L’uomo è un essere teatrale per natura, non per accidente.
È soltanto attraverso la finzione, e nella dimensione dell’immaginario, che è possibile apprendere qualcosa sull’esperienza autentica dell’individuo.
La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza.
Il tema dell’autenticità, centrale nella rivolta del Sessantotto, attraversa l’intera storia della nostra cultura, dal “conosci te stesso” di Delfi fino alla decisiva elaborazione nella modernità, da Montaigne e Shakespeare a Rousseau, Hegel, Nietzsche, Dostoevskij e poi a Pirandello. Chiaromonte amava il teatro perché sulla scena quel che conta non è ciò che l’individuo pensa di sé, ma il modo in cui si manifesta agli altri attraverso il suo agire: vi è un obbligo dell’accordo tra fatti e parole “altrettanto stretto di quanto può esserlo nella vita”.1 Ora, come essere autentici nell’inesauribile palcoscenico dell’esistenza associata? Nella conversazione immaginaria con il fratello, sacerdote gesuita (nella finzione divenuto un ex compagno di scuola al liceo Massimo di Roma), Chiaromonte conclude che in Italia c’è posto per tutte le maschere tranne che per una: “c’è posto per il Fanatico, e per il Cinico. Solo chi vuol essere se stesso ne resta escluso: l’eretico.”2 Vedremo in seguito come questo “essere se stessi” non vada inteso in maniera rigida e prescrittiva; proprio per il suo senso altamente teatrale dell’esistenza il critico lucano non coltivava il pathos luterano dell’autenticità. Ma certo nel nostro Bel Paese, che dietro la patina sentimentale nasconde spesso un realismo brutale, l’idealista, ossia colui che tenta di accordare i fatti alle parole, si trova quasi per forza a essere eretico, anche se non lo vuole.
Davvero esiste un nucleo di “se stessi” inviolato, originario, al quale collegarsi? O il sé è come una cipolla: dopo che hai levato ogni strato non rimane più nulla? Chiaromonte, più vicino ai tragici greci che ai pastori protestanti, sa che l’autenticità non è liquidabile, però è un effetto, un punto di arrivo. La verità può essere detta solo attraverso la finzione, mimando “in parole e gesti essenziali la propria situazione”.3
Le “lamentatrici” lucane di cui ci parla lo storico delle religioni ed etnologo Ernesto De Martino “proclamano” il loro dolore, dunque in un certo senso lo fingono, eppure non è un dolore insincero, e anzi lo vivono più intensamente quando lo fingono. Così come un poeta arriva a “fingere” persino ciò che davvero sente, come disse Pessoa. Questo non significa adesione al famigerato aforisma nietzscheano per cui ciò che è profondo ama la maschera: straordinario alibi per le maschere mediocri del nostro tempo e per chiunque, refrattario alla profondità, si illuda di scivolare con profondità su un’incantata superficie. Il punto è che la nostra esistenza è ontologicamente impastata di teatro: “si finge ogni volta che non si parla il linguaggio servile del quotidiano e non si compiono i gesti servili che la vita di tutti i giorni impone”.4 E anzi il teatro comincia proprio lì, dove il gesto “appropriato” non è solo istintivo ma corretto dalla comunità e dal suo linguaggio. Esternare i propri sentimenti in un linguaggio comune non tanto e non solo per piacere agli altri quanto per comunicarli. Per essere autentici abbiamo bisogno di recitare.
Ma cosa mostrare di sé? Non il “subbuglio mostruoso degli istinti” (come vuole la psicanalisi), che non è più vero del suo contrario, bensì un equilibrio tra interiorità (la ricerca del meglio di sé) ed esteriorità, tra quello che vogliamo apparire e quello che concretamente siamo con gli altri.5 Nel dramma pirandelliano Trovarsi la protagonista, che fa l’attrice, non può vivere perché “la sola che le appaia vita è quella finta del palcoscenico, dove tutto è vero perché chiaro, dato una volta per sempre, ma tuttavia sempre da inventare – mentre la ‘vita com’è’ è un torbido imbroglio di casi”.6 Già, la vita quotidiana è confusa: nel suo palcoscenico tutto ci sembra casuale e non abbiamo mai la sensazione di essere liberi. Eppure la vita distillata, essenziale, tutta provvista di significato, che incontriamo a teatro o in un romanzo, non è quella reale. Dietro la finzione c’è un felice inganno. Qualcuno ha già selezionato e isolato per noi alcuni momenti, alcune scene decisive. E infatti non è la riproduzione della vita quotidiana ma solo un modello, un esperimento, con cui dobbiamo utilmente confrontarci.
Ora, ciò che conta è che ogni giorno ci sforziamo di estrarre, anche solo provvisoriamente, dal caos un ordine, dall’opacità una chiarezza, dalla frammentarietà una narrazione coesa, dai gesti automatici un agire libero. Nessun altro può farlo per noi. Proprio questa tensione, questo movimento continuo, mai interamente concluso, è dopotutto la vita reale. Non si deve aspirare tanto a un’impossibile personalità monolitica e compatta, poiché l’io è sempre fluido, diviso, “sconcordante con se stesso”,7 doppio: nel Mercante di Venezia di Shakespeare, Antonio è un gentiluomo generoso ma insulta Shylock e gli sputa addosso, mentre Shylock è sia fiero che abietto. Si deve aspirare invece alla possibilità di far coincidere interno ed esterno, di relazionarsi agli altri senza calcoli o particolari strategie comunicative o sovrastrutture di comodo. Nel suo documentario Comizi d’amore Pasolini riesce sorprendentemente a conquistare la fiducia di tutti gli interlocutori (gente comune, “popolo”, ragazzi e adulti), a strappar loro le opinioni più intime su abitudini e gusti sessuali, per una sola ragione: tutti avvertono la disarmata autenticità di Pasolini – pure uomo dalle molte contraddizioni, inseguito ogni giorno dalle Erinni! – e ne vengono toccati.
Per tentare di approfondire un tema così delicato partirò da un libro decisivo del critico letterario americano Lionel Trilling, The Liberal Imagination. Non ho trovato documentazione sui suoi rapporti con Chiaromonte, ma certamente si conoscevano. Il grande amico di Chiaromonte Dwight Macdonald si considerava un allievo di Trilling, anche se in seno alla Partisan review si consumò la rottura fra i due. Nel 1943, all’inizio della guerra, Macdonald lasciò la rivista per fondarne una propria, politics, professando posizioni non-interventiste. Alla fine tutto il gruppo dei New York intellectuals si ritrovò su posizioni culturali più che su posizioni politiche (ad esempio Trilling mostrò di sottovalutare il maccartismo, e anzi almeno in un’occasione ebbe un comportamento ambiguo in proposito). L’idea di fondo era quella di letteratura come esercizio di immaginazione morale.
In The Liberal Imagination Trilling scrive: “la letteratura è l’attività umana che prende in considerazione nel modo più ampio e preciso la varietà, la possibilità, la complessità e la difficoltà”.8 La generazione del Sessantotto, memore del Giovane Holden e di James Dean, si contrapponeva al mondo adulto in nome della sincerità. Ogni rivoluzione, nella modernità, condivide questa disposizione d’animo: Robespierre, devoto a Rousseau, era ossessionato dalla sincerità e dalla trasparenza; così la Rivoluzione francese, che intensificando l’idea del “pubblico” arrivò a contenere alcuni germi totalitari. Forse quell’aspirazione sessantottesca è finita nella schiettezza brutale e senza rimorsi dei talk show. Ah, se quella generazione avesse letto nel 1972 Sincerità e autenticità di Lionel Trilling!9
Assumendo la sincerità come veracità, occorrerebbe chiedersi: e se la sincerità fosse un’ulteriore maschera, una confessione a metà per tacere proprio le verità più innominabili? E se dire la verità si esaurisse nel conformarsi alle norme sociali e nel corrispondere alle aspettative degli altri? E se la sincerità fosse un peccato di presunzione, di hybris? L’orgoglio del Misantropo di Molière, “virtuoso ridicolo” convinto di avere il diritto di dire una verità, anche sfrontata, a tutti. E se nell’inesauribile palcoscenico della società l’uomo fosse sempre ipocrita? Nell’Amleto Polonio esorta il figlio a essere fedele a se stesso per non essere falso con nessuno, ma dovremo essere fedeli alla parte migliore di noi o anche a quella peggiore? La sincerità “francese” è rivelare la parte di sé abietta, quella “inglese” soltanto non ingannare gli altri. A quale delle mie tante personalità sarò fedele? In particolare Trilling si sofferma sul Nipote di Rameau di Diderot, e sulla lettura che ne volle dare Hegel schierandosi non dalla parte della “coscienza onesta” (e filistea) del Diderot personaggio ma dalla parte dell’istrionismo del Nipote, vile e spudorato, che avrebbe il merito di ridersela della confusione del tutto, comportandosi da Spirito libero e autocosciente.
Mettiamo ora da parte la sincerità – che comunque per Trilling va perseguita senza fanatismo e con piena coscienza del nostro cuore di tenebra – e concentriamoci sull’autenticità, intesa come “una concezione più complicata di sé e di ciò che significa essergli fedele”. Anche l’autenticità ha un aspetto performativo, impastato di teatro. L’alternativa è solo tra fingere un ruolo o fingerne un altro. Qui ci soccorre Kurt Vonnegut con una celebre frase tratta da Madre notte, del 1961 (edizione italiana, Feltrinelli 2007): “Se ognuno è ciò che finge di essere deve stare bene attento a ciò che vuole fingere di essere” (“We are what we pretend to be, so we must be careful about what we pretend to be”).
Trilling intende preservare l’individualità critica e autonoma contro la personalità eterodiretta della folla solitaria. Nella nostra inevitabile autodrammatizzazione bisognerebbe soprattutto evitare di compiacere la società, di vivere soltanto nell’opinione altrui (l’alienazione sociale di Emma Bovary, che invece è “autentica” nella propria sofferenza). La recita è inevitabile ma recitiamo almeno parti che non ci vengano imposte dal di fuori!
Tra le figure di Trilling e Chiaromonte – entrambi intellettuali liberi e inesauribili saggisti – ci sono alcune convergenze, pur nella ovvia diversità delle loro biografie (il primo non fu mai uomo d’azione, piuttosto un accademico senza stile accademico). Anzitutto un’idea della letteratura, come conoscenza e come terapia. La letteratura ci aiuta a “regolare il giudizio” (Matthew Arnold, modello per Trilling, insieme a John Dewey), a capire il mondo, a farci vivere più veridicamente dentro i fatti, a coltivare quanto di meglio vi è in noi. Dunque, il loro è un umanesimo apparentemente rétro, lievemente malinconico e al tempo stesso combattivo: si veda la critica del Sessantotto, o di una parte di esso, come nemico dell’umanesimo. E in entrambi, pensatori digressivi, non sistematici, troviamo a volte una mancanza di rigore, alcune incertezze e approssimazioni terminologiche. Sono inoltre pensatori profondamente liberali, e per molti versi libertari, con la loro critica radicale al marxismo anche “da sinistra”: alle sue pretese di scientificità che smarriscono le ragioni della morale, alla sua derisione dell’idea di giustizia, alle sue complicità con il mondo borghese. E ancora: in entrambi troviamo la dimensione della parresia, un concetto ripreso a suo tempo da Michel Foucault – ossia il dovere morale di dire la verità all’interno della polis greca a regime democratico – richiamato da Euripide nelle Fenicie (V secolo a.C.). Dire la verità, contro tutti i cliché e i dogmi. Sinceri, al di fuori di ogni calcolo tattico e strumentale, e nei limiti del possibile autentici, ben conoscendo quanto sia problematica ogni autenticità, più punto di arrivo che un a priori.
Ma in ultimo Trilling è artefice di una torsione teorica sorprendente, che a me pare totalmente in sintonia con la meditazione di Chiaromonte. Dopo aver elogiato il disincanto del moderno, la dialettica hegeliana, l’eroica coscienza disgregata, lo smascheramento di Nietzsche, si rivolge al Talmud, alla tradizione rabbinica e al genere del romanzo, contrari a qualsiasi retorica dell’eroismo (da Don Chisciotte e Tom Jones in poi). Nei personaggi derelitti e al più basso gradino dell’esistenza di Wordsworth e Jane Austen l’autenticità si identifica – sottolinea Trilling con un colpo di scena ermeneutico – non nella faticosa costruzione del sé ma nel puro “sentimento dell’essere”, nella elementare semplicità biologica della vita. Come aveva detto qualche anno prima in The Opposing Self (1955), quella autenticità – refrattaria all’unilateralità del moderno – si conserva nella silente dignità dei camerieri di Hemingway, nelle umili figure di Theodor Dreiser, nei neri e nei ragazzi idioti di Faulkner, nelle persone semplici e primitive di David Herbert Lawrence.
Il concetto di Gemüt che Trilling riprende dalle Lezioni sulla storia della filosofia di Hegel sarebbe piaciuto a Chiaromonte. Concetto di difficile traduzione – “indole”, “natura”, “sentimento” – indica un sentimento particolare dell’esistenza, e cioè una volontà che non ha alcun fine determinato, né di ricchezza, né di onore, e che dunque mira solo al godimento di se stessa, uno stato di esistenza piena e beata che non ha bisogno di eroismo o di coraggio. L’esistenza consiste in se stessa. Per Trilling, che riconosce quella disposizione non solo nei rabbini (indifferenti alla virtù aristotelica del coraggio), ma anche nel disarmato, “rabbinico” Leopold Bloom dell’Ulisse di Joyce contrapposto al “desiderio di prestigio” dell’orgoglioso Stephen Dedalus, la vita umana si giustifica in se stessa in ragione del suo esistere, dunque come biologia (forma di resistenza alla società e alla cultura stessa), come sopravvivenza puramente fisica e quasi “minerale”, e non perché debba riscattarsi attraverso qualcosa (riconoscimento sociale, opere, conflitto, impegno, “militanza”, acquisto di prestigio ecc.). Un ideale antieroico assai vicino alla sensibilità di Chiaromonte, al quale dell’amico Ignazio Silone piace proprio la semplicità contadina, che riversava nei suoi personaggi di cafoni.10
Soffermandosi su una rappresentazione teatrale di Čechov, Chiaromonte mette e a fuoco la sua idea di verità. Che cos’è la verità a teatro, ma potremmo dire nell’arte? Čechov è scrittore realista, ritrae la realtà in ciò che essa ha di ineluttabile. Al centro del suo teatro troviamo soprattutto l’effimero (natura, oggetti, persone, rapporti sociali), e nell’effimero tutta la realtà è presente, sempre. Ora – questo il passaggio decisivo – per rendere tale realtà nella sua verità bisogna liberarla da tutto ciò che nasconde la sua essenza effimera, “tutto ciò che pretende”.11 Il punto è spogliare la realtà delle sue pretese e metterne in evidenza il carattere effimero, fatto di istanti che subito svaniscono (né il gioco né la festa “pretendono” qualcosa). È quel senso della “fugacità universale” che affiora anche in una terzina dell’ultimo canto del Paradiso, malgrado la concezione aristotelico-tomista di Dante, fondata sul senso dell’eterno e sulla stabilità dell’ordine divino.12
La verità del mondo è il passare del tempo, che nessuno può in nessun modo vincere o dominare: ogni cosa che passa è implicata nelle foglie che si perdono al vento, come la sentenza di Sibilla. Ma questo assoluto dell’effimero e della mortalità è per Chiaromonte lo scrigno prezioso che contiene anche ciò che è radicato nel passato e che merita di continuare, e che non coincide con gli scopi personali. La nostra persona è solo il tramite del durevole. Cosa abbia in mente Chiaromonte quando parla del “durevole” e di ciò che trascende gli impulsi momentanei e lo scorrere indefinito dei giorni, non è sempre chiaro. Certo, chi rifiuta la ricerca dell’utile e l’assolutezza dell’oggi, chi vive disinteressatamente, “interessato unicamente all’essere delle cose”, vive “per il senso che intravede nelle cose dell’esistenza”, e senza neanche volerlo indica “un possibile ordine”, una “norma di Bene”, e “indicando un tale significato lo fa essere”.13 Insomma, non si danno ordini preesistenti né essenze umane metastoriche: una cosa esiste solo perché noi vogliamo farla esistere con il nostro agire. E, seguendo Trilling, la fedeltà a se stessi coincide con la spontaneità irriflessa solo nelle persone umili, nei poveri di spirito, altrimenti è una laboriosa conquista che implica riflessione e continua autocorrezione.
Torniamo all’autenticità. Ha senso parlare ancora di buona fede nel palcoscenico dell’esistenza? Insieme a Chiaromonte, e con tutta la problematicità della sua impostazione, sarei tentato di rispondere di sì. Nella vita sociale siamo certo costretti a indossare una maschera, ma bisognerebbe farlo non per corrispondere alle aspettative degli altri, agli stereotipi e alle mode (come madame Bovary, che infatti smarrisce se stessa). Piuttosto, provando a trattenere, nel flusso magmatico dell’esistere, qualcosa che in quel momento sentiamo come indubitabilmente vero, che ha un’eco interna. D’altra parte la verità si manifesta solo nella recita, come l’essere si manifesta nel divenire.