Primo makama
Nel nome di Allah, colui che agisce con misericordia, il Misericordioso
Io, Abu Obeid el-Jozjani, ti affido queste parole. A me sono state confidate da colui che fu mio maestro, mio amico e mia guida per venticinque anni: Abu Alì ibn Sina, Avicenna per le genti d’Occidente, principe dei medici, la cui saggezza e il cui sapere hanno abbagliato tutti gli uomini, fossero questi califfi, visir, principi, mendicanti, capi militari o poeti. Da Samarcanda a Shiraz, dalle porte della Città Rotonda a quelle delle settantadue nazioni, dalla magnificenza dei palazzi agli umili borghi del Tabaristan, la grandezza del suo nome risuona ancora.
Io l’amavo come si amano la felicità e la giustizia, come si amano, devo confessartelo, gli amori impossibili. Quando leggerai ciò che segue, saprai che sorta d’uomo fosse. Comprenderai il mio pensiero. Che Allah ti accompagni nel tuo cammino.
Ti lascio oggi al mio maestro.
Seguilo senza timore. Abbandona la tua mano nella sua, e non lasciarla mai. Lui ti condurrà sulle strade della Persia, lungo le carovaniere, fino alle grandi oasi della Sogdiana, fino ai confini del Turkestan.
Seguilo attraverso il vasto altopiano che è il mio paese, a volte torrido, altre gelido, attraverso le sue distese desertiche e salate, ove di tanto in tanto, nel mezzo di oasi lussureggianti, sorgeranno per il tuo piacere città d’una bellezza tanto inattesa che ti parrà irreale. Per te le carovane scaricheranno gemme e spezie del paese giallo, armature di Siria, avori di Bisanzio. Nei bazar di Isfahan avrai ai tuoi piedi pellicce, ambra, miele e schiave bianche.
Nelle stradine dei suk le tue narici si riempiranno di profumi rari e di aromi preziosi. Dormirai sotto le stelle, in deserti pietrosi, o sulle pendici dell’Elburz, nello scenario della cima del Demavend solcata da strisce di neve, che cercano di catturare quel che resta della luce del giorno.
Dormirai tra i pezzenti e nello splendore dei palazzi. Attraverserai città dimenticate, con stradine strette e case senza finestre. Penetrerai i segreti dei potenti, l’intimità dei serragli, la voluttà degli harem. Vedrai soffrire allo stesso modo principi e mendicanti, e ti convincerai così, se ancora qualche dubbio sussistesse nella tua mente, che siamo eternamente uguali di fronte al dolore. Come una giumenta impazzita, il cuore ti balzerà nel petto quando la tua amata ti svelerà il tesoro del suo volto, scoperto sotto la luminosità delle stelle: poiché tu amerai più di una donna, e più di una donna ti adulerà. Apprenderai il disprezzo davanti alla piccolezza dei potenti, e conoscerai il rispetto di fronte alla grandezza degli ultimi.
Guarda, oggi siamo a Bukhara, capitale della provincia del Khorasan, a nord del fiume Amu-Darya. È l’estate dell’anno 998. Il mio maestro ha appena diciott’anni…
Il vecchio el-Arudi giaceva disteso su una stuoia di paglia intrecciata, le mani piegate sul basso ventre, il viso rosso, congestionato dal dolore.
«È così da molti giorni», sussurrò Salwa, la sua sposa, una curda dalla pelle scura della contrada di Harki-Oramar.
Chinandosi sul marito, gli disse premurosamente:
«Lo sceicco è venuto per guarirti».
Un gemito di dolore fu la sola reazione di Abu el-Hosayn.
Ibn Sina si inginocchiò vicino a lui e gli tastò il polso, col palmo rivolto verso l’alto, nel punto esatto in cui le arterie affiorano sotto la pelle. Chiuse gli occhi per concentrarsi meglio e rimase così a lungo, con espressione fissa e tesa. Poi girò il palmo verso il basso.
«È grave?» chiese Salwa preoccupata.
Alì non rispose. Alzò lentamente la camicia dal corpo fradicio di sudore e spostò le mani che il malato teneva contratte sul basso ventre. Tastò con precauzione la zona sopra il pube: era gonfia come un otre.
«El-Arudi, fratello mio, da quanto tempo non orini?»
«Tre giorni, quattro, sei, non me lo ricordo più. Eppure, l’Invincibile mi è testimone, non è che non ne senta il bisogno, o che non ci abbia provato».
«È grave?»
Questa volta la domanda era stata posta dalla figlia di el-Arudi, che era discretamente scivolata nella stanza. Aveva appena quindici anni, ma in lei era già sbocciato tutto il mistero della donna. Di pelle molto scura come la madre, aveva gli occhi a mandorla e un volto purissimo, sovrastato da una folta capigliatura nera che le scendeva fino alle anche.
Ibn Sina le rivolse un sorriso che voleva essere rassicurante e riprese il suo esame, concentrandosi questa volta sul membro dell’uomo, che tastò per tutta la sua lunghezza. Dalla bisaccia prese uno strumento – un punteruolo di ferro temperato, dalla punta triangolare e affilata, fissato a un manico di legno – e dei fiori di papavero bianco, di giusquiamo e di aloe, che porse alla fanciulla.
«Prendi, Warda, preparami un decotto e fa’ bollire dell’acqua».
«Figlio di Sina, abbi pietà, allevia la mia pena», gemeva il curdo toccando con la mano un lembo dell’abito di Ibn Sina, segno, secondo la tradizione, di disperazione e di preghiera.
«Se piacerà all’Altissimo, così sarà, venerabile Abu el-Hosayn».
«Ma di cosa soffre?» chiese Salwa, torcendo nervosa le mani.
«La via che permette all’orina di scorrere è ostruita».
«Ma com’è possibile?»
«In certi casi l’ostruzione può essere dovuta a uno sviluppo eccessivo di ciò che noi chiamiamo la ghiandola che sta davanti1 oppure alla presenza di un sassolino formato da una concrezione di sali minerali. Per il tuo sposo, si tratta di questa seconda causa».
«Figlio di Sina, non capisco niente delle tue concrezioni, e nemmeno di questa ghiandola che sta davanti. Ma se tu parli un linguaggio incomprensibile ai mortali, significa che le tue parole devono provenire da molto in alto. Perciò tu salverai mio marito».
«Se a Lui piacerà», ripeté con dolcezza Ibn Sina.
Warda era tornata, porgendogli una ciotola di terracotta in cui macerava il decotto e un grosso recipiente pieno d’acqua bollente.
Alì sollevò lentamente la testa del malato e gli avvicinò la ciotola alle labbra.
«Devi bere questo…»
«Bere? Ma sheikh el-rais, non vedi che la mia vescica sembra la mammella di una vacca che deve allattare? Non sopporterebbe una goccia di più!»
«Non aver paura: questa goccia ti farà bene».
Abu el-Hosayn ingurgitò il liquido lappando come un gatto e si lasciò ricadere sulla schiena, sfinito dallo sforzo.
«Ora bisogna lasciare al medicamento il tempo di agire».
Il medico immerse il suo strumento nell’acqua che fumava ancora e prese nuovamente il polso del malato. In breve constatò che la pulsazione delle arterie rallentava e che il volto del paziente, prima contratto per il dolore, si distendeva. Inginocchiata presso il padre, Warda non staccava gli occhi da Alì: nelle sue pupille si leggeva un’infinita venerazione.
«Vieni Warda, aiutami a spogliarlo».
Un momento dopo, el-Arudi era nudo come al momento della nascita.
Alì frugò di nuovo nella bisaccia e ne trasse un filo piuttosto grosso, che annodò attorno al membro. Fatta la legatura, prese il punteruolo.
Abu el-Hosayn aveva chiuso gli occhi e pareva che dormisse.
«Perché hai fatto un nodo attorno al suo membro?» chiese Salwa preoccupata.
«Per evitare che il sasso che si trova nel canale urinario mi sfugga retrocedendo verso la vescica. Ora ho bisogno del vostro aiuto: Salwa e Warda, tenetegli ciascuna un braccio».
Dopo essersi assicurato ancora una volta che i fiori di papavero avessero reso insensibili le membra del malato, sollevò il membro. Con pollice e indice aprì il meato e introdusse lentamente la punta affilata nell’uretra, fino a che sentì una resistenza.
«Credo di avere trovato la pietra: ora devo forarla o romperla».
Fece girare più volte lo strumento su se stesso, da sinistra a destra e poi da destra a sinistra, interrompendosi ogni tanto come se cercasse di leggere attraverso il corpo del malato.
Aveva la fronte umida di sudore e una certa tensione si era impadronita di lui, ma il gesto restava estremamente preciso.
«Credo di aver forato la pietra…»
Con le stesse precauzioni con cui lo aveva introdotto, ritirò il punteruolo. Alcune gocce di orina miste a filamenti sanguigni uscirono dal meato. Alì allora sciolse il nodo, e subito il liquido organico sprizzò in un getto potente e regolare. Compresse la verga, e una polvere brunastra si mescolò all’orina.
«Ora tutto andrà bene», disse tastando con soddisfazione il basso ventre del vecchio. «Il rigonfiamento della vescica è sparito e la superficie al di sopra del pube ha ritrovato il suo aspetto normale».
«Meriti davvero il titolo di sheikh el-rais, maestro dei sapienti!» esclamò Salwa. «Che Allah prolunghi la tua vita di mille anni!»
«Che tu sia ringraziata, donna, ma io mi accontenterei della metà».
El-Arudi si mosse piano sulla stuoia, prima di ripiombare nel suo torpore.
Ibn Sina porse a Salwa alcuni semi di papavero.
«Gli farai bere un secondo decotto al tramonto, e dell’acqua di rose. Nella sua malattia, bere è un fattore di guarigione».
«Quando penso che ieri eri tu che ti chinavi davanti agli adulti, mentre oggi regni come un signore sulle teste canute».
«Perdonami, amatissima Salwa, ma io non ricordo di essermi mai chinato di fronte a nessuno».
«Figlio mio, se non temessi di eccitare ancor di più il tuo orgoglio, direi che purtroppo è vero. Anche quando eri avvolto nelle fasce conservavi un atteggiamento regale! Ma che importa! Tutto ti è perdonato, poiché, com’è detto nel Libro: “Di colui che renderà la vita a un uomo si terrà conto come se l’avesse resa all’umanità intera…”»
Alì raccolse la sua bisaccia.
«Aspetta, ho qualcosa per te», fece la donna.
Lui cercò di protestare, ma lei era già sparita.
Anche Warda si alzò.
«Non ti ho ringraziato», disse timidamente.
«È inutile: so che nel silenzio del tuo cuore vi sono le parole giuste».
La fanciulla abbassò gli occhi, quasi vergognandosi di constatare che lui poteva leggere in lei con tanta facilità.
«È per te».
La moglie di el-Arudi era tornata e gli tendeva un oggetto. Era una kharmèk, una piccola sfera di vetro azzurrognolo sospesa all’estremità di una cordicella. Prima che avesse il tempo di reagire, la donna gliela fece scivolare sopra la testa e l’annodò attorno al collo.
«Così, né le maldicenze dei malvagi né i dèmoni, fossero anche temibili come quello che uccise l’intrepido Rustam2, potranno aver presa su di te».
«Tu sai che io non credo al malocchio, ma poiché tu lo desideri, ti prometto che questo dono mi accompagnerà fintanto che vivrò».
«Credimi, figlio, quando il Creatore ha dato a uno stesso uomo il genio e la bellezza di migliaia di altri, quell’uomo dovrà guardarsi le spalle fino a che splenderà il sole. Warda», riprese la donna, sedendosi al capezzale dello sposo, «servi al nostro ospite un bicchiere di tè: avrà sete».
«Non volermene, ma si fa tardi e a casa di mio padre mi attendono degli ospiti».
La moglie di el-Arudi si inchinò.
«In questo caso, la pace sia con te, figlio di Sina. Sei veramente un essere particolare».
«E anche su di te». Poi, rivolgendosi a Warda, le chiese:
«Mi accompagni all’uscita?»
Lei annuì con commovente spontaneità.
Una volta fuori, nelle prime luci del tramonto, Warda seppe, senza che vi fosse bisogno di scambiare nemmeno una parola, che anche lui aveva atteso quel momento.
«Il tuo lavoro all’ospedale non è troppo faticoso?» gli chiese un po’ goffamente.
«L’insegnamento e il lavoro valgono come una preghiera. Illuminano la scala del Paradiso e ci proteggono contro gli errori del peccato, ma», aggiunse d’un fiato, «a volte anche il peccato ha valore di preghiera. Warda, luce dei miei occhi…»
Turbata, lei abbassò le palpebre e gli si avvicinò. Sotto l’abito s’indovinava il profilo fermo del seno, che si sollevava al ritmo del suo respiro, bruscamente accelerato.
Da quando la famiglia Sina aveva lasciato Isfahan per venire a stabilirsi a Bukhara, a un tiro di sasso dalla sua casa, la fanciulla si era sentita attratta da lui. Già cinque anni… cinque anni di ricordi dolci come il miele.
«Dammi l’acqua della tua bocca», sussurrò.
Il giovane strinse la sua coscia sotto la lana grezza. Risalì lentamente verso la curva delle anche, e l’attirò contro di sé. Le loro bocche si unirono con dolcezza, poi si separarono e si unirono ancora, con più fervore. I vestiti erano divenuti un ostacolo insopportabile. Avrebbe voluto scivolare in lei, far cadere ogni più piccola barriera di tessuto, ultimo impedimento che separava i loro corpi; confuso, cercò di staccarsi, ma lei lo trattenne con tutta la forza dei suoi quindici anni.
«Oh, mio re, non te ne andare, non ancora…»
«Tu hai bevuto alla mia bocca, Warda. Ora sono io che ho sete, una sete che mi brucia il corpo e mi consuma le labbra. Devi guardartene, Warda, dobbiamo guardarci dalla nostra febbre. Domani… più tardi».
Ma lei si strinse ancora contro di lui.
«Bevi, bevi in me», lo supplicò.
«No, anima mia. Il mio corpo non si accontenterebbe del ruscello delle tue labbra: gli occorrerebbe l’oceano per appagare il suo desiderio. Dobbiamo guardarcene; dopo, non potremo più».
E ripeté:
«Domani… più tardi».
«Ma io voglio, cuore mio…»
Il giovane scosse il capo e depose furtivamente un bacio sulla sua fronte, prima di fuggire via.
Gli invitati erano riuniti nel giardino della piccola casa d’argilla, attorno a una tavola sistemata sotto una pergola di vite.
Al posto d’onore stava Abd Allah, il padre di Alì. Aveva una sessantina d’anni, ed era d’una snellezza poco comune e di costituzione asciutta che si era fortificata con l’età. La barba bianchissima, tagliata a punta, incorniciava il viso angoloso, e gli occhi emanavano una naturale bontà che nulla, pareva, avrebbe potuto alterare. Era nativo di Balkh, una delle quattro capitali della provincia del Khorasan. Molto presto aveva abbandonato quella città per andare a Karmaithan, non lontano da Bukhara, dove aveva vissuto per alcuni anni. Si era poi trasferito nella vicina città di Isfahan, dove aveva incontrato quella che sarebbe divenuta sua moglie. Dopo la nascita dei due figli, la famiglia era venuta ad abitare a Bukhara. Là Abd Allah era stato nominato collettore delle imposte, impiego che esercitava tuttora al servizio del re, Nuh II.
Al suo fianco stava il figlio cadetto, Mahmud, di tredici anni.
Benché di aspetto gracile, il fratello di Ibn Sina pareva molto più grande della sua età. Il volto rotondo e i capelli ricci gli conferivano, almeno all’apparenza, un’espressione vivace e allegra, e un po’ distaccata.
«Qualcuno vuole un’altra focaccia?»
Setareh, la madre di Alì, fece la sua apparizione. Alta, bruna, quasi longilinea, si muoveva lentamente nel suo vestito di lana grezza, e il volto appena segnato dalle rughe emanava una certa nobiltà. Il suo nome significava stella.
Offrì un vassoio agli invitati.
Mahmud alzò subito la mano.
«Fratello mio, ma non sei mai sazio?» gli chiese Alì con un sorriso canzonatorio.
«Hai la memoria corta, figlio mio», lo rimproverò Setareh. «Alla sua età ti mangiavi una palma coi datteri, il tronco e tutto!»
«Può darsi, ma io almeno ne ho tratto profitto», ribatté Alì con tono di superiorità, «mentre lui», e indicò il fratello col dito, «mangia, mangia e non ne trae alcun beneficio. È sottile come un capello: un colpo di vento lo spazzerebbe via».
Vedendo la faccia offesa di Mahmud gli invitati scoppiarono a ridere.
Da sempre, l’ultimo giorno del mese la maggior parte degli intellettuali di Bukhara aveva preso l’abitudine di riunirsi nella casa di Sina: quella sera erano in quattro.
C’era Hosayn ibn Zayla, l’allievo prediletto di Ibn Sina. Poi un uomo sulla sessantina, il volto incupito da un sottile collare di barba grigia, che si chiamava Firdussi. Non era intimo della famiglia: proveniva da Tus, nella zona di Khorasan, ed era di passaggio nella regione per sistemare una faccenda di interessi fondiari. Si diceva che fosse un grande poeta. C’era anche un musico, el-Mughanni, e infine un personaggio considerato da tutti uno degli spiriti più dotati del tempo: Ibn Ahmad el-Biruni. Lo chiamavano già el-ustaz, il maestro. Di sette anni più vecchio di Alì, aveva lasciato la città natale di Uzbek per entrare al servizio dell’emiro Nuh II. Fu lui a venire in soccorso di Mahmud.
«Che solo la mia unghia mi gratti la schiena, e che solo il mio piede entri in camera mia! Mahmud, figlio mio, caccia via questi invidiosi, che si occupino degli affari loro».
«Hai ragione, maestro el-Biruni, ma le loro parole mi sono indifferenti come le zanzare sul becco del falco!»
E rivolgendosi alla madre con un sorriso malizioso disse:
«Mamèk, una terza focaccia?»
«Bisogna confessare che sono deliziose», disse il musico. «Non avrei mai pensato che focacce senza lievito potessero essere così saporite. Da dove viene questa ricetta?»
La madre di Ibn Sina abbassò gli occhi: sembrava che quella domanda l’avesse turbata.
«Oh, è una vecchia tradizione: mia madre l’aveva avuta da sua madre, la quale a sua volta l’aveva imparata da suoi lontani progenitori».
«Comunque è strano», disse il giovane Mahmud. «Tu cucini focacce solo una volta all’anno: col successo che hanno, potresti essere più generosa!»
Setareh gettò uno sguardo imbarazzato verso il suo sposo, e per darsi un contegno si mise a bruciare alcune perle d’incenso.
«Basta così! E poi lascia in pace tua madre: le tue domande sono fastidiose come il ronzio delle mosche!»
Un po’ sorpreso dalla reazione del padre, il ragazzo si rannicchiò in un angolo del divano, la faccia immusonita.
«Venerabile Firdussi, come vanno le cose nella buona città di Tus?» chiese el-Biruni.
Firdussi pescò qualche mandorla da uno dei numerosi piatti disposti su un grande vassoio di rame cesellato, poi rispose con aria vagamente annoiata:
«Il fiume Harat sfida sempre il sole, e i contrafforti del Binalund dominano ancora il mausoleo del beneamato Harun el-Rashid. Le cose vanno bene, nella città di Tus».
«E le tartarughe?» chiese subito il fratello cadetto di Alì. «Si dice che laggiù alcune siano grandi come montoni e che…»
«Figlio mio», lo interruppe Abd Allah, «voglio imputare alla tua giovane età l’inutilità della domanda. Questa sera abbiamo la fortuna di avere sotto il nostro tetto uno dei più grandi poeti della nostra letteratura e tu non trovi di meglio che chiedergli notizie della sua città! Interrogalo piuttosto sull’opera colossale che sta redigendo! Sai almeno di cosa parlo?»
Mahmud scosse il capo, imbarazzato.
«Un poema, figlio mio. Ma un poema che sfida l’immaginazione per la sua importanza».
Rivolgendosi poi a Firdussi, gli chiese:
«Da quanti versi è composto?»
«A tutt’oggi, trentacinquemila. Ma sono solo a metà».
Impressionato, Alì chiese a sua volta:
«Mi hanno detto che ti ispiri al Khvatay-namak, una storia dei re persiani a partire dai tempi mitici. È vero?»
«Esattamente, e la traduzione di questo testo scritto in pahlavi mi pone grossi problemi».
«Quando pensi di terminare la tua opera?»
«Ahimè, non prima di una dozzina d’anni. Alla fine, vi avrò lavorato per trentacinque anni, il che non rappresenta che un chicco di riso di fronte all’eternità!»
Un mormorio di ammirazione percorse i presenti.
«Trentacinque anni di scrittura», sospirò il musico. «Se dovessi far vibrare il mio liuto così a lungo, credo che finirebbe per suonare da solo! Mi chiedo dove un uomo possa trovare l’energia necessaria per compiere un lavoro così prodigioso».
Firdussi fece un gesto evasivo.
«L’amore, fratello mio, unicamente l’amore. Mi sono dato a quest’impresa per gli occhi della mia unica figlia: vendendo l’opera a uno dei nostri principi, pensavo di ottenere per lei una dote onorevole, ma ormai – ahimè – la dote si è trasformata in eredità!»
«Hai deciso che titolo darai al poema?»
«Lo Shah-nameh, Il Libro dei Re. A volte, quando penso alla lunga strada che mi attende, un brivido di paura percorre il mio spirito. È meglio che cambiamo argomento: maestro el-Biruni, parlaci dell’emiro. È vero che la sua salute peggiora ogni giorno di più?»
«È vero: nessuno ci capisce niente».
«Perché è circondato da analfabeti, da lucertole avvizzite!»
Indicò poi Alì.
«Ecco chi potrebbe strappare Nuh dalle grinfie della malattia: che aspettano per venirglielo a chiedere? Tu, maestro el-Biruni, che sei addentro ai segreti della corte, tu devi saperlo».
«Ahimè, io non ne so più di voi. Non hanno trascurato i consigli di nessun sapiente ma, quando ho proposto loro i servigi di tuo figlio, i loro volti si sono oscurati come se avessi ingiuriato il Santo Nome del Profeta. Non capisco questo atteggiamento».
Firdussi scosse il capo tristemente.
«Invidia, stupidità… questi uomini sono capaci solo di allungarsi il collo3, guidati come sono unicamente dal proprio interesse».
«E quello del loro paziente? È assurdo, contrario ai sacri principi della medicina!»
«È certo la mia giovane età che li spaventa», disse Alì con un sorriso.
«Che li terrorizza, vorrai dire!» rincarò el-Biruni. «Se per loro disgrazia tu riuscissi a salvare il sovrano, la permanenza a palazzo di questi vecchi presuntuosi si ridurrebbe considerevolmente. Oltretutto, io sono convinto che questa non sia la sola ragione del loro rifiuto: deve certamente trattarsi di qualcos’altro».
«L’emiro è al corrente del loro comportamento?»
«Nuh è sull’orlo del coma: è già tanto se percepisce ancora i battiti del suo cuore».
El-Biruni riprese:
«Ma non è solo la salute dell’emiro a essere in pericolo: lo è anche il suo potere».
«Era prevedibile», rincarò Abd Allah. «Da qualche tempo si trova nella condizione di debitore. Ha implorato l’aiuto dei Ghaznawidi4, quei turchi pidocchiosi, e l’ha ottenuto. In cambio, è stato obbligato a cedere la prefettura di Khorasan a Sabuktigin e a suo figlio Mahmud, che già chiamano il re di Ghazna. Sabuktigin è morto e Mahmud lascia intravedere un appetito feroce».
Firdussi sospirò.
«Dopo la conquista araba e la caduta degli abbassidi, stiamo correndo verso l’abisso. La nostra terra è lacerata: Samanidi, Buyidi, Zyaridi e Kakuyidi, tante dinastie ognuna col suo piccolo re, che regnano in piena confusione. E nell’ombra l’aquila turca che si fa beffe dei nostri signori e trae profitto dalle loro divisioni. Il fatto è che questo non sarebbe mai successo se, per rafforzare i loro eserciti, non avessero comprato, senza discernimento, intere legioni di schiavi, per la maggior parte turchi. Hanno lasciato che si insediassero impunemente nei ranghi più alti, nominandoli di volta in volta generali, scudieri o marescialli di corte, cedendo a qualsiasi loro pretesa. La conclusione è che i nostri principi hanno allevato un drago che ora si appresta a divorarli».
«Ah», sospirò Abd Allah, gettando il capo all’indietro, «come fu preveggente il Profeta quando disse: “I popoli hanno i governi che si meritano”».
Tutti approvarono unanimemente l’opinione del loro ospite e la discussione sull’incerto futuro della regione riprese. Ibn Sina ed el-Biruni scelsero quel momento per ritirarsi discretamente in un angolo del cortile. L’aria notturna era dolce, colma d’un profumo di muschio secco. Alì indicò un punto del firmamento.
«Il velo dai sette colori…»
El-Biruni lo guardò stupito.
«Perché dici così?»
«Secondo la credenza popolare, l’universo è composto da sette cieli: il primo sarebbe di pietra dura, il secondo di ferro, il terzo di rame, il quarto d’argento, il quinto d’oro, il sesto di smeraldo e il settimo di rubino».
«È originale, ma bisogna ammettere che non è molto scientifico».
Dal luogo in cui si trovavano, giungevano scoppi di voci appassionate e brandelli di frasi, misti al canto rassicurante di una fontana.
Con un gesto affettuoso, el-Biruni pose la mano sulla spalla di Alì.
«Non lasciamoci andare alla filosofia: è un esercizio che turba l’umore. Dimmi, piuttosto: quali sono i tuoi progetti? Mi hanno parlato di un’opera che staresti scrivendo: sono solo chiacchiere?»
«È vero che la scrittura mi perseguita, ma non oso ancora cederle. Quando si sono conosciuti Aristotele, Ippocrate o Tolomeo, ci si sente, purtroppo, molto piccoli».
«Non sono abituato a tanta modestia, figlio di Sina. Devo ricordarti il tuo genio? A dieci anni sapevi a memoria le centoquattordici sure del Corano. E non parliamo di quello che hai fatto subire al tuo infelice precettore».
Alì ebbe un gesto di fastidio.
«El-Natili? Era un asino, un incompetente».
«Più di un maestro lo sarebbe divenuto al tuo fianco. Puoi immaginare quanto sia imbarazzante per un insegnante dover affrontare un allievo che non solo assimila ogni materia con una facilità sconcertante, ma che oltretutto corregge le sue affermazioni e risolve i problemi meglio di lui?»
«Del divino Aristotele possedeva solo la puntualità, e comprendeva ancora meno la geometria di Euclide».
«Lasciamo dunque perdere il povero el-Natili, che d’altra parte ha ben presto presentato a tuo padre le dimissioni. Che pensi del tuo risultato agli esami di medicina alla scuola di Jundaysabur? Non mi contraddirai se dico che è rimasto impresso nella memoria di più di qualcuno».
«Due anni fa…»
«Il 20 di dhu el-qa’da, per la precisione: ricordo a memoria ogni particolare. La sala era colma di gente: erano venuti da tutto il paese per ascoltare quel prodigio di sedici anni. Dicevano che vi fossero medici d’ogni genere: ebrei, cristiani, mazdeiti, vecchi saggi dal volto marcato, segnato dalle rughe del sapere. Te lo ricordi, vero?»
«Ricordo soprattutto che il cuore mi balzava nel petto!»
«Tuttavia quel giorno hai parlato, e i volti si sono illuminati. La trattazione che presentasti sullo studio del polso e la straordinaria concisione con la quale descrivesti i suoi differenti aspetti, cinque in più di Galeno, colpirono tutte le menti».
«Questione di intuizione e di perspicacia: certo l’Altissimo mi stava suggerendo le parole».
«Meccanismo della digestione, istituzione della diagnostica per l’esame delle urine, meningite, regime degli anziani, utilità della tracheotomia. Anche questo sarebbe intuizione e perspicacia? Parlando dell’apoplessia, tu sconvolgesti il pubblico, affermando che era dovuta all’occlusione di una vena del cervello, rimettendo in discussione in un solo colpo la teoria di Galeno. Solo intuizione e perspicacia?»
«Non è necessario che spieghi a te che un atteggiamento disinvolto si ottiene solo a forza di lavoro. Ma cambiamo argomento, e parlami di te. Pensi sempre di lasciare Bukhara?»
«Nuh II è per me un benefattore. Il mio primo benefattore. Ma io ho venticinque anni, e la febbre dei viaggi mi tormenta. Per essere sincero, parto domani».
Alì inarcò le sopracciglia.
«Sì, hai diritto di essere sorpreso: d’altronde tu sei il primo a saperlo. Vado alla corte di Gurgan, presso l’emiro Kabus, che è rientrato dall’esilio. Là mi pare che il clima sarà propizio alla scrittura, poiché non voglio nasconderti che anch’io penso seriamente a comporre un’opera importante, che dovrebbe trattare, tra l’altro, dei calendari e delle ere, di problemi matematici, astronomici e meteorologici. Poi…»
«Così ti metti al servizio del “cacciatore di quaglie”: dicono che sia un principe estremamente crudele».
«Forse è vero. Ma uomini come me e te possono scegliere i loro padroni? Siamo solo fuscelli di paglia sotto il soffio dei nostri mecenati».
«Non so tu, el-Biruni, ma io posso assicurarti che certi sovrani, per quanto generosi, non mi avranno mai al loro servizio: i turchi, i turchi, per esempio! Il figlio di Sina non curverà mai la schiena davanti a un Ghaznawide».
«Ognuno vede il sole dove preferisce. Ma, per tornare al cacciatore di quaglie, voglio precisarti che la crudeltà non è l’unico aspetto della sua personalità. Ha acquisito grande fama come saggio e poeta. Ma senti: perché non mi accompagni a Gurgan? Sono sicuro che Kabus ne sarebbe estremamente onorato. Oltretutto, riceverai un salario molto migliore di quello che ti versa attualmente l’ospedale di Bukhara».
«Il tuo invito mi commuove. Ma ho solo diciott’anni, e devo rimanere presso i miei genitori. Lasciando il Khorasan avrei l’impressione di abbandonarli. Tuttavia, sono sicuro che, dovunque mi troverò, ti conserverò nel mio cuore».
«Così sarà per me. Resteremo in contatto, e ci scriveremo tanto a lungo quanto l’Altissimo ce lo permetterà».
«Allora, voi due, state rifacendo il mondo?»
La voce perentoria di Abd Allah venne a interrompere i due giovani.
Sorridendo Alì rispose:
«No, padre, ne stiamo preparando uno nuovo».
«Ebbene, lasciatelo stare per un po’ e venite ad ascoltare il liuto di el-Mughanni: a volte fa bene distrarsi dalla gravità delle cose».
Già le prime note animavano la sera. Tornarono nel gruppo e Alì andò a sedere vicino a Setareh. Spontaneamente prese la mano della madre nella sua e chiuse gli occhi, lasciandosi andare alla magia della musica.
La vite si muoveva appena sotto la brezza leggera, impregnata dei profumi della notte. Si percepiva il canto puro della fontana, che segretamente correva incontro a quello del liuto per fondersi con esso, annodandosi alle sue corde e accrescendo l’incantamento dell’ora. Attraverso le palpebre chiuse, Alì cominciò a sognare il volto angelico di Warda.
1 Con questa formula, Ibn Sina intendeva senza dubbio riferirsi alla prostata (N.d.A.).
2 L’equivalente, per gli occidentali, di Ercole o Achille (N.d.A.).
3 Quest’espressione significa anche postulare, aspirare al potere (N.d.A.).
4 Il nome di questa dinastia trae origine dalla città di Ghazna, oggi Ghazni, a sud di Kabul, in Afghanistan (N.d.A.).