi per prendere i quadri più importanti. Prendiamoli insieme. Per ogni singolo dipinto e ogni singolo disegno, sia che lo vendi tu sia che lo vendo io, dividiamo comunque l'incasso». Con Mary funzionò per circa due anni e mezzo. Aveva sempre problemi con Jean-Michel perché lui era sempre molto irresponsabile19-18.

Anche se Basquiat fremeva dal desiderio di esporre insieme ai suoi colleghi, e la Boone fremeva dal desiderio di accalappiarsi il meglio della nuova avanguardia artistica, i due non andarono mai veramente d'accordo. La Boone ci sapeva fare con i collezionisti e con la pubblicità, ma non era capace di far sentire Basquiat all'altezza degli altri artisti che rappresentava. In realtà, dopo che lo prese in galleria, fece scendere i prezzi da dieci-quindicimila dollari a cinque-diecimila dollari a opera. Né gli procurò quell'attenzione da parte dei musei che lui bramava19-19.

L'apparizione sulla copertina del «New York Times Magazine»19-20 accuratamente orchestrata, mossa tipica della Boone, avvenne non molto tempo prima che il rapporto con la gallerista andasse in pezzi, e diede l'impressione che l'artista avesse raggiunto l'apice della sua carriera. Ma fu nei pochi anni successivi che Basquiat – e la sua carriera – cominciò a precipitare.

Se ci fu gallerista che incarnò quel mirato sgomitare consapevole della propria celebrità tipico degli anni Ottanta, questa fu Mary Boone. La sua mostra epocale del ventottenne Julian Schnabel allestita nel 1979 contribuì a lanciare il decennio successivo, e per più di una ragione. Dalla corona della sua testa spruzzata di nero alla punta delle sue scarpe Maud Frizon, la ventisettenne Boone era la prima gallerista yuppie del mondo dell'arte. Capì in fretta il funzionamento del mercato inflazionistico, e come manipolarlo.

Come molti galleristi degli anni Ottanta, la Boone prese a modello l'uomo con la galleria sopra il minuscolo spazio che affittò inizialmente, nel 1977, al 420 di West Broadway: Leo Castelli, il più famoso gallerista del mondo19-21.

Gallerista moderno esemplare, Castelli avviò la propria carriera nel 1957, con la scoperta di un nascente movimento artistico, la Pop Art, e due dei suoi primi esponenti, Robert Rauschenberg e Jasper Johns, «ero disorientato ed estasiato dal vedere qualcosa di così inatteso», disse la prima volta che vide un lavoro di Johns. «Era come vedere il tesoro di Tutankamon». L'opera di Frank Stella gli diede un'«altra grande epifania». «All'inizio ci furono Bob e Jasper», disse Castelli a Calvin Tomkins, «poi Frank Stella […]. Tutto un nuovo gruppo che sbucava fuori dal nulla, e tutti quanti influenzati dalla prima mostra di Jasper […]. Individui i movimenti emergenti e cerchi di scegliere i praticanti migliori»19-22.

Castelli mise insieme in fretta il gruppo più folgorante di artisti americani dai tempi dell'Espressionismo Astratto: insieme a Rauschenberg, Johns e Stella, prese Roy Lichtenstein, John Chamberlain, Cy Twombly e Andy Warhol. A ognuno diede uno stipendio. Per quanto i soldi non sembrarono mai essere uno dei principali interessi di Castelli, fu nondimeno un maestro nel promuovere i suoi artisti.

Castelli divenne gallerista in una fase tarda della sua vita. Iniziò lavorando nel campo delle assicurazioni per poi passare all'industria. Il suo interesse per l'arte fu personale prima ancora che professionale: amava l'arte per l'arte. Quando arrivò per la prima volta a New York, si tuffò presto nella biblioteca del Museum of Modern Art imparando tutto sull'arte moderna europea. Prima di aprire la sua prima galleria era diventato amico degli astratto-espressionisti, dividendo la casa delle vacanze di East Hampton con Willem ed Elaine de Kooning19-23.

I suoi amici artisti continuavano a incoraggiarlo ad aprire una galleria. Quando finalmente lo fece, nel 1957, esponendo le opere che lui e la moglie, Ileana Sonnabend, avevano collezionato negli anni, usò la stanza da letto della figlia Nina. Non c'erano insegne per strada: soltanto chi apparteneva al mondo dell'arte sapeva che esisteva. Sarebbe passato un anno prima che la mostra allestita da Castelli delle opere di Jasper Johns, nel gennaio del 1958, rendesse entrambi i nomi familiari: l'Espressionismo Astratto aveva infine lasciato campo libero a un nuovo movimento, e il suo primo gallerista fu Leo Castelli19-24.

Castelli costruì tutta una struttura di star, anche se inizialmente non era nelle sue intenzioni. E tuttavia fu un effetto naturale del suo passionale interesse per arte e artisti, in perfetta continuità con la tradizione di Peggy Guggenheim. I nuovi galleristi, alcuni dei quali venivano fuori da un qualche master universitario, piombarono nel mercato con un'insolenza e un interesse per l'utile netto che non avevano niente in comune con il modus operandi vecchia maniera di Leo Castelli. Poterono pure provare a emulare Castelli, ma erano essenzialmente diversi.

Mary Boone era nata a Erie, in Pennsylvania. Suo padre era morto quando lei aveva quattro anni, ed era stata cresciuta da una madre risoluta. Aveva studiato all'Hunter College e alla Rhode Island School of Design, inizialmente intenzionata a diventare lei stessa artista. Ma a sedici anni decise che «quello che amavo di più era parlare d'arte, mettere insieme le idee e vedere in che direzione andavano le nuove tendenze». A diciannove anni si trasferì a New York, iniziando a lavorare come segretaria alla Bykert Gallery di Klaus Kertess, sulla Madison Avenue, che era specializzata in Arte Minimalista19-25.

La Boone non lasciò le proprie ambizioni in disparte. Era chiaro che avesse un piano. Spesso si comportava come se ambisse al posto di Kertess, e quando andò via la sua rubrica era zeppa di nomi di artisti e collezionisti della Bykert. Trovò rapidamente dei finanziatori per mettere insieme la cifra di 50mila dollari. Tra questi il suo avvocato Hugh Freund, l'amica Sheila Meyer-Zaslower, l'amministratrice di una scuola privata Maryann Schwalbe, i collezionisti di Boston Steven e Dotty Webber, e Robert Feldman, proprietario della Parasol Press.

La Boone realizzò il suo desiderio di entrare immediatamente a far parte della storia dell'arte nel 1977, quando aprì la sua prima galleria al 420 di West Broadway19-26. «È stato un bel colpo riuscire a trasferirmi in un palazzo in cui Castelli ha rappresentato gli artisti degli anni Sessanta […], Emmerich il gruppo Greenberg dei primi anni Sessanta e John Weber il Minimalismo dei Settanta»19-27, disse in una delle sue prime interviste. Dice Feldman, che ha attualmente una quota del dieci per cento della Mary Boone Gallery, adesso a due passi dalla Cinquantasettesima Strada:

Pensai che sarebbe stata brava nel business dell'arte, e avevo ragione. Che ti piaccia o meno, Mary ha dato un sacco di visibilità all'arte contemporanea ed è stato un bene per tutto il mercato dell'arte. È una a cui piacerebbe essere considerata una sorta di [Joseph] Duveen19-28 della sua generazione. Ha molto più senso della Storia della maggior parte della gente. Ed è determinata nel suo non volere restare solo una nota a margine19-29.

Tenuto conto dell'entità delle sue ambizioni, il tempismo della Boone non poteva essere migliore. A venticinque anni era di certo la più giovane gallerista del giro, e diventò quasi immediatamente una star. Dice Kertess: «Il gallerista-celebrità venne quanto mai alla ribalta. Fu una nuova categoria lanciata proprio negli anni Ottanta»19-30.

Sin dall'inizio la Boone era intenzionata a creare un'immagine, a partire dalla propria: naso dritto e capelli stirati. (Il «Village Voice» pubblicò una significativa fotografia pre-chirurgia fatta da Robert Mapplethorpe). Mingherlina, esotica e favolosamente chic, la fotogenica gallerista divenne presto celebre per il suo fiuto per i nuovi talenti tanto quanto per la sua straordinaria collezione di scarpe, che rapidamente si rivelò essere il suo tallone di Achille19-31. Osserva la collezionista Barbra Jakobson:

Si capì da subito che Mary era una persona competitiva. Era altezzosa, furba e aveva intuito. Era una specie di versione al femminile di Sammy Glick19-32. La galleria di Mary aprì in un momento in cui c'era una sorta di coesione nel mondo dell'arte, anche se sappiamo che non fu un vero e proprio movimento, tale da consentire agli artisti di sedersi e di stendere un manifesto, né una strategia per uscire dal Minimalismo e dalla febbre dell'Espressionismo Astratto. Fu solo un momento fortunato19-33.

Più che altro il «momento fortunato» fu un mutamento generazionale, dagli artisti del dopoguerra che venivano fuori direttamente dal Modernismo e da quelli che si erano ribellati – i minimalisti – agli artisti baby boomers, venne fuori una rigogliosa cultura pop americana. Il più ambizioso di questa nidiata di giovani arrabbiati fu un irriverente ragazzo del Texas che sbarcava il lunario cucinando al Locale, posto di ritrovo di artisti del Village gestito da Mickey Ruskin. Anche se presto Julian Schnabel sarebbe diventato famoso per i suoi Plate Paintings19-34, realizzati con cocci di piatti, la collisione tra i due ambiziosi individui in un ristorante del mondo dell'arte non produsse, lì sul momento, nessuna stoviglia rotta. La Boone accettò di andare a visitare lo studio di Schnabel, dove ebbe all'istante un'epifania stile Castelli. «La prima visita che feci allo studio di Schnabel stravolse la mia percezione dell'arte. Quanto vidi era agli antipodi rispetto agli algidi lavori dei più applauditi artisti di quel tempo», disse in The Art Dealers19-35.

Seduta dietro a un elegante scrittoio Luigi XIV, mentre con i suoi classici tacchi a spillo riga il lindo pavimento di terracotta, la Boone rievoca quel momento:

Ero lì in piedi in una stanza che non era più grande di ventisette metri quadri. Dal pavimento al soffitto tutto era letteralmente ricoperto di dipinti. E devo dirti che mi piacevano pure. Credo di avere detto a Julian qualcosa come: «Di solito ci metto un po' a entrare nelle cose, ma trovo che i tuoi lavori siano abbastanza buoni». Ma invece di esserne lusingato, Julian si sentì insultato e disse: «Abbastanza buoni? Di che stai parlando? Sono il più grande artista della mia generazione e da qui a cinque anni sarò sulla copertina di "Art Forum"»19-36.

L'ambizioso artista aveva incontrato qualcuno della sua portata: quando Schnabel le disse che gli stava dietro anche un altro gallerista (Holly Solomon), la Boone lo prese all'istante. Disse a quel tempo la Jakobson:

Negli affari si chiama occhio fisso. Ogni movimento va di pari passo con un gallerista che è capace di «vedere» un'opera prima degli altri. Negli anni Sessanta era Ivan Karp a tenere l'occhio fisso. Più avanti, durante il Minimalismo, fu di Dick Bellamy l'occhio fisso. Oggi ce l'ha Mary19-37.

Schnabel passò l'estate a girare in macchina per l'Europa con Ross Bleckner. L'ispirazione per i Plate Paintings gli venne, disse Bleckner a un giornalista, una volta in cui venne servito loro del pesce. «Disse che aveva voglia di tirare in aria tutto e farci un quadro: cibo, piatti, forchette, coltelli e tutto quanto»19-38, ricordò Bleckner. Ma adesso Schnabel dice che l'idea dei dipinti gli venne dopo avere visto delle opere di Gaudi e una parete a mosaico irregolare in un ristorante spagnolo. «Me ne andai nella mia stanza, che era tipo un armadio a muro, e la ricoprii di piatti»19-39. Ma la Boone trovò che i Plate Paintings fossero troppo «cervellotici» per essere esposti alla prima personale del giovane artista, nel febbraio del 1979. Fu solo a novembre che una mostra dei Plate Paintings di Schnabel inaugurò un nuovo fiorente movimento, il Neoespressionismo. Kay Larson, che scriveva sul «Village Voice», chiamò le opere una «selvaggia, meravigliosa sfuriata pittorica». Eugene e Barbara Schwartz, collezionisti che non avevano comprato più niente dagli anni Sessanta, si convertirono all'istante. «In venti secondi si passò dagli anni Sessanta agli Ottanta», disse Eugene dopo avere visto – e comprato – il suo primo Schnabel dalla Boone19-40.

Due delle più importanti carriere degli anni Ottanta erano state avviate. Per chi aveva dubbi sul fatto che «Boone vuol dire business», nel 1981 la gallerista Mary convinse Castelli a diventare suo socio nel rappresentare Schnabel. Disse all'epoca Castelli: «Sono entrato [nel suo studio, nda], ed è stato come quando ero andato da Jasper nel '57, o da Stella nel '59. Fu un coup de foudre»19-41. Anche Hilton Kramer ne fu colpito, e Peter Schjeldahl sul «Village Voice» scrisse: «Schnabel potrebbe essere il Francis Ford Coppola dell'arte se uno immaginasse Coppola con tutti i capi degli Studios, i distributori e gli altri magnati accanto a lui. La sua è una condizione di totale successo»19-42. Era una condizione che molti altri artisti avrebbero voluto emulare. «Julian aveva reinventato il mondo dell'arte»19-43, scrisse il critico René Ricard. Ammette la Boone: «Fu Julian a farlo»19-44.

Ma non fu solo Julian. Fu un potente mix di artisti, giovani galleristi aggressivi e collezionisti nouveau fiche che avevano riscaldato il mercato fino a farlo accendere. «In realtà Mary iniziò su scala ridotta», dice Stephen Frailey, uno dei suoi primi assistenti. «A inizio anni Ottanta eravamo solo in due a lavorare, in una minuscola galleria. Giravano pochissimi soldi. Le cose cambiarono nel giro di una notte»19-45. Di questa corsa all'arte racconta la Boone:

Di solito avevo cinquanta collezionisti, e di colpo diventarono cinquecento. C'era tutta una moltitudine di persone che veniva qui di cui non avevo mai sentito parlare, e che conosceva i nomi degli artisti, anche se non li sapeva pronunciare, perché li aveva letti sul «Times» o su qualche rivista d'arte, nomi che scorreva sistematicamente, come fosse la lista della spesa, cercando di barrarli tutti. Si vendevano anche gli artisti di serie B e C. Si vendeva tutto19-46.

Misura l'inflazione del mercato degli anni Ottanta in termini di beni materiali. Dice:

Nel 1970, quando arrivai a New York, un quadro costava quanto un'automobile. A inizio anni Ottanta, un Rothko costava quanto una casa in un quartiere residenziale. E per la fine degli anni Ottanta un quadro arrivò a costare quanto tutto un Paese. Un'opera d'arte costava quanto un'isola19-47.

La stessa Boone fu l'indiscutibile ape regina della fiorente scena. «Questa donna minuta e dagli occhi da procione è la nuova sacerdotessa del mondo dell'arte di New York»19-48, dichiarò «Life» nel 1982. Il segreto della Boone? «Avevo delle riserve nel fare dell'arte un business», dichiarò alla rivista, «ma le ho superate»19-49.

La Boone fece presto ad adattarsi alle regole inflazionane dell'offerta e della domanda. Dimostrò a se stessa di essere ambiziosa, aggressiva e rapida nel fiondarsi su una merce al pari di un qualunque operatore di Wall Street. Dice il giornalista Jeffrey Hogrefe:

Mi ricordo che Mary venne da me con gli occhi spiritati. Era straeccitata – come un biscazziere, o come un baro. Era lì che vomitava le cifre di Julian. Tanto meraviglioso era un artista, tanto alte erano le cifre. A quel tempo era strano trovare galleristi che non parlassero di soldi19-50.

«Mary era la regina delle liste d'attesa», dice un altro gallerista, «e la gente arrivava al punto di pregarla in ginocchio». Dice il collezionista Eli Broad: «I galleristi erano i custodi, potevano essere disponibili e potevano giocare d'astuzia. Se dicevi a Mary che volevi comprare un Eric Fischl, lei ti rispondeva: "Bene. Sei il novantasettesimo della lista"»19-51. Parte del potere della Boone stava nella sua abilità di manipolare la stampa. Le sue inaugurazioni erano eventi per il mondo dell'arte, e si assicurava che finissero subito in pasto alle colonne dei gossip. Disse a «Life»:

Non è possibile descrivere a parole quanto sia importante sviluppare un'immagine degli artisti che rappresento. Inserire il pittore in determinate mostre, garantirgli la giusta attenzione da parte dei giornali giusti, farlo partecipare ai party giusti nei club giusti. È tutto talmente importante19-52.

«Penso che Mary abbia aiutato a reinventare la figura del gallerista», dice il direttore di una galleria concorrente. «Sfruttò il crescente interesse dei media per il mondo dell'arte. Divenne una celebrità mediatica al pari degli artisti». La Boone aveva le sue logiche. E adesso dice:

Pensavo fosse imbarazzante fare quello che dovevo fare. Ed Kosner [ex-caporedattore delle riviste «Esquire» e «New York», nda] disse a un giornalista che stava facendo un pezzo su di me che la faccenda era che io ero una «graziosa fanciulla che vendeva dei graziosi quadri». Ma dato che era l'immagine giusta per avvicinarmi a Leo, non mi tirai indietro. Sapevo che sarei dovuta essere la ragazza in costume da bagno in piedi davanti all'automobile che cerca di vendere. Il fatto è che era questo il modo per raggiungere il grande pubblico, ed è per questo che permettevo facessero articoli del genere sulle riviste più importanti. Tre milioni di persone leggevano quelle riviste. Quanta gente invece legge le riviste d'arte? Non ho aperto una galleria solo per diventare famosa e avere il tavolo migliore in un qualche ristorante e comprare scarpe costosissime. Volevo raggiungere le masse e per riuscirci dovevo fare quello che ho fatto19-53.

E funzionò. La Boone venne presto considerata la «ragazza It»19-54 del mondo dell'arte. «Mary fu sorpresa tanto quanto gli altri dall'enfasi con cui avvenne il tutto», dice Frailey, «e inaugurò un modo del tutto nuovo, in sintonia con i tempi, di concepire la figura del gallerista, un modo di fare affari ad alto livello»19-55. Frailey descrive con dovizia di particolari un'inaugurazione alla Boone Gallery:

Fece costruire una piramide con quattrocento coppe da champagne sulla sua scrivania di mezzo metro quadro. Ed era lì che traballava dietro i bicchieri sui suoi sottili tacchi a spillo, ed era terrorizzata. E se fosse caduto tutto quanto? C'era questa specie di enfasi e stravaganza. E lei era concentrata sui risultati19-56.

Il suo comportamento compulsivo in ogni campo a volte si manifestava con eloquenti sintomi fisici. «Quando Mary s'infuriava con me, le iniziava a uscire sangue dal naso», ricorda un suo assistente. Da brava stacanovista, la Boone lavorava normalmente quattordici ore al giorno. Ma era anche un animale da party tanto quanto Basquiat. Dice Frailey: «Aveva una resistenza fuori dal comune. Anche se la notte prima aveva passato una serata selvaggia all'Area, la mattina dopo alle sei in punto era sveglia, in forma perfetta, lucida e professionale»19-57.

Se la Boone in sé era una pubblicità ambulante del mondo dell'arte anni Ottanta, la sua galleria, adesso trasferitasi in uno spazio più grande, al 417 di West Broadway, era uno spaccato dell'estetica minimalista di SoHo di quegli anni. Dalla singolare facciata di pannelli in vetro smerigliato al lucernario e alle pareti bianche, la galleria era un saggio di eleganza e severo controllo. Il fanatico senso dell'ordine della Boone era visibile in ogni dettaglio: dalla biblioteca in cui venivano archiviati gli artisti a una linda flottiglia di raccoglitori di documenti in quercia con sopra delle scintillanti placche in ottone e la scritta «Rendiconti». I meticolosi rituali adottati – utilizzando, ad esempio, penne verdi, rosse e nere per codificare i suoi registri di lavoro – erano leggendari. Feldman ricorda di una volta in cui lui e la Boone erano insieme in viaggio d'affari e passarono delle ore a cercare una penna verde, che non solo doveva essere verde, ma doveva essere di una marca particolare19-58.

Insieme a Schnabel tra gli artisti della Boone c'erano David Salle, Gary Stephan, Ross Bleckner ed Eric Fischl. Una volta disse a un giornalista tedesco che sperava che «nei prossimi venticinque anni riuscirò a esporre tanti grandi pittori quanti quelli di Leo. Delle figure fondamentali! Il meglio. Una sorta di eroi dell'arte»19-59.

Ma quando Basquiat entrò nella scuderia della Boone, il suo primo «eroe», Schnabel, l'aveva abbandonata per la solida Pace Gallery, gestita dal gallerista e produttore cinematografico Arne Glimcher. Nel 1984 Schnabel dichiarò al «New York Times»:

Passai alla Pace perché c'erano un paio di cose che volevo tenere distinte. La gente disse che avevo cambiato per una qualche strategia di marketing di Mary e ci accusò di avere cospirato per farne una montatura […]. Ma così facendo non poté più essere accusata di avere manipolato la mia carriera, così come la gente non poté più dire che le uniche cose valide della sua galleria erano le mie opere. Cosa peraltro molto stupida da dire19-60.

«Quando Julian andò via, la galleria entrò in lutto»19-61, dice Frailey. La presenza di Basquiat dovette sembrare così una sorta di antidoto. A detta della Boone l'artista fece parecchie pressioni per riuscire a entrare nella sua galleria, sin dai tempi della sua furente uscita dall'Annina Nosei Gallery. Dice la Boone:

Per quanto Jean-Michel potesse apparire dispersivo, in realtà era tremendamente calcolatore [sic], e quello che aveva in mente era riuscire a stare insieme ad artisti che erano dei pittori seri, come Julian, David ed Eric. Dopo che nel 1983 venne esposto alla Biennale del Whitney, iniziò a fare in modo che gente come Henry Geldzahler mi contattasse per vedere se lo prendevo. Mi fece letteralmente la corte. E altra gente, tipo Robert Miller, fece un ottimo lavoro per lui19-62.

A detta di Don e Mera Rubell, la gallerista e l'artista si conobbero infine al party della Biennale del Whitney. Ricorda Mera Rubell: «Lo videro tutti che tra i due scattò subito un qualcosa di sessuale. Lei era la gallerista del momento. Ma Jean-Michel mordeva qualunque mano gli desse da mangiare. Odiava l'autorità. Non era gestibile. Era uno spirito libero»19-63. Dice Gagosian:

Dopo il party Jean-Michel mi disse: «Mary mi sta tenendo d'occhio». E in effetti teneva d'occhio lo studio, e di tanto in tanto metteva da parte un quadro. Lo misi all'erta sulla Boone, ma ero parte in causa, come una cameriera che ti dà consigli su dove non andare a mangiare19-64.

«Mary Boone è furba, piacevole ed elegante, proprio come me»19-65, disse Basquiat a Torton. Ma l'artista e la gallerista arrivarono ai ferri corti praticamente da subito. Non è facile immaginare che la Boone potesse tollerare Basquiat che sbucava in pigiama nel bel mezzo del pomeriggio, come era stata sua abitudine nei suoi discussi giorni alla Nosei Gallery. «Lui viveva nel caos più totale, e lei era precisa e ipercontrollata», dice Frailey. «Mi ricordo che una volta, durante l'allestimento di una mostra, arrivò quasi alle mani con lui»19-66.

A differenza della Boone, che un suo socio chiama «telefonodipendente», Basquiat non aveva un telefono, e insisteva perché la Boone gli mandasse dei telegrammi ogni volta che aveva bisogno di contattarlo. E Basquiat si divertiva a farle degli scherzetti crudeli. Racconta Brett De Palma che una volta invitò a pranzo la Boone e Bischofberger al loft di Crosby Street. Prima che arrivassero Basquiat fece vedere a De Palma una busta con un paio di anguille senza pelle che aveva fatto comprare a Steve Torton da Dean & DeLuca. «Era il suo modo per dire: "Serpi alle serpi"», dice De Palma. «Nella maggior parte delle sue relazioni stava lì a mettere alla prova e a giocare con la gente»19-67. Ricorda Torton: «Andai a prendere questa cazzo di anguilla gigantesca, e lui decorò il piatto come fosse un quadro, con tutta una serie di contorni. Ci divertimmo da morire. E mentre loro erano lì che salivano in ascensore noi fumavamo crack»19-68. Basquiat servì le due anguille ai due sbalorditi galleristi, insistendo perché le mangiassero. Continua Torton: «Era evidente che non le avrebbero mangiate, anche se era anguilla affumicata da centoventi dollari. Andò tipo così: "Oh, Jean, sei un tale burlone". Surronded by Snakes fu uno dei quadri che dipinse a quel tempo»19-69.

Una volta che la Boone era a Los Angeles per una mostra da Gagosian, restò affascinata da un quadro dorato che aveva fatto Basquiat. Ricorda Matt Dike:

Avevo costruito questa gigantesca struttura fatta di assicelle, e Jean l'aveva dipinta color oro disegnandoci sopra una grande testa. Mary la vide e disse: «La adoro! È favolosa! La voglio!». E dopo che fu andata via, Jean disse: «Che si fotta, non l'avrà mai». Tirò fuori un'enorme e lunga tela e usò uno dei suoi pastelli a olio per disegnarci sopra una lunga linea e una freccia. Poi scrisse «Gold Copyright» e disse: «Credo sia il miglior lavoro che abbia mai fatto. Mandatela a Mary Boone»19-70.

Secondo Lenore Schorr, una della prime collezioniste di Basquiat, fu lui stesso a illustrare chiaramente quello che pensava della Boone: fece un grande dipinto di un biglietto di un dollaro sostituendo la testa di Washington con quella della gallerista19-71. Basquiat fece un quadro che si chiamava Mary's Fucking Shoes e un altro ritratto della Boone come Monnalisa con gli occhi cancellati19-72.

La Boone cercò di adattarsi ai suoi modi da cattivo ragazzo. Ammette:

Jean-Michel era una bomba a orologeria sempre sul punto di esplodere. Lo sapevo sin dall'inizio. Non fu come con la maggior parte dei miei artisti, tipo Julian Schnabel, Eric Fischl o Ross Bleckner, tutti artisti per conoscere i quali mi sono data del tempo, con la sensazione che li avrei rappresentati a lungo. Con Jean-Michel non fu così, né in partenza né mai. Sapevo che quell'uomo era una specie di farfalla. Sapevo che avrei dovuto tenere la mano aperta e che quando voleva si sarebbe posato lì, e quando voleva sarebbe volato via. Era troppo preoccupato da quello che pubblico, collezionisti e critica pensavano. Era troppo preoccupato dai prezzi e dai soldi. Era troppo consapevole del suo posto nel mondo, e da con chi avrebbe dovuto cenare, e da tutto quello che ciò comportava. Era troppo concentrato su quello che c'era all'esterno, e non aveva una vita interiore altrettanto solida19-73.

La sua idea è che Basquiat avesse un'infanzia irrisolta. «Probabilmente Jean-Michel era stato solo un bambino disubbidiente. Ma a guardare la sua personalità, i suoi estremi sbalzi d'umore, ti accorgevi che era sempre paranoico, e non era solo un effetto delle droghe. Era ossessionato dal padre»19-74.

La prima mostra di Basquiat alla Mary Boone Gallery, che aprì il 5 maggio del 198419-75, fu un successo strepitoso, malgrado la stessa Boone pensasse che era troppo presto:

L'idea era di farla nell'autunno del 1985, ma poi Julian se ne andò, e pensai che a quel punto ci fosse bisogno di un qualcosa di veramente forte. Di solito non organizzo immediatamente mostre dei miei artisti, non senza prima avere creato un mercato per le loro opere. E così fu una decisione presa all'ultimo minuto19-76.

All'inaugurazione c'erano tutti, inclusi il padre dell'artista, che sembrava apprezzare le opere del figlio soltanto in pubblico, e Andy Warhol. Ricorda Jeff Bretschneider:

Jean era riuscito ad avere una sua stabilità. Andy se ne stava in piedi all'ingresso della galleria, e rimase lì per tutta la durata della mostra. Era un barometro che misurava la posizione di Jean nel mondo dell'arte. Ma i quadri erano più che altro una versione carta da parati del suo lavoro. L'inaugurazione fu una specie di circo. 0 come il Giorno delle Locuste, con la gente che spingeva contro la corda di velluto che separava Jean-Michel dalla massa che si accalcava, e Jean-Michel sceglieva chi giudicava appropriato. Una donna gli passò il suo bambino, e lui lo sollevò con le braccia sopra di sé guardandoci con un grosso sorriso stampato sulla faccia. Non me lo scorderò mai19-77.

Per l'occasione Basquiat aveva dipinto un omaggio al suo mentore: Brown Spots19-78, un ritratto di Warhol a forma di banana punteggiata di marrone – nello spirito della celebre copertina dell'album dei Velvet Underground disegnata da lui. In cambio Warhol dipinse Basquiat con un sospensorio, come il David di Michelangelo: una reciproca masturbazione tipica del mondo dell'arte.

Il bel catalogo inizia con un Poem to Basquiat dell'amico artista A.R. Penck, che finisce con una strana nota ammonitrice: «Be careful baby… the big splash the hard crash»19-79. Erano in mostra tredici grandi dipinti, inclusi Pakiderm19-80, Bird as Buddha, Speaking Voice e Hallop. Bird as Buddha ha colori vivaci, in stile quasi impressionistico. Un altro dipinto, Grazing, Soup to Nuts, raffigura un dinosauro scheletrico che mangia. Uno dei pochi quadri della mostra che ha delle parole, Deaf, è il ritratto rosso rubino di un «Blind Harp Player©». I prezzi delle opere andavano dai dieci ai quindicimila dollari. Scrisse Vivien Raynor sul «New York Times»:

Il giovane artista sa usare bene il colore […]. Ma ancor più notevole è il raffinato uso della linea di Basquiat e il suo modo di racchiudere le composizioni, entrambi indizi di un'educazione alla forma che in realtà non ha mai ricevuto […]. Allo stato attuale Basquiat è un pittore promettente che ha l'opportunità di diventare bravo fintanto che riuscirà a opporsi alle forze che vogliono farne una mascotte del mondo dell'arte19-81.

Ma Basquiat faceva sempre più difficoltà a resistere a tali forze. Se il suo obiettivo era quello di spegnersi come i suoi idoli, era sulla buona strada. «Questa mattina Jean-Michel mi ha chiamato alle 8:00 e abbiamo filosofeggiato», secondo i Diari di Warhol del 2 luglio del 1984. «Aveva letto il libro di Belushi e s'era messo paura. Gli dissi che se anche lui aveva intenzione di diventare una leggenda bastava solo che continuasse ad essere com'era»19-82. Solo Keith Haring capì a perfezione il dilemma di chi raggiunge la celebrità nel giro di una notte. Disse Haring:

Era costretto ad essere all'altezza della fama di giovane prodigio, che è una sorta di falsa santità. Al tempo stesso era costretto ad essere all'altezza della propria natura ribelle e, ovviamente, delle tentazioni che gli procuravano tonnellate di soldi. Il problema del dover gestire il successo non andrebbe sottovalutato19-83.

Basquiat doveva gestire anche un'altra cosa: la pervasiva, per quanto sottile, percezione del razzismo. «In quanto nero veniva trattato sempre da outsider», dice Fab 5 Freddy, «e anche se cominciò a viaggiare in Concorde, non riuscì mai a fermare un taxi»19-84.