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LAICI APERTI AL SACRO: UN PARALLELISMO CON PASOLINI

Ce ne è un altro di significato della realtà, ed è quello che si nasconde dietro i significati correnti, le ambiguità, le plurivalenze di ogni cosa, oggetto o occasione: la realtà vista in tale luce diventa sacra.

Quando si parla di cultura laica si fa riferimento a un insieme piuttosto ampio ed eterogeneo di posizioni. C’è un laicismo supponente e riduzionistico, devoto alle magnifiche sorti del Progresso, sicuro che la scienza possa dare una risposta alla domanda ultima sul senso della vita, convinto che sia reale solo ciò che è misurabile e calcolabile; espressione di un fideismo positivistico, di un razionalismo che non ammette dubbi né contraddizioni. E c’è una sensibilità rigorosamente laica, disincantata però capace di “spiritualità” (la quale non si identifica con la religione né con qualcuno dei teismi), fondata su un’etica pubblica pluralista, legata all’idea che non si danno verità uniche né saperi totalitari (lo stesso ateismo si pone come credenza, non come “sapere”: nessuno “sa” se Dio esista o meno), fiduciosa nella ragione senza però trasformarla in assoluto, restia a divinizzare la Storia ma capace di conservare una fede ostinata nell’assoluto della coscienza umana, aperta alla “nozione o segreto di un valore che supera il tempo” (come ha magnificamente detto Geno Pampaloni di Montale).1 La stessa che ritroviamo in Wittgenstein – “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati”2 – e in quell’Husserl che resta un filosofo centrale nella formazione di Chiaromonte. Non è questa la sede per discutere una filosofia così ardua come quella di Husserl, dove confluiscono alcune grandi correnti del pensiero moderno, da Cartesio a Kant.3 Ma lo stesso riferimento di Chiaromonte alle “cose come sono” deve probabilmente qualcosa all’appello di Husserl a “tornare alle cose stesse”, e dunque a quella fenomenologia che, mediante l’epoché (sospensione del giudizio), intende appunto tornare alle cose e farle parlare. E proprio da Husserl, accostato da Chiaromonte a Kafka, discendono non solo la filosofia di Heidegger – quasi per nulla interessato al romanzo, alla concretezza del romanzo – ma anche le riflessioni simpatetiche sul romanzo di Milan Kundera, a metà degli anni ottanta, che avrebbero certo ricevuto un pieno consenso da parte di Chiaromonte. In esse infatti si dice che il mondo-della-vita caro a Husserl è stato abbandonato dalle scienze, dalla loro eccessiva specializzazione, e invece ripreso dall’arte del romanzo, incline a rappresentare la concretezza dell’essere umano, la natura sempre ambigua e cangiante dell’esperienza, l’infinita varietà dei dettagli e non il mondo ridotto alle essenze proprio della filosofia (i saggi dei grandi romanzieri sono spesso deludenti poiché il loro “pensiero” è tutto racchiuso nei romanzi).

L’esperienza numinosa

È proprio con il romanzo moderno che Chiaromonte ha scelto di dialogare sui temi dell’etica, della Storia e dell’ontologia. Dotato di una robusta armatura logica, il pensatore lucano affronta la questione religiosa rifiutando ogni religione stabilita e svolgendo una critica alle pretese del monoteismo. Se cioè il divino è un’esperienza autentica e permanente dell’uomo – esperienza dell’inattingibile, dell’inesplicabile, dell’invisibile in fondo a ogni percezione, del per sempre nascosto, “di ciò che è al di là dell’esperienza, ma in cui l’esperienza trova un appoggio ultimo”4 – allora “Dio può esistere solo al plurale, nella relatività e ambiguità proprie delle credenze e creazioni umane”,5 per la semplice ragione che l’esperienza è plurale, varia, molteplice. Gli dèi greci sono ciascuno “un certo modo di apprendere il mondo, un’esperienza costante”.6 E poi il regno del ‘divino’, per i greci, è più vasto ancora di quello degli dèi, anch’essi soggetti alla Moira: è l’arcano gioco di forze dal quale sappiamo di dipendere, e anzi “nel riconoscersi dipendente da tali forze supreme, creatura effimera e limitata, ma al tempo stessa libera, sta per i greci la dignità dell’uomo”.7 Dipendente non significa però interamente dipendente: si tratta solo di un atto iniziale di umiltà, dell’accettazione del limite. Ma qui si schiude anche la dimensione di una nostra – limitata ma preziosa – libertà: liberi di “dire” quello che ci è accaduto, di proclamarci innocenti, di contemplare il nostro destino oltre che di soffrirlo, di credere in ciò che conta. E anche se la stessa credenza religiosa, perfino nel Medioevo, convive sempre ambiguamente con il suo contrario, con la difficoltà di credere. Le credenze erano meno assolute di quanto si pensi, le religioni “credute” non coincidevano mai con convinzioni pure, poiché “non c’è niente che sia puro e tutto d’un pezzo nell’esperienza reale dell’uomo”.8

Il divino è per Chiaromonte un’esperienza che nasce nel mio intimo, non può “rivelarmela” nessuna religione, e prende una forma nella vita associata, attraverso simboli e riti. Prima accennavo a una nozione capace di superare il tempo: quando ci appare un qualche senso della vita, allora il tempo diviene relativo, il quotidiano sparisce. Qui il divino diventa il volto più rassicurante o almeno più riconoscibile del sacro, che invece è informe, caotico, terrificante: gli dei a volte ci invidiano, come apprendiamo nell’Iliade, e vogliono la nostra rovina; altre volte ci proteggono, e ci permettono di congiungerci alla natura, al mondo che ci avvolge e soverchia. Si tratta comunque della percezione di una alterità presente in ogni cosa e in ogni atto, accanto al suo aspetto familiare e quotidiano.

Per l’umanità moderna questo sentimento del sacro è quasi in via di estinzione, difficile perfino da nominare, però mai del tutto scomparso né obliterabile. Forse sopravvissuto in leggende e superstizioni, come nel vaneggiare della soldatessa-fattucchiera del Dottor Zivago di Pasternak.9 Per definirlo proviamo a rileggere uno dei maestri di Chiaromonte nei suoi anni universitari a Roma, Adriano Tilgher, che gli trasmise, tra l’altro, la passione per il teatro e per la filosofia. In un commento all’Infinito di Leopardi, Tilgher osserva che siamo in presenza non di una esperienza religiosa ma di una “tipica esperienza numinosa”,10 ovvero esperienza di un ineffabile (che respinge e invita insieme) oltre il piano ordinario della vita, e che in opposizione a quella profana si può chiamare “sacra”. Aggiungo che essendo vissuta poeticamente, è anche un’esperienza amata, altrimenti potrebbe essere frantumante. È infine la poesia a svuotare il sacro del suo contenuto terrificante, a rendere il naufragio qualcosa di dolce, a trasformare la paura e l’odio in amore, come ha detto una volta Pasolini parlando di don Milani.11

Due “reazionari” di sinistra

Molto differenzia Chiaromonte da Pasolini. Basti pensare a una raccolta di saggi pubblicata dal secondo nel 1960, Passione e ideologia, nel quale si avverte il lettore che si tratta di una “e” avversativa e disgiuntiva: “Prima passione, ma poi ideologia” (dove “la passione, per sua natura analitica, lascia il posto all’ideologia, per sua natura sintetica”).12 Chiaromonte, e proprio in quegli stessi anni, diffida di entrambi i termini: rifiuta la “sintesi” (soffocante, e quasi sempre illusoria) e le certezze dell’ideologia, e alla passione viscerale, esibita preferisce l’umile ricerca razionale, problematica, di una misura. Pasolini, a sua volta, un po’ diffidava di riviste come Tempo presente, e in generale della Terza Forza: il suo populismo marxisteggiante era incompatibile con quelli che dovevano sembrargli borghesi onesti, illuminati e un poco aristocratici (e anche se Tempo presente era diretta pure dal “populista” Silone).

Sono tanti però i fili che li uniscono: la fedeltà alle loro “piccole patrie” (due regioni italiane minuscole, un po’ arcaiche, al confine di tutto: Basilicata e Friuli), il legame con la tragedia greca, l’attrazione per la dimensione del sacro, che è altra da quella religiosa. Si tratta del mistero immanente alla realtà, dell’ordine imperscrutabile dell’universo, dell’esperienza umana del nascosto e dell’innominabile. Un intellettuale, irriducibilmente e gelosamente laico, che collaborava a Tempo presente, una volta tentò di nominarla. In una bellissima lettera del 1973 alla cognata, dopo la morte del fratello, Giorgio Manganelli scrive che Dio, questa parola “terribile, antica”, va forse pensata come un “luogo”, e si tratta dell’“unico luogo nell’universo in cui noi tutti siamo da sempre a sempre; noi, i vivi e i morti, insieme, un luogo che ignora il tempo” e che “è impossibile affollare e impossibile disertare”. E ancora: “quel luogo potrebbe essere un tappeto, una trama infinita di segni, e che tutti insieme formano quel misterioso disegno, completo e perfetto, al cui completamento attende l’eternità”.13

Infine, a riunire Pasolini e Chiaromonte è un nucleo “eretico” del loro pensiero che sfugge a ogni classificazione e appartenenza politica (Pasolini, che fino alla fine si dichiara comunista, inviando il suo messaggio al congresso del Partito Radicale, dimostra una libertà “selvaggia” di pensiero che si oppone a ogni dogmatismo e cliché), una vocazione al genere del saggio personale e autobiografico in cui l’autore si mette sempre in gioco. Entrambi diffidano della società di massa, omologata e alienante, ma senza rivendicare un ruolo privilegiato per sé. Per Pasolini la disperazione stessa quando è “collettiva” si trasforma in conformismo, maschera, cliché. Per Chiaromonte “in massa anche la povertà si valuta, diventa miseria e abiezione”,14 ma avrebbe concordato con Pasolini a proposito della distinzione fra “turismo di massa” e “turismo di popolo” (nel quale può esserci la massa, però senza degrado, senza disordine).

Ma c’è soprattutto un punto su cui i due autori potrebbero convergere in larga misura, e che potrebbe mostrarne una resistenza irriducibile, o perfino “reazionaria” al progresso e a ogni cambiamento. Nel febbraio del 1973 uscì sul settimanale Tempo una doppia recensione di Pasolini (nella rubrica “Il caos”), al picaro di Lazarillo de Tormes e alla Via di un pellegrino di Anonimo russo, nel quale si celebra niente meno che la rassegnazione: “non c’è nulla che dia tanto torto al potere quanto la rassegnazione; che è poi il rifiuto del potere sotto qualsiasi forma. Ciò lo rende quello che esso è in realtà, un’illusione”.15 Elogio paradossale, che urtava contro tutti i proclami barricadieri dell’epoca e le citazioni ipermilitanti da Mao su “ribellarsi è giusto” (in ciò assai più ostico e impopolare della poesia in difesa dei poliziotti!) La rassegnazione vista non come sottomissione ma come sovrana indifferenza, come il punto più distante possibile dal potere e dalle sue logiche, anche se apparentemente questo sembra incoraggiarla: per un curioso ribaltamento il potere, che “fa di tutto per predicare tra i ‘repressi’ la rassegnazione”, è poi proprio dalla rassegnazione che viene ad essere “demistificato”.16 Eppure da lì, dal riconoscere che ogni potere è soltanto illusione, poteva e doveva partire una necessaria “critica della politica”.

Qualche anno prima, nel 1967, Chiaromonte scrive a Muska che volontà di cambiamento e violenza sono la stessa cosa: “voler ‘cambiare’ significa voler far violenza a ciò che è”,17 non lasciare che esso sia. Una verità difficile da digerire per la cultura progressista. E, di più, significa “non credere nella semplicità delle cose che sono”, cercare dunque di complicarle artificiosamente, rifiutare ciò che è in nome di ciò che dovrebbe essere, non fidarsi del mutamento naturale del mondo, dei ritmi e dell’evoluzione spontanei, credere fanaticamente nella volontà, nel “voler” cambiare (ossia nel progetto). Cambiare qualcosa significa sempre “violare” questo qualcosa. Ora, è giusto battersi per tentare di cambiare una situazione che ci sembra ingiusta, ma non dovremmo mai dimenticare che qualsiasi agire genera una quantità di conseguenze – come cerchi concentrici nell’acqua – che in nessun caso si possono controllare. Ancora una volta Chiaromonte ci dà una lezione di misura: la realtà si svolge con un ritmo che non dipende da noi. Si chiede poi se rifiutare la violenza non significhi allontanarsi anche dall’azione. L’etimologia di “violenza”, secondo lui proveniente non dal latino, ma dal greco βια (bìa) – “violenza”, nome della figura mitologica che la incarna – e dal sanscrito vayaha – “forza vitale” – ci dice l’“impossibilità di separare il fatto della vita da quello della violenza”.18 Certo, possiamo sempre, con un atto di libertà morale, rifiutare la violenza, e dunque anche ciò che contiene di profondamente vitale (la vita è metabolismo feroce, sopravvivenza), sapendo però che così andiamo a ledere l’impulso all’autoconservazione.

Non siamo lontani dalla “rassegnazione” pasoliniana. Non si tratta di un invito al quietismo, bensì di una presa di distanza dalla politica stessa e dalle sue logiche, dalla pretesa di migliorare il mondo. Significa riconoscere il proprio limite (la propria fallibilità), adeguarsi a un ritmo segreto delle cose e delle persone (un ritmo che dobbiamo saper intravedere), e insomma distinguere tra la necessità di battaglie civili quotidiane e la consapevolezza di leggi che regolano il tutto e che sempre ci sfuggiranno. È un invito a privilegiare l’attenzione, la comprensione, sul voler cambiare a tutti i costi: a riconoscere pazientemente il bene nelle cose (anche aiutandolo a mostrarsi) piuttosto che imporre alle cose il bene (la propria idea di bene) anche con la forza.

Infine, entrambi vedono nel Sud sia la miseria e l’arretratezza, sia un’inconsapevole resistenza a questo sviluppo. È nota la lettera a Gennariello – ideale scugnizzo napoletano – di Pasolini, nella primavera del 1975, confluita poi in Lettere luterane: “preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana.”19 Mentre Chiaromonte parlando di Eduardo De Filippo nota che da una parte vorrebbe affrancare il popolo napoletano ma dall’altra sa che “non può affrancarsi senza tradire le sue origini e assumere, al posto della maschera grottesca, il volto insignificante dell’uomo medio metropolitano, che certamente non è un guadagno”.20

America primo amore

Chiaromonte e Pasolini sentono di amare profondamente l’America, pur con tutte le riserve sui guasti di un capitalismo a volte disumano e di un imperialismo prepotente. Per la ragione che lì si sentono a casa! Chiaromonte sottolinea la bruttura dei ghetti, il gelo della vita quotidiana e i massacri del Vietnam, ma al tempo stesso confessa un suo sentimento “quasi patriottico” verso quel paese, dove pure “la solidarietà fra uomo e uomo può prendere forme così vive ed energiche”.21 Adora New York, città fantastica che ricapitola il globo, e in cui non ci si sente stranieri. Così Pasolini a New York, intervistato da Oriana Fallaci...22 Quali erano i paesi che amavano? Qui si potrebbe registrare una diversità radicale, ma forse solo apparente. Una volta Pasolini confessò, vergognandosene, di provare simpatia per il regime quasi medievale dello Yemen, certo poco democratico ma almeno poetico. Chiaromonte non si sarebbe mai abbandonato a sentimenti così regressivi. Una volta da Londra scrisse un elogio degli inglesi. Gli piace “la maniera inglese di vivere quietamente, noiosamente, ma non senza qualche ‘necessario’ pensiero”. E poi apprezza la qualità civile dei rapporti tra maestri e scolari nelle università (siamo nel 1969, il periodo della contestazione): “solo una società fondamentalmente ‘conservatrice’ – attaccata ai modi di essere tradizionali – può resistere alla barbarie contemporanea”.23 Pasolini era attratto dal Medioevo inglese, tanto da girare I racconti di Canterbury, tratto dall’opera di Chaucer. E a Londra quando si recò per curare l’edizione inglese del film, ogni sera andava a Hyde Park a giocare a calcio – la sua grande passione – con alcuni italiani che vivevano lì.

Sappiamo anche la sua accezione tutta positiva del termine “barbarie”. Ma, come accennavo, si tratta di una diversità solo apparente, e solo di un diverso uso terminologico. La “barbarie” cui si riferisce Chiaromonte non è quella felice degli incolti e dei semianalfabeti che aderiscono alla vita immediata, ma quella del vandalismo infantile dei giovani contestatori inclini a profanare ciò che nemmeno conoscono, e in fondo legati alle comodità della società che pure intendono contestare. E qui si sarebbe incontrato, benché lui non giocasse al calcio, con Pasolini. Per lui la rivolta giovanile era soprattutto un sintomo del male della società: i giovani ribelli, che perlopiù recitano una parte, vogliono impadronirsi di questa società “non per distruggerla ma credendo di poterla utilizzare meglio degli attuali padroni”.24 Ma a proposito di questo aspetto rinvio al capitolo 7.

Il sacro: non c’è aldilà

Soprattutto entrambi sono attratti, come abbiamo visto, dal sacro. Per Chiaromonte un disegno divino – un potere supremo, irresistibile, un ordine cosmico – presiede alle sorti umane, anche se non ne sappiamo nulla. E si manifesta attraverso il caso, attraverso i piccoli accidenti della vita quotidiana. Benché non coincida con la provvidenza e il lieto fine, proprio perché imperscrutabile.25 Quell’ordine inconoscibile, quel legame tra l’individuo e l’essere delle cose forma una unità inaccessibile, di cui ad esempio la musica di Bach è un frammento,26 ma anche, per noi, per me e per la mia generazione, quella di Bob Dylan o di Jimi Hendrix.

Ed entrambi vivono nell’epoca della desacralizzazione, della scomparsa del sacro. Si badi bene: non della profanazione ma dell’estinzione del sacro. I jeans Jesus, che Pasolini volle commentare in uno degli “scritti corsari”, non profanano nulla. Piuttosto espellono il sacro dal loro orizzonte. In una lettera del 1969, da Parigi, Chiaromonte riferisce di aver visto a teatro una riduzione di Gargantua e Pantagruel che vorrebbe essere una profanazione violenta del cristianesimo attraverso varie oscenità realizzate in scena ma “non si profana che ciò che si crede in qualche modo”: nei primi giorni della guerra civile gli spagnoli che gettavano sul sagrato mummie di monache, paramenti sacri e oggetti di culto ci credevano, nella santità di quegli oggetti e di quei cadaveri.27 Il libro recente di Emanuele Trevi su Laura Betti è un affascinante memoir, però fuorviante quando tenta di riportare il sacro pasoliniano ai misteri di Eleusi.28 No, in ciò Pasolini la pensava, probabilmente, come Chiaromonte, che mettendosi a leggere il filologo e storico delle religioni Károly Kerényi arriva alla conclusione che “non c’è ‘aldilà’” (come invece credeva l’erudito Kerényi), “a questo si riduce l’impenetrabilità del mistero”.29 Niente di esoterico e di segreto: tutto è detto in quei simboli, nei frammenti di poesia, nelle immagini su vasi, nel simbolo della Madre e della Figlia, nel dono della spiga a Trittolemo, nel simbolo del chicco di melograno in relazione a Persefone. E tutto rivela il senso dell’esistenza, che consiste nel “distruggersi per rinascere fruttificando”, nel distruggersi dando vita, nell’unione indissolubile di morte e immortalità. E si tratta di una verità da sempre sotto gli occhi di tutti, non limitata ai sapienti e gli iniziati.

A proposito dell’irrazionale, o di quello che Pasolini chiamava il poco-razionale, il pensiero laico, e anche marxista, sembra aver lasciato una delega al positivismo, vietandosi così di capire una parte cospicua della realtà. La “ragione” appartiene al regno dei pensieri, e occorre pensare in modo rigoroso, secondo logica, “ma nei casi umani c’è altro”, e così se i greci vinsero a Salamina è stato anche perché invocarono gli spiriti degli eroi: “una credenza è un fatto, tanto più quanto lega una comunità al suo passato con un sentimento di εὐσέβεια = pietas30 (pietà, devozione, rispetto). Mentre Pasolini osservò che il marxismo non riesce a spiegare perché Gramsci, con la sua costituzione fisica debole, riuscì a resistere al carcere fascista e a scrivere tutti quei quaderni. In una lettera a Melanie von Nagel, Chiaromonte intende commentare una cosa che lei gli deve aver scritto in una lettera precedente, e cioè che il senso del sacro non si raggiunge con l’intelligenza: “infatti il sacro è il non intellegibile”.31 Però questo concetto richiede una ulteriore puntualizzazione: serve qualche altra facoltà. Il senso del sacro coincide con il senso del limite, con “il sentimento (e la coscienza chiara) della μοῖρα (“moira”), della parte – ossia di essere parte di un tutto che non si conosce”.32 Per riconoscere quel limite, per non fermarsi prima (che è poi la mediocre saggezza che i più intendono per “ragione”) occorrono dunque l’intelligenza e il cuore, separati artificialmente tra loro nel Seicento, nel Grand Siècle. Chiaromonte ricorda a Muska che l’“intelligenza” di cui parla non ricerca il dominio sulle cose ma è un pensiero emotivo che entra in sintonia con le cose: “voler capire non è voler possedere”.33 Insomma qui non c’è tanto l’elogio del giusto mezzo quanto lo slancio di una intelligenza che si spinge all’estremo, che fa esperienza dei contrari per sapere dove infine collocarsi.

Gnostici innamorati della realtà

Sono tentato di applicare a Nicola Chiaromonte la definizione che una volta ho usato per Pasolini: gnostico innamorato della realtà. E chissà che in questa formula ossimorica non si nasconda poi la posizione stessa dell’intellettuale laico nella modernità: da una parte vive sotto un cielo abbandonato dagli dèi, privo di qualsiasi punto di appoggio e garanzia di stabilità dell’universo, consegnato a una solitudine desolata, con l’unica certezza della propria fine; dall’altra l’intellettuale laico è capace di aderire alla misteriosa bellezza di questo mondo in cui è precipitato.

Ripercorriamo la sceneggiatura del corto di Pasolini, Che cosa sono le nuvole? – da un film a episodi, Capriccio all’italiana (1967) –, con il dialogo tra Totò marionetta in costume di scena (era infatti Jago in una rappresentazione di Otello), prelevato e gettato da un “monnezzaro” (Domenico Modugno), insieme a Ninetto Davoli che ha il viso annerito di fumo (Otello), in una discarica abusiva.

Otello: Iiiiih, che so’ quelle?

Jago: Sono... sono le nuvole...

Otello: E che so’ le nuvole?

Jago: Boh!

Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!

Jago: Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!

Nello stesso corto pasoliniano troviamo pure un altro passaggio (che nella sceneggiatura originale trova uno sviluppo più disteso) a proposito della verità e della recita, che avrebbe potuto scrivere Chiaromonte.

Otello (rivolgendosi a Jago): Ma allora qual è la verità? Quello che penso io de me, quello che pensa la gente o quello che pensa quello là dentro...

Jago: Mah... Qualcuno dice che la verità non c’è... qualcuno dice che la verità è ’na media de tutte le verità diverse che ce stanno... Ma tu non dà retta a nessuno de questi... Perché c’è la verità.

Otello: E qual è?

Jago: Senti qualcosa dentro di te? Concentrati bene! Senti qualcosa? Eh?

Otello (dopo essersi ben concentrato): Sì... sì sento qualcosa... che c’è...

Jago: Be’... Quella è la verità... Ma ssst, non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più...

Ecco, la verità esiste. Nonostante la società liquida e il relativismo del postmoderno. Solo non corrisponde più a una essenza nascosta delle cose, a un assoluto. Piuttosto coincide con un nostro “senso” interno, che – se ci concentriamo – ogni volta ci dice cosa è vero e cosa non lo è, cosa è bene e cosa è male. E naturalmente questo “senso” varia da società a società, è condizionato della Storia, dalla tradizione in cui si è immersi. Per Chiaromonte, lettore devoto di Shakespeare, tutti recitiamo una parte sul palcoscenico del mondo. Ed è il teatro a rivelare la finzione, a metterci a nudo. In Pasolini i burattini dialogano con il burattinaio e lo interrogano su di sé, sulla propria identità e sui propri moventi:

Otello: So’ un assassino! So’ un assassino! Chi se lo credeva! Io, io so’ un assassino, mannaggia!... (Si rivolge verso l’alto, al Burattinaio): A sor Maè! Ma perché io credo a Jago? Perché so’ così stupido?

Burattinaio: Forse... è perché sei tu che vuoi ammazzare!

Otello: Come? Me piace ammazzare? E perché?

Burattinaio: Forse perché a Desdemona piace essere ammazzata...

Siamo agiti, il nostro destino è deciso da un grande burattinaio e, almeno per noi, governato dal caso. Recitiamo, senza saperlo, un copione. Eppure in alcuni momenti moriamo alla rappresentazione per rinascere alla verità abbagliante del mondo. Si tratta della dimensione sacra dell’esistenza: “Cosa c’è di più sacro dell’azione di fidarsi e di affidarsi al mistero, al nostro istinto di umani destinati all’eternità, di nutrire la consapevolezza di custodire dentro di noi già tutto, compreso il senso di appartenenza a un’altra dimensione, quella dell’immortalità?”34 Certo, siamo il sogno di un’ombra, o un sogno dentro un altro sogno, però a ogni istante la vita è intera (custodisce già tutto), e al presente in fondo non manca nulla.

Tornando alla suggestione cui accennavo: qui lo gnostico, finito in questo regno di tenebre, si apre alla “straziante, meravigliosa bellezza del Creato”, scopre il legame creaturale con gli altri e con il cosmo. Il sacro è la realtà stessa, guardata per la prima volta con un sentimento di meraviglia e di purezza. In una lettera a Muska, che in quel momento sta leggendo Solženicyn, Chiaromonte si riferisce all’idea di libertà dello scrittore russo, “la libertà di chi, al tempo stesso, ama questo mondo e le creature, e sa che per l’anima è, malgrado tutto, una prigione”.35 Appunto: amare il mondo sapendo che è una prigione. Ma, aggiunge qualche riga dopo, Solženicyn ci mostra ciò che noi abitanti del Novecento abbiamo perduto “dietro il miraggio della ‘felicità’ personale”. L’ego moderno, gonfiandosi a dismisura, fa sparire la realtà, il legame con il Creato. Ma l’unica risposta sta in quell’amore: “amare è desiderare infinitamente – desiderare l’infinito – e non poterlo avere. Forse da lì si comincia a capire qualcosa”.36 L’amore per la bellezza, per la verità, per la giustizia, ci permette di entrare in contatto con una dimensione altra, non trascendente ma neanche riducibile alla dimensione unidimensionale in cui viviamo abitualmente.

La foto di Gesù

Proviamo a fare un esperimento mentale, certo singolare, che viene evocato in una lettera a Muska. Se per ipotesi disponessimo di una fotografia di Gesù in croce, quali conseguenze ne deriverebbero? Certamente questa foto toglierebbe qualsiasi alone o aura evocativa alla sua figura: la dissacrerebbe in modo irrimediabile. Un’osservazione apparentemente ovvia di Chiaromonte, che però si ricollega ad alcune riflessioni sul rapporto tra pittura e fotografia. La prima esige sempre da chi la guarda un ruolo attivo: “la dobbiamo, in un certo senso, fare guardandola, giacché essa è composta, non semplice, non meccanica”.37 Dobbiamo ricostituirla, dunque sviluppare con la nostra immaginazione tutto ciò che evoca. Mentre l’immagine fotografica sta lì, bell’e fatta, immutabile. Pasolini ha scritto una volta di preferire il volto del sottoproletario a quello del borghese, poiché in esso vi è qualcosa di non rifinito, di instabile, di simile alla vita e di più vicino al sacro (che, ricordiamo, non è una dimensione occulta ma la realtà stessa, guardata da altre prospettive, e dunque al tempo stesso familiare e straniata). Per Chiaromonte una fotografia abolisce tutto, tranne l’oggetto (e il momento), dunque appiattisce qualsiasi cosa, costringe a una percezione unilaterale della realtà, elimina altre dimensioni possibili, interrompe la possibile connessione tra mondo sensibile e mondo soprannaturale, tra tempo e immortalità. In queste righe avvertiamo una netta opzione di Chiaromonte, pure agli inizi critico di cinema, verso la parola rispetto all’immagine. Vediamo meglio come si articola.

Il cinema non può essere profondo

Chiaromonte critica spesso il bovarismo culturale di massa del nostro tempo: “penso a Tolstoj e al suo elogio della vera ignoranza piuttosto che la mezza cultura”.38 Un concetto imparentato con quello di semicultura di Adorno, che aveva profetizzato la sostituzione dell’autorità della Bibbia con l’autorità della televisione. Anche se lo stesso Adorno esortava a cercare le macerie della cultura alta dentro la semicultura di oggi, tentando di risvegliarne il nucleo di verità sovversiva. Parlando di Adorno vorrei riprendere uno spunto di critica a Chiaromonte cui accennavo all’inizio. Come Adorno ha trasformato la sua legittima antipatia per il jazz in una teoria estetica (falsa, piena di contraddizioni, insostenibile), così Chiaromonte, che pure all’inizio tenne una rubrica cinematografica e apprezzò registi come Pabst, Ėjzenštejn e Chaplin, sviluppa con il tempo un’avversione per il cinema inteso soprattutto come cultura di massa, prodotto industriale finalizzato all’intrattenimento e corrotto dal divismo. E non resiste alla tentazione di tradurre questa avversione in una teoria, però troppo unilaterale e smentita dai fatti.

Leggiamo in Tempo presente del maggio-giugno 1965 che il cinema non è altro che “azione senza ragione, puramente emozionante”.39 Si riafferma qui il primato della parola (che si prolunga e chiarisce nell’interpretazione) sull’immagine (la quale significa solo se stessa e subito svanisce). Un film di André Cajatte suscita orrore ma alla fine “la pena di morte era data in spettacolo, non denunciata”.40 Qui Chiaromonte si dichiara più “moraviano” di Moravia, che invece come critico cinematografico tratterebbe – incongruamente, secondo Chiaromonte – i film come romanzi e le immagini come parole. Per lo scrittore lucano invece i film di Antonioni e Robbe-Grillet sono falsi, svenevoli e noiosi e hanno la “pretesa di servirsi delle immagini come di parole cariche di profonde intenzioni”.41 In particolare se la prende con L’eclisse di Antonioni, una storia d’amore “raccontata con eccessivi indugi, vaghezze e sentimentalismi”,42 che si carica di troppe pretese e significati concettuali: perché “una donna che guarda a lungo fuori della finestra deve considerarsi un’immagine di alienazione”?43

Una considerazione che vale per molti “film d’arte” dell’epoca (l’articolo su Tempo presente è del 1962), prodotti midcult intellettualistici ed estetizzanti, in cui ci si poteva trovare di tutto, dall’alienazione marxiana all’essere-per-la-morte di Heidegger. Ma siamo sicuri che certi film di Rossellini e Buñuel siano anch’essi pretenziosi e carichi di vuote simbologie? Roma città aperta ed Europa 51 di Rossellini si lasciano dietro tutta la letteratura neorealista. E i film di Buñuel rappresentano probabilmente il meglio che abbia prodotto il surrealismo.

In ogni caso Chiaromonte è convinto che l’immagine sia “irrevocabilmente esteriore, irrevocabilmente incapace di rappresentare la vita interiore, la soggettività, la personalità: può solo alludervi, cercare di illustrarla attraverso i segni esterni di cui è capace”;44 che il cinema non possa esprimere idee né significati complessi, che ci offra un mondo tutto esplicito e tutto accessibile. Va bene, il cinema è spettacolo, e l’immagine di una strada vuota, anche se dura mezz’ora, non perciò contiene lo stato d’animo dei personaggi. L’emozione che un film procura ha una immediatezza che non ci chiede la partecipazione attiva alla costruzione del significato, come avviene con la poesia. Però quel tentativo di alludere alla vita interiore attraverso delle immagini, di illustrare l’interno rappresentando l’esterno, quando riesce – ed è certo raro ma anche documentato da varie pellicole – può assolutamente competere con il potere della parola e del discorso.

Se invece dal cinema ci spostiamo al teatro, qui Chiaromonte è costretto a mettere in posizione subordinata la parola scritta della letteratura. Per una ragione che ha a che fare con il suo assillo dell’autenticità: sulla scena, come nella vita, la parola di un uomo vale solo in quanto s’accorda con i suoi atti. Perciò gli italiani non amano veramente il teatro: non amano vedersi messi a nudo e giudicati sulla scena per come sono.