Quinto makama

Accompagnati dal suono dei tamburi funebri, i penitenti sfilavano in file serrate sulla piazza di Dargan. Dargan, villaggio color della terra, dalle case di fango secco e di mattoni cotti; Dargan, posto vicino al rombante Amu-Darya, che quel mattino correva come se dovesse arrivare la fine del mondo.

Ibn Sina, el-Massihi e la loro giovane guida, bloccati dalla folla compatta dei paesani, ammassati da una parte e dall’altra della strada, dovettero fermarsi ai piedi della manara, l’alta torre di segnalazione.

Decine di bandiere ricamate con versetti del Libro sventolavano e schioccavano sulla testa degli oranti, che avanzavano gemendo e colpendosi il petto. Un portagonfalone apriva la marcia; sul suo drappo, un disegno rappresentava una mano aperta, simbolo dello sciismo1.

Incoraggiati dalle urla della folla alcuni adolescenti, col volto colorato di rosso, si frustavano il petto nudo con punte d’acciaio con violenza inaudita, o si laceravano col coltello il cranio rasato, macchiando di sangue la fronte, le guance e le tuniche di lana bianca. Una donna urlò, al limite dell’isteria. El-Massihi, spaventato, cercò di controllare il nervosismo del suo cavallo.

«Siamo dunque arrivati a Gomorra?»

Gridando per coprire il rumore che proveniva da ogni direzione, Alì replicò:

«Oggi è il decimo giorno di dhu el-hijja! La giornata di Karbala!»

La guida guardò stupita Ibn Sina.

«La giornata di Karbala?»

«Ghilman2, ma a che religione appartieni per ignorare che cos’è Karbala?»

Un altro grido femminile lacerò l’aria. Ponendo le mani a coppa, la guida rispose:

«Sono un parsi, un parsi come mio padre!»

«Sappi dunque che il dieci di dhu el-hijja è il giorno in cui Hossein, il più giovane dei figli del genero del Profeta, fu sconfitto a Karbala, mentre cercava di impadronirsi del califfato. Al termine della battaglia venne decapitato dai suoi nemici, divenendo così il più grande martire sciita, lo shaid per eccellenza».

Indicò i penitenti.

«Ogni anno, questa gente ricorda così la sua morte».

«Ma io credevo che questa manifestazione fosse disapprovata dalle alte autorità sciite», rispose stupito el-Massihi.

«Non solo disapprovata, ma anche proibita. Ciò non impedisce che, qua e là, il popolo continui a commemorare Karbala. E…»

Alì s’interruppe. Un adolescente, vacillando, aveva appena sbattuto contro il suo cavallo. Rimbalzò all’indietro, gli occhi fuori dalle orbite, girando su se stesso prima di cadere a terra come un fiore reciso.

«È morto?» chiese spaventata la guida.

«Soltanto svenuto. Prima di sera, molti altri faranno lo stesso».

Alì riportò l’attenzione sulla processione, che continuava a svolgersi attraverso il villaggio come un nastro insanguinato. Un flagellante attirò il suo sguardo. Aveva il cranio coperto di sangue e di brandelli di pelle strappata. In apparenza insensibile al dolore, si lacerava le guance a colpi di coltello.

«Si dissanguerà», mormorò Alì atterrito. Gridò in direzione del penitente, pur rendendosi conto che non poteva sentirlo.

«Fermatelo, è pazzo!»

Prima che el-Massihi e la guida avessero il tempo di reagire, saltò a terra e si diresse verso l’uomo. Quasi contemporaneamente, sollevando nuvole di polvere, alcuni cavalieri sbucarono dal nulla. Con la testa avvolta da un turbante e un fazzoletto nero intorno al collo, frustando violentemente i cavalli, entrarono di corsa nel villaggio.

Da una sciabola partì un riflesso di luce.

La guida diede per prima l’allarme.

«I Ghuz!»

Immediatamente fece voltare il cavallo, con gesto spaventato, gridando di nuovo:

«I Ghuz, scappiamo, presto!»

Lo sguardo fisso su Alì, che ormai era a pochi passi dal penitente, el-Massihi parve non udirlo.

«Per il fuoco sacro! Sei diventato sordo? Ci ammazzeranno tutti. Dobbiamo lasciare il villaggio!»

«Tu sei pazzo: non abbandoneremo Alì!»

Frustò seccamente il cavallo e filò verso l’amico che, perso tra la folla, era riuscito a disarmare il penitente e tentava di allontanarlo dalla processione.

Attorno a loro, l’orda aveva invaso la piazza. I cavalieri di testa, la sciabola in mano, s’infrangevano come onde sulla gente.

«Alì!»

Spingendo la cavalcatura attraverso la folla terrorizzata, el-Massihi tentava disperatamente di avvicinarsi all’amico, che sosteneva il ferito. Come in un incubo, scorse una lama che stava per abbattersi sullo sheikh.

«Attento, Alì!»

Fu certo dall’espressione terrorizzata del flagellante che Alì comprese che la morte era su di lui. La sciabola si abbassò, fendendo l’aria con un secco sibilo. Alì ebbe appena il tempo di balzare all’indietro, prima di sentire un terribile dolore all’avambraccio.

«Sali!»

Riconobbe la voce del ghilman e afferrò subito la mano che gli tendeva.

Ormai il panico aveva invaso tutto il villaggio. Sistemato a cavalcioni dietro la guida, Alì cercò di tenersi in equilibrio, mentre si aprivano un passaggio attraverso la folla. Gettò un’occhiata dietro le spalle: in un turbine di polvere, il cranio del flagellante esplose. Senza sapere come, seguiti da el-Massihi, riuscirono a uscire dal villaggio. Davanti a loro apparvero campi di cotone maturo, allineati lungo la riva destra del fiume.

Portata dal vento asciutto, l’eco dei combattimenti li seguì a lungo nella pianura. Quando finalmente si attenuò, quasi due farsakh3 li separavano da Dargan. Solo allora ridussero l’andatura. El-Massihi ne approfittò per accostarsi ai compagni.

«Che cos’è successo?» chiese con voce rauca. «Non ho mai visto…»

Vedendo la tunica insanguinata di Ibn Sina si interruppe.

«Ma tu sanguini, sei ferito…»

Alì gettò un’occhiata alla ferita che si apriva sul suo avambraccio.

«Non credo che sia grave, e comunque lo è meno della perdita del mio cavallo e della bisaccia che conteneva i miei strumenti e le mie annotazioni. Per fortuna ho conservato la borsa alla cintura».

«Meglio così che vedersi tagliare la testa. Comunque, dovrai disinfettare la ferita: ho con me tutto quello che serve».

«Quando ci fermeremo: siamo ancora troppo vicini al villaggio».

Rivolgendosi alla guida, Alì chiese:

«Ora spiegaci: chi sono quei pazzi?»

«Membri di una tribù turca orientale», spiegò la guida. «Vivono nelle steppe del nord. All’inizio commerciavano pacificamente con la gente del Kharazm, ma ben presto ebbero inizio le aggressioni. Dapprima si limitarono a scontri coi Ghazis, i musulmani di confine, poi le razzie si allargarono. Hanno anche osato attaccare i sobborghi di Kath, la città principale della regione, situata più a nord, dall’altra parte del fiume».

«E le autorità che fanno?»

«Le forze dell’emiro Ibn Ma’mun, il sovrano del Kharazm, reagiscono, naturalmente. Ma non è facile. Gli attacchi dei Ghuz sono violenti e imprevedibili».

«E ora», disse stancamente el-Massihi, «cosa facciamo? La sorte non pare esserci favorevole».

«Dargan resta la meta del nostro viaggio», rispose Alì con voce ferma. «Non sarà una banda di briganti a fermarci».

La guida approvò.

«Comunque, credo che sarebbe più prudente passare la notte all’aperto. Domani tutto sarà tornato tranquillo».

«Se capisco bene, stai proponendo di dormire una volta di più sotto le stelle! È più di quanto le mie povere ossa possano sopportare!»

«El-Massihi, fratello mio, non hai smesso di lamentarti da quando siamo partiti. Eppure dovresti sapere che non v’è nulla di più salutare che dormire all’aria aperta!»

«Le notti sono così fredde che gelano anche gli scorpioni! E oltretutto…»

«Che l’Invincibile ci protegga!» disse la guida. «Le vostre discussioni finiranno per portarci disgrazia! Ascoltatemi. A due o tre farsakh da qui c’è un khan, il khan Zafarani: potremo pernottare, ti curerai la ferita e domani ci penseremo».

«Questi bivacchi mi ripugnano: puzzano di letame. Ma abbiamo forse scelta?»

Ignorando il commento del medico, la guida diede il segnale della partenza, e si mossero verso nord.

Nulla, eccetto il soffio tiepido del vento e il rumore degli zoccoli, venne a turbare il silenzio della loro cavalcata. Dovunque lo sguardo si posasse, incontrava solo la pianura ondulata: la steppa incolta, vuota, infinitamente lunga, colorata qua e là da ciuffi di erbe secche e rare, così fragili che le si sarebbero credute trasparenti.

Quando finalmente raggiunsero la loro destinazione, il sole era quasi sparito tra le colline di terra rossa e i monti lontani del Khorasan.

Nel crepuscolo, il khan si presentò ai loro occhi come una costruzione quadrangolare a due piani, con torri massicce a ogni angolo e mura di mattoni cotti, rinforzate da contrafforti. Se non fosse stato per i salienti che inquadravano un monumentale portale ad arco interrotto, decorato di arabeschi, lo si sarebbe detto un fortino.

I due cavalieri si infilarono in una specie di vestibolo, sui due lati del quale si aprivano la camera del guardiano e stanze dalle scaffalature cariche di oggetti di prima necessità, dopodiché entrarono nell’area del grande cortile.

Al piano terra, sistemati su gallerie, stavano quelli che sembravano depositi e alloggi. Sulla destra, tra la bottega del maniscalco e le scuderie, scorsero un uomo dal volto butterato, che faceva loro segno. Dopo i soliti convenevoli, gli affidarono i loro animali e si recarono nella sala dei viaggiatori.

La volta dell’immenso locale scompariva tra le volute d’un fumo grigiastro. Addossati ai muri o seduti su sedili di fortuna, numerosi profili si delineavano alla luce tremolante delle torce: daylamiti dalla pelle scura e gli occhi neri, provenienti dal mare dei Chazari; nomadi cinesi, dal volto giallo e gli occhi a mandorla, lo sguardo velato dall’espressione enigmatica propria dei popoli oltre il Pamir; curdi dal naso aquilino e l’ampia fronte dalla pelle incartapecorita.

Vicino a un giocatore di bussolotti, Alì indicò il braciere sul quale stava un bricco di rame pieno di tè.

«Passami il tuo pugnale», disse a el-Massihi.

«Sembri scordare che sono medico anch’io», brontolò il cristiano. «Mi occuperò io di te».

Un istante dopo aveva tagliato la manica di Ibn Sina e lavato la ferita col vino. Poi estrasse dal fuoco la lama, riscaldata al calor bianco, e mormorò:

«Stringi i denti, fratello mio, ora ti brucio…»

Quando applicò di piatto la lama sulla ferita un odore di carne bruciata si sparse tutto intorno. Il volto contratto, Alì imprecò:

«Che l’Altissimo ti perdoni, dhimmi: sono sicuro che in questo momento tu stai provando un certo piacere».

El-Massihi sorridendo replicò:

«Una caviglia per un avambraccio… non so chi di noi due ci guadagni nello scambio».

Frugando nella bisaccia, estrasse una polvere giallastra, che sparse sulla ferita annerita dal fuoco.

Incuriosita, la guida chiese:

«Perché lo zolfo su una piaga?»

«Non è zolfo, amico mio, è henné. Possiede eccezionali capacità cicatrizzanti. Ricordo un ragazzo di sedici anni che in una rissa era stato calpestato dagli zoccoli dei cavalli. Le sue ferite interessavano tutta la regione muscolare brachiale, un po’ sopra l’articolazione, e grazie all’applicazione dell’henné, in dodici giorni la cicatrizzazione fu completa».

Guardando soddisfatto la ferita, aggiunse:

«Ora troviamoci un posto tranquillo: tutte queste emozioni hanno risvegliato la mia sete».

Si erano appena sistemati in un angolo della grande sala, quando un uomo magro, con un grande fazzoletto nero allacciato alla vita, si presentò cortesemente:

«Che la pace sia con voi. Credo di aver capito che avete fame».

«Cos’hai da proporci?» chiese Alì.

«Harissa, riso, montone, lucertole, e soprattutto uva di Ta’if: la scelta è ampia».

«Lasciamo le lucertole agli arabi. Però non conosco la harissa: che cos’è?»

«È carne schiacciata cotta assieme al grano nel grasso: è ottima».

«Voglio sperare che il tuo montone non sia del mayta4, come la tua lucertola!»

«Se ti rispondessi di no, come potresti accorgerti della differenza? Dunque, non darti pensiero: Allah è Grande e Misericordioso».

«È anche spietato contro coloro che rinnegano scientemente i suoi precetti! Servici dunque la tua harissa e dei datteri. Ma prima di tutto del vino, assolutamente».

«Ho anche dei panini al papavero. Papavero di Isfahan, il migliore».

«Suppongo che il succo sia stato impastato con l’acqua», aggiunse malignamente el-Massihi.

L’uomo alzò il mento con aria offesa.

«Acqua mai, fratello mio: miele, miele di Bukhara».

«Il migliore, naturalmente», commentò la guida sorridendo divertita.

L’uomo approvò, imperturbabile.

«Il migliore».

«E le tue camere come sono?» chiese preoccupato el-Massihi. «Spero che il loro livello non abbia nulla a che spartire con quei khan di montagna, dove si dispone solo di un miserabile bancone per passare la notte, o di una pedana rialzata, dove si dorme peggio delle bestie!»

«Non temete: avrete a disposizione una camera con stuoie di giunco».

«In questo caso, va benissimo: restiamo», disse Abu Sahl, chiudendo ostentatamente gli occhi.

A pochi passi da loro, un uomo dai lineamenti marcati cominciò a suonare un saroh: era uno strumento raro in quella regione, e con la sua forma a losanga ricordava una razza. Questo era particolare: all’estremità del cavicchiolo, un uccello intagliato nel legno, un bengalino, pareva tenere le otto corde nel becco.

Una musica strana e straziante invase la stanza. Contro la sua volontà, Alì si sentì trasportare dai ricordi, e il cuore gli si strinse.

Erano già due mesi che aveva lasciato Bukhara e la provincia del Khorasan, spostandosi tra paesi e villaggi, tra oasi e caravanserragli, prestando le sue cure ovunque venissero richieste. Due mesi: un’eternità. Setareh e Mahmud gli mancavano, e l’immagine di Abd Allah tormentava le sue notti. Cento volte, disteso sotto le stelle dell’Uzbekistan, aveva creduto di sentire la sua voce nel soffio gelato del vento, cento volte aveva creduto di scorgere il suo profilo superando una collina. E quella sera era là, in quel khan in capo al mondo, senza uno scopo preciso se non la fuga verso l’ignoto.

«Desideri una boccata, sheikh el-rais

Disturbato nella sua fantasticheria, Alì sussultò.

«Una boccata?» ripeté lo sconosciuto, e gli presentò il tubo di un narghilè foderato di marocchino rosso.

Alì accettò e portò alle labbra il bocchino d’ambra scura. Aspirò lentamente il fumo dell’oppio, facendo mormorare l’acqua tiepida e profumata che fremeva nel vaso.

«Perché ti rivolgi a me con questo nome?»

«Non è forse così che ti chiamano in tutto il paese? Io mi chiamo Abu Nasr el-Arrak. Sono matematico e pittore a tempo perso».

S’interruppe e, piegandosi su un sacco di pelle, ne trasse alcuni schizzi che rappresentavano per la maggior parte cavalli e paesaggi. Alì ammirò l’alto livello dei disegni.

L’uomo continuò:

«Ti ho intravisto una sera, durante un banchetto alla corte dell’emiro Nuh. Allora eri al sommo della gloria».

Prima di rispondere, Alì aspirò un’altra boccata.

«Acqua passata…»

Restituì il tubo del narghilè al suo interlocutore e batté le mani.

«Oste, il tuo vino si fa aspettare!»

L’uomo gli chiese:

«Dove stai andando?»

«Ieri a Cash, domani a Dargan, dopodomani a Samarcanda, forse un giorno nel paese giallo… Il mondo è grande».

El-Arrak strinse piano il bocchino del narghilè tra le grosse labbra.

«Dargan? Quel villaggio sperduto? Ma è un luogo indegno di un uomo come te!»

S’interruppe un istante e continuò:

«Sheikh Ibn Sina, sai che verresti accolto volentieri alla corte di Alì ibn Ma’mun, l’emiro di Gurgandj? Se vuoi, io potrei intercedere in tuo favore».

L’oste si presentò con i piatti. Senza aspettare che avesse finito di sistemarli ai loro piedi, Alì afferrò la brocca di vino e bevve a grandi sorsate, sotto lo sguardo di disapprovazione di el-Massihi.

«Attenzione, figlio di Sina: l’oppio è sovrano, l’acqua dell’oblio pure, ma messi insieme stanno peggio che il topo e il falco».

«Vino, vino e pagine bianche: che ti piaccia o no, stasera spezzerò la coppa sulla pietra5

«Alle tue corde mancava solo la poesia», replicò el-Massihi irritato. «Ora siamo a posto».

Sotto l’effetto dell’oppio, le pupille di Alì cominciavano a velarsi.

«Dhimmi, fratello mio, io non sono un poeta, prendo solo in prestito: le generazioni a venire lo confermeranno certamente».

Ignorando il soprannome di dhimmi, Abu Sahl si girò verso el-Arrak.

«Permettimi di presentarmi: mi chiamo Abu Sahl el-Massihi, e…»

L’uomo lo interruppe, sorpreso.

«Il medico? L’autore dei Cento

Lusingato, il medico osservò:

«Vedo che conosci opere eccellenti: è esatto. Ma spiegami perché dicevi di poter intercedere in favore dello sheikh».

«Perché anch’io vivo alla corte di Gurgandj. Da qualche anno, la corte ma’munide è diventata un punto di riferimento per gli eruditi e gli uomini di lettere di tutto l’Islam orientale. Sotto l’impulso del visir el-Soheyli, l’emiro si è circondato di una brillante schiera di personaggi. È addirittura probabile che nei prossimi mesi si unisca a noi qualcuno che forse conoscete: Ahmad el-Biruni».

Alì sussultò.

«El-Biruni? Ma io credevo che fosse a Gurgan, presso il cacciatore di quaglie».

«È così. Ma il clima laggiù è preoccupante, e si parla di rivolte militari provocate dalla tirannia del governatore di Astarabad. Nella sua ultima lettera, el-Biruni prospettava seriamente la possibilità di lasciare il Daylam».

Alì intinse un pezzo di pane nella harissa e lo portò alla bocca.

«Decisamente, le nostre dinastie sono mobili come le dune del deserto…»

«Torniamo a quanto dicevi», disse el-Massihi, servendosi a sua volta. «Credo di sapere che esiste già un medico presso l’emiro; stando così le cose, come potremmo renderci utili, io e Ibn Sina?»

El-Arrak terminò di aspirare dal narghilè con un sorriso sornione.

«La vostra modestia è grande, ma la fama dello sheikh lo è ancora di più. Non è solo il medico che la corte si onorerebbe di accogliere, ma il sapiente, il pensatore universale. Sto tornando da Ferghana, dove mi sono dovuto recare per questioni di famiglia, ma domani ripartirò per Gurgandj: se vorrete, potremmo fare la strada insieme».

El-Massihi scosse la testa pensosamente.

«L’idea mi attira molto… E tu, figlio di Sina?»

Alì bevve le ultime gocce di vino e fece ondeggiare la brocca tra le mani.

«Se l’emiro è interessato a un giureconsulto, io potrei essere quell’uomo, ma se cerca un medico di talento, allora dovrà contare su Abu Sahl, soltanto su Abu Sahl. Il mio destino ha mutato direzione…»

El-Arrak lanciò uno sguardo perplesso in direzione di el-Massihi.

«Lascia perdere», disse Abu Sahl con dolcezza, «ormai il cervello del nostro amico è completamente sottomesso al topo e al falco».

«La tua affermazione è vera solo a metà», replicò Alì con la voce incerta per l’alcol, «e mi impegno a correggerla».

Si raddrizzò lentamente e gridò:

«Oste, del vino!»

A pochi passi da loro, il suonatore di saroh, che non aveva smesso di pizzicare le corde del suo strumento, disse con voce lontana:

«La malinconia è il dolore dell’anima, fratello mio, e contro quel nemico l’acqua dell’oblio è inefficace».

Alì si alzò all’improvviso.

«Che ne sai dell’anima, amico mio? La conosci bene come io conosco la musica? Perché io conosco anche la musica, e tra l’altro quella del tuo paese, e tra le arie che hai suonato mi è parso di riconoscerne alcune ispirate dal dio Shiva. Ho ragione?»

Per tutta risposta, l’uomo scosse il capo, e continuò a suonare. Alì riprese, con la voce impastata dall’alcol e dall’oppio:

«Io conosco a memoria il sistema musicale di Bharata, la Sagrama, la gamma primaria e quella complementare. Io posso…»

«Allora sai che, per la gente del mio paese, la musica è un’arte supremamente divina, e che di conseguenza ogni musico possiede in sé una parte di Shiva… o di Allah».

Alì rise sommessamente.

«Sei filosofo o musico?»

Poiché l’altro rimaneva in silenzio, si spostò vicino a lui, deciso a litigare, ma bruscamente qualcosa nello sguardo dell’uomo l’arrestò. Era uno sguardo fisso, bianco, senza vita, bloccato in un volto rovinato, percorso da mille rughe. Comprese che l’uomo era cieco, e allora sedette di fronte a lui, limitandosi a osservare in silenzio le dita che correvano sulle corde di seta.

Dopo un istante, il musico disse:

«Allora, ammetti che la musica è un’arte essenzialmente divina?»

Il figlio di Sina lo ammise.

«E allora perché ti stupisci quando ti dico di conoscere l’anima? La tua è triste, più triste del ghiaccio quando si scioglie sulle montagne del Pamir. Dammi la mano».

Ora tutti i volti erano girati nella loro direzione.

«Tu non sei di sangue reale, ma sei un principe», cominciò il cieco a voce bassa, «poiché tra le tue dita sta il dono della vita. Sento la tua giovinezza che palpita e scalpita sotto la tua pelle, e tuttavia tu sei già vecchio. Hai conosciuto gli onori e il tradimento, e in verità conoscerai onori e tradimenti ancora maggiori».

Strinse più forte la mano di Alì, e continuò con una certa tensione:

«Hai amato, ma non conosci ancora l’amore. Lo incontrerai presto. Avrà la pelle del paese dei Rum6 e gli occhi della terra. Sarete felici, per molto tempo. Cercherai di difenderti da lui, ma sarà il tuo amore più duraturo. Avrà cura di te, poiché tu l’avrai trovato. Non è lontano: dorme da qualche parte tra il Turkestan e il Jibal».

Dopo un attimo riprese:

«Raggiungerai le stelle. Ti avvicinerai a loro come raramente accade a un uomo. Alcuni ti malediranno per questo. Sarai immortale, ma pagherai la tua immortalità con un eterno vagabondaggio».

All’improvviso s’irrigidì e continuò, con una certa emozione:

«Amico mio, diffida delle pianure del Fars e delle cupole dorate di Isfahan, poiché là si arresterà il tuo cammino. Quel giorno, al tuo fianco vi sarà un uomo dall’anima nera: che Shiva maledica per sempre la sua memoria!»

Terminata la profezia, il cieco riprese il saroh, e ricominciò a suonare come se nulla fosse successo.

Alì, pallidissimo, nascondeva a fatica il turbamento. Le labbra secche, non riusciva a proferire una sola parola. Ci volle la voce di el-Massihi per scuoterlo dal suo torpore.

«Per l’Altissimo», disse Abu Sahl con un tono che avrebbe voluto disinvolto, «quella vecchia lucertola è un eccellente commediante: a guardare la tua espressione, si direbbe che abbia operato su di te un incantesimo».

«Certo», mormorò Ibn Sina con un sorriso forzato, «in effetti è un eccellente commediante».

Anche el-Arrak tentò di sciogliere la tensione.

«Tutti questi veggenti hanno la caratteristica che le loro previsioni sono sempre vaghe. Non hanno alcuna rilevanza scientifica».

Alì assentì, con lo sguardo incupito.

«In ogni caso, una cosa quell’uomo è riuscito a farla: farmi passare la sbornia. Ora devo ricominciare da capo: ghilman, passami quella brocca!»

Abu Sahl bloccò la guida.

«Un momento! Figlio di Sina, io non voglio passare la vita a errare tra le steppe dell’Uzbekistan. Tra un po’ tu rotolerai sul pavimento, e dunque voglio sentire ora la tua decisione: seguiremo il nostro amico a Gurgandj?»

Alì tese la mano verso la brocca e rispose, con un sorriso strano:

«Destinazione Gurgandj, naturalmente. Come posso fuggire l’amore?»

1 Le cinque dita rappresentano il Profeta, la figlia Fatima, il genero Alì e i loro due figli, Hassan e Hossein (N.d.A.).

2 Sta’ tranquillo: ghilman è un appellativo che non ha nulla di offensivo. È un termine arabo che significa semplicemente giovanotto o ragazzo. Significa anche servitore, di solito servitore di condizione libera. In un recente passato, vennero così chiamati anche alcuni giovani principi abbassidi, e posso assicurarti di aver conosciuto principi che facevano pensare a servitori, e servitori che facevano venire in mente i principi… (Nota di Jozjani).

3 Un farsakh equivale circa a sei chilometri (N.d.A.).

4 Mi sono sempre sorpreso di come il mio padrone si dedicasse senza scrupoli al bere e ai piaceri della carne, e si rifiutasse invece di infrangere il precetto islamico che proibisce di mangiare il mayta, cioè la carne di un animale trovato morto. Suppongo che lo facesse più per ragioni igieniche che per motivi religiosi (Nota di Jozjani).

5 Espressione che significa: bere fino all’ultima goccia (N.d.A.).

6 I romani. Più precisamente l’Impero romano d’oriente, cioè Bisanzio e i suoi territori (N.d.A.).