Quel che importa è cercare di rimanere un po’ più fermi della maggioranza, un po’ meno assurdi, un po’ più capaci di amore.
Solo non voglio essere costretto (neppure moralmente) ad amare nessuno.
A Nicola Chiaromonte piaceva passeggiare. Un’abitudine che sembra congeniale al genere digressivo, semovente del personal essay e alla figura stessa del saggista. Il movimento fisico riattiva e asseconda il movimento del pensiero. Montaigne, inventore del saggio moderno, amava passeggiare su e giù per la stanza della sua biblioteca – quasi flâneur domestico –, seguendo l’ordine rapsodico dei suoi pensieri, e dettare a uno scrivano le proprie estemporanee riflessioni, condendole con citazioni di classici.
In una lettera Chiaromonte ci informa dettagliatamente dei suoi quotidiani percorsi romani. Proviamo allora a seguirlo – con discrezione – in una ipotetica passeggiata primaverile romana, magari nel 1970, due anni dopo la chiusura della rivista Tempo presente che gli ha lasciato qualche amarezza (alla fine del 1968 aveva scritto del “fallimento di un’impresa” a causa del conformismo dilagante, e ora si sente troppo vecchio per provare a salvarla). E anzi vorrei usare, spero non in modo improprio, questa immaginaria “passeggiata” come una prima introduzione alle sue idee, alle sue passioni personali e a certe sue ossessioni intellettuali.
Si sveglia presto, fa colazione a casa con caffelatte e pane imburrato, come da tradizione familiare, scambia qualche parola in inglese con Miriam, si chiude nello studio per tradurre i versi di un lirico greco o un brano dai dialoghi di Platone o una pagina di Sofocle. È il suo viatico quotidiano, il suo esercizio spirituale, la sua irrinunciabile preghiera laica. Alle undici esce di casa. Partendo dalla piccola via Ofanto fa un pezzo di via Po – la via dei sindacati e dell’Espresso – ma decide di non arrivare fino alla sede del settimanale, dove qualche volta si ferma per una conversazione con il direttore (da qualche anno vi teneva una rubrica teatrale, senza però amare davvero la rivista).1 Volta a destra e si infila in Villa Borghese, inondata di sole, percorre il secentesco Parco dei Daini – con la sua luce naturale e metafisica che fu ritratta da Giacomo Balla – e costeggia il Museo Borghese. Ha la tentazione di entrarvi, di avere almeno un contatto fuggevole con la bellezza delle opere, l’unica cosa che aiuta a trovare la “pace del cuore”, ma tira dritto, costeggia piazza di Siena, il settecentesco Tempio di Diana, la chiesa di Santa Maria Immacolata, e arriva fino al Pincio con la vista sulla città barocca, paludosa, teatrale. Un ampio, generoso palcoscenico dove ti è dato di recitare ogni parte tranne – come disse una volta – te stesso. Quel luogo lo ha sempre ipnotizzato. In una lettera fa riferimento a una Veduta di Roma dal Pincio di Ippolito Caffi, il paesaggista bellunese innamorato della città eterna e della sua luce, che ebbe modo di contemplare da una mongolfiera. Quindi si allontana seguendo uno stretto sentiero ghiaioso. Una volta, a Ravello, confessò di non sentirsi del tutto a suo agio “nei luoghi spettacolari”.2
A Villa Borghese Chiaromonte andava spesso da ragazzo, da solo, e così una volta ha rievocato la sua adolescenza infelice, emotivamente tiepida, ma scossa da attimi di gioia intensissima: “una gioia impossibile: l’universo intero mi entrava nell’animo e io non riuscivo a farcelo stare – era ‘incontenibile’, letteralmente”.3 Tornando si siede su un tronco, poco discosto dalla strada asfaltata, e contempla il cielo. Le profondità della vita possono rivelarsi alfine come superfici, “estreme semplicità”.4 L’aria è fresca, non sciroccosa (odia lo scirocco). Socchiude gli occhi, immagina di salire su una mongolfiera, come il paesaggista: per un momento gli sembra di scorgere in quell’universo incontenibile, in quella immensità azzurra un qualche ordine imperscrutabile. Dio, ci assicura il Vangelo di Giovanni, nessuno lo ha mai visto. Ma il bagliore intermittente del divino può sfiorare la nostra esistenza in ogni momento (e del “divino”, non di “Dio” parla il suo amato Platone). Noi siamo frammenti, minuscoli, di un tutto impersonale che ignoriamo, un tramite di forze animate che ci restano per sempre inaccessibili.
L’atto più umano, ci ricorda Chiaromonte, è “affrontare la propria incomprensibilità e quella del mondo”,5 quasi riecheggiando il celebre finale del Mito di Sisifo del sodale Camus: immaginate Sisifo costretto a spingere ogni volta, e insensatamente, il masso fin sulla cima, però felice. La vita è perlopiù sofferenza, insensatezza ed enigma. Si risolve essenzialmente in un senso di impotenza, nel subire le cose, senza scampo, come sperimenta il protagonista della Coscienza di Zeno. Tuttavia in alcuni momenti sentiamo anche che la vita è – misteriosamente – benedetta. Questa non è un’idea unicamente cristiana. Anche i greci, come ricorda Simone Weil, pur avendo una concezione dolorosa dell’esistenza sapevano che il dolore è “in rapporto alla felicità per la quale l’uomo è fatto”.6 Una cosa che secondo Simone Weil non capì mai Nietzsche, attratto invece dalla catastrofe. È vero che la felicità, sempre provvisoria, ci è data ogni volta per caso, però il destino umano resta un destino di felicità, benché qualcosa a un certo punto sia andato storto, come ci avvertono tutti i racconti teologici e mitologici di una caduta, di un peccato originale (tanto che qualcuno parla di un universo malato, di un “tarlo” nel cosmo).7 La luce irradiante della Creazione si è via via indebolita, fino a depositarsi nella labile materia, come ci spiega Plotino. E ogni giorno, verosimilmente, per ognuno di noi qualcosa va storto. Non vi è risposta davvero convincente alla teodicea, all’esistenza del male nel mondo, incompatibile con un Dio onnipotente e infinitamente buono.
Il pessimismo metafisico di Chiaromonte si estende vieppiù alla sordità del mondo attuale per qualsiasi cosa che valga e che meriti attenzione, una delle ragioni per cui questo mondo meriterebbe di andare in malora, o a causa della Bomba, ineluttabile conseguenza di stupidità e paranoia – come in fondo pensava il Kubrick del Dottor Stranamore – o per un improvviso collasso gravitazionale. Non è però del tutto pessimista sulla capacità individuale di resistenza: “quel che importa è cercare di rimanere un po’ più fermi della maggioranza, un po’ meno assurdi, un po’ più capaci di amore. Ma anche questo minimo è difficile”.8 E proprio su questo punto Chiaromonte non andrebbe equivocato. In che senso? Parla spesso del valore di ciò che è un po’ più durevole, ma sapendo che in fondo siamo tutti effimeri, “mortali”, come riconoscevano gli antichi greci, e a ciò non si può porre rimedio. Occorre certo individuare con pazienza quello che, nella nostra vita, merita di durare, ma senza l’oltranza di voler durare (magari attraverso leggi, istituzioni, regole che pretendono illusoriamente di essere eterne, come avveniva nella res publica romana, finita poi nell’imperialismo!). Benché formatosi nella tradizione giudeo-cristiana, Chiaromonte resta molto più vicino ai greci, per i quali il tempo è ciclico e il sentimento religioso è radicato proprio nell’impermanente,9 e perciò assai più intenso. È eterno – paradossalmente – solo ciò che non lascia traccia, che si mostra a noi per un attimo appena e poi come la sentenza della Sibilla si perde nel vento alle foglie lievi. In ciò Chiaromonte presenta un’affinità con Leopardi, che conosceva bene anche attraverso la mediazione di Adriano Tilgher, ma al quale non ha mai dedicato un saggio specifico. In varie occasioni Leopardi, che non credeva in una vita ultraterrena ed era lettore appassionato degli antichi greci, manifesta la sua “passione per il caduco umano, per la sua effimera e perciò tanto più affascinante vitalità”, per l’“irripetibilità delle concrete persone”, poiché “nessuno tanto ama la vita quanto chi ne conosce la brevità e la caducità”.10
Una fanciulla in fiore, con i libri sotto braccio, passa lì vicino – al mattino Villa Borghese era la meta dei ragazzi che disertavano la scuola – e lo sottrae alle ruminazioni metafisiche riportandolo alla concretezza, o almeno a una bellezza appena più terrestre, come la bellezza delle piante che in quel momento fioriscono nel parco. Cosa “scopre” nelle sue promenade quotidiane? Come ha modo di scrivere: “Qualche volta qualche bella creatura, adolescente o bambina...” Sul tema della bellezza Chiaromonte una volta confessò la propria posizione contraddittoria: da una parte ritiene che non vi sia bellezza senza pensiero, senza parola umana (ogni ordine è un ordine pensato), ma dall’altra intuisce che il mondo della natura è bello senza che vi entri il pensiero, il quale anzi incontra un limite: “qui la mente tocca il mistero”.11
In quel momento smette di pensare. Si rialza e, incamminandosi per un sentiero costeggiato da cespugli di rose e fiori lilla di glicine, punta su via Pinciana. Lì comincia, in discesa, via Veneto, quella che alla fine dell’Ottocento venne chiamata Passeggiata Umbertina, punteggiata di grandi alberghi e caffè alla moda, e in seguito carnevalesco palcoscenico felliniano, dove guarda con attenzione i chioschi dei giornali ed entra nelle due librerie, Rizzoli e Rossetti. Al contrario dei suoi amici del Mondo e dell’Espresso – dai quali molto lo divide, come vedremo – a lui piace camminare in via Veneto non di sera, quando diventa “affollata e volgare” (altro che Dolce Vita!), bensì al mattino, quando è più bella e lievemente assonnata. All’edicola compra, insieme al Corriere della sera e all’Unità, il New Yorker, il prestigioso settimanale americano che ancora oggi continua in ogni numero a pubblicare il genere del personal essay, il saggio personale, informale e autobiografico, nato con Montaigne e poi celebrato soprattutto negli States, un genere in cui proprio Chiaromonte eccelle forse più di ogni altro intellettuale italiano del dopoguerra. Legge qualcosa di Irving Howe, di Norman Mailer, della Sontag, di Mary McCarthy, di qualcuno degli intellettuali che aveva conosciuto dopo la guerra nella redazione di politics, la rivista fondata da Dwight Macdonald negli anni quaranta. Lui era il “filosofo” del gruppo, benché non professionale: con la sua sapienza antica, l’eloquio lento e la capacità di andare alla radice delle cose, un po’ sciamano e un po’ maieuta. A quel punto decide di attraversare via Veneto, e si siede al bar Doney per un espresso.
A Chiaromonte piace restare seduto nei caffè a osservare la gente. Lo fa in ogni città. Ad esempio adora stare seduto in uno dei campi veneziani, a guardare le persone entrare e uscire, “come in un teatro”.12 In quel momento passa accanto a lui un gruppo di giovani, capelli lunghi e aria trasandata. Per loro prova simpatia e al tempo stesso insofferenza: condivide la rabbia, la protesta contro un mondo che non merita più rispetto, ma non sopporta l’estremismo verbale, lo spirito gregario, l’esibizionismo e la segreta complicità con una società di cui apprezzano i privilegi.
Noi del Movimento – nella “battaglia” di Valle Giulia avevo solo quindici anni e vi giunsi alla fine – allora disprezzavamo gli intellettuali della cosiddetta Terza Via, e perfino Camus e Orwell ci apparivano moderati, blandi, colpevolmente poco marxisti. Potevamo assimilare Chiaromonte agli intellettuali liberali dei salotti buoni, sempre un po’ troppo dalla parte della ragione. Se solo ne avessimo letto qualche riga avremmo amato la sua dimessa radicalità, il suo pensiero libertario e non allineato, la sua mente profonda e umile, refrattaria a ogni servitù. Avremmo probabilmente scoperto che oggetto vero della nostra contestazione, prima ancora del Capitalismo (e oggi della Finanza, della Globalizzazione, entità sempre un po’ astratte, quasi metafisiche), erano l’ideologia dell’utile e del successo annidata in ogni nostra azione, l’ossessione della soddisfazione immediata dei desideri, il primato del fatto compiuto (che proprio in quanto compiuto, concreto, si impone su qualsiasi ideale, come il diritto consuetudinario si impone sulla legge scritta), una certa indulgenza verso la forza (non dicono tutti, magari con una piega della bocca, che “senza la violenza non si ottiene nulla”?) E avremmo altresì scoperto che l’utopia più preziosa non è quella normativa e un po’ burocratica della politica, di una società “organica” e senza conflitti, ma lo spazio di tutto ciò che è antiutilitaristico, come vedremo nel capitolo 10 (e forse Chiaromonte poté intravedere tracce, benché confuse, di tale utopia nella controcultura, negli hippies di allora – in fondo poveri per scelta, un anacronismo irripetibile). Le due citazioni che ho messo a epigrafe, solo apparentemente antitetiche tra loro, ci ricordano che l’amore, ancorché necessario al mondo, resta un’opzione gratuita del singolo, mai un precetto.
Quando arriva il cameriere, Chiaromonte si sofferma su di lui, sul suo aspetto, che ha qualcosa di familiare.
È infatti un ragazzo dall’aria meridionale, riccetto e con la carnagione scura. Calabrese o magari lucano, dunque corregionale. Un po’ distratto, sensuale, vagamente assente, con l’aria stordita, quasi uscito dall’Accattone pasoliniano. Ascolta l’ordinazione ma è preso da altro, dal sole, dalla bella giornata, dalle ragazze che passano. Interpreta il proprio ruolo con leggerezza e con allegria sventata. La sua si potrebbe giudicare un’esistenza alienata o mancata. Eppure Chiaromonte pensa che la vita è intera in ogni condizione, anche in quella dello schiavo, del paria, di chi è recluso in carcere. Chi ha meno successo, chi non ha fatto carriera, chi non gode di un riconoscimento sociale non perciò è meno “giustificato”, né la sua esistenza è meno degna. Anzi il successo e il potere sono illusioni, mentre la nostra esistenza – di solito frammentaria, lacunosa – può ad ogni momento tradursi per noi in una immagine che illumina il nostro destino. Osservando gli oggetti, i volti e i gesti dei passanti, Chiaromonte si ostina a cercare in essi una luce nascosta, la luce del “divino”. A chi si rivela questa luce? Non ai sapienti e ai letterati ma ai puri di cuore. E in ciò avrebbe concordato Pasolini. Apre sul tavolo l’Unità, in prima pagina campeggia un manifesto di scrittori e artisti a favore della lotta di liberazione del Vietnam.
La rivista Tempo presente, ad onta delle accuse di essere finanziata dalla CIA in funzione anticomunista (lo fu, ma in modo indiretto e all’insaputa dei suoi direttori), aveva denunciato a più riprese l’intervento americano nel Sud-Est asiatico (giudicato “brutale” in una lettera a Dwight Macdonald), eppure ora leggendo il testo di quel manifesto Chiaromonte si rabbuia: prova una totale estraneità pur condividendone lo spirito. Anzitutto riconosce l’oggettiva distanza dai fatti del Vietnam. Non basta “sentirsi” vicini a un popolo o a una causa, per esserlo davvero. Così scriverà: “È inutile (per me) pensare a loro come ‘fratelli’, ecc. In un certo senso, anzi, sono miei ‘nemici’. Come io, nel loro punto di vista sono il nemico loro”.13 Aggiungendo che se si unisse al coro dei contestatori si sentirebbe fatuo e opportunista, si metterebbe in pace la coscienza con poco. È quasi impossibile amare davvero chi è fuori dalla nostra cerchia: riusciamo solo a rispettarlo.
Quell’idea fasulla di impegno, fondata su firme (che tanto non costano nulla) a manifesti ed esibizioni pubbliche di sdegno, sembra sopravvivere fino all’epoca della Rete, dove ogni giorno girano lettere e appelli da sottoscrivere. Bisognerebbe dimostrare con i fatti la propria solidarietà a qualcuno. Se il nostro cuore batte – e giustamente – per i migranti, occorrerebbe fare una piccola cosa per loro: dedicare parte del nostro tempo a prendercene cura, a insegnare loro la nostra lingua, a servire le pietanze nelle gremite mense della Caritas, perfino ospitarli qualche giorno a casa nostra.
Lo scrittore lucano ripensa a una cena di qualche sera prima a casa di un regista di sinistra, affollata di artisti impegnati e intellettuali con lo sdegno incorporato (nel 1980 Scola avrebbe comicamente immortalato queste cene nel film La terrazza). Come sempre è colpito da un tratto che sembra caratterizzare gli italiani, o almeno gli italiani alfabetizzati, così refrattari alla conversazione e alla discussione leale: “chierici pedanti e dogmatici, incapaci di ascoltare e incapaci di parlare di ciò di cui è questione”.14 In questo senso gli attuali social ci sono fatalmente congeniali: nessuno conversa davvero ma solo aspetta il suo turno per parlare, per commentare.
A proposito della società italiana, così priva di “società”, Chiaromonte si mostra piuttosto severo. La trova noiosa e stupida, al contrario degli italiani presi come singoli. Ora si ricorda di un’amica che incontrerà nel pomeriggio, per un tè, fortunatamente da sola e non a una cena mondana: una persona può essere simpatica, buona, intelligente, però “in gruppo diventa stupida, incolore”, e ciò si nota ancor più per le donne, che “in Italia valgono più degli uomini”.15 D’altra parte Chiaromonte è molto scettico a proposito della cultura stessa, e della sua forza emancipativa. Già nel 1969, molto prima della rivoluzione digitale e della società liquida, dei tempi iperveloci e del dominio assoluto del mercato, scriveva: “La cultura, così com’è praticata nell’università e nei gruppi artistici letterari, è o inutile accumulo di nozioni o vera e propria scuola di barbarie e di sciocchezza”.16 E una barbarie scelta, dunque mediata, non è quella primigenia dei magnifici “barbari” pasoliniani.
A mezzogiorno ricomincia il tragitto verso casa, passando per corso d’Italia – già allora stravolto dal sottopassaggio –, poi per piazza Fiume – informe, brutta, però spazio urbano onnicomprensivo: capolinea degli autobus, Rinascente (1959), fermata dei taxi, rudere antico, libreria, vivaio – e infine via Salaria. Un pranzo leggero e veloce, per riposare appena un po’ e dopo scrivere la lettera (quasi quotidiana, negli ultimi anni) alla “adorata Muska”. O per riprendere qualche saggio iniziato il giorno prima, e che ora si trascina. Ma non dobbiamo pensare a una eccessiva metodicità, a una maniacale regolarità del lavoro quotidiano, come quella che viene attribuita all’amico Moravia. Chiaromonte, intellettuale dei Due Mondi, resta un uomo del Sud: incline a distrarsi, assediato dalla vertigine del vuoto, intimamente dissipatorio. Confessa di essere stato una volta tutto il giorno in casa davanti alla macchina da scrivere senza riuscire a finire un articolo per il quotidiano La Stampa.17 Ma l’obiettivo non è tanto finire l’articolo, concludere il saggio, scrivere la recensione. Tutto questo si fa, più o meno svogliatamente, perché si deve fare. Rientra nei tanti obblighi quotidiani, nella materia sempre impura di cui sono composte le nostre giornate, appartiene alla recita coatta dell’esistenza, in cui ognuno di noi segue un copione già scritto. Ed è la vita come racconto lineare ma insensato, shakespearianamente pieno di strepito e furore. A Chiaromonte sta a cuore qualcos’altro, ed è precisamente ciò che lo spinge a inoltrarsi nelle sue passeggiate, almeno quando il tempo atmosferico lo permette: la possibilità che in un incontro (con un oggetto, una persona, un paesaggio), in un’occasione fuggevole, nella casualità di un qualsiasi evento, si manifesti la bellezza del mondo, intesa semplicemente come rivelazione di ciò che è.
La sera a cena dovrà vedere qualche amico, forse Moravia o Paolo Milano o Enzo Tagliacozzo. I temi su cui conversare non mancano, però sa che lui – a suo tempo “maestro” molto ascoltato dal cenacolo americano di politics – potrebbe anche limitarsi ad ascoltare gli altri. Tutti quelli che lo hanno conosciuto e frequentato lo descrivono come incline al dialogo ma pieno di riserbo, conversativo e lievemente appartato nei salotti, parlatore di grande energia però mai istrionico: “Nessuno meno di lui desiderava brillare” (Mary McCarthy). E proprio queste stesse attitudini lo attraevano negli altri: definì l’amico e mentore Andrea Caffi – libertario romantico, ultimo erede del populismo russo, quasi un personaggio letterario – un “eremita socievole”. Lo immagino, durante le occasioni conviviali, sprofondato in un silenzio pieno di concentrazione. E forse si sarebbe potuto dire di lui ciò che Tolstoj disse di Čechov: “Quell’uomo meraviglioso, modesto, silenzioso come una ragazza”.18