7.

IL SESSANTOTTO E LA POLITICA

E c’è il mondo infinitamente enigmatico – e nessun discorso scioglie l’enigma.

Questo è il vero guaio dei giovani oggi: sono tutti “sofisticati”... sicché è impossibile o quasi convincerli a tornare verso la semplicità.

Perché a vent’anni sognavo – sognavamo – vendette spettacolari, giustizie sommarie, violenze risolutive, palingenesi finali? Perché eravamo così attratti dalla guerriglia e dalle lotte di liberazione armate? Probabilmente perché i giovani sono inclini a una “semplificazione estrema” e a un estremismo un po’ teatrale. Al tempo stesso nemici della semplicità (percepita come imbroglio), dunque armati di dialettica, artificialmente concettosi, inesauribilmente sofistici, e però attratti da una drastica semplificazione della realtà, che il catechismo marxista pure ci assicurava! Pensavamo in fondo che contro una società basata sulla violenza e sulla sopraffazione fosse giustificata qualsiasi violenza (proprio come la pensava il non-violento Tolstoj),1 e poi credevamo che il (nostro) discorso sul capitalismo sciogliesse l’enigma del mondo, e finalmente spiegasse il mistero insondabile del male, quello per cui nella Storia, manzonianamente, “non resta che far torto o patirlo”. No, in verità quell’enigma non lo scioglie nessun discorso – sia esso sul potere, sulle multinazionali, sull’avidità dei padroni, sui complotti –, tanto che Platone inventò la forma del dialogo “per far risaltare ancor più l’enigma di un mondo sostanziato di luce e d’oscurità”.2 La riflessione di Chiaromonte sulla non-violenza è influenzata da Andrea Caffi e Simone Weil. Nel 1953 fa un elogio dell’“eresia solitaria” di Simone Weil, che tra le macerie della guerra prende atto della mancanza di forma dell’universo che ispira i moderni, abili a manipolare il mondo fisico ma incapaci di capire il mondo umano, illusi che si possa usare la forza – vero enigma del mondo – per scopi buoni: “essa fa del vinto una ‘cosa’, ma il vincitore stesso nella sua furia ne è vittima, o strumento”.3 In definitiva la non-violenza diventa qui – al di là della sua maggiore o minore efficacia pratica (ed è efficace solo se non persegue obiettivi a breve termine, come osservò Hannah Arendt) – l’unica modalità per separarsi visibilmente dal male, per preservare se stessi dall’odio e testimoniare la propria diversità, per restare fedeli a se stessi e “mostrare negli atti che si è diversi dai malvagi”.4 E in ciò ritrovare, su un altro piano, una piena efficacia della non-violenza poiché solo persone che si sono mantenute integre possono creare una società diversa. Nel suo celebre Saggio sulla liberazione del 1968 Herbert Marcuse,5 appoggiando con entusiasmo il Maggio francese, aveva ribadito che chi desidera introdurre una nuova sensibilità deve già avere abitudini mentali e comportamenti utopici. Potremmo riformulare, nel linguaggio di Pasolini: la non-violenza è prossima alla poesia, ovvero trasformazione dell’odio in amore.

Ammirazione come soggezione volontaria

Da molti passi si evince che Chiaromonte guardasse insieme con simpatia e severità alla rivolta giovanile. Come abbiamo già detto, reputava giusto ribellarsi a una classe dirigente che non meritava più alcun rispetto, ma vedeva nel Movimento tendenze gregarie, conformiste, dottrinarie che ne limitavano lo slancio. In una lettera dell’ottobre 1967 a Muska, che parla di tutt’altro, ritrovo la radice della critica a un certo antiautoritarismo miope di quegli anni ruggenti: non si combatteva infatti solo un’autorità irrazionale, legata cioè a uno status e al ruolo istituzionale, ma qualsiasi autorità, perfino l’“autorità” della bellezza e della grazia, ben diversa da quella politica.6 L’autorità è infatti tutt’altro rispetto alla forza e al potere. Ed è vero che nella nostra adolescenza certi maestri, perlopiù involontari, si facevano obbedire o imitare da noi senza che comandassero. La loro autorità consisteva in una energia irradiante (proprio nei termini in cui Carlo Levi parla del primo incontro con Piero Gobetti). E riconoscerla equivale al riconoscimento spontaneo di ciò che vale, di una qualche superiorità da rispettare: “non è soltanto ammirazione – ma proprio una sorta di amorevole ‘soggezione’”.7 Un riconoscimento che sembra confliggere con l’attuale democrazia plebiscitaria della Rete, con un egualitarismo falso, degradato, che non fa distinzioni, che tutto uniforma e vieta di ammirare chicchessia. L’idea di una “soggezione” – benché intenzionale, amorevole – doveva parerci allora reazionaria. Certo, affinché si dia una rivolta è necessario che le vecchie classi dirigenti – insomma i propri genitori – siano ottusi e retrogradi, perché se invece sono ultraprogressisti, come in un dramma polacco che Chiaromonte vede a Parigi nel 1967 (Tango, di Mrożek) allora “tutto finisce in caos”.8 Come in parte è avvenuto con i figli della generazione sessantottina, scavalcati a sinistra e in ogni direzione da genitori che pretendevano di spiegare loro perfino le ragioni della loro stessa rivolta.

Hippies

Chiaromonte dichiara, sorprendentemente, la propria vicinanza agli hippies (“quella – o una simile a quella sarebbe stata la mia strada. Ma son venuto troppo tardi”),9 più immuni da egocentrismo e degenerazioni ideologiche, rispetto ai giovani ideologizzati che chiama “pedanti ribelli”. E anche se nei tre giorni del concerto di Woodstock scorge – con una esagerazione che oggi ci fa sorridere – riti dionisiaci e culti orgiastici, “il libero riversarsi della vita nella vita”.10 Chiaromonte confessa di non voler “cercare” i giovani: sono loro che devono cercarti e “chiederti il segreto della ‘verità’ che (essi pensano) tu detieni”.11 Ma, come abbiamo già visto, c’è soprattutto un elemento che sembra corrodere dall’interno la rivolta, e segna la sua segreta complicità con il potere, con il “sistema”. Si tratta di una mentalità traversale, che sottende le ideologie politiche anche apparentemente emancipative, ed è alla radice sia dell’Europa che dell’America: una visione razionalistica-utilitaria-edonistica, fondata a sua volta sulla “libera espressione dell’Ego”,12 tale per cui si cerca di evitare gli ostacoli, di rifiutare la fatica. Sembra qui preannunciarsi un tratto della sensibilità dei nativi digitali: eliminare a tutti i costi fatica e dolore, dopo che per secoli si è pensato che la fatica per raggiungere un obiettivo fosse perfino più importante (in quanto formativa) dell’obiettivo stesso.

Ognuno gioca il suo vissuto nella lotta

In occasione del cinquantenario del Sessantotto sono usciti innumerevoli libri, di riflessione e rievocazione. Alcuni affetti da reducismo autocelebrativo, altri inspiegabilmente severi e maramaldeggianti, quasi risentiti, fino a stravolgere la verità di quell’esperienza. Forse il libro-intervista a Luigi Bobbio13 – all’interno di un progetto di storia orale di Luisa Passerini – è il più bello e sofferto. Soffermiamoci su un passaggio decisivo. C’è una obiezione ricorrente, e non infondata, al Sessantotto, che si potrebbe riassumere così: mentre il movimento del Settantasette – più radicale e disperato – partiva da sé, dal vissuto delle persone (spesso si trattava dei non garantiti, dei precari, di settori ai margini della società), quello del Sessantotto – all’inizio prevalentemente studentesco – si identificava in modo solo ideologico e dunque alienato con l’“altro” (operai, neri, vietcong, Terzo Mondo, I dannati della terra di Franz Fanon...). Ora, Luigi Bobbio, scomparso nel 2017, risponde a questa obiezione che invece nel ’68 l’identità del movimento non era fuori “ma tutta dentro di noi”, specialmente per merito delle donne e della rivoluzione femminista di poco successiva.

Il Sessantotto fu un movimento non solo altruistico o filantropico o rivolto a organizzare leninisticamente le masse, ma anche di autoliberazione. E proprio il gruppo rivoluzionario di Bobbio, Lotta Continua, insistette più degli altri su questo aspetto, riprendendo alcuni elementi del movement americano e della New Left: gli studenti non devono porsi come un’“avanguardia” (concetto pericoloso) ma devono badare soprattutto al loro ambiente, e cioè alla scuola, alle autorità accademiche, ai riti dell’università, alla manipolazione culturale. Non per chiudersi dentro l’istituzione ma perché “ognuno gioca il suo vissuto nella lotta. Io mi ribello contro la mia oppressione, non contro quella dei vietnamiti”, puntualizza Luigi Bobbio nell’intervista.

Quando recentemente lo scrittore Jonathan Safran Foer ha replicato a un giornalista, “Il mio Vietnam è come mi alimento”, intendeva dire che il suo impegno parte dal vissuto personale e solo dopo riscopre la dimensione collettiva, e si organizza in forme di consumo critico, boicottaggio dei prodotti, cooperazione ecc.

La conclusione dell’intervista ha una coloritura mesta. Anche se Bobbio possedeva un invincibile “ottimismo della volontà” a un certo punto confessa che di quel periodo anche esaltante di lotte non gli è rimasta nessuna amicizia, nessun vero legame affettivo. Una constatazione sincera, che non dovrebbe però indurre a sconforto: il punto è solo di non chiedere alla politica – anche alla politica che ci appare più nobile – ciò che la politica non potrà mai dare, se non incidentalmente (ad esempio l’amicizia). Come sapeva Chiaromonte, critico inflessibile dell’idolatria della politica.

La recita dell’impegno politico

Lo scrittore lucano pensava che i giovani rivoluzionari non “giocassero il proprio vissuto”, come dice Bobbio, bensì recitassero perlopiù una parte, “persino quelli che mettono dinamite negli edifici”,14 e qui si riferisce naturalmente agli Stati Uniti e ai Weathermen, gruppo terroristico e ultraminoritario della sinistra radicale (durò pochissimo anche per la totale irrealtà dei suoi slogan che incitavano a una ribellione armata; se ne parla in un film di Robert Redford, La regola del silenzio, del 2012, e in Pastorale americana di Philip Roth, del 1997). La mia generazione è stata attratta da qualsiasi mito politico che sembrasse appena un po’ esotico, meglio se tinto di colori violenti: ci travestivamo da Guardie Rosse cinesi, da Pantere Nere, da barbudos, da vietcong... identità spettacolari e improbabili. Il “servizio d’ordine” di un gruppo – il Movimento Studentesco di Milano – ebbe perfino l’improntitudine di intitolarsi “katanga”, dal nome dei mercenari bianchi nell’ex Congo Belga, passati un giorno per la Sorbona occupata. Aspetti folkloristici e spesso superficiali di un movimento di protesta che sarebbe assurdo ridurre alla violenza – la quale anzi fu per tutta una prima fase soltanto difensiva – ma certo Chiaromonte non poteva minimizzarli. Bisogna aggiungere che, come ha osservato Hannah Arendt, il ruolo della violenza nella Storia per Marx era ineliminabile ma secondario, quasi si trattasse di doglie del parto, mentre la “dittatura del proletariato” doveva durare un periodo limitato. Certo, la retorica della nuova sinistra, specie in Europa, venne influenzata da “una convinzione assolutamente non marxista, proclamata da Mao Zedong, secondo la quale ‘il potere nasce dalla canna del fucile’”.15 Uno slogan che in quel periodo poteva confondersi con le frasi dei protagonisti dei western barocchi di Peckinpah e Sergio Leone. D’altra parte in quella recita di gruppo il linguaggio non rispecchia più quello di cui parla. Soltanto un esempio, marginale ma eloquente. Più in là, nell’arcipelago frastagliato della nuova sinistra, nacque una formazione politica anche molto innovativa nelle idee, che si chiamava Gruppo Gramsci, con la paradossale caratteristica di non avere però alcun legame con il pensiero di Gramsci (troppo poco esotico)!

Ancora nella stessa lettera del maggio 1969, si precisa che “la maggior parte dei giovani ribelli che conosco, alla dimensione dello spirito non ci credono affatto: non la capiscono”. La ragione della loro rivolta, e della loro violenza, risiede nell’“impulso infantile di distruggere quel che sta lì per noia – insoddisfazione – disoccupazione spirituale”.16 Un giudizio che può sembrare riduttivo e ingeneroso. Eppure Chiaromonte leggeva la realtà al di là di manifesti, documenti teorici, dichiarazioni, e nella rivolta di allora sembrava cogliere un perverso intreccio di estremismo generatore di tirannia (come quella descritta nel X libro della Repubblica da Platone) e di invito a una festa cosmica dell’amore da parte di Rousseau, “teorico della democrazia totalitaria”.

Uma tentativa de amor

Si è detto giustamente che il Sessantotto ha segnato la fine di un mondo. Perciò è stato una rivolta planetaria contro le istituzioni che sorreggevano quel mondo, dalla scuola alla famiglia, dall’economia alla morale. Difficile minimizzarne la portata e ridurlo – come pure è stato fatto – a un mero acceleratore della modernizzazione. Però mi chiedo, insieme a Chiaromonte, se molte delle idee della rivolta non fossero altro che le idee allora dominanti nella società dei consumi appena riverniciate, prima fra tutte quella che unico scopo della vita sia appagare ogni desiderio: “da una parte l’attività concertata per fare del mondo la proprietà assoluta dell’uomo, dall’altra la sempre più libera affermazione dell’Ego”17. E da lì sia scaturito l’unico vero imperativo della società attuale: “divertirsi da morire”. Fin dall’inizio, specie in Italia, la rivolta adottò dogmi ideologici e “credenze” del passato assai più retrograde rispetto ai nostri stessi comportamenti e modi di essere di quel periodo.

L’errore sarebbe stato prendere allora Chiaromonte per un vecchio zio un po’ brontolone che paternalisticamente ci invita alla misura. No, quello che ci dice è ben altro. Ci dice che trasgressioni ed eccessi di quegli anni finiscono desolatamente in politica, la quale in ultima analisi è il regno della forza, dunque dell’ingiustizia (o almeno quando la politica diventa un assoluto e non ammette verità ad essa superiori). Ci dice che occorrerebbe sempre chiedersi in nome di cosa si vuole contestare il sistema. Alla rivolta mancava una forma di amore, quella stessa che lo psicanalista Elvio Fachinelli, allora aderente alla nuova sinistra, volle trovare nel Portogallo della Rivoluzione dei Garofani del 1974 e che raccontò in un libro bellissimo, Uma tentativa de amor. Infine, memore del suo passato giellista, Chiaromonte ci ricorda che al primo posto dovrebbe esserci la rivolta morale e non quella politica, l’esempio personale e non la tattica, il singolo e non il collettivo, l’esperienza non l’ideologia.

Infallibilità

Chiaromonte non avrebbe gradito che il suo pensiero venisse associato al dogma dell’infallibilità papale. Anche perché non parlava mai ex cathedra, dal pulpito cioè di una carica istituzionale, come professore universitario o leader politico. Però tutti i suoi giudizi politici, sia di politica estera (URSS, Cina, Cuba) sia di politica interna (centro-sinistra, PCI, DC), sono sempre infallibili (un po’ come i giudizi letterari di Geno Pampaloni). In questo senso si potrebbe dire che possedeva non il dogma ma, in termini teologici, il “carisma” dell’infallibilità. Perché era infallibile? Semplicemente perché riuscì a pensare da solo. E, come sapeva Hannah Arendt, si pensa sempre da soli, così come dalla caverna platonica si esce uno alla volta. Poi il passo successivo è confrontare i propri pensieri con quelli degli altri, modificarli e arricchirli nel dialogo. Dentro un partito invece l’intellettuale gode di una “tutela corporativa”,18 ha la garanzia di stare con il popolo, e tende a evitare la fatica di pensare.

Basterebbe ricordare i suoi giudizi affilati e controcorrente sulla Cina comunista (si veda la dura polemica del 1956 contro un numero della rivista Il Ponte diretta da Piero Calamandrei che offriva le testimonianze entusiaste di un gruppo di intellettuali lì invitato), sulla Rivoluzione Culturale (“operazione diretta contro l’apparato di partito a sostegno del dittatore Mao”),19 sull’Algeria, sulla crisi di Cuba (dove i “signori del mondo”, separati dalla comune umanità, e strumenti di una fatalità impenetrabile, stavano per far esplodere un conflitto nucleare”)20 e il Che (eroe rivoluzionario e combattente generoso ma anche apologeta della violenza come bene assoluto e non solo arma efficace contro il capitalismo). Quanto al centro-sinistra furono anni in cui, come testimoniano le sue lettere a Gino Bianco, cominciò per lui la degenerazione assistenziale e clientelare, la corruzione dell’imprenditoria e dell’alta burocrazia, il trasformismo, la partitocrazia con la complicità di socialisti e comunisti: “Quest’Italia davvero dà cattivo odore e peggiora giorno per giorno”.21

Guerra fredda

Proprio per il suo isolamento politico Chiaromonte è stato spesso screditato e appiattito su un anticomunismo fanatico (allora si diceva “viscerale”). Ora, che sia stato anticomunista oltre che antitotalitario non vi è dubbio, così come non credette mai, al contrario di Norberto Bobbio, alla compatibilità tra socialismo e comunismo (il che non gli impedì di simpatizzare con l’eresia di Rosa Luxemburg).

Nel 1950 aveva aderito al Congresso per la libertà della cultura (Congress for Cultural Freedom, CCF), fondato nell’allora Berlino Ovest da intellettuali ex esperti di guerra psicologica e funzionari dei servizi segreti, come Melvin Lasky e Michael Josselson, e in seguito all’Associazione italiana per la libertà della cultura, creata da Silone. Oggi queste iniziative e queste figure ci appaiono come tristi arnesi della guerra fredda, strumenti di una propaganda spesso rozza e schematica come quella simmetrica dell’URSS. Eppure sembra che all’interno del CCF lo scrittore lucano svolse un ruolo di mediazione. E soprattutto bilanciò sempre il rigido anticomunismo con una “netta opposizione al clericalismo” e con un giudizio severo sulle scelte dell’amministrazione statunitense, che obiettivamente frenavano – accanto al realismo solo apparentemente astuto di Togliatti – qualsiasi rigenerazione democratica del nostro paese.22 È significativo che la rivista Tempo presente, pure nata nell’alveo del CCF, accanto a Encounter e Das Forum, non mise in copertina il logo dell’organizzazione. In seguito, quando uscirono nel 1967 le notizie su un finanziamento della CIA al CCF attraverso la Fondazione Ford, Chiaromonte, del tutto ignaro di questo sostegno, venne quasi alle mani con Lasky, direttore di Encounter (e agente della CIA)23 e poco tempo dopo sospese le pubblicazioni. Certamente, occorre ricordarlo, la rivista non ne fu mai condizionata: appoggiò sì la rivoluzione ungherese del 1956 – unica rivista italiana – ma condannò l’intervento americano in Vietnam, solidarizzò con i movimenti per i diritti civili e contro la segregazione razziale, e simpatizzò con la rivolta studentesca di Berkeley.

L’azionismo riattualizzato

A proposito dell’eredità azionista esiste una fitta bibliografia, che ne sottolinea anche giustamente i gravi e oggettivi limiti: inclinazione predicatoria, astrattezza moralistica, vocazione alle minoranze, piglio supponente e professorale. Quando si sciolse il PCI, nel 1989, la nuova classe dirigente, impegnata a riformare il partito, volle richiamarsi – con qualche goffaggine – proprio all’esperienza di Giustizia e Libertà, e alla centralità della “questione morale”, parola d’ordine di Berlinguer nel 1980, a sua volta accusata di ispirazione azionista da altri dirigenti comunisti. Ora da un lato aveva ragione Giacomo Noventa a criticare il “virtuismo”: nessun partito deve pretendere di essere il “partito degli onesti”; la separazione tra onesti e disonesti è trasversale ai partiti. E Noventa distingue opportunamente tra “antifascismo” (moralismo, assenza di dubbi) e “Resistenza” (morale politica, la quale non può che essere tragica, perché sempre piena di dubbi e con la coscienza della contraddizione). Gli uomini della Resistenza – prosegue – avevano combattuto anzitutto contro se stessi. Ma questo è esattamente lo spirito di un giellino come Carlo Levi, che invitava a combattere il fascismo dentro di sé. Dunque: ci sono varie anime dell’azionismo, anche tra loro in conflitto.

Dall’altro lato, se guardiamo alle lotte sociali e politiche degli ultimi anni potremmo invece trovare la conferma di alcune intuizioni della tradizione azionista. Si tratta di coltivare un’idea della politica non ricalcata su quella della guerra. In tal senso il Principe di Machiavelli resta sì un ricettario straordinario per un politico, ma per un politico che vuole soltanto vincere. Non tutta la politica si può ridurre al “vincere” e “perdere”: implica invece una più ampia dimensione di educazione e autoeducazione, di trasformazione di sé, di costruzione di una diversa società dentro questa società, fatta da uomini “legati da una solidarietà materiale spontanea”.24 È l’idea che ha Chiaromonte – dai tempi della “gang” in GeL25 fino a politics e a Tempo presente – di cenacolo o piccolo gruppo riunito dall’adesione agli stessi valori, che prefigura una socialità liberata, alla quale nessuna prassi politica può rinunciare.

Al centro di una recente riflessione di Mario Tronti, a suo tempo massimo teorico dell’operaismo, troviamo un giudizio svalutativo sul Partito d’Azione (cui si sarebbe oggi ridotto oggi il PD), colpevole di astrattezza predicatoria e moralismo imbelle (quasi un andare alla guerra disarmati).26 E ad esso contrappone persino la famigerata doppiezza togliattiana, per lui assai più saggia e realistica. Pensiamo a Chiaromonte, che non si iscrisse al Partito d’Azione ma che rimane legato all’esperienza di Giustizia e Libertà, benché a metà degli anni trenta si verificò la secessione che abbiamo prima citato, preceduta dall’allontanamento di Lussu dal movimento. Chiaromonte polemizzò infatti contro l’eccessivo tatticismo di Rosselli (e la sua idea di restaurare, sconfitto il fascismo, la vecchia democrazia parlamentare), contro l’idea di nazionalità come corollario dell’ideale di libertà e contro qualsiasi presunta eredità risorgimentale da rivendicare per la cospirazione antifascista (essendo stato il Risorgimento solo una “conquista regia”).

A me sembra che oggi il meglio di quell’esperienza, e di quanto di essa si è travasato nell’azionismo – democrazia dal basso accanto a quella rappresentativa, vocazione antitotalitaria, opposizione a ordinamenti centralizzati, rivoluzione democratica come rigenerazione delle coscienze – sopravviva non tanto nel PD inteso come partito radicale di massa, incentrato quasi esclusivamente sui diritti civili, quanto nelle buone pratiche di cittadinanza, nelle comunità argentine di nonni e bambini elogiate da Naomi Klein, nella disobbedienza civile di Occupy Wall Street, nelle esperienze di cooperazione e collaborazione dal basso, di consumo critico e mutuo aiuto, nella rete di contropoteri che già qui e ora ci modificano e ci liberano. La novità politica più interessante degli ultimi decenni è il revival di un filone libertario fondato sulla “pratica degli obiettivi”, su una cittadinanza attiva e su stili di vita alternativi: Colin Ward, Paul Goodman, Saul Alinsky (maestro di Obama), Ivan Illich. Il governo locale come scuola di civismo politico: negli organismi di base si forma un cittadino responsabile e consapevole che si prende cura di sé e del bene comune. Dove altro si può formare? Nelle scuole-quadri dei partiti? Ne parlò Antonio Giolitti – allora PCI – alla Costituente: “la garanzia essenziale del regime democratico è l’autogoverno, che è fondato sul senso di responsabilità, sulla coscienza morale e politica del cittadino”.

In realtà, Togliatti e De Gasperi condividevano l’idea di una sostanziale immaturità dell’autogoverno (e quindi dell’individuo), e anche per questo respinsero la proposta di Dossetti (cui aderì anche Moro) – il 21 novembre 1946 – di introdurre nella Costituzione il “diritto di resistenza” che avrebbe ridotto il ruolo dei partiti. Può darsi che allora avessero buone ragioni, ma oggi? Rileggiamo gli Scritti politici di Carlo Levi, giellista, dove il senso della politica non è la riscoperta del ceto politico ma la riscoperta della responsabilità. Per Tronti, e molti altri come lui, l’individuo da solo non ce la fa. Eppure dovremmo avere fiducia, al di là di ogni determinismo sociologico, negli individui – nella loro iniziativa autonoma, nella loro immaginazione, nel valore di contagio della loro azione – dei quali invece diffidano da sempre sia la tradizione comunista che quella cattolica. L’individuo non è la monade borghese, chiusa nel suo egoismo autoreferenziale, il capitano di industria senza scrupoli del neoliberismo, ma anzitutto colui che pensa, che dice no al potere e sì alla vita, che esce dalla caverna da solo per poi unirsi agli altri: “mi rivolto dunque siamo” (Albert Camus). Il singolo che si ribella prefigura la comunità. E dunque “gli uomini meritano che gli si dia fiducia”.27

Chiaromonte contrappone all’idea di rivoluzione come conquista violenta del potere da parte di una minoranza ideologizzata l’idea fiduciosa di rivoluzione come trasformazione graduale “attraverso l’azione quanto si voglia lenta, ma metodica e instancabile, di gruppi che si moltiplicherebbero e rafforzerebbero per via di esempio efficace, di coraggio e di sacrificio”:28 una contestazione globale che trova la sua verifica nel campo della “buona morale”, e cioè di “un nuovo modo di sentire e concepire il posto dell’uomo nel mondo, il significato della vita, i rapporti con gli altri, la giustizia”.29 A un politico machiavellico, convinto che conti solo la forza che puoi manovrare nella guerra, questa idea potrebbe apparire velleitaria, nobilmente idealistica. Ma siamo sicuri che la politica imbevuta di realismo abbia prodotto nel secolo scorso risultati tanto più concreti, o durevolmente apprezzabili? Si tratta non tanto e non solo di testimonianza ma di una rivoluzione molecolare, decentrata, che prova a smontare – realisticamente! – il potere nella sua microfisica quotidiana, lì dove si forma dentro le relazioni tra le persone. In ciò Chiaromonte appartiene legittimamente a quella famiglia di pensatori libertari prima richiamati: rifiuto di ogni autorità indiscutibile, di ogni delega allo stato (il quale anche nel migliore dei casi può realizzare la giustizia sociale solo attraverso il suo apparato burocratico), della politica stessa come assoluto.