Ventinovesimo makama
Il tuono brontolava su Isfahan, accompagnato da violenti lampi che laceravano il cielo.
«Sheikh el-rais, sheikh el-rais, svegliati!»
Yasmina si svegliò per prima.
«In nome di Allah, che agisce con misericordia, il Misericordioso: che succede?»
Coperti per un momento dai tuoni, i colpi alla porta raddoppiarono di intensità. Alì si precipitò ad aprire e riconobbe immediatamente uno dei servitori, che pareva estremamente turbato.
«Maestro, perdonami, ma è appena arrivata una guardia dell’emiro: sei desiderato con la massima urgenza al serraglio. La sposa del nostro sovrano è malata».
Alì replicò senza esitare:
«Digli che arrivo immediatamente, e fa’ sellare il mio cavallo».
Richiusa la porta cominciò a vestirsi, sotto lo sguardo assonnato di Yasmina.
«Decisamente», mormorò la donna, rituffando il capo tra i cuscini, «sia che curi principi o mendicanti, un medico non è in condizioni molto diverse da uno schiavo».
Alì approvò borbottando qualcosa, mentre finiva di annodarsi il turbante.
Un istante dopo, sotto una pioggia torrenziale, galoppava verso il palazzo.
La principessa Laila era distesa su un ampio letto, coperto da un baldacchino di legno di Siria sul quale erano state incise alcune frasi del Libro sacro. Erano state bruciate perle d’ambra, e molte persone si stringevano attorno al capezzale della sovrana: quattro donne velate, Aslieri e l’emiro il quale, terribilmente pallido, teneva tra le sue la mano della sposa. Ai piedi del letto era stato sistemato un braciere di rame, sul quale bolliva una pentola d’acqua. Il vapore che ne emanava si mescolava al fumo dell’incenso, diffondendo nella stanza una sottilissima nebbia.
«Presto, sheikh el-rais!» esclamò Ala el-Dawla. «Sta per morire!»
Nello stesso momento le donne indietreggiarono, rivelando agli occhi di Alì uno spettacolo inatteso.
Distesa sulla schiena, il ventre scoperto, rotondo e prominente, le gambe nude ripiegate e le cosce spalancate, la principessa Laila era in preda ai dolori del parto. Solo la parte superiore del suo corpo era protetta da una camicia di seta, arrotolata all’altezza del seno.
Quando si chinò sulla donna, Alì provò una seconda emozione. Era molto più che bella: nonostante fosse bagnato di sudore, la perfezione del suo volto era sublime, e lui si disse che la bellezza stessa doveva essersi ispirata a questa donna per segnare il mondo. Nei suoi occhi sconvolti dalla febbre dormivano due laghi di smeraldo e le sue labbra parevano un frutto aperto, una melagrana fremente sotto il sole. La cosa più stupefacente era che quella bellezza era intatta, nonostante l’espressione di grande dolore impressa sul suo volto.
La donna gridò e tutto il suo corpo si contrasse, come toccato da una brace ardente.
«Muoio… per pietà, aiutatemi».
«Figlio di Sina», gemette l’emiro, «salva la mia donna, ti scongiuro!»
Aslieri freddamente osservò:
«Ahimè, Eccellenza, Allah stesso non potrebbe farci nulla. Il bambino si presenta col podice: bisogna sacrificarlo, se vogliamo avere una possibilità di salvare la madre».
«Non se ne parla nemmeno! Sono cinque anni che aspetto un erede, cinque anni! Il trono di Isfahan non può rimanere vuoto dopo la mia morte! Non si discute!»
«Ma Maestà…»
«Non voglio sapere nulla! Salvate la mia sposa e salvate il bambino!»
Yohanna Aslieri sollevò le braccia in un gesto di impotenza e si rivolse ad Alì.
«Spiegaglielo tu, sheikh el-rais, fagli comprendere che la medicina non è una scienza che opera miracoli».
Un nuovo grido lacerò la penombra della stanza. Come sotto l’effetto d’un colpo d’ariete, il corpo della principessa si sollevò a mezzo, poi ricadde di colpo, e il suo respiro si trasformò in un rantolo.
L’emiro afferrò la manica del rais.
«Dimmi che quest’asino di Rum si sbaglia, dimmi che non capisce niente!»
Dopo un momento, Alì rispose, con un’espressione grave sul volto:
«Purtroppo, Eccellenza, Aslieri ha ragione: il bambino deve morire, se vogliamo che la tua sposa viva».
«NO!»
Ala el-Dawla aveva urlato.
«No! Ricacciati in gola queste parole: non spetta al maggior medico di Persia parlare di morte!»
«Ma che possiamo fare, Nobiltà della nazione?» protestò Aslieri. «Non esiste altra soluzione».
Nel frattempo Alì, che non aveva smesso di osservare la principessa, cominciò a tastarle il ventre, cercando di stabilire con esattezza la posizione del neonato.
Terminato l’esame, si rivolse all’emiro.
«Signore», cominciò, senza molta convinzione, «forse una soluzione c’è».
Gli occhi neri del principe s’illuminarono immediatamente.
«Poiché questa è la tua volontà, potremmo cercare di salvare entrambe le creature».
L’emiro fece per rispondere, ma Alì lo fermò.
«Ho detto potremmo, Eccellenza».
E aggiunse, fissando il principe con molta franchezza:
«Le possibilità di riuscita sono quasi nulle».
«Che vorresti fare?» chiese Aslieri sbalordito.
«Praticare un intervento chirurgico che permetta di estrarre il bambino attraverso il ventre».
«Un cesareo1? È una follia, noi…»
Ala gli intimò di tacere e interrogò lo sheikh.
«Il bambino si salverebbe?»
«Senza dubbio».
«E…»
Senza aspettare la domanda, Alì rispose:
«Te l’ho detto: le possibilità di salvare la madre e anche il bambino sono praticamente nulle. L’intervento in sé non è impossibile, ma devi sapere che le sue conseguenze metteranno inevitabilmente a repentaglio la vita della principessa, in quanto siamo completamente disarmati di fronte al pericolo di infezioni: sono queste che ne decideranno il destino».
Il principe si girò e si prese il capo tra le mani.
«Il destino… la sua crudeltà può essere infinita».
Un pesante silenzio scese nella camera, interrotto unicamente dai rantoli della principessa, fino a che un nuovo grido, più acuto dei precedenti, risuonò nella stanza.
Ala el-Dawla disse, con voce soffocata:
«Isfahan ha bisogno di un erede… Isfahan deve vivere».
«Anche se fosse una femmina?» osservò Aslieri.
«Anche: avrà la forza dei Dawla. Va’, sheikh el-rais: il mio amore e la mia progenitura sono tra le tue mani».
Yohanna Aslieri protestò con forza:
«È una follia: questo genere di intervento è già stato tentato ed è sempre fallito».
«Sheikh el-rais», disse el-Dawla, «lascia perdere gli invidiosi e fa’ il tuo lavoro».
«Sei pronto ad assumertene la responsabilità? Ne sei certo?»
«Fa’ il tuo lavoro», ripeté semplicemente il principe.
«Se le cose stanno così, non c’è più tempo da perdere: voglio che tutti lascino la stanza, e al mio fianco desidero solo la mia donna. Fatela chiamare».
Aslieri arrossì.
«Lei non è medico…»
«Mi ha già aiutato e sa cosa fare. Ma avrò anche bisogno del tuo aiuto: mi sarà prezioso».
Aslieri annuì, visibilmente sollevato.
«Devo ritirarmi anch’io?» chiese preoccupato l’emiro.
«Sarebbe meglio, Eccellenza: per il bene di tutti».
Il tono impiegato da Alì fu cortese, ma abbastanza fermo da indurre l’emiro a inchinarsi.
Rivolgendosi alle donne, il rais aggiunse:
«Mi occorrono biancheria, asciugamani puliti, fazzoletti e un grande lenzuolo: immergete tutto nell’acqua bollente. Ho bisogno anche di un altro braciere e di una brocca di vino».
Le donne uscirono in uno sventolio di veli, seguite dal sovrano.
«Mando subito a chiamare la tua sposa», disse, gettando un ultimo sguardo alla pallida principessa. «E che Allah sia con te».
Nei bruciaprofumi d’argento non ardevano più le perle d’ambra e la sovrana, completamente nuda, dormiva sul lenzuolo disteso sotto di lei, precedentemente immerso nell’acqua bollente. La forte dose di papavero che le era stata somministrata, quasi un quarto di mann2, aveva avuto ragione della sua lucidità e delle sue sofferenze.
Con un asciugamano imbevuto di vino Yasmina aveva preparato la zona dell’operazione, proprio sopra il pube, e ora, sotto lo sguardo a un tempo affascinato e terrorizzato di Aslieri, lo sheikh posò sul ventre rotondo della sovrana la punta affilata di un coltello, ancora rosso delle fiamme del braciere.
Attese un istante per assicurarsi che Laila fosse addormentata profondamente e incise con fermezza il derma superiore in una lunga linea orizzontale, fermandosi alla base dell’ombelico. Dall’incisione sprizzò immediatamente un rivolo di sangue. Senza attendere l’ordine del rais, Yasmina afferrò una tenaglia, con la quale prese dal braciere un cauterio d’oro riscaldato al calor bianco e, reggendolo con decisione, bruciò i bordi del solco lasciato dalla lama.
Arrestata l’emorragia, lo sheikh riprese il suo lavoro, penetrando nei muscoli addominali e sezionando lentamente i tendini; Yasmina cauterizzò, e lui proseguì, penetrando sempre più nella carne.
Il tempo si era come immobilizzato e si udivano solo le raffiche di pioggia che sbattevano contro le finestre del palazzo. Quando l’addome fu tagliato, lo sheikh ordinò ad Aslieri:
«Ora bisogna ingrandire al massimo l’apertura».
Il medico, che stava pronto ad agire, sistemò sulle due labbra della ferita un divaricatore largo più di quattro pollici, e cominciò ad allargare le pareti.
«Lentamente», sussurrò Alì, «altrimenti rischiamo un taglio troppo grande, che poi avremmo difficoltà a ricucire».
Un po’ incerto, Aslieri assentì con un movimento della testa.
Un lampo attraversò il cielo, illuminando per un attimo i volti lucidi di sudore e mostrando il sacco colmo di amnio nel quale riposava immobile il bambino.
«Si sta svegliando!» gridò improvvisamente Yasmina, indicando la principessa.
In effetti, sotto lo sguardo preoccupato dello sheikh, la giovane donna cominciò a battere a più riprese le palpebre e a contrarre le dita.
«Bisogna darle un’altra dose di papavero!» disse Aslieri spaventato.
«Impossibile: non è in condizione di bere nulla. I suoi riflessi sono alterati, e vomiterebbe il liquido, o rischierebbe di soffocare. Non abbiamo scelta: dobbiamo terminare l’intervento, e pregare l’Altissimo che resista ancora un po’».
Più determinato che mai, Alì forò la membrana protettrice del sacco che conteneva le acque, che si riversarono nell’utero della donna.
Il bambino stava là, in fondo alla cavità uterina, rannicchiato su se stesso, immobile. Si poteva intuire il battito del suo cuore, estremamente veloce, come la sabbia che cade nella clessidra.
«Che sia…?» chiese Yasmina sconvolta.
«No, è ancora nel suo mondo: dorme».
Alì ordinò alla compagna di versargli del vino sulle mani; poi, dopo un istante di esitazione, le immerse nell’acqua caldissima fin sopra il polso.
Mordendosi le labbra, Yasmina trattenne un grido e distolse lo sguardo.
Ritirando le mani fumanti, lo sheikh le introdusse lentamente nel ventre aperto della principessa e, con mille precauzioni, come se fosse il più gran tesoro dell’universo, sollevò il bambino, srotolando al contempo il cordone ombelicale. Poi ordinò ad Aslieri:
«Presto Yohanna, taglia il cordone!»
Come ipnotizzato, il medico non reagì: fu Yasmina a precipitarsi su un coltello e a tagliare l’ultimo legame che univa ancora la madre al bambino.
«Scusatemi», balbettò Aslieri, «ma io…»
Alì non lo ascoltava. Afferrando il bambino per le caviglie, lo rovesciò a testa in giù e lo colpì seccamente sulle natiche. Subito non accadde nulla; poi il bambino emise un piccolo grido, per scoppiare in singhiozzi nel momento in cui l’aria gli riempì i polmoni.
«Ora», disse lo sheikh affidando il bambino a Yasmina, «dobbiamo occuparci della madre».
Prese un ago, alla cui estremità la sua compagna aveva già infilato un lungo filo di palma imbevuto di vino, ne bruciò la punta sulla fiamma del braciere e tornò verso la principessa. La donna pareva essere ricaduta nel sonno, e le dita delle sue mani, poco prima contratte, erano ora distese.
Intanto Aslieri, ripresosi, aveva tolto il divaricatore e poi si era spostato, lasciando campo libero allo sheikh, il quale cominciò a ricucire la ferita. Ancora una volta il tempo parve immobilizzarsi, mentre le raffiche di pioggia svanivano verso le pianure del Fars. Nel momento esatto in cui terminava il lavoro, la sovrana si mosse di nuovo, ma questa volta spalancò gli occhi e mosse la testa.
«Mi fa male», disse con voce rotta. «Ho il fuoco nel ventre».
Il figlio di Sina si precipitò su di lei e le tastò il polso.
«Non avere paura», le disse in tono rassicurante. «Va tutto bene: il bambino è sano e salvo».
«Il bambino?» chiese lei dolcemente.
«Sì: l’abbiamo salvato».
Stava per aggiungere: «Salveremo anche te», ma lei aveva nuovamente perso conoscenza.
Alì continuò a sentire con attenzione le sue pulsazioni prima di raddrizzarsi, grave in volto.
«Quando avrà ripreso i sensi, bisognerà farle bere ancora un po’ di giusquiamo e polvere di ferro sciolta in latte caldo. Per il momento, Yasmina, vorrei che tu coprissi la cicatrice con un cataplasma di henné, e fa’ attenzione a non tagliare assolutamente il filo».
«E poi?» chiese Aslieri.
«L’Onnipotente deciderà se dovrà vivere o morire: io non posso più fare molto».
Senza aspettare, si diresse rapido verso la porta dietro la quale attendeva Ala el-Dawla. Non appena fu entrato, il principe balzò verso di lui.
«Simbolo della nazione», annunciò lentamente, «il tuo desiderio è stato esaudito. Isfahan ha un erede: è un maschio».
Nelle settimane successive, la principessa oscillò tra la vita e la morte. Cento volte il mio maestro credette di essere sul punto di perderla, e cento volte la ritrovò. Aveva fatto mettere una stuoia ai piedi del suo letto, e non la lasciò un solo istante, bevendo e mangiando nella stanza per tutto il tempo in cui durò il pericolo, convinto di fungere da bastione contro gli assalti dell’angelo delle tenebre. Non appena si accorgeva che la vita della giovane donna vacillava, il suo stesso corpo si tendeva e il suo spirito lottava per trattenerla e infonderle la sua forza.
Non sapeva nulla delle lotte che si svolgevano nel corpo della principessa. Mi confidò che le intuiva solamente, come un osservatore percepisce intuitivamente i movimenti dell’universo e la corsa delle galassie. Quel senso di impotenza lo irritava. Detestava la sua ignoranza, rendendosi conto allo stesso tempo di quanto inutile poteva essere la scienza di fronte a certe manifestazioni naturali. Perché quegli attacchi di febbre improvvisa? E quelle brutali alterazioni del battito cardiaco? Cosa dava origine, lungo la cicatrice, a quelle pustole piene di una sostanza giallastra? Quali armi possedevano le legioni invisibili del corpo per resistere ai più temibili assalti? Aveva sempre saputo che quel tipo di intervento non poteva riuscire: nei giorni successivi la paziente moriva di febbre. Perché Laila sopravviveva? L’unica conclusione che trasse da quell’esperienza fu che se davanti alla malattia siamo tutti uguali, alcuni di noi possiedono il dono divino di vincere là dove la medicina si rivela impotente.
Un mese e tre giorni dopo il parto la principessa poté alzarsi e lasciare la camera. Era terribilmente dimagrita, certo, ma la sua eccezionale bellezza era rimasta intatta.
Al principe ereditario venne dato il nome di Shams el-Muluk3, che significa “Sole dei re”. La sera della prima uscita in pubblico della sua sposa, il sovrano dette una festa straordinaria. Molti anni dopo, alle porte della grande moschea di Isfahan, il racconto di quel banchetto costituiva ancora l’argomento delle canzoni dei mendicanti. Allo sheikh vennero offerti tre bauli pieni fino all’orlo di monete d’oro. Mai la sua stella brillò più alta nel cielo, mai il suo nome fu più venerato. Ma non si consegue una simile gloria senza pericolo: nell’ombra, la gelosia e l’invidia maturavano, come il veleno nella coda dello scorpione. Sarebbe arrivato il giorno in cui la puntura sarebbe stata mortale.
Ma, indifferente a tutto, lo sheikh proseguiva la sua opera. Nei tre anni che seguirono, ebbe diverse esperienze mediche, i cui risultati registrò nel Canone. Quelle annotazioni sono andate perdute per sempre: io stesso le avevo raccolte alla fine del quarto volume e non so spiegarmi la loro sparizione4.
Una di queste esperienze si riferiva al caso di una donna affetta da tubercolosi, originaria del Khwarizm, che il mio maestro curò ordinandole di bere per molte settimane unicamente acqua di rose e zucchero. Ne bevve circa cento mann e guarì5.
Un’altra nota riguardava lo stesso sheikh. Poiché soffriva di emicranie, un giorno, durante una crisi più forte delle altre, decise di applicarsi sul capo dei pezzi di ghiaccio avvolti nel tessuto. Ne trasse giovamento, e concluse da ciò che il freddo provocava una contrazione degli umori del cervello e ne arrestava lo scorrimento.
L’età pareva non influire su di lui e questo breve episodio lo testimonia. Lo sheikh entrava allora nel suo cinquantesimo anno. Dopo aver esaminato un esemplare del Najat, alcuni studenti lo misero a parte della loro difficoltà nel comprendere certi argomenti che vi erano trattati. Tramite uno di loro, di nome Abu el-Kassim el-Kirmani, gli fecero arrivare un impressionante questionario, pregandolo di rispondere. Il giorno in cui il loro emissario si presentò alla porta del rais è rimasto impresso nella mia memoria.
Eravamo in pieno muharram, e alcuni amici erano riuniti nella stanza di lavoro; su Isfahan regnava un caldo disumano. Dopo aver scorso le domande, lo sheikh le rese allo studente, pregandolo di tornare il mattino dopo. Un momento dopo mi ordinò di portargli della carta. Obbedii e mi presentai a lui con cinque fascicoli di Firawani6, di dieci fogli in-quarto ciascuno. Dopo la preghiera della sera, mandò a prendere dei candelieri e del vino e mi fece sedere in compagnia di Ibn Zayla e di el-Maksumi. Cominciò a dettarmi le risposte alle domande del corriere di Shiraz, che ricordava a memoria. Ho vergogna a confessarlo, ma verso la mezzanotte sia io che i suoi discepoli fummo vinti dallo sfinimento. Lo sheikh ci congedò e continuò da solo a redigere le risposte.
L’emissario riapparve all’alba. Chiese di me e mi pregò di andare a vedere a che punto del lavoro si trovasse lo sheikh. Mi recai ai suoi appartamenti, dove lo trovai in preghiera. Ai suoi piedi scorsi i cinque fascicoli, interamente coperti di scrittura. Interruppe le sue devozioni e mi indicò i fogli.
«Prendili e portali ad Abu el-Kassim. Spiegagli che non ho trascurato nessuna delle domande che mi erano state poste».
Ricorderò per sempre l’espressione con cui mi accolse Abu el-Kassim. Mi incaricò di esprimere la sua gratitudine allo sheikh e si affrettò a rientrare a Shiraz, dove le risposte del mio maestro furono oggetto dell’ammirazione universale7.
Nello stesso periodo, su richiesta dell’emiro, si dedicò all’osservazione delle stelle e inventò degli strumenti ai quali nessun astronomo aveva pensato prima di lui.
Al compimento del cinquantaduesimo anno le sue facoltà intellettuali erano sempre vivissime, come pure – nonostante il mio senso del pudore ne soffra, devo aggiungere – il suo appetito sessuale. Yasmina conosceva il suo temperamento. Lui la soddisfaceva e andava anche oltre, ma lei sapeva che anche altre donne approfittavano della generosità dello sheikh. Se ne provava dolore non lo espresse mai, ritenendo che non fosse possibile trasformare un leone di montagna in un gatto domestico.
A questo proposito – che Allah mi perdoni – spesso mi sono interrogato sui rapporti che lo sheikh aveva allacciato con la principessa Laila. Tutti conoscevamo l’adorazione che la sovrana provava per il suo salvatore, da quando l’aveva strappata alle grinfie della morte. Erano stati amanti? Solo l’Altissimo lo sa.
Quando mi accadeva di interrogare il rais a proposito del suo eccedere in ogni cosa, e di manifestargli la mia preoccupazione, lui si accontentava di rispondermi: «L’Invincibile mi ha colmato di doni e non servirmene sarebbe fargli torto».
«Massud!»
La guerra era alle porte del Fars e, dall’alto delle torri di guardia, i segnali d’allarme degli osservatori si inseguivano lungo la frontiera fino alle porte della città, diffondendo instancabilmente la funesta notizia: il figlio di Mahmud il Ghaznawide marciava su Isfahan.
Alle prime voci le moschee si riempirono, i suk divennero deserti, e gli abitanti si barricarono nelle loro case, aspettando l’uragano turco.
Eravamo nel mese di dhu el-hijja, nell’anno 1037 per i figli d’Occidente.
Da molto tempo si sentiva parlare di questa nuova spinta espansionistica del re di Ghazna. Due anni prima aveva fatto man bassa di Hamadhan, mettendo fine al torbido regno di Sayyeda e di suo figlio. Da quel momento, la situazione di Isfahan era divenuta sempre più precaria. Si attendeva la sua ora: né Ala el-Dawla né i suoi consiglieri militari ne dubitavano. Un anno prima, il sovrano aveva anche fatto erigere un muro di protezione attorno alla città; la sola incertezza riguardava la data dell’invasione.
Avendo fatto tesoro del precedente scacco di qualche anno prima a Hamadhan, il figlio del Ghaznawide aveva messo in campo un esercito formidabile, dotato di equipaggiamenti da assedio, arieti ed elefanti portati dalle Indie, che alcuni testimoni dicevano essere alti come le mura di Isfahan. Secondo l’opinione comune, Massud era ormai invincibile.
Appoggiato ai merli, Ala el-Dawla, il volto cupo, sembrava distrutto, ma coloro che lo conoscevano bene sapevano che la sua combattività era intatta.
Respirò a fondo e si rivolse con decisione verso i suoi salar.
«La mia decisione è presa. Senza dubbio voi la troverete folle, ma non vedo altra soluzione: bisogna abbandonare Isfahan».
Come aveva previsto, un’immensa costernazione si dipinse sui volti dei suoi generali. Senza lasciar loro il tempo di protestare, l’emiro spiegò:
«Non siamo in condizioni di resistere. Hamadhan è caduta in due giorni e noi subiremmo la medesima sorte. Invece, se vogliamo che il nostro esercito sfugga alla distruzione, bisogna metterlo al riparo. È la nostra sola possibilità di riconquistare la città».
«Cedere Isfahan senza combattere…»
Il visir era affranto.
«Perché Isfahan viva», replicò Ala. «In seguito penserò a chiedere aiuto, forse al califfo di Baghdad».
«Quando dovremo ritirarci?» chiese il cancelliere, pallidissimo.
«Fin da stasera. Non c’è un momento da perdere, se vogliamo passare attraverso le maglie della rete ghaznawide».
Rivoltosi ai generali, ordinò:
«Riunite le truppe. Caricate la massima quantità possibile d’acqua e di viveri: partiremo al tramonto».
Tutti insieme, i salar si inchinarono davanti al loro sovrano.
Il sole sulla pianura era già al mezzogiorno.
«Devo dunque abbandonare la gran parte delle mie opere?»
«Questi sono gli ordini, sheikh el-rais. Anche con la miglior buona volontà del mondo non potremmo imballare tutto».
Aslieri confermò.
«Oltretutto, l’emiro ha precisato che non dobbiamo portare nulla che rallenti la nostra marcia».
El-Jozjani, che indovinava le emozioni del suo maestro, tentò di confortarlo.
«Sheikh el-rais, le tue opere non andranno perdute: quando la situazione sarà ristabilita torneremo a Kay Kunbadh».
«Dalle tue labbra alle porte del cielo, Abu Obeid».
Indicò gli scaffali piegati sotto il peso delle sue opere.
«Là c’è il risultato del lavoro di tutta una vita: preghiamo Dio di ritrovarlo intatto».
«Non c’è alcuna ragione perché non sia così», osservò Aslieri. «Ai tuoi occhi questa biblioteca è inestimabile, ma i soldati preferiranno i gioielli e gli oggetti preziosi».
Lo sheikh scosse la testa senza convinzione e cominciò a fare i bagagli.
Due giorni dopo, Massud penetrò in Isfahan alla testa dell’esercito ghaznawide. Ciò che accadde superò ogni descrizione. La città venne completamente messa a sacco. Nulla fu risparmiato. Le botteghe vennero saccheggiate, il palazzo devastato, donne e bambini violentati, la madrasa incendiata. Gli elefanti, abbandonati a se stessi, si lanciarono nelle piazze e nei giardini, distruggendo ogni cosa al loro passaggio. La casa del figlio di Sina non sfuggì al disastro.
Massud, che conosceva il rancore che suo padre provava verso il rais, si recò di persona nella proprietà di Kay Kunbadh. I suoi ordini furono chiari: tutto ciò che apparteneva al principe dei sapienti doveva essere portato a Ghazna: tutto, senza eccezione, e la casa rasa al suolo. Così, la preziosa biblioteca venne smontata, e i manoscritti che conteneva furono spediti all’altro capo della Persia, ai confini del Turkestan8.
Il sanguinario Mahmud non era riuscito a mettere in ginocchio lo sheikh, e si vendicava di lui spossessandolo della sua più grande ricchezza.
Quando la notizia lo raggiunse, Alì ibn Sina si trovava con l’esercito di Isfahan, che aveva trovato rifugio nella città di Tustar, nel Khuzistan. Il suo volto non tradì alcuna sorpresa, alcun dispiacere, ma il suo sguardo si velò, come se tutte le notti del mondo si fossero abbattute su di lui in un solo attimo. Nei giorni seguenti non disse una parola e rimase immerso per ore in una profonda letargia, nutrendosi appena, ma bevendo intere brocche di vino di Busr.
Era più di un mese che avevano lasciato Isfahan, errando di accampamento in accampamento nella speranza della decisione tanto attesa: la riconquista della città. Ma quella decisione non arrivava mai, anche se avevano saputo che Massud aveva abbandonato Isfahan dopo aver nominato un governatore. In realtà, Ala el-Dawla attendeva pazientemente il momento propizio, poiché non passava giorno senza che le sue spie gli trasmettessero preziose informazioni sull’occupante. Ma la cosa più importante, che tutti ignoravano, era il prossimo arrivo di rinforzi provenienti da Baghdad: un distaccamento sarebbe arrivato entro poche ore, al comando di el-Qadir, il califfo in persona…
Alì rovesciò la brocca e la scosse con dispetto.
«Finito: la guerra ha avuto ragione dell’ubriachezza».
Prese la mano di Yasmina e la carezzò distrattamente.
«Per fortuna mi resta la tua pelle per appagare la mia sete».
Poiché la donna non rispondeva, le disse:
«Anima mia, tu soffri…»
«Non è dolore, figlio di Sina, solo collera, perché tu sei pazzo».
Yasmina passò la mano tra i suoi capelli, disseminati di ciocche bianche, poi seguì con l’indice le piccole rughe che il tempo aveva lasciato attorno ai suoi occhi.
«L’età comincia a vincere il tuo corpo, ma non riesce ad aver ragione della tua follia. Sei sempre un ragazzo, figlio di Sina».
«Preferiresti che fossi un vecchio rattrappito e ripugnante?»
«Preferirei che tu fossi più saggio».
Lo sheikh rise malinconicamente.
«Se tu sapessi quante persone dicono di essere sagge, mentre invece sono solo stanche».
«Il giorno in cui morirai, se apriranno il tuo corpo sono sicura che ci troveranno più vino che sangue».
«Ma tu non vedrai mai quel giorno, cuore mio: io sono immortale».
Questa volta fu Yasmina a sorridere. Lui proseguì, con giovanile fervore:
«Ti confiderò un segreto. Da bambino ero convinto che finché un uomo stava attento non poteva morire: se moriva, era per distrazione. Ecco perché penso di vivere in eterno».
Lei non poté fare a meno di ridere davanti a tanta ingenuità.
«In questo caso, figlio di Sina, tu vivrai mille anni!»
Le accarezzò i seni e attraverso il tessuto sottile ne imprigionò uno con la mano.
«A che mi servirebbero mille anni se mi privassero di questo?»
«In questo caso non hai scelta, mio re: dovrai stare attento anche a me».
«Te lo giuro solennemente…»
La strinse tra le braccia e la rovesciò lentamente sulla stuoia posata sulla sabbia.
«Vieni, anima mia, godiamo per l’eternità…»
1 I popoli latini definivano già caesares o cesones i bambini nati in questo modo (N.d.A.).
2 Un mann corrisponde circa a sei libbre (N.d.A.).
3 Zahir el-Din, Shams el-Muluk: regnò su Raiy e Hamadhan alla morte di suo padre, nel 1041 (N.d.A.).
4 Forse in questa è coinvolto Aslieri? (N.d.A.).
5 Dalle informazioni in nostro possesso, questo trattamento appare per lo meno illogico (N.d.A.).
6 Il termine indica una carta a lungo usata nel mondo islamico (N.d.A.).
7 In realtà, Jozjani elude o edulcora la verità. Lo storico arabo el-Funduq riferisce, a proposito di questo episodio, che tra Abu el-Kassim e Ibn Sina vi fu un violento diverbio (N.d.A.).
8 In questo modo, moltissime opere del mio maestro andarono perdute per sempre o in parte danneggiate (Nota di Jozjani).