Ventiquattresimo makama
«Cielo della nazione, non posso e non voglio ritornare sulla mia decisione».
Seduto sul trono, Samà el-Dawla, nuovo sovrano di Hamadhan e del Kirmanshahan, si sporse in avanti e intrecciò bruscamente le dita. In piedi al suo fianco, il ciambellano Taj el-Molk non disse niente.
«Sheikh el-rais, deploro il tuo atteggiamento. Sono due settimane che mio padre è morto e tu ti ostini a non voler riprendere le tue funzioni di visir. Ma cosa ti ho fatto per meritare un tale comportamento? Ho in qualche modo ferito o diminuito le prerogative della tua carica?»
«Tu non sei per nulla responsabile della mia decisione. Posso assicurarti che niente nel tuo comportamento mi ha influenzato. Ma, Cielo della nazione, io non posso dedicarmi contemporaneamente alla medicina e alle funzioni di visir, all’insegnamento e alla politica. In questi cinque anni in cui ho occupato questa carica, ti confesso che non l’ho fatto con gioia, ma unicamente per amicizia nei confronti di tuo padre».
Samà si irrigidì, turbato, e Taj el-Molk colse l’occasione per intervenire:
«Se capisco bene, tu non provi nei confronti del nostro nuovo principe nessuno dei sentimenti che ti legavano al sovrano defunto! Ciò ferisce, sheikh el-rais, e indigna».
Alì fissò l’hajib con disprezzo. Non aveva mai avuto per quell’uomo la minima simpatia e sapeva che si trattava di un sentimento reciproco. Oltretutto, durante i quaranta giorni del suo esilio forzato, era stato el-Molk a succedergli in qualità di visir: l’uomo aveva conosciuto il potere e non si era affatto rallegrato del ritorno del rais. Se per tutto quel tempo el-Molk era riuscito a mascherare la sua aggressività, oggi la manifestava apertamente.
«Hajib», disse dolcemente, «quello che indigna è il giudizio che tu dai di me. Che ne sai tu dei miei sentimenti?»
E si rivolse a Samà:
«Cielo della nazione, sappi che io ti rispetto e che ho per te la medesima considerazione che avevo per tuo padre. Si tratta di altro: si tratta della mia libertà».
«Un visir non è un volgare mammalucco, e un palazzo non è una prigione!»
«Naturalmente, ma non è questo il problema. Io, te lo ripeto, non mi sento più in grado di portare avanti allo stesso tempo la politica e la scienza».
Samà scosse il capo e rimase un istante pensoso. Poi disse:
«Sta bene, non posso che piegarmi alla tua volontà. Tuttavia, se accetto di perdere il visir, tengo a conservare il medico: o hai forse l’intenzione di abbandonare anche questa carica?»
«Non rinuncerei mai a questo onore, Maestà: la mia scienza ti appartiene».
Il volto del giovane si distese.
«Ne sono felice, pur augurandomi che non te ne debba servire troppo spesso».
«Non temere, tu sei giovane e forte e passerà molto tempo prima che tu debba ricorrere alle mie cure».
«Inshallah, sheikh el-rais: dalla tua bocca alle porte del cielo».
Si sporse verso il ciambellano e, con un sorriso forzato, concluse:
«Taj, puoi ringraziare il nostro amico: eccoti di nuovo visir».
Yasmina si stirò languidamente sulla coperta di lana, offrendo il volto al sole che filtrava attraverso le tende socchiuse.
«E pensare che esistono persone che condannano i piaceri della carne!»
Si accarezzò lentamente i fianchi nudi e si rannicchiò contro il corpo di Alì.
«Mia amata, sappi che lo sciocco non gusta il piacere più di quanto l’individuo raffreddato apprezzi il profumo della rosa».
Avevano fatto l’amore per due ore, con la stessa passione del primo giorno. Giunti alla perfetta conoscenza dei loro corpi, sapevano ormai raggiungere vertici di piacere ogni volta diversi, con sottili mescolanze di violenza e dolcezza, perversità e virtù.
Yasmina sfiorò distrattamente la pietra blu sul torace del suo amante.
«Benedetto sia il giorno in cui quella donna ti ha fatto questo dono: saprà mai quanto ha contribuito alla tua e alla mia felicità?»
«Piaccia all’Invincibile che questa protezione occulta duri ancora a lungo: ne avremo bisogno».
Yasmina lo guardò sorpresa.
«Sì», continuò, «nuovi sconvolgimenti ci attendono, ma questa volta sarò io l’istigatore».
Anticipando le domande della sua compagna spiegò:
«Qualche giorno fa ho scritto all’emiro di Isfahan».
«Ala el-Dawla?»
«Proprio lui».
«Il nipote di Sayyeda?»
«Esatto, e lontano cugino del nostro nuovo sovrano».
«E perché?»
«Per offrirgli i miei servizi».
«Hai perso la testa?»
«No, dolcezza dei miei occhi, non sono mai stato così lucido. Se tutto va bene, tra qualche tempo verremo invitati alla corte di Isfahan».
«Spiegati, te ne prego».
«Non ignori certo che, da quando suo padre è morto, Samà non ha smesso di tormentarmi perché conservassi la carica di visir. Ho praticato troppo a lungo il mondo della politica per aver voglia di restarvi: è il frutto più amaro che conosca. Samà non ha accettato di buon grado le mie dimissioni».
«Ma ti ha comunque reso la libertà!»
«A malincuore, posso assicurartelo».
«Che importa, dato che te l’ha concessa. Cosa temi? Conosce l’amicizia che suo padre aveva per te e ti rispetta».
«Hai la memoria corta, Yasmina: hai dimenticato gli avvenimenti di pochi mesi fa? La levata di scudi suscitata dal mio decreto?»
«È cosa passata: ora non sei più visir».
«Shams è morto, ma l’esercito rimane, e nelle sue file esistono uomini che provano per me un odio feroce. Finché il principe era vivo nessuno avrebbe osato attaccarmi, ma oggi sono un bersaglio senza protezione, vulnerabile come un paziente tra le mani del suo medico».
«Samà ti proteggerà come ha fatto suo padre».
«Ti sbagli, Yasmina. Ha solo ventitré anni, e non possiede l’influenza di suo padre né la sua capacità di imporsi. Inoltre, c’è un uomo a corte che è invidioso di me da sempre: il nostro nuovo visir, Taj el-Molk».
«Questo figlio di Tajik è una persona senza importanza, incapace della minima iniziativa».
«Altro errore, dolcezza dei miei occhi. Conosci male le persone: Taj cederà alle prime richieste dell’esercito e, se quello verrà a reclamare la mia testa, lui gliela offrirà senza la minima esitazione».
Yasmina si girò sulla schiena, fissando tristemente il soffitto arabescato.
«Tutto a un tratto ti trovo molto pessimista».
«Per nulla: semplicemente realista».
«Cos’è che ti fa credere che l’emiro di Isfahan ti accorderà ospitalità?»
«Conosco la sua reputazione: è un amante delle arti e delle scienze, un essere buono e generoso. Senza dubbio l’elemento più sano della dinastia buyide».
«Isfahan… Ecco che partiamo un’altra volta».
«Non temere: questa sarà l’ultima, ne sono certo».
«Che Allah ti ascolti, figlio di Sina, fratello mio. E ringrazialo di non aver dovuto dividere il tuo letto con una donna fragile o pusillanime!»
Lui sorrise e si chinò sulle sue labbra.
«Cuore mio, se tu fossi stata fragile ti avrei comunicato la mia forza, e se fossi stata pusillanime ti avrei dato il mio coraggio. Ma in realtà sono io che attingo tutto ciò da te».
L’ombra della notte si rifletteva nella sala di vetro.
Taj el-Molk intrecciò le dita sul ventre con aria affettata e si mosse a piccoli passi verso Samà.
«Lo sapevo, Cielo della nazione, lo sapevo che ciò ti avrebbe addolorato; ma che vuoi, gli uomini sono ingrati».
Il giovane principe riportò l’attenzione sulla lettera che gli aveva portato il visir, e la rilesse per la seconda volta.
«Faccio fatica a crederci».
«Solo Dio conosce l’interno dei cuori».
«Gli ho offerto la carica di visir e l’ha rifiutata. In memoria di mio padre ho ceduto a tutti i suoi desideri, ed ecco che come ringraziamento va a offrire i suoi servigi a un altro sovrano».
Taj el-Molk parve rimpicciolire e fissò il pavimento con falsa afflizione.
«Bisognava aspettarselo, Maestà. Ricordati che non ha affatto nascosto i suoi sentimenti nei tuoi confronti».
«Oltretutto mi aveva assicurato che non avrebbe abbandonato le sue funzioni di medico di corte! Tu ne sei testimone, Taj: non è vero che l’aveva promesso?»
«“Non rinuncerei mai a quest’onore, Maestà: la mia scienza t’appartiene”: queste sono state le sue precise parole».
Samà spiegazzò con rabbia la lettera.
«Faccio fatica a crederci».
«Eppure il tradimento è evidente».
«Non mi lascia molta scelta. Dove si trova in questo momento?»
«Come ogni sera, Maestà, è assieme ai suoi discepoli, nei suoi appartamenti. A questo proposito, devo confessarti che non ho mai trovato molto sane quelle riunioni: il khamr1 vi scorre a fiumi, si suonano canzoni licenziose e si discute di teologia. Eppure sta scritto: “Sulla terra, voi non vorrete opporvi alla potenza di Dio”».
Samà sbatté le ciglia.
Il visir riprese, con maggior fermezza:
«In verità non c’è da stupirsene, dato che ho sentito cose stupefacenti sul suo passato: suo padre si sarebbe convertito all’ismailismo, e la madre avrebbe appartenuto alla cattiva religione».
«Sua madre? Una nestoriana?»
«No, Cielo della nazione: una yahudeya, un’ebrea».
«Da dove ti vengono queste informazioni?»
«Abbiamo le nostre spie, Maestà, e poi le voci corrono in fretta in questo paese: mi hanno detto che proprio perché il suo passato era stato scoperto ha dovuto fuggire in fretta da Raiy e dal servizio di Sayyeda».
«Eppure lo sheikh è sempre stato uno sciita esemplare».
Taj piegò leggermente il capo.
«Capita che i miscredenti si servano di stratagemmi per meglio impadronirsi di noi: lo sheikh è solo un ladro di sejadeh».
Si era espresso in tono volutamente neutro, il che ebbe l’effetto di accrescere il nervosismo del principe.
«Va’! Che sia arrestato, subito! E che da domani venga rinchiuso nella fortezza di Fardajan!»
Il fratello di Alì represse uno sbadiglio. Quelle riunioni cominciavano a sfinirlo. Lui, uomo legato alla terra, iniziava a provare una certa stanchezza ad ascoltare quelle discussioni di cui non capiva granché. Quella sera, però, era diverso: l’argomento al centro del discorso era la poesia, e Ibn Zayla, con la sua solita passione, interrogava lo sheikh sulla trasmissione della poesia attraverso i secoli.
«Noi sappiamo che la maggior parte degli antichi poeti arabi era analfabeta; ma allora, come hanno fatto a farci pervenire le loro opere?»
«La memoria: grazie alla tenace memoria dei rawi, i raccoglitori e le voci recitanti. Ogni poeta aveva il suo rawi, che conservava i versi nella memoria».
«È vero che il Profeta odiava i poeti?» chiese el-Jozjani.
«Verissimo. Egli diceva di loro: “Questi esseri che vagano come insensati per le valli e dicono ciò che non fanno…” In verità, questo disprezzo non deve stupire. Capita spesso che ci si esprima così quando si è un grande poeta: basta leggere alcune sure, in particolare le più antiche, per rendersene conto. Tuttavia, pur disdegnando la poesia, Muhammad non mancò di servirsi dei poeti per la “propaganda” e la satira, poiché grande era il potere della poesia nella vita pubblica. Aveva anche un poeta di corte, Ibn Tabit, della tribù medinese degli Hazrag. Ma ora basta con le chiacchiere: chi recita qualcosa?»
Ibn Zayla recitò versi pieni di malinconia, composti da un certo el-Ahwas, che si era attirato molte seccature per il suo libertinaggio sfrenato ed era morto in esilio in un’isola del mare di Qolzum2, sotto il califfato di Omar II. Mentre l’assemblea onorava il talento del poeta, Mahmud si alzò e andò a respirare una boccata d’aria pura alla finestra. I giardini profumavano la notte di cannella e di rosa, la volta del cielo digradava di là dalle colline, e tutto era immobile, nella serenità notturna. Fu senza dubbio per questo che l’improvviso galoppo dei cavalli assunse un insolito rilievo. Mahmud fu il primo ad accorgersene. Vestiti con l’uniforme verde del terzo squadrone, una decina di mammalucchi si erano appena fermati non lontano dalla grande fontana. Cosa facevano in quel luogo e a quell’ora di notte? In preda a un’improvvisa angoscia chiamò suo fratello, mentre i soldati scendevano da cavallo.
«Alì, vieni qui un momento!»
«Che succede? Sto…»
«Vieni a vedere, ti dico!»
Il tono della sua voce doveva essere stato abbastanza preoccupato, perché il medico si decise a venire alla finestra.
«Guarda, non ti pare strano?»
Alì guardò nel giardino, ora pieno di uniformi in movimento e rumore di stivali sul selciato.
«Mammalucchi… e allora?»
«Qui? A quest’ora?»
«Forse stanno cercando qualcosa».
«O qualcuno».
Ibn Sina credette di percepire una certa inquietudine nella risposta.
«Cosa ti prende, Mahmud? Vorresti…»
«Zitto! Stanno salendo!»
«Ma calmati! Cominci a spaventarmi!»
Alì si diresse alla porta.
«Ora lo sapremo».
«Non andare!»
Mahmud aveva gridato così forte che nella stanza si fece silenzio, e tutti lo guardarono.
«Che succede?» chiese el-Jozjani preoccupato.
«Niente: mio fratello ha visto dei jinn».
Stava per posare la mano sulla maniglia di bronzo quando Mahmud si gettò letteralmente su di lui.
«Non andare, fratello mio, ti prego: ho un brutto presentimento».
Alì stava per rispondere quando all’improvviso la porta tremò violentemente ed ebbe appena il tempo di spostarsi all’indietro.
Sotto lo sguardo atterrito dei presenti, quattro mammalucchi si precipitarono nell’appartamento, con la sciabola nel fodero. In un lampo si impadronirono dello sheikh, mentre gli altri si appostavano sull’entrata, impedendo ogni tentativo di fuga.
«Ordine del principe!» abbaiò uno dei soldati. «Sei in arresto!»
«Cosa significa?»
«Ordine del principe e basta».
Furibondo, lo sheikh tentò invano di liberarsi.
Tra gli astanti si produsse una certa agitazione, e alcuni osarono perfino un gesto minaccioso verso le guardie.
«Che nessuno si muova!» sibilò il capo dei mammalucchi. «Altrimenti vi giuro, per il Santo Nome del Profeta, che scorrerà il sangue».
Noncurante dell’avvertimento, Mahmud fissò il soldato con disprezzo.
«Un intero squadrone per arrestare un uomo soltanto, e disarmato: il coraggio dell’esercito è davvero notevole!»
Il mammalucco piegò sprezzante le labbra, e con un movimento repentino diede un pugno in faccia al giovane, che per la violenza del colpo barcollò all’indietro.
Prima che avesse il tempo di riprendersi, due soldati si precipitarono su di lui.
«Se non vuoi accompagnare tuo fratello nella Geenna, ti consiglio di tenere la lingua a posto!»
«Ma dove lo portate?» chiese el-Jozjani, cercando di reprimere il proprio furore.
«A Fardajan, domani all’alba, e per un bel pezzo».
«A Fardajan?» esclamò incredulo Ibn Sina.
«Almeno là sarai inoffensivo, e forse, dopo una decina d’anni, ti sarà passata la voglia di attentare ai diritti inalienabili dell’esercito!»
Dopo un’ultima occhiata agli astanti costernati, fece segno ai suoi uomini di condurre via lo sheikh.
Le mura della cella gocciolavano da ogni poro, e vi regnava un freddo glaciale. Seduto nelle tenebre da più di tre ore, le ginocchia contro il petto, Alì si sforzava invano di controllare i brividi che gli scuotevano il corpo.
Hai girato il mondo, Ibn Sina. Col pensiero sei andato da un capo all’altro dell’universo, ti sei raccolto in solitudine, ti sei annullato nell’amore e nel vino, e credevi di aver visto tutto. Ebbene, tutto ciò che hai visto non era nulla, tutto ciò non è ancora nulla.
Per non precipitare nella disperazione chiuse gli occhi, tentando di riportare la sua attenzione su ciò che di bello aveva conosciuto.
Saremmo forse solo un pedone in questa partita del gioco del bramino? Un pedone che l’arbitro supremo getta nella scatola a suo piacimento?
Un ratto gli sfiorò i piedi, ma non provò nemmeno a cacciarlo. Un’idea folle gli attraversò la mente: e se il pedone decidesse di trasgredire le regole? Se decidesse di imbrogliare l’arbitro ritirandosi autonomamente, e anzitempo, dalla partita?
Istintivamente si frugò nelle tasche del sirwal, senza sperare di trovarci qualcosa. Pochi dinari, un foglio stropicciato… la mano risalì alla vita: in un attimo slacciò la cintura.
La fibbia d’argento brillò appena nella penombra; l’aprì e afferrò il piccolo ardiglione dalla punta arrotondata. Col dito carezzò lentamente il freddo metallo per tutta la sua lunghezza; poi, afferrandolo tra pollice e indice, effettuò un movimento di torsione, dall’alto in basso, finché il metallo cedette, trasformando la punta in un’estremità affilata.
Con la medesima lentezza, rimboccò la manica della veste, scoprì il polso sinistro ed esaminò la propria pelle come se la vedesse per la prima volta: lui, meglio di chiunque altro, conosceva l’intreccio delle vene, il loro scorrere vitale, la loro vulnerabilità.
Meditò un attimo prima di appoggiare sulla pelle la piccola punta argentata. Poi, quasi con voluttà, la mosse in senso orizzontale, tracciando una linea invisibile.
Perché la felicità è così vicina all’infelicità?
S’interruppe e bruscamente, inserendo la punta un po’ sopra il palmo della mano, perforò la carne. Apparve un rivolo di sangue, che scorse come la condensa sulle pareti d’una coppa di vino gelato.
Senza battere ciglio allargò la ferita, sorpreso di non provare alcun dolore. D’altronde, anche se ne avesse provato, lo avrebbe controllato: non era forse il principe dei saggi, che sapeva così bene placare la sofferenza del mondo?
Un sorriso malinconico gli apparve sulle labbra, mentre il rivolo di sangue cresceva insensibilmente, e le prime gocce cominciavano a cadere sulla pietra. Soddisfatto, lasciò ricadere il braccio e gettò il capo all’indietro.
«In nome di Dio, Colui che agisce con misericordia, il Misericordioso! Sheikh el-rais, cos’hai fatto!»
La prima cosa che vide fu il volto sfigurato dalla paura di el-Jozjani.
«Figlio di Sina, come hai potuto?»
Poi intuì i tratti di suo fratello chino su di lui. Ma era proprio suo fratello?
«Che Allah ci aiuti: bisogna arrestare l’emorragia».
Sentì che lo afferravano per le spalle.
«Ti prego, se non sei diventato matto, dimmelo… dimmi come fermare il sangue!»
Cercò di parlare, ma le parole gli si smarrirono nella testa.
«Siamo venuti a liberarti. Mi senti? A liberarti!»
«Ci resta poco tempo», disse el-Jozjani a bassa voce. «Dobbiamo fare presto».
Tentò di riunire le forze che gli restavano, ma c’era quel velo fitto, quella strana sensazione che i suoni e le immagini provenissero dall’altro capo del mondo. Credette di percepire di nuovo la voce del fratello.
«Sono io, Mahmud. Ti prego, rispondimi… ti stai dissanguando… morirai…»
Una scacchiera gigante… pedoni giganti spostati nella notte…
Morire… ma perché pronunciavano quella parola? Il principe dei medici poteva forse morire?
Con un gesto vago indicò il cinturone e portò la mano al di sopra della spalla.
«Legare… bisogna legare…»
Aveva balbettato qualcosa… ma era sua la voce che aveva parlato?
Sentì una mano che gli sollevava l’avambraccio e il contatto freddo del cuoio sulla pelle.
Ora qualcuno lo sollevava da terra e si sforzava di portarlo via.
All’esterno il vento notturno gli schiaffeggiò la pelle, e un profumo di rosa gli riempì i polmoni.
1 Il vino (N.d.A.).
2 L’attuale Mar Rosso (N.d.A.).