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IL BENE RESTA BENE E IL MALE MALE

Ogni uomo che cerchi di comportarsi bene sa al tempo stesso che deve seguire una norma non ambigua e che, per quanto faccia, si troverà ad esser stato per qualche verso ingiusto.

In tutti questi anni ci siamo così abituati a dire che bene e male sono tra loro intrecciati, che coesistono dentro ciascuno di noi, che la politica consiste nel fare il male per affermare il bene ecc., che rischiamo di obliterare una verità fondamentale, peraltro ben presente perfino ai detective cinici ma idealisti di Chandler e Hammett: bene e male sono sì a volte sovrapposti, però non fino al punto di coincidere, e insomma il bene resta bene e il male male. È una questione di onestà e chiarezza pregiudiziale.

A fin di bene

Possiamo anche dire una bugia a fin di bene, seguendo la cosiddetta “etica della responsabilità” che si contrappone all’“etica della convinzione” (come se fosse davvero possibile separarle), e se tralasciamo il fatto che la stessa formula “a fin di bene” è moralmente quantomeno dubbia. Nel finale dell’Avventura di un povero cristiano (1968) Silone riproduce un dialogo tra papa Bonifacio VIII e Celestino V, protagonista del Gran Rifiuto: al primo, che intende agire immoralmente però a fin di bene, il secondo replica che a fin di bene si può solo fare il bene. E poi chi dice una bugia, anche con le migliori intenzioni, si arroga il diritto di condurre il gioco, come un invisibile burattinaio, illudendosi di controllarlo in ogni conseguenza. Non bisognerebbe mai dimenticare che dire una bugia, anche se in certe situazioni può essere necessario, è male, e di solito si paga, prima o poi. Ci troviamo interamente nel cuore della condizione tragica dell’essere umano. Sartre polemizzò con Camus perché secondo lui dire la verità sull’URSS agli operai della Renault poteva scoraggiarli e indebolirli. Eppure alla lunga non dirgliela li ha indeboliti ancora di più, preparando il terreno alla sconfitta. Occorre chiamare le cose con il loro nome, altrimenti comincia la confusione, si genera una nebbia pervasiva in cui non si distingue nulla. Il male moderno si rivela qui precisamente come mancanza della coscienza di ciò che è male: ad esempio male è far soffrire un uomo ma se lo si fa per una Causa Superiore non è più male.1

In un saggio del 1936, dodici anni prima del newspeak di 1984 di Orwell, Chiaromonte associava il fascismo, e il totalitarismo in generale, ad “alterazione di vocabolario”: “il fascismo sembra avere un interesse speciale a chiamare le cose con un nome diverso dal loro nome più semplice”.2 Le parole si separano dai fatti, i quali sono quello che sono “e nessuna formula può costringerli a significare altro”.3 Un’alterazione di vocabolario che si sposa a una visione storicista: un delitto diventa un “momento necessario” o “eroico” della Storia, e così si denuncia la “volontà aggressiva” di un esercito che pure si sta ritirando. E, come sappiamo, una guerra può diventare “intervento umanitario” (potrebbe essere una “guerra giusta” ma non cambiamole nome!) e un bombardamento “missione di pace”. Per la democrazia, basata sul metodo della discussione, la verità è un bisogno irrinunciabile.

La vita si svolge per intero dentro l’ambiguità, e spesso ci sfuggono le ragioni stesse delle nostre azioni, ma l’ambiguità non deve assurgere a programma e scopo, come sembra avvenire in certe opere di Brecht, magari in nome della dialettica. Ad esempio Vita di Galileo è un “mediocre esempio di teatro politico” e un testo piatto, confuso, rozzo, “più falso che mai”,4 che ci invita a “venire a patti” con le forze politiche pronte a schiacciarci. Brecht vi giustifica sia l’abiura (l’uomo è un essere debole) e sia la condanna, inevitabile reazione della ragion politica contro l’orgoglio dell’individuo. Si pensi alle due sentenze che incorniciano l’opera: “Meglio avere le mani sporche che non le mani vuote” e “Io riconosco prima di tutto chi ha il potere e chi non lo ha” (dove il “potere” è il “partito” nel suo rapporto con gli intellettuali: Brecht scrive nel periodo dei grandi processi staliniani). Da tutto ciò affiora dunque una “morale dell’ambiguità”, che fa dell’ambiguità il suo principio, dietro un’ipocrita idealizzazione della scienza liberatrice e benefattrice.

Non pretendere di essere nel giusto!

Ci sono momenti nella vita in cui è impossibile comportarsi in modo giusto. E ancora più nella vita politica, dentro la Storia, nella quale una “feroce Forza possiede il mondo” (Manzoni nell’Adelchi). E allora si devono prendere decisioni terribili. Per Chiaromonte tutto ciò corrisponde a un’oscura necessità, che appartiene al fondo stesso dell’essere. Impossibile sfuggirle, però occorre riconoscerne la tragicità senza pretendere di essere nel giusto.

Nel 1921 i bolscevichi repressero la rivolta dei marinai di Kronštadt contro il centralismo autoritario di Lenin. Non è questa la sede per un giudizio meditato su quegli eventi: forse la neonata repubblica sovietica non poteva tollerare rivendicazioni di autogoverno di ispirazione anarco-sindacalista, per di più – come si disse allora – infiltrate da potenze straniere. La repressione da parte dell’Armata Rossa fu particolarmente feroce. Nel 1947, sulla rivista politics, Chiaromonte analizza questo controverso episodio e osserva che per i bolscevichi l’ingiustizia che stavano evidentemente compiendo era più giusta di qualsiasi altro gesto possibile nelle stesse circostanze. Insomma “mirando alla giustizia, essi dovevano fare qualcosa di orribile e ingiusto”.5 Una tragedia così estrema può essere seguita soltanto dal silenzio e dall’orrore, e l’uomo che l’ha compiuta a quel punto è solo di fronte alle sue responsabilità e al suo dolore.

Una posizione affine a quella che Camus esprime nell’Uomo in rivolta, dove si postula l’incompatibilità tra rivolta e omicidio: “Sul piano logico, dobbiamo rispondere che omicidio e rivolta sono contraddittori. Che un solo padrone sia ucciso e l’insorto, in certo modo, non è più autorizzato a richiamarsi alla comunità degli uomini da cui tuttavia traeva giustificazione”.6 Per Camus l’omicidio è per il rivoltoso un’eccezione disperata, un limite che solo una volta si può toccare, “e oltre il quale si deve morire”.7 Penso anche a Claude Eatharly, il pilota che sganciò la prima bomba atomica della Storia, su Hiroshima, che causò 70.000 morti all’istante: dopo la guerra rischiò di impazzire, venne internato in un ospedale psichiatrico – chiuso nel suo “silenzio ed orrore” –, e cominciò da lì un carteggio con Günther Anders.8 Solo dialogando con il filosofo tedesco riuscì a entrare in contatto con il suo stesso dolore, a imparare la disperazione e a pentirsi.

Torniamo a Kronštadt. Allora i bolscevichi non si limitarono a dire di aver dovuto prendere una “terribile decisione”, probabilmente inevitabile in quelle circostanze – costretti da un’odiosa necessità, e ancora nel pieno della guerra civile –, ma si comportarono “come chi avesse compiuto qualcosa di assolutamente giusto”.9 E Trockij, a capo dell’Armata Rossa, si rivolse a loro dicendo: “Siete dei falliti, la vostra parte è finita, potete andare solo nel posto che vi compete da oggi in poi: nella spazzatura della Storia”. Ignorava Trockij che nella spazzatura della Storia ci sarebbe finito anche lui, come d’altra parte ci finiamo tutti. I bolscevichi chiamarono bene il male (fosse anche il male necessario): qui comincia la confusione morale. Ce lo ricorda anche la Divina commedia con l’imperatrice Semiramide, la prima peccatrice che Dante incontra all’inferno, che “libito fé licito in sua legge” (canto V, v. 56), sposando il figlio e facendo del suo desiderio incestuoso legge di stato.