3.

DISTANTI. UNA STORIA D’AMORE

Muska carissima, la tua lettera che aspettavo oggi è venuta ieri [...] e con tutta la tua grazia e direi sconvolgente dolcezza.

Il più bel romanzo di Isaac Bashevis Singer ha un titolo meravigliosamente sintetico, Nemici. Una storia d’amore, che dice una verità profonda sull’amore, e sulla relazione di coppia, segretamente impastata di prossimità e distanza, di affinità e inimicizia. Scorrendo le lettere di Chiaromonte a Melanie von Nagel, divenuta suora poco dopo il loro primo incontro, avvenuto nel 1957 a Roma, mi è venuto in mente quel titolo, lievemente modificato. Si potrebbe infatti dire: Distanti. Una storia d’amore. Distanti fisicamente e separati fin dall’inizio perché Melanie e Nicola avevano vissuto entrambi a New York dopo la guerra senza neanche sfiorarsi: a lui si era avvicinata la sorella minore di Melanie, Ludovica, attratta dalla comunità degli intellettuali italiani emigrati durante il fascismo, lettrice appassionata degli articoli di Nicola sulla Partisan review e poi segretaria editoriale dell’Einaudi a Roma. Melanie, invece, restò sempre estranea all’ambiente intellettuale, alla battaglia politica delle riviste, alle problematiche dell’editoria. Dopo la perdita del marito alla fine degli anni cinquanta, lei che era di origine aristocratica (figlia di un generale bavarese di cavalleria ucciso in combattimento nel 1919) entra nell’ordine benedettino come novizia – poi suor Jerome – ritirandosi nel convento di Regina Laudis, a Bethlehem, Connecticut.

Marriage of true minds

Dunque, separati: per ragioni sociali, intellettuali, biografiche. Eppure le loro vite dovevano convergere. E anzi forse ciascuno dei due era l’ombra dell’altro, ne incarnava qualche desiderio segreto. Chissà che Chiaromonte, pure laicamente diffidente verso ogni religione confessionale, non nutrisse insieme all’aspirazione appena dissimulata alla solitudine e al silenzio, il bisogno di ritirarsi dalla “stupidità” della vita mondana, di entrare in convento per compitare e studiare finalmente in pace i suoi classici (parlerà sempre più spesso della secessione dalla società in piccoli gruppi, in cenacoli sotterranei o fratrie – una controsocietà). La rivista Tempo presente fu la sua passione ma anche il suo tormento quotidiano: l’obbligo di tenere relazioni, chiedere articoli, seguire le novità culturali. E così può darsi che Melanie, spinta dal suo amore per la giustizia, avrebbe voluto occuparsi sul piano pratico degli interrogativi che sottendono la politica, l’agire comune nella polis, e dell’intreccio tra carità e impegno, scrivendo magari su qualche giornale o militando in qualche organizzazione.

Il loro scambio epistolare all’inizio è piuttosto scarso, e irregolare: da parte di lui 38 lettere in quasi dieci anni. Poi, dopo un secondo incontro negli Stati Uniti alla fine del 1966, quando Chiaromonte era stato invitato a Princeton per alcune conferenze, quello scambio ha un’improvvisa impennata, e da allora fino al gennaio del 1972 registra la frequenza di una lettera ogni tre giorni! Ciò significa che ciascuno dei due riempie per intero la mente dell’altro, in ogni istante. Chiaromonte le scrive da qualsiasi posto, e anzi prova piacere a usare la carta intestata degli alberghi. Trovano un “luogo in cui comunicare nella certezza di essere compresi”,1 uno spazio un po’ appartato nel quale parlare del secolo però distanti dal chiasso del secolo: un “marriage of true minds” – come scrisse Chiaromonte citando un sonetto di Shakespeare2 – sospeso tra amore platonico, affinità elettiva, condivisione intellettuale, comunione di anime, amor cortese che si alimenta della propria lontananza e incompiutezza (“questo sentimento ‘cortese’ che ho verso di te che mi trattiene delle effusioni”).

A un certo punto Chiaromonte le confessa di volerle dire molto di più di quello che dice: “lasciarmi andare al trasporto irresistibile verso di te che è diventato come il mio fuoco interiore”.3 L’aggettivo “irresistibile” compare altre volte, quasi in modo antifrastico (Chiaromonte in realtà dovette faticosamente “resistere” ai propri impulsi), come quando le scrive “Così dovevi essere tu giovane, irresistibile”.4 A volte, dopo averle dichiarato i propri sentimenti (“Come ti voglio bene. Quanto desidero rivederti”), sente il bisogno di ricordare la moglie: “Miriam ti saluta con molto affetto”.5 Ma ora vediamo meglio i contenuti delle lettere, o meglio delle lettere di Nicola, perché quelle di Muska, come lui chiamerà affettuosamente Melanie, purtroppo le ignoriamo (sappiamo solo che molte di esse erano “multimediali”, accompagnate da disegni e fiori: anemoni, finocchielle, timo, fiori di acero e di achillea).

Dio ipotesi necessaria, di cui liberarsi

Il tema vero dell’epistolario è il “divino”, o il “sacro” (termini collegati ma non coincidenti, nella formulazione di Nicola, come vedremo nel capitolo 6), un valore che oltrepassi il tempo, il divenire. Già affiora nelle prime lettere: la prova ontologica di sant’Anselmo vale non come prova dell’esistenza di Dio ma come riconoscimento di una necessità del pensiero per l’uomo, senza la quale “il pensiero non può che pensare il contingente, l’occasionale”.6 Postulare l’esistenza di Dio significa non tanto possedere una certezza che nessuno può avere, quanto mettersi in contatto con una verità non transeunte, come voleva anche il trascendentalista Melville (Chiaromonte è immerso nella rilettura appassionata di Moby Dick!), sentire di far parte di un tutto assolutamente certo. Può sembrare un paradosso o un esercizio zen: da una parte assumere l’idea di un Essere Supremo o di un disegno divino al fine di pensare la “realtà delle cose” (che altrimenti svanirebbe nel casuale, nella contingenza), dall’altra liberarsi di questa stessa idea poiché non ha più alcun fondamento nella modernità. Cercare nell’esistenza ciò che dura e che resiste al nulla, sapendo che quel disegno divino resta per noi imperscrutabile.

Un lavoro difficile, quotidiano: Zygmunt Bauman ha parlato della cultura come “fabbrica della permanenza”.7 Ma non basta la polis a garantire la durata dell’effimero, né la continuità della tradizione culturale o la mera continuità della specie a farci guardare la morte senza terrore. Potrebbe qui essere utile un riferimento autobiografico, a proposito di un passaggio – nella mia formazione – che ha una qualche esemplarità. A diciotto anni, dopo una crisi esistenziale diventai marxista – convinto ingenuamente che Marx segnasse un superamento definitivo di Kierkegaard! –, e così mi ritrovai a disporre di un catechismo inossidabile, capace di rispondere a ogni quesito. “In quanto marxista, il problema della morte non me lo pongo,” diceva nella Ricotta pasoliniana l’intellettuale un po’ sornione impersonato da Orson Welles. No, alla politica non possiamo chiedere l’assoluto, una palingenesi dell’umano, né qualche forma di “redenzione”.

Quel che rimane

Della propria vita conta l’“impronta” che ha avuto: ricevuta dagli eventi, dalle gioie e dai dolori reali, ma anche dai sogni e dai rimpianti, da tutto quanto avremmo voluto fare e non abbiamo fatto. Questo ne rimane, non ciò che si è posseduto (non si possiede mai niente). Un’impronta incancellabile, estranea al cambiamento. A Chiaromonte sembra di aver individuato il mistero di Eleusi, che consiste nel “distruggersi dando vita”, il distruggersi cioè “per rinascere fruttificando”, lì dove si intrecciano morte e immortalità.8 E ne scrive a Muska. È il ciclo di creazione-distruzione-nuova creazione delle civiltà arcaiche: l’individuo è mortale, e solo la vita è immortale.

C’è un punto, in particolare, in cui l’affinità elettiva tra i due trova una convergenza assoluta, e forse anche un po’ inaspettata in una suora: la convinzione che la verità viene prima del bene, che anzi la preoccupazione troppo sollecita di fare del bene, di alleviare l’infelicità altrui può tramutarsi perfino in violenza. Come abbiamo visto, l’umanista fanatico e filantropo non lascia mai in pace nessuno! Nella lettera del 10 febbraio 1969 si legge:9 “Dire il vero è più importante di fare il bene”, e ancora “per esser nel vero (o vicino ad esso) bisogna non pensare alla bontà o al bene”. Capire il mondo, sforzarsi di interpretarlo è più importante che modificarlo (che è sempre un’illusione). La lettera comincia citando una frase che proviene dal greco bizantino (liturgico): “rimaniamo fermi nella virtù”. Sembra di sentir riecheggiare qui i versi del XXVIII canto del Paradiso, dove Dante seguita a tormentare Beatrice con i suoi dubbi sulle sfere celesti e le gerarchie angeliche. Osservando gli angeli disposti nei vari cerchi sfavillanti che ruotano intorno al punto centrale – Dio – Beatrice gli dice che tutti provano una beatitudine commisurata alla profondità della loro visione di Dio, cioè della verità: “Quinci si può veder come si fonda / l’esser beato ne l’atto che vede, / non in quel ch’ama, che poscia seconda; / e del vedere è misura mercede, / che grazia partorisce e buona voglia: / così di grado in grado si procede” (vv. 109-114). Qui Dante, che sempre sfuggirà a ogni sistema filosofico chiuso, ci appare più tomista e razionalistico (potremmo dire socratico) che mistico e francescano. Al primo posto c’è una visione (“l’atto che vede”), ed è visione intellettuale della luce divina, del vero, e soltanto dopo ne discende come conseguenza l’amore, la carità. Se cioè davvero “vedo” la verità della condizione umana, del comune destino di ogni creatura, del bene comune, allora non posso che identificarmi con i miei simili.10 La conoscenza genera l’empatia e approda al senso di giustizia; la carità eccede la giustizia, però la implica. Mentre un’azione altruista e caritatevole che intende “riparare” il mondo e che pretende di sapere qual è il bene degli altri manca il suo obiettivo e anzi “costringe” gli altri a essere felici. La politica, e proprio quella più nobile – a vocazione utopica e ideale, non quella pragmatica e riformista – ne è spesso una grottesca caricatura.

Aggiunge poi saggiamente Chiaromonte, che la felicità intesa come gioia e pienezza non si insegna, la si ha. Se la identifichiamo con la “soddisfazione degli impulsi” è un inganno, una chimera che non si raggiunge mai. Al contrario, “la prima cosa da insegnare ai giovani, insieme a ciò che si crede vero, è l’accettazione del dolore”, cioè del limite: proprio a loro che “credono che soffrire sia una colpa”.11 Ma ancora più difficile è accettare l’insensatezza della vita, il suo ridursi a una sequela sconnessa di eventi, a una nebbia inafferrabile da cui affiorano i ricordi come ombre. Muska gli dice che questa vita sembra una farsa. Lui le risponde che a quegli eventi esteriori si può dare un senso solo in forma di storia o di miti, ritrovandone una coerenza, reinventando il passato. E aggiunge: “Rimane la tua fede nell’immortalità. Sì, certo. Soltanto dobbiamo sapere che l’immortalità – la durata indefinita di ciò che vale – è un pensiero – come il divino – come Dio stesso”.12 Dunque, ancora una volta la priorità della visione intellettuale, l’“atto che vede”. E conclude la lettera lamentando le pene della vecchiaia: il distacco dalla realtà, la ripetitività, il dare per scontate le sventure della vita... “Ma io ho te per tenermi vivo”.13