Ventiduesimo makama
Ghazna, 1019
Carissimo figlio di Sina,
è molto tempo che non ti scrivo e che non ho tue notizie. Le nostre lettere si sono perdute, incrociate, perdute di nuovo. Ti credevo a Raiy, ed eri a Qazvim, ti scrivevo a Qazvim ed eri a Hamadhan e visir, per di più! Quanto a me, ho vissuto più in India che alla corte del Ghaznawide. Oggi il nostro dialogo riprende, e sono felice che l’Altissimo, nella Sua grande bontà, ci abbia permesso di ritrovarci.
Ho sotto gli occhi il Canone, finito. Te ne ringrazio: è un monumento. Così pure ti ringrazio delle copie di alcune tue opere che hai voluto farmi avere. Ho divorato L’essenza della filosofia e il Compendio sulla pulsazione mi ha affascinato. Quando penso alla nostra discussione nella casa di tuo padre e ai tuoi scrupoli nei confronti della scrittura, non posso fare a meno di sorridere. Ho anche provato un grande interesse per il tuo compendio di astronomia. A questo proposito, forse ti interesserà sapere che, su richiesta del re, ho intrapreso la costruzione di uno strumento che ho battezzato – secondo la tradizione – Yamine el-Dawla1, e che mi permetterà di misurare esattamente la latitudine di Ghazna. A dire il vero, non è la prima volta che tento questo genere di esperienza. Due anni fa, mentre mi trovavo a Kabul, senza strumenti, piuttosto depresso e in condizioni miserabili, sono riuscito a fabbricare un quadrante improvvisato tracciando un arco graduato sul retro di una tavola da calcolo, e utilizzando un filo a piombo. Sulla base dei risultati ottenuti, e che se lo desideri ti comunicherò, sono riuscito a stabilire con esattezza la latitudine del luogo. Conto anche di mettere a punto progressivamente una tavola delle longitudini e delle latitudini delle città e delle regioni più importanti del mondo islamico2.
Sempre a proposito di astronomia, voglio attirare la tua attenzione sull’opera del grande astronomo indiano Brahmagupta, e sui quaderni di Tabahafara: ciò che vi si può apprendere non è affatto privo d’interesse.
Alcuni sapienti indù sostengono che la Terra si muove e che i cieli sono fissi. Altri rifiutano questa teoria, affermando che, se così fosse, le rocce e gli alberi cadrebbero. Brahmagupta non è di questo avviso, e dice che la teoria non implica una simile conseguenza, poiché pensa che tutte le cose pesanti sono attirate verso il centro della Terra. Quanto a me, ritengo che gli astronomi più eminenti, sia antichi che moderni, hanno assiduamente studiato la questione del movimento della Terra e tentato di negarlo. Così, sei mesi fa ho composto un’opera su questo argomento, intitolata Le chiavi dell’astronomia. In tutta modestia, penso di essere andato più lontano di tutti i nostri precursori, se non nell’espressione per lo meno nell’esame di tutti i dati del problema.
Ma credo che ciò che risveglierà soprattutto la tua attenzione sarà la notizia che sto per darti: sono riuscito a stabilire la circonferenza della Terra.
Ecco com’è andata. Due anni fa mi trovavo nel forte di Nandana3. Ho cominciato col misurare l’altezza di un monte vicino che si profilava dietro il forte; poi, a partire da questa montagna, ho determinato l’inclinazione dell’orizzonte visibile. Il risultato è di 6333,80 chilometri per il raggio terrestre4.
Inoltre, durante i miei spostamenti in India, mi sono molto interessato alle eclissi e al modo di misurare le parti illuminate della Luna. Mi sono anche dedicato a una classificazione dei corpi celesti per ordine di grandezza, cioè secondo la loro luminosità, e ho elencato mille e ventinove stelle.
In tutt’altro campo, conto di approfondire la mia osservazione dei piani stratificati delle rocce, poiché sono sempre più convinto che tutti i cambiamenti si siano prodotti molto molto tempo fa, in condizioni di freddo e di calore che ci sono ignote.
Ma devo smettere di parlare sempre dei miei progetti e delle mie realizzazioni, altrimenti rischio di apparirti presuntuoso. Terminerò dunque questa lettera limitandomi a comunicarti le ultime notizie della regione. Forse non lo sai, ma il sultano Ibn Ma’mun e la sua sposa – che è, mi permetto di ricordartelo, sorella del re di Ghazna – sono morti nel corso di una rivolta di palazzo. Mahmud ha subito vendicato questa morte marciando su Khwarizm, ha soffocato la ribellione e designato come successore di Ibn Ma’mun un ufficiale del suo seguito. Ormai, il regno del Ghaznawide è al massimo della sua espansione.
Per quel che riguarda i miei rapporti col sovrano, non penso di sorprenderti confidandoti che non sono molto sereni. È indiscutibilmente un tiranno sanguinario, assetato di potere. Sospetto che sogni un impero simile a quello del grande Iskandar. Ti chiederai certamente quali ragioni mi spingano a rimanere alla sua corte. Si riassumono in poche parole: la mia passione per l’India, che assorbe tutte le mie energie. Potrei sognare un trampolino migliore di Ghazna per proseguire le mie ricerche su questo paese? Fin tanto che l’Altissimo me ne darà la forza, resterò qui.
Infine, ho una triste notizia da darti. Ricordi Firdussi e il suo Libro dei re? Firdussi non è più, ahimè: è morto qualche giorno fa. Ma io, che ho avuto la fortuna di consultare la sua opera, mi chiedo: una persona che è riuscita a compiere un lavoro così colossale, riunendo tutte le leggende che vanno dai primi re favolosi del nostro paese fino alla sua conquista da parte dei mangiatori di lucertole, un uomo così può veramente morire? Conserverò a lungo nella memoria la sua descrizione degli amori di Zal e di Rudaba, o la straziante elegia composta per la morte di suo figlio. Voglio sottoporla al tuo giudizio:
Io ho sessantacinque anni, e lui trentasette: non ha chiesto nulla a questo vecchio, e se n’è andato da solo…
Ha forse trovato giovani compagni, per essersi allontanato così in fretta da me?
I suoi rapporti con Mahmud si sono rivelati presto dei più difficili. Poche settimane prima della sua morte, Firdussi ha avuto il coraggio di rimproverare il re davanti ai suoi intimi dicendogli questa frase terribile:
Se il re avesse avuto per padre un re, mi avrebbe posto sulla testa una corona d’oro. Ma poiché nella sua natura non v’è traccia di grandezza, non ha potuto sopportare di ascoltare il nome dei grandi!
Conoscendo le origini di Mahmud, si può facilmente immaginare la portata dell’umiliazione!
Come puoi constatare, né gli scienziati né gli artisti trovano la perfetta felicità presso i loro mecenati. Spero comunque che queste parole ti troveranno felice e in prosperità, e ricevi i miei auguri di successo per la tua nuova carica. Sta’ attento a non lasciarti prendere nella trappola del potere: può essere mortale per le anime pure…
Il tuo fratello Ibn Ahmad el-Biruni
Nel momento in cui posò la lettera, alla porta si udirono colpi concitati.
«Sheikh el-rais, apri, presto!»
Pareva che tutta la stanza stesse per andare in pezzi.
Jozjani apparve alla porta, il viso sbiancato, gli occhi fuori dalle orbite.
«Sheikh el-rais», balbettò, «bisogna fuggire… abbandonare la città».
«Ma cosa stai dicendo? Sei diventato matto?»
El-Jozjani strinse il braccio dello sheikh e lo trascinò alla finestra.
«E tu sei diventato sordo? Non senti?»
Mentre Alì cercava di capire, il giovane lo spinse letteralmente verso il davanzale e indicò il centro del cortile, più in basso.
«Forse sarai diventato sordo, ma non cieco!»
In quel momento Alì comprese ciò che stava accadendo e di cui, durante la lettura della lettera di el-Biruni, non si era accorto.
Uomini armati, tra i quali un distaccamento di mammalucchi e numerosi ufficiali dell’esercito, alzavano i pugni e lanciavano imprecazioni verso di lui: i soldati chiedevano la sua testa.
«Ma cosa gli prende?»
Jozjani stava per rispondere quando, con un rumore di stivali, tre uomini si precipitarono nella stanza, accompagnati dal ciambellano Taj el-Molk.
«Sheikh el-rais, devi seguirci: il principe chiede immediatamente di te».
Senza cercare di capire, Alì si gettò una burda sulle spalle e seguì i soldati. Per strada fu colpito dall’incredibile eccitazione che regnava nel palazzo. Militari della guardia personale di Shams e servitori spaventati si incrociavano, correndo da tutte le parti. Un momento dopo veniva introdotto nel salone di vetro, ove l’attendeva l’emiro. Al suo fianco stavano il cancelliere, il ciambellano e Samà, il principe ereditario.
«È una tragedia!» esclamò il sovrano. «È la fine!»
«La fine di che? Sembra che tutti i jinn dell’universo si siano impadroniti della città!»
«Non sai quanto hai ragione», commentò il ciambellano con voce cupa. «I jinn, e anche di peggio».
All’esterno scoppiarono nuovi clamori, ancora più forti e minacciosi.
Alì strinse i pugni.
«Sole della nazione, vorresti spiegarmi?»
«Non senti?» intervenne Samà.
«Vogliono la tua testa», precisò il ciambellano.
«Questo mi pareva di averlo capito. Ma per quale ragione?»
Shams el-Dawla alzò gli occhi al cielo, indispettito.
«Hai la memoria corta, figlio di Sina. Non hai forse pubblicato un decreto che abroga i privilegi dell’esercito?»
«Certo».
«E cosa speravi?» disse Taj el-Molk con astio. «Non si toglie il pane dalla bocca di chi ha cominciato a masticarlo».
Alì si piegò leggermente e la sua espressione si irrigidì. I suoi rapporti col ciambellano erano sempre stati mediocri: lo sospettava di non aver mai apprezzato la sua nomina a un posto al quale lui stesso doveva avere aspirato molto prima della sua venuta a Hamadhan.
Con voce cupa gli disse:
«Non temere, Taj: partito io, il cambio è sicuro».
Senza attendere la replica del ciambellano, si diresse a grandi passi alla finestra e indicò i rivoltosi.
«Maestà, cosa aspetti per disperdere queste carogne?»
«E chi lo farà?» chiese con ironia il ciambellano. «Tu, forse? O il sovrano, a mani nude?»
«Resterà pure qualcuno di fedele! Il frutto non può essere marcio del tutto!»
Shams strinse le labbra.
«No, non è marcio del tutto: ho i mezzi per domare questa ribellione».
«E allora…?»
«Perché non lo faccio? Ma è evidente: perché non sono pazzo. Figlio di Sina, far versare il sangue dell’esercito dall’esercito è un lusso che non posso permettermi: tanto varrebbe consegnare subito le chiavi di Hamadhan».
«Sarebbe la fine del regno», aggiunse Samà. «L’eredità di mio nonno ridotta in cenere».
«Volete dunque permettere a questi mercenari di dettare legge? Non capite che cedere oggi significa cedere il comando?»
«Sheikh el-rais, non fare il bambino! Non abbiamo a che fare con un semplice ammutinamento: è tutto l’esercito che si solleva!»
Il sovrano si era espresso con una veemenza e uno sconforto che Alì non gli aveva mai visto fino a quel momento.
«Va bene, Sole della nazione. Cosa ti aspetti da me?»
«Il salar reclama l’abrogazione del decreto».
«È semplice, Maestà. Il salar avrà ciò che desidera: bruceremo il decreto sulla pubblica piazza».
«Non è tutto».
Alì attese il seguito, ma fu il cancelliere a precisare:
«La tua testa: gli ufficiali all’unanimità esigono la tua morte».
La vista di Ibn Sina si turbò ed ebbe l’impressione che un vento gelido soffiasse attraverso la sala di vetro. Pallidissimo, si girò verso l’emiro.
«Devo dunque considerarmi già morto, Maestà?»
Shams sembrò voler colpire l’aria con rabbia.
«Solo Allah decide di riprendere la vita: io mi rifiuto di assumere questo ruolo».
«In questo caso…»
«Ho negoziato… Ho ottenuto di salvarti la vita in cambio dell’esilio».
«L’esilio?»
Alì credette che gli specchi di Damasco si spezzassero tutti nello stesso momento.
«Sta’ tranquillo: la parola è peggiore delle sue conseguenze. In realtà, rimarrai a un centinaio di farsakh dalla città. Abbiamo organizzato tutto. Sarai ospitato da uno dei miei amici personali, lo sceicco Ibn Dakhdul. È un uomo integro e generoso: possiamo contare sulla sua discrezione».
«Ma è mostruoso! L’abrogazione del decreto non è un’umiliazione sufficiente perché vi si debba aggiungere anche quella della mia partenza?»
«È così, non abbiamo scelta», replicò placidamente Taj el-Molk.
Il sovrano posò la mano sulla spalla di Ibn Sina.
«Non posso farci niente! Ascoltali, urlano come lupi! O te o il regno!»
«Sei un uomo difficile, sheikh el-rais», borbottò il cancelliere.
«Sono quello che sono: ciò riguarda solo l’Altissimo e me, poiché oggi Lui è l’unico a tendermi la mano».
«Sei ingiusto, figlio di Sina!» esplose il giovane Samà. «Anche mio padre ti tende la mano: si è battuto contro i suoi generali per garantirti salva la vita!»
Le urla della folla raddoppiavano di violenza. Ibn Sina tornò alla finestra e, protetto dalle tende di velluto, osservò con amarezza i volti minacciosi.
«E dire che tra questi uomini ve ne sono molti che mi devono la salute».
Si girò e disse:
«Sta bene: mi rimetto a voi».
Shams parve rilassarsi.
«Vedrai: non mancherai di nulla. I tuoi ti seguiranno. Ti farò portare i tuoi manoscritti e i tuoi strumenti. Ibn Dakhdul ha l’ordine di soddisfare ogni tuo desiderio».
«Te ne sono grato. Non mi resta che augurarti che tu non debba mai pentirti di aver ceduto alla forza e alla viltà».
Ibn Dakhdul era come l’aveva descritto Shams el-Dawla: un uomo di circa sessant’anni, persona di grande cortesia e di mente aperta. Nel suo sguardo si rifletteva la serenità della sua anima. Aveva senza dubbio visto molto, conosciuto persone diverse e innumerevoli città. Di tutto questo, si capiva che aveva trattenuto solo la bellezza.
Possedeva una vasta proprietà a sud di Hamadhan, circondata da giardini fioriti che profumavano di rose e gelsomini. Curava lui stesso la sua terra, a dispetto dell’età avanzata, e vegliava affinché la più piccola foglia o l’ultimo alberello non mancassero di nulla. Conosceva a memoria le più belle poesie persiane. Dakiqi, Baba Tahir o Rudaqi non avevano segreti per lui, e tutte le sere amava recitare versi di grande bellezza.
Lo sheikh aveva chiesto a Yasmina, a Mahmud e a me di non parlare più degli avvenimenti passati, ma noi che lo conoscevamo sapevamo che quella nuova ferita, che veniva ad aggiungersi alle altre, sanguinava nel suo cuore.
Approfittai del fatto che i doveri di visir non lo occupavano più per pregarlo di redigere per il mio piacere un commento alle opere di Aristotele. Mi fece notare che non aveva la mente abbastanza libera per intraprendere un simile lavoro, che necessitava di polemiche e controverità, ma aggiunse: «Invece, se tu sei disposto ad accettare un’opera in cui io sviluppi semplicemente tutto ciò che trovo di positivo in Aristotele, evitando di discutere i punti controversi, sono pronto a offrirtela».
Naturalmente fui più che felice di accettare, e lo sheikh cominciò subito l’opera che intitolò poi Shifa, la “guarigione”. Quei volumi saranno per la filosofia ciò che il Canone è per la medicina: il Canone farà di lui il maestro incontestato delle scienze naturali e lo Shifa del pensiero filosofico.
Il tempo passò. Ibn Dakhdul aveva insegnato allo sheikh un gioco appassionante, il “gioco del bramino”, che consisteva nel dare battaglia su una scacchiera servendosi di figure d’avorio raffiguranti cavalieri, ministri, torri e soldati. La leggenda vuole che questo gioco sia stato inventato da un bramino indù per divertire un principe arabo. Era un gioco molto popolare nella regione ma, data la sua complessità, i buoni giocatori erano rari. La mente matematica del figlio di Sina eccelse naturalmente in quel gioco e presto propose nuove aperture al suo ospite, frustrato ma nondimeno ammirato.
Fu nel corso di una delle loro partite, mentre entravamo nel quarantesimo giorno del nostro esilio, che il figlio di Shams el-Dawla in persona venne a cercare lo sheikh. Suo padre soffriva atrocemente, vittima di una crisi di ulcera. Alì partì immediatamente.
Ignoro i particolari di quel che si dissero Shams e il suo medico, rivedendosi dopo quella lunga separazione. Tutto ciò che so è che, alcuni giorni dopo, mentre la preoccupazione cominciava a tormentarci, una nuova delegazione giunse alla proprietà e ci annunciò che lo sheikh ci attendeva a Hamadhan: il sovrano l’aveva nominato visir per la seconda volta.
1 “La mano destra dello stato”. Era uno dei titoli attribuiti a Mahmud dal califfo di Baghdad. Lo strumento monumentale costruito da el-Biruni era indicato, secondo l’usanza, col nome del protettore reale (N.d.A.).
2 El-Biruni stenderà effettivamente questa tavola, che conterrà più di seicento punti e permetterà di determinare scientificamente la direzione della Mecca (N.d.A.).
3 Il forte di Nandana, di cui sussistono alcuni resti, sorgeva in una regione ricca di valli a un centinaio di chilometri a sud di Islamabad, l’attuale capitale del Pakistan (N.d.A.).
4 I suoi risultati, riportati in chilometri per maggior chiarezza, sono di un’esattezza sorprendente: confrontati con le cifre attuali – 6370,98 km, o 6353,41, alla latitudine di Nandana – presentano un errore di soli 17,57 km (N.d.A.).