Lucie assaporava la felicità schietta della natura, su quelle terre pur tristi per l’inverno, mentre il vento soffiava leggero e i rami dei pioppi argentati che circondavano il campo vibravano di una melodia senza foglie; il sole basso del pomeriggio di gennaio si sarebbe con ogni probabilità tinto di rosa, l’umidità che saliva dalle paludi vicine si sarebbe presto trasformata in nebbia – benché le colture di Lucie si trovassero fuori dal Marais vero e proprio, un po’ più in alto, era già successo, nel corso di un anno eccezionalmente piovoso, che i cavoli, le insalate e le bietole finissero sommersi da cinquanta centimetri d’acqua e le serre si trasformassero in piscine coperte: era però sempre più raro, poiché gli ultimi tempi erano contraddistinti semmai dalla siccità. Sapeva che presto avrebbe dovuto lasciare quel posto – la separazione era un fatto compiuto, avevano diviso le cose: Franck si sarebbe tenuto le terre e le serre, lei i calli sulle mani e il fango sotto le unghie. Si guardò intorno; certo, tutto quello apparteneva a Franck, l’aveva ereditato dai genitori; lei si era limitata a vivere con lui, a partecipare alla produzione e a vendere le verdure nei mercati. Franck non era ricco, e lei, però, cos’aveva? Due paia di stivali e un’auto scassata. Se fossero stati sposati o soci sarebbe stato diverso. Franck le avrebbe dovuto un conguaglio per tutti gli anni in cui si erano fatti il mazzo insieme. Le piaceva la parola conguaglio, per quel suo lato storico, antico. Si sentiva che il diritto veniva da molto lontano. O forse no. Sono questioni complesse. Lucie aveva la sensazione che a essere fregate, in quelle faccende, fossero sempre le donne. EARL1, GAEC2, quote, aziende, la modernità inventava delle gran belle sigle, come no, ma la disparità continuava. Non ci sposiamo e conserviamo la nostra libertà, un bel paio di palle. Lucie non si sentiva per niente libera. Si era fatta fregare – non da Franck, no, da qualcosa che veniva da più lontano, come il diritto, qualcosa di storico, come il conguaglio. Qualcosa che in campagna opprimeva da sempre le donne.
Una fortuna che potesse abitare a casa del nonno. Avere un tetto per lasciare Franck. Insomma, una fortuna. La casa era orrenda. Il vecchio le faceva schifo. Grazie al cielo, lei adorava Arnaud. Era totalmente matto, ma la faceva ridere. Ed era affettuoso. La sua memoria fenomenale per le date era nello stesso tempo inquietante e miracolosa. Lucie aveva frequentato molto poco la madre di Arnaud, la sorella di suo padre; era morta cinque anni prima, di una malattia orribile, una malattia che si potrebbe chiamare il peso della vita, la tristezza e la desolazione; all’epoca Franck e Lucie abitavano a pochi chilometri da lì, oltre la strada per la Vandea, dove si trovavano i campi e le serre – per Lucie era stato naturale occuparsi del cugino e dell’orrendo nonno che le aveva terrorizzato l’infanzia; il padre, benché in pensione, non andava mai a trovarli: del vecchio lui serbava un rispetto pieno di timore e qualche cicatrice lasciata dalla fibbia di una cintura.
Lucie non vedeva l’ora di andarsene da lì, di ritrovare una vita e una casa “normali”. Ma dove? E con quali soldi? La madre di Lucie possedeva delle terre tra Secondigny e Bressuire, nella Gâtine fertile, terre dove coltivava meli, con una piccola casa, e lei sognava di rilevare il tutto per metterci qualche serra e qualche coltura di ortaggi in pieno campo, sarebbe stato il paradiso – niente di enorme, ma con acqua e ottimi terreni; peccato che l’insieme fosse affittato da decenni, per quattro soldi, a un agricoltore della zona. E se anche ne avesse ottenuto l’usufrutto, avrebbe avuto bisogno di 80.000 o 100.000 euro per avviare la cosa. Franck si era offerto di darle una mano, di condividere alcuni macchinari, ma era una cosa che si poteva fare solo a una distanza ragionevole. E poi lei non aveva più voglia di vederlo. Non da quando le aveva chiesto 50.000 euro per continuare in veste di socia. Le era sembrato che Franck monetizzasse la loro separazione, né più né meno. 50.000 euro per comprarsi il diritto di lavorare senza andare a letto con lui. Su quelle terre e in quelle serre, lei aveva sgobbato duro per quasi dieci anni– e adesso che si separavano Franck le chiedeva 50.000 euro. Secondo lui, quindi, la compagnia fisica e sentimentale valeva 50.000 euro. Vabbè. Era una cosa che l’aveva profondamente ferita. Perciò continuava, in maniera del tutto provvisoria, a lavorare con Franck in cambio di qualche soldo e di una percentuale sulle vendite nei mercati, di cui era lei a occuparsi. Giusto di che arrotondare un po’ il sussidio di disoccupazione. E neanche poi tanto. Ma come ogni volta che si ritrovava nei campi, come ogni volta che la sorprendeva la fine della giornata, che l’umidità si alzava per trasformarsi in foschia e galleggiare nel crepuscolo, come ogni volta che l’aria si impregnava del fresco del Marais e lei intuiva, nell’ombra, l’ultima agitazione dei tordi, si sentiva stringere il petto dalla malinconia, una sensazione di campane, di rintocco funebre, all’idea che di lì a poco avrebbe dovuto lasciare quella vita e quel posto – la spessa pacciamatura dorata sui riquadri coltivati rifletteva le ultimi luci della sera, Lucie rabbrividì, inutile pensare al denaro, ai soldi, alla grana, alla moneta, al conquibus, alla pecunia, la mancanza di denaro le inaridiva la vita come un’estate troppo asciutta, beati coloro che conquistavano la libertà privandosi di tutto, non ne veniva fuori un cavolo, da tutti i suoi tentativi, neanche un cavolo e invece tanta erba cattiva, grane che spuntavano come la gramigna profonda o il convolvolo ostinato – cominciava a fare un po’ fresco, tirò su due porri, raccolse una verza troppo piccola per essere venduta, passò a prendere qualche carota e qualche patata nel magazzino. La prospettiva della minestra vicino al camino in quel tugurio puzzolente le diede il colpo di grazia. Tirò fuori di tasca un momento il telefono (con la scusa di vedere l’ora, che pure il tramonto le indicava già con precisione). Si diede un’ultima occhiata intorno e verificò di non aver lasciato in giro qualche attrezzo, chiamò con un fischio il cane che frugava dietro i pioppi in cerca di nutrie da stanare, si levò i guanti, si tolse il pile nero macchiato di terra per infilare un giaccone trapuntato blu, aprì lo sportello posteriore dell’auto per far salire il cane, quindi si sedette al volante e, come ogni sera, osservò qualche istante il proprio viso nello specchietto retrovisore: era proprio lei, su questo non c’erano dubbi; un principio di zampe di gallina agli angoli degli occhi, qualche ruga di espressione sulla fronte, la fossetta sul mento, labbra molto rosse, tutto a posto, niente segni neri sulle guance né fili di paglia tra i capelli; il cane infilò il muso tra i sedili e le spinse piano il braccio, come a dirle, su, gioia, allo specchio ti guarderai dopo, adesso andiamo: Lucie sorrise, accarezzò il cane sulla fronte e mise in moto. Erano le sei e un quarto e gli alti tronchi dei pioppi non si distinguevano già più, divorati dall’oscurità.
* * *
Le volte in cui padre Largeau era un po’ brillo, quando l’acquavite cominciava a fare effetto o quando il vinello, anziché dargli l’oblio, gli procurava una gioia diffusa e placava i suoi tormenti, lui non pensava più né a Cristo né al disordine della sua Fede, ma lasciava che l’immaginazione si impossessasse di un oggetto quotidiano e lì si fissasse, che lo sguardo si concentrasse su una pianta o che gli occhi contemplassero un animale, uno dei gatti di Mathilde, per esempio; dalla sedia osservava il piccolo felino infilarsi nel suo giardino, gironzolare, strusciarsi contro il tronco della grande catalpa, cercare di agguantare con una zampata una mosca o una farfalla, rotolarsi nell’erba, e quell’osservare permetteva a Largeau di non pensare ad altro, di restare assolutamente immobile dietro il vetro, con i gomiti sulla tovaglia di tela cerata a quadretti bianchi e rossi, e non chiedeva altro, lui, che quell’improvvisa tregua, quell’interruzione dei pensieri. Poi, quando ripartivano le domande, quando tornavano i dubbi e le immagini morbose, di colpo si innervosiva: prendeva il berretto, si infilava una giacca e usciva. Attraversava il paese quasi di corsa, per arrivare fino al limite della pianura: non poteva credere che quelle distese fossero improvvisamente senza Dio, che il soffio dello spirito avesse abbandonato la campagna, che il fiume della fede non irrigasse più quelle terre – camminare era la sua meditazione. Attraversava i campi, diretto verso sud-est; passava di là dalla Sèvre a Saint-Maxime, poi costeggiava la bella fattoria di Beaulieu, si lasciava sulla destra la strada che scendeva a Mursay e proseguiva dritto fino al calvario di pietra all’incrocio della strada per Chauray ed Échiré: il Cristo in croce era l’unico albero che l’accorpamento fondiario avesse lasciato in quel punto, quell’ondulazione spelacchiata di terra deserta, con il lungo terreno nudo solcato di pietre bianche ben distribuite dalle frese del trattore, e che senso assumeva lì, quel Gesù dei poveri, messo a morte a un crocevia dimenticato, che impediva agli automobilisti di vedere se arrivava una macchina da destra o da sinistra? Largeau provò a pregare, biascicò un po’, per qualche centinaio di metri, poi rinunciò. Preferì concentrarsi sulla camminata, sul respiro, sui paesaggi che lo circondavano – giunto al piccolo rilievo, si vide quasi portar via il berretto dal vento. In lontananza si poteva seguire con lo sguardo la valle della Sèvre, verso Siecq e Surimeau da un lato, verso Saint-Maxire ed Échiré dall’altro; oltre Saint-Maxire si intravvedeva la schiera di pale eoliche dell’impianto che segnava il confine tra Saint-Rémi e il paese – Largeau indovinava, più che vederlo, il campanile della sua chiesa. L’indomani doveva andare per un battesimo a Faye-sur-Ardin, laggiù, a qualche chilometro, poi per un matrimonio a Villiers-en-Plaine, e il giorno successivo per un funerale a Béceleuf; erano tante, le sue parrocchie, e non passava mese senza che gli fosse affidata una nuova missione – e se davvero era lui, l’ultimo? L’arcivescovo di Poitiers avrebbe presto raggruppato le venticinque parrocchie di Niort in una sola che sarebbe stata chiamata con il nome di un santo locale; basta con le diocesi; un’unica parrocchia di quarantamila pecorelle, per un sacerdote o due, qualche diacono più lui in aiuto, sperava, anche una volta in pensione, per lunghi anni – in quelle terre la spiritualità scompariva; era diventata una coltre di nebbia, che si sfilacciava per poi dileguarsi. Per Largeau gli ultimi quarant’anni avevano messo a soqquadro tutto; aveva la sensazione di risvegliarsi, a sessantacinque anni suonati, in un mondo di cui non conosceva più nulla; avanzava a tentoni nella tenebra dei tempi, una massa nera e venefica.
Si sistemò il copricapo e proseguì per la sua strada; sapeva bene che non c’era un ponte sulla Sèvre prima di Surimeau – arrivare fino a Surimeau, poi a Siecq passando da Sainte-Pezenne per tornare al paese, voleva dire due ore buone in più di cammino, cioè quattro o cinque in tutto. Il prete gettò uno sguardo alle nuvole: il sole di inizio primavera era proprio come Largeau, pimpante ma che poteva soccombere da un momento all’altro. A Mursay ridiscese nella valle e costeggiò il fiume, fra gli alberi e i cavalli – per fortuna il terreno era abbastanza asciutto, e non si affondava troppo. Nell’aria c’era odore di erba e di marcio; qua e là, sulla sommità dei salici e dei pioppi, solo il vischio metteva una nota vivace fra i rami spogli. Il castello di Mursay era una rovina malinconica – la cinta di mura non c’era più e i tetti del corpo principale erano interamente crollati; squarci enormi si aprivano nelle torri, la loro antica nobiltà era scoperchiata dall’abbandono. I rovi e l’edera coprivano tutto di verde, penetravano dalle finestre, lambivano le feritoie, tentacoli di una creatura spietata che alla fine avrebbe distrutto le grandi costruzioni di pietra, le bifore, le volte a crociera e persino il piccolo balcone al primo piano affacciato sul fiume – solo i tre cigni e le due anatre parevano non curarsi della devastazione che incombeva a strapiombo sui loro cerchi nell’acqua.
Largeau non pregava più da settimane, forse da mesi – si limitava a ripetere parole che, non mettendoci lui l’anima, erano prive di significato e di effetto. Diceva messa in modo meccanico; aveva l’impressione che ci fosse un disco che parlava e cantava al posto suo. Si rendeva conto che sempre più spesso, durante i matrimoni o i funerali, nessuno conosceva i canti di chiesa; nessuno sapeva che ci si doveva alzare quando veniva letto il Vangelo. Largeau se la prendeva solo con se stesso; la sua angoscia si acuiva quando veniva sera e sapeva, una volta arrivato a casa, dopo essersi tolto gli scarponi infangati, aver infilato le pantofole di lana, slacciato il collarino ecclesiastico, tolto il maglione per indossare una veste da camera, che si sarebbe versato vari bicchieri di bianco, seguiti da altrettanti bicchieri di rosso e cicchetti di acquavite, per ripiombare nell’apatia, mettere a tacere l’angoscia e aspettare che magari, come faceva sovente, Mathilde passasse a fargli visita – visita che temeva e insieme sperava, sapendo che avrebbe ravvivato il suo desiderio come se il Maligno in persona soffiasse sulle braci del suo cuore. Largeau era consapevole che quel desiderio era solo un sintomo, un segno della derelizione; più lo spirito lo abbandonava e più il corpo, il demonio, aveva la meglio; la carne che aveva dominato così bene per tutti quegli anni riappariva ora che piombava nell’età avanzata, lasciandolo talmente confuso, talmente solo, che non poteva fare altro, suo malgrado, che sprofondare ancora di più in quella pigrizia dell’anima che i monaci chiamano accidia.
* * *
Gary, tornando a casa quella mattina dopo aver intravisto il cinghiale che scorrazzava nella neve, mentre la bufera si faceva più intensa, ignorava di essere stato, in virtù delle sue rinascite precedenti, la grintosa proprietaria di una mescita nel comune di Lezay; un’operaia delle concerie di Niort morta di parto; un caporale di artiglieria di La Chapelle-Bâton deceduto di febbre spagnola in un ospedale militare di Reims nel 1918; uno scavatore di pozzi guercio di Rouvre morto centenario nel 1896 e una lupa, una lupa grigia della foresta dell’Hermitain, tra Aigonnay e La Mothe-Saint-Héray – i lupi si sentono ululare d’inverno, la notte, quando si avvicinano ai villaggi in pietra a ridosso dei boschi di castagni o al limitare dei querceti; si intravvedono in primavera, quando si abbeverano al ruscello sotto la luna vicino alla Pietra del diavolo – gli uomini gli danno la caccia per il gusto del brivido e per la taglia, collocando trappole con possenti ganasce di metallo che tagliano in due i gatti e amputano le volpi, e ogni tanto ne catturano uno, di lupo, e allora bisogna tagliargli le orecchie e la coda per prendere i soldi dal comune, che manda i conti alla prefettura di Niort. Il lupo attacca l’uomo solo quando ha la rabbia, lo sanno tutti, e allora è mortale, per il contagio oltre che per le ferite – nel 1894 il dipartimento paga un premio ogni tredici lupi uccisi, ogni sette nel 1895, sei nel 1896, appena ogni quattro nel 1898 e nel 1901 basta ucciderne uno soltanto, e poi è finita, niente più canidi grandi mangiatori di pecore e di bambini nelle fiabe popolari, non ce ne saranno più.
Il 23 frimaio dell’anno V, vigilia della nascita dello scavatore di pozzi, a La Couarde nelle Deux-Sèvres, recente dipartimento da cui pian piano si allontanano le fiamme della guerra lasciando le campagne deserte, i campi abbandonati, le greggi decimate, il 13 dicembre 1796, quindi, l’agente Proust firma per Marie-Jeanne Landron vedova Bouchet, che non sa firmare, «una richiesta ai membri dell’amministrazione comunale in cui si invitano i cittadini amministratori a sollecitare presso il dipartimento un risarcimento pecuniario per l’azione generosa del marito Jean-Pierre Bouchet: mentre chiudeva la staccionata di un prato, Bouchet fu aggredito da un lupo affetto dalla rabbia che gli dilaniò la mano e gli fece una lieve ferita alla coscia; sentendosi ferito, Pierre Bouchet si avventò sulla belva gridando “sacrifico la vita per liberare il mio paese dai possibili scempi di cui lo minaccia questo lupo malato di rabbia. Felice se con la mia morte posso salvare la vita ai miei vicini”. S’ingaggiò allora una lotta fra lui e l’animale: coperto di sangue, ebbe la forza di tagliargli la testa con l’ascia che impugnava per difendersi. Jean-Pierre Bouchet è morto per le ferite riportate e, morendo, ha lasciato una vedova con una famiglia numerosa i cui soli mezzi di sussistenza venivano delle giornate di lavoro del suo povero marito».
La lupa grigia, che sarà uno scavatore di pozzi e poi un caporale e poi una locandiera, è stata contagiata dall’urina e dalla saliva di una volpe rossa; la malattia la tiene lontana dall’acqua e le procura nel contempo una sete inestinguibile, le mandibole si serrano su tutto quel che trovano, un ramo, un sasso, una staccionata; dalla bocca le cola una schiuma bavosa che le impiastriccia i canini; ulula in maniera strana, un ululato acuto di dolore. Non sa di essere spacciata; il virus ha incubato lentamente nel suo organismo, ha raggiunto il cervello, le ha intaccato i nervi; la lupa ha morso sul collo uno dei suoi cuccioli, ignara di condannare così anche lui alla malattia; ha vagato per giorni con una sete atroce, una sete da bere i sassi – è così forte, il dolore, appena assorbe una goccia d’acqua, così intenso, così insostenibile, che la lupa rifugge finanche le goccioline di rugiada sui fili d’erba, le tracce di bava delle lumache sulle foglie, tutto fa più intensa la rabbia, tutto la spinge avanti verso lo sfinimento. Non evita più il limitare dei boschi né l’odore dell’uomo, che pure sfuggiva fin dalla nascita; avanza dritta verso i margini del bosco, un fuoco mortale negli occhi, grida, il suo manto ha onde azzurre, il pelo rizzato dal sudore.
La lupa intravvede un uomo che si muove – si avventa, lo attacca come fanno i lupi quando affrontano un avversario temibile, un cervo, una mucca, lo mordono alla gamba per costringere l’avversario a chinarsi e avere così accesso al collo. È la prima volta che la lupa sente così da vicino l’odore dell’umano, fumo, lana, sangue e cipolla. Poi la lupa cerca di prendere la mano sulla staccionata di legno, la dilania fra le zanne; il contadino grida – lei ha paura di quell’urlo che non assomiglia né al belato degli ovini, né al guaito delle volpi, né al bramito della cerva quando le sgozzano il cerbiatto. La lupa cerca di uccidere l’uomo, ma vuole anche mordere la staccionata di legno per dar sollievo alle mandibole e far cessare la sofferenza atroce della gola, ringhia, non può leccare il sangue che gocciola dalla mano ferita, fa un balzo, stavolta puntando al collo dell’uomo, con le fauci spalancate. Istintivamente l’uomo si protegge, cadono, lei morde più forte che può, il braccio, il petto, la coscia – l’uomo continua a far roteare una cosa dura e violenta che lei cerca di afferrare, l’uomo si divincola e quasi l’accoppa con la sua scure, lei è stremata, ansima, è disorientata, il sangue in bocca la fa impazzire di dolore, ha paura, ha molta paura, l’ombra metallica si abbatte su di lei, cala il buio, è un lampo nero nelle pupille, scendono le tenebre davanti ai suoi occhi di lupa e il contadino guarda, stupefatto dal dolore, la testa della lupa separata dal corpo, nell’erba, il manto insanguinato e le proprie ferite, per poi svenire per la paura e lo sfinimento mentre l’anima del canide se ne va verso il Bardo e il villaggio di Rouvre, vicino alla chiesa di Saint-Médard, per diventare scavatore di pozzi per quasi cento anni, poi caporale, poi tenutaria di un’osteria a Beauvoir-sur-Niort, e infine Gary, che se ne tornava a casa quella mattina dopo aver scorto, a pochi passi da un filare, sulla neve che aveva coperto la pianura, il cinghiale che era stato padre Largeau.
Arrivato alla fattoria, Gary salutò con un bacio Mathilde e le raccontò dell’apparizione di un probabile maiale selvatico ai margini del paese, nonché quella della parrucchiera a domicilio da Thomas il ciccione, senza dimenticare l’apparizione dei gendarmes; Mathilde apprezzava Lynn, che conosceva vagamente, anche se dal canto suo preferiva i parrucchieri dei centri commerciali, che con lo stesso servizio offrivano una distrazione in più, uscivi di casa, facevi un giretto e potevi approfittarne per fare la spesa.
Mathilde assaporava gli ultimi giorni dell’avvento e si preparava a festeggiare la nascita del Salvatore. Aspettava con impazienza la notte di Natale: andava fin da piccola alla messa di mezzanotte – dopo la funzione tornavano a casa a piedi nel buio e nel freddo; mangiavano un’arancia, succosa e dolce; bevevano una tazza di cioccolata calda e poi andavano a letto. L’indomani, tutta la famiglia era riunita intorno al tavolo della festa. A capotavola il patriarca René, padre di Mathilde, e intorno a lui gli zii e le zie, i cugini, i fratelli e le sorelle; le ostriche, le terrines, il pollame, le castagne, il tronchetto di Natale che in dialetto chiamavano la cosse de na, tanto quello che bruciava nel camino quanto quello, con panna e zucchero, che si metteva in tavola. Mathilde ripensava agli oggetti di allora, il barattolo di grès per i cetriolini, il servizio da ostriche a forma di conchiglia, la poubelle de table di ceramica smaltata, i poggiacoltelli, tutte cose che associava agli anni Settanta e che erano sparite insieme con l’apriscatole elettrico arancione fissato al muro, i portatovaglioli con il nome inciso e anche la messa di mezzanotte, che adesso era alle ventidue, e a venti chilometri da casa sua. Prima di Natale comprava sempre una o due riviste, di quelle che si trovano vicino alle casse dei supermercati, per avere qualche idea su come decorare la casa (fiori, vasi, candele, tovaglioli, pigne argentate, biancospino, vischio), l’albero di Natale (palline, ghirlande, angioletti dorati, bombolette spray di neve artificiale) o anche il cortile (Babbo Natale luminoso, altro albero, cuccia del cane illuminata), tutte cose che le davano una grande allegria, poiché questi preparativi significavano semplicemente (al di là della nascita del Salvatore) che sarebbero venuti i figli, che sarebbero stati tutti insieme, colmandosi di affetto e di coccole e scambiandosi i regali. Ci teneva in modo speciale, lei, a quel rituale della bontà; preferiva quando i regali li portava Gesù Bambino piuttosto che quel tizio un po’ ridicolo con la barba, vestito di rosso, senz’altro simpatico ma che non capiva da dove saltasse fuori e le cui renne non significavano proprio niente. Aveva peraltro difficoltà a ricordare in quale momento esatto quel Babbo Natale si fosse imposto come il benefattore della regione – altrove aspettavano ancora san Nicola o i Re magi ma qui, tra la Loira e la Dordogna, Gesù Bambino era stato completamente soppiantato, se non addirittura spazzato via, forse perché era un neonato. Mathilde era la segretaria dell’associazione dei fedeli; qualcuno c’era ancora, che tentava di tener viva la fiammella della fede e ricordare che le chiese significavano forse qualcosa di più che una spesa superflua quando bisognava rifarne il tetto.
Mathilde osservò Gary che con il cane e il fucile se ne andava dentro mulinelli di neve verso il limitare nord del paese, in alto sul pendio, prima del piccolo bosco del Luc dove si trovava quella Pietra del diavolo che Mathilde beninteso si rifiutava di chiamare così, giacché la Pietra era più che sufficiente. Mathilde era del tutto ignara delle sue vite precedenti, delle infinità di movimenti della Ruota che avevano scorrazzato la sua anima qua e là, ignara di essere stata una strega che in foschi sabba sognava il Grande Caprone, un cavallo da tiro morto di fatica, un gatto di fattoria, delle contadine, dei contadini, degli operai, un rigogolo, una quercia sradicata da una tempesta e finita sotto la scure dei carpentieri quando tutt’intorno al paese si estendeva la foresta, un’immensa foresta fino ai contrafforti della Bretagna: il Marais poitevin proteggeva la foresta, e la foresta proteggeva il Marais – il Marais era un merletto di isole bagnate da acque salmastre, il golfo dei Pitti, che Strabone chiama dei Due Corvi, dall’ala bianca e dall’ala nera: molto prima che in quell’area giungessero le legioni di Cesare, all’estremità della laguna, quasi nell’Oceano, si trovava un’isola popolata esclusivamente da donne, donne possedute da un dio oscuro al quale offrivano sacrifici, un dio che placavano con cerimonie e libagioni. Nessun uomo poteva mettere piede sull’isola, erano le donne che andavano a terra quando desideravano congiungersi agli uomini o intrattenersi con loro; erano le sacerdotesse di un tempio segreto, e tutte le loro giornate erano dedicate alla cura dell’edificio del tempio, battuto dalle tempeste durante l’inverno. Nulla si sa della divinità che veneravano, un Dioniso folle, sfrenato, forse ebbro, prima che fosse ammansito dai Druidi, oppure la figlia di Zeus e Demetra, prima che regnasse nelle profondità degli Inferi, non si sa, così come Mathilde non sapeva che nei pressi di quella Pietra Fitta che lei non poteva permettersi di chiamare “del Diavolo”, pronunciando così il nome del Maligno, si trovava un santuario in cui si davano convengo i druidi, quei sacerdoti senza Dio che pure credevano alla trasmigrazione delle anime, da un corpo all’altro e per l’eternità; se anche bruciavi la carne, l’anima rinasceva – per Giulio Cesare questo era uno sprone al coraggio, i guerrieri gallici non temevano più il trapasso, sapevano che sarebbero rinati se avessero avuto l’onore di morire in battaglia: il loro timore era la sconfitta e la viltà, la caduta e la codardia. Felici coloro che non sono preda di alcuna paura, affermava Lucano nella sua Farsaglia, felici coloro che non sono preda di alcuna paura, neppure quella della morte. I bardi con i loro canti guidavano le anime verso la reincarnazione e i druidi erano come i pastori che vediamo sorvegliare il gregge con occhio benevolo. Non lontano dal villaggio c’era un bosco sacro a lungo inviolato, i cui rami intrecciati, tenendo lontani i raggi del sole, racchiudevano sotto la loro fitta volta un’aria tenebrosa e gelide ombre. Quel luogo non era abitato né dai rustici Pan né dai silvani né dalle ninfe dei boschi. Celava tuttavia un culto barbarico e orribili sacrifici. Dagli altari, dagli alberi, grondava sangue umano; e se dobbiamo prestare fede alla superstiziosa Antichità, gli uccelli non osavano posarsi su quei rami né sotto di essi cercavano rifugio le bestie feroci; la folgore che saetta dalle nubi evitava di cadervi, i venti temevano di sfiorarlo. Nessun alito smuove le foglie; tremano da sé gli alberi. Fosche sorgenti riversano un’acqua impura; le lugubri statue degli dèi, grossolani abbozzi, sono fatte di tronchi informi; spaventevole è il pallore di un legno tarlato. L’uomo non trema così dinnanzi agli dèi che gli sono familiari. Più è sconosciuto, più l’oggetto del suo culto atterrisce. Gli antri della foresta si diceva emettessero lunghi mugghi; gli alberi sradicati e rovesciati per terra si rialzavano da sé; la foresta offriva l’immagine di un vasto incendio che mai si consumava; e i draghi cingevano le querce con le loro lunghe spire. I popoli non vi si avvicinavano mai. Sono fuggiti dinnanzi agli dèi. Quando Febo è a metà della sua corsa, o quando la notte scura avvolge il cielo, anche il sacerdote teme quei paraggi e paventa di sorprendere il signore del luogo.
Fu, quella, la foresta che Cesare ordinò di radere al suolo, era vicina al suo accampamento e, risparmiata dalla guerra, restava sola, fitta e rigogliosa fra i monti spogli. A quell’ordine i più coraggiosi tremano. La maestà del luogo li aveva pervasi di religioso rispetto, e appena avessero colpito gli alberi sacri già credevano di vedere le scuri vendicatrici rivolgersi contro di loro.
Cesare vede fremere le coorti, cui il terrore incatena le mani, osa per primo impugnare la scure, la solleva, colpisce, e l’affonda in una quercia che toccava il cielo. Quindi, mostrando loro il ferro confitto nel legno profanato, dice: «Se qualcuno di voi considera un crimine abbattere la foresta, lo farò io, e tutto ricadrà su di me». Tutti seduta stante obbediscono, non perché confortati dall’esempio, ma perché il timore di Cesare ha la meglio su quello degli dèi. Subito gli olmi, le querce nodose, gli ontani amici delle acque, i cipressi videro per la prima volta cadere la loro lunga chioma, e tra le cime si aprì un varco alla luce del giorno. Tutta la foresta cade su se stessa, ma nel cadere si sorregge e, fitta com’è, resiste alla caduta. L’albero ripugna a morire, la quercia li tiene insieme, ed ecco compiersi i miracoli del druido – i rami cadono in fasci di lance già tagliate, l’edera diventa reziario, l’alloro rammenta la sua essenza divina e tutti combattono Roma, i guerrieri di Natura, il legno dovrebbe spezzarsi ma Roma si piega e arretra lasciandosi dietro armi e corazze, uomini e torce. La vostra cupa luce non piomberà fra quegli alberi – il loro mistero rimane intatto.
Da tempo in paese tutti si erano scordati dei druidi e dei bardi, la foresta scompariva in maniera quasi inarrestabile fin dall’Antichità, solo due piccoli boschi, il Luc e le Ajasses, oscuravano la pianura, due nèi su una pelle chiara – c’era il vago ricordo che il Luc dovesse il proprio nome a una divinità gallica, ma i pacifici Pictoni non avevano lasciato alcuna traccia e Mathilde, se mai glielo avessero chiesto, avrebbe avuto difficoltà a dire cosa ci fosse di gallico intorno a lei, mentre avrebbe potuto menzionare svariati monumenti romani e citazioni latine. Aveva dimenticato che quel tronchetto di Natale serviva un tempo, nelle lunghe tenebre del solstizio, a costellare di scintille l’oscurità, quando il legno incandescente era colpito con una spada allo stesso modo in cui si abbatte un drago –, nella notte più buia si leggevano allora le spire di fiammelle come in un cielo d’estate si decifrano le costellazioni, come si ascolta il futuro nel vento, come lo si intravvede nel volo degli uccelli. Le scintille disegnavano anelli rossi intorno ad ammassi stellari, nel freddo fumante di dicembre, e tutto il paese era lì, per veder assestare colpi sui tronchi incandescenti – l’infanzia è pagana; e benché questa usanza si fosse perduta da secoli, poiché i sacerdoti non amavano altri dèi all’infuori dei propri, restavano ancora la forma e il nome del tronchetto in tutte le pasticcerie d’Europa.
Mathilde guardò per un po’ la neve che cadeva, come ipnotizzata, quindi si mise in cucina, perché era già quasi mezzogiorno.
Gary, coperto di neve, alla fine si convinse, giunto quasi in cima al pendio, mentre il vento soffiava forte e i fiocchi di neve pungevano come spilli il naso e le guance, che in quella bufera il cane non avrebbe avuto alcun fiuto, che non serviva proprio a nulla scrutare i filari in cerca di un cinghiale fantasma, e che comunque non gli avrebbe sparato così, da solo, che con quella visibilità ridicola rischiava di beccare tutto meno che un cinghiale, ecco, tipo un gendarme, come quelli che vedeva gironzolare intorno al loro furgoncino poco lontano in mezzo ai campi, ombre blu su un tappeto bianco. Si avvicinò solo per scrupolo al punto dove appena un’ora prima aveva intravisto il Sus scrofa; il cane stanò un fagiano scampato al lancio della settimana precedente – l’uccello fece un balzo nella direzione opposta al filare senza davvero spiccare il volo, il rosso della testa parve all’improvviso striare la neve di sangue. D’istinto Gary imbracciò il fucile, ma poi si trattenne dallo sparare; aveva il fucile caricato a pallettoni. Il cane impediva al fagiano di scappar via per mettersi al riparo; sul campo bianco, il volatile faceva una macchia ocra, verde e rossa, che era impossibile mancare. I fagiani d’allevamento erano davvero una misera preda; Gary pensò che avrebbe avuto tutto il tempo di cambiare munizioni, ma ci rinunciò. Quella povera bestia gli faceva vagamente pena; chiamò con un fischio il cane, che si voltò verso di lui e poi verso l’uccello con l’aria di non capire. Gary lo accarezzò con gentilezza per spiegargli che aveva fatto bene il suo lavoro, e che era il suo padrone a non essere in vena. E nel preciso istante in cui lanciava un’occhiata ai due gendarmes che si agitavano intorno al loro Trafic, appena prima dei pali elettrici del trasformatore, scorse distintamente il cinghiale che attraversava il campo correndo in diagonale per giungere alla siepe più profonda dall’altro lato, verso le Ajasses. Gary imbracciò di nuovo il fucile, si rese conto che i gendarmes erano nella sua linea di mira e che anche se il suo tiro era privo di rischi, potevano davvero avere l’impressione che gli stesse sparando addosso: abbassò il fucile per la seconda volta e osservò il cinghiale che era stato padre Largeau mettersi al riparo proprio sotto il naso degli sbirri che giravano intorno al loro veicolo senza che Gary riuscisse a capire, viste la distanza e la visibilità ridotta dalla neve, che cazzo ci stavano a fare nel bel mezzo di un sentiero di accorpamento fondiario con un tempo del genere.
* * *
Quando Arnaud, il cugino di Lucie, tornò a casa quel giorno all’ora di pranzo, tutto eccitato e felice della neve che veniva giù fitta, salutò il nonno nella sua poltrona davanti al camino e si preparò un pasto veloce (zuppa istantanea Knorr® “Cup a Soup vellutata di funghi”, scatola di sardine al pomodoro Des Dieux® “Gli dèi si nutrono di sardine e di ambrosia, Iliade canto XXV”, baguette La Festive™) in cui la cosa più divertente era sollevare con cura i filetti dalle sardine prima di disporli nella baguette per farne un panino. Arnaud si pulì la bocca con la manica della tuta da lavoro, olio su olio, poi portò via il piatto e raccolse una a una le briciole di pane sulla tela cerata, briciole di pane che depose fuori, nel piccolo giardino, dentro il piatto previsto allo scopo in cui sarebbero venuti a becchettare cinciallegre e fringuelli; ne approfittò per giocare con il cane a prendere i fiocchi di neve come se fossero lucciole, per poi rientrare in soggiorno tremante di freddo, cambiarsi (lasciare la tenuta da meccanico su una sedia, infilarsi una tuta da ginnastica) e sedersi davanti alla ghirlanda natalizia e al camino – si rese conto immediatamente che, se il gas funzionava (aveva fatto bollire l’acqua per il passato di verdura), l’elettricità era saltata, poiché la ghirlanda si rifiutava di accendersi. Mise a parte della sua preoccupazione il nonno che, trascinando le pantofole sul pavimento di legno annerito, si limitò ad andare a mettere un altro ciocco nel fuoco, senza rispondergli – poco importava, Arnaud si sistemò comunque nella poltrona, accanto al vecchio e, convinto che Lucie non avrebbe tardato a tornare, si addormentò del sonno del giusto: con il sonno vennero le visioni. Fu per un istante frassino a testa di salice sul bordo di un canale secondario del Marais dalla superficie ghiacciata, sottile pellicola di brina delicata e crocchiante; lasciò l’albero per un altro tempo, lontano, molto lontano nel passato, dove fu un tasso dalla tana profonda – vita che si concluse tra le fauci di una volpe rossa, e Arnaud vide la propria anima tornare nel Bardo dai profondi colori, per quaranta giorni, prima di scegliere una reincarnazione umana, un nobile dentro una fortezza, un potente re della regione, che amava la guerra, i viaggi, i canti e la poesia – era una vita appassionante e sfarzosa, la corte del re era un ambiente brillante; lui si chiamava Guillaume. Arnaud lo ascoltò cantare per gli amici una lunga canzone erotica, che rallegrò la compagnia; il conte Guillaume era spiritoso, sapiente nell’arte del trobar – inventava una lingua cantandola. L’amante di quel conte Guillaume de Poitiers era una donna desiderabile chiamata Dangereuse, pericolosa, detta la Maubergeonne; Arnaud sognava nel tempo come un uccello in balìa del vento – seguì il conte di Poitiers alla crociata, a Gerusalemme tre volte santa che fumava di incenso; poi osservò il conte di Poitiers invecchiare, poi cantare, quando sentì avvicinarsi la morte,
Toz mos amics prec a la mort
Que vengan tut e m’ornen fort,
Qu’eu ai avut joi e deport
Loing e pres et e mon aizi.
Aissi guerpisc joi e deport
E vair e gris e sembeli.
«Tutti i miei amici chiedo dopo la mia morte che vengano e mi onorino, poiché ho avuto gioia e piacere – oggi lascio la gioia e il piacere, abbandono il vaio, il pomellato e lo zibellino» e a quel canto Arnaud provò grande emozione. In sogno comprendeva l’immensa ragnatela delle anime, la matassa di lana delle esistenze, intrecciate fra loro nel tempo, e poteva seguire una vita come si tira un filo, saltare da un istante all’altro e anche, dai cieli infiniti, osservare le energie che muovono le stelle, immensi flussi scuri come strisce di nulla. Nel sonno Arnaud aveva un sapere sconfinato – vedeva la moltitudine della vita intorno a sé, le reincarnazioni infinite del cane, del nonno, dei ragni, dei moscerini, fino ai più terrificanti strati invisibili, i bacilli, i parameci, gli esseri microscopici che sono una massa cieca, che nascono e muoiono nell’immensa sofferenza dell’ignoranza, e Arnaud aveva compassione per tutti quegli esseri di cui capiva i tormenti, anche se quella comprensione era anch’essa una forma di dolore: sovente, svegliandosi dai suoi sogni, provava una pesante tristezza da cui doveva liberarsi scuotendosi a lungo, come ci si scuote per spazzar via una folata di cenere.
Quando aprì gli occhi, il nonno era sempre al suo fianco e aveva messo un altro ciocco nel fuoco. Arnaud si grattò, poi si annusò l’avambraccio, come per riprendere possesso del proprio corpo; la luce cominciava a calare, l’arancione delle fiamme pervadeva tutto, le pareti, il tavolo, perfino il volto del vecchio, a un tratto immenso, nonno, si possono pescare i gamberi di fiume quando nevica?
Arnaud aveva intenzione di prendere la bicicletta per andare a pescare dei gamberi di fiume; adorava pescare i gamberi della Louisiana con la nassa. Arnaud attirava i decapodi con qualche crocchetta per cani in una reticella delle cipolle che incastrava nelle maglie metalliche, ed era una meraviglia vedere come al calare della sera, una volta immersa in acqua la nassa, nel giro di pochi minuti decine di crostacei lottavano per contendersi il cibo; bastava tirare su la nassa per vederli brulicare in fondo al retino, cosa che riempiva Arnaud di gioia – gli piaceva giocare con quelle bestiole orrende, stuzzicare le chele ornate di puntini rossi; non c’erano animali più voraci di loro, capaci perfino, in caso di penuria di cibo, di mangiarsi l’un l’altro.
Il vecchio, come al solito, non rispose alla domanda, si limitò a scoppiare a ridere: la prospettiva di andare a pescare alcunché sotto la neve gli sembrava sommamente comica – in effetti quando l’acqua è fredda i gamberi della Louisiana si nascondono dentro enormi tane scavate sulle sponde; assai di rado ne escono.
Arnaud leggeva negli altri come in un libro aperto – solo lui sapeva che il nonno era stato, alla rinfusa, mezzadri uomini e donne, sguattere di fattoria, un bracconiere errante, svariati caprioli, un cane, degli storni, o che lui stesso, Arnaud, doveva le proprie conoscenze meccaniche al fatto di essere la reincarnazione di un meccanico di Villiers, di cui serbava le competenze – quelle esperienze, quei ricordi di vita, poteva esplorarli e percorrerli come si segue con un dito la linea della fortuna sul palmo di una mano amica. Arnaud vedeva le sofferenze e le tristezze, le violenze e le gioie che segnavano un’anima come le rughe un volto, e un tale miracolo gli pareva naturale; ascoltava le vite del nonno come si sente scorrere una fonte sui sassi, il più delle volte senza prestare attenzione al suono delle pietre fatte rotolare dalla cascata, ma poteva anche, se ne sentiva il desiderio, tendere l’orecchio per apprezzare un istante questo o quell’episodio – Arnaud amava gli echi lontani delle battaglie, la violenza del ferro e delle spade; lui stesso era morto (una delle sue innumerevoli morti) in un remotissimo scontro, perso lassù vicino alle sponde del Clain, sulla via romana che portava a Tours, nel centoquattordicesimo mese del digiuno dall’Egira, giusto un secolo dopo la morte di quel profeta barbuto che aveva fondato, nella lontana Arabia, una fede che era un regno e uno stile di vita, in cui gli antichi schiavi diventavano capi militari ed erano ormai schiavi soltanto di Dio. Migliaia di guerrieri con le loro donne, le loro tende e i loro cavalli, migliaia di soldati giunsero da al-Andalus la nuova sotto la guida del suo governatore ‛Abd al-Rahman al-Rafiqi – se quei guerrieri della Spagna musulmana venissero per saccheggiare i territori al di là dei Pirenei o per conquistarli in nome del califfo dell’Islam, non è dato saperlo. Ad Arnaud bastava ripetere, 14 ottobre 732, battaglia di Poitiers, per udire subito i cavalli sbuffare nel fragore delle scimitarre, le frecce sibilare nel cielo d’autunno e i feriti urlare e poi morire, arrossando del sangue dei martiri il selciato romano, e poi sentirsi lui stesso spirare, nel freddo gelido del fiume, dove l’avevano fatto cadere una carica e poi una lancia dei Mori – Arnaud non vide l’esito del combattimento, che sarebbe diventato una delle più celebri battaglie francesi e che non si sa bene se fosse una vittoria, benché Oddone figlio di Lupo, duca d’Aquitania, salvasse con quella il proprio ducato e Carlo Martello passasse con essa alla Storia. I Saraceni, sognava Arnaud, avevano lasciato intorno a casa sua (tra il pioppeto e le paludi, tra l’Autize e la Sèvre, tra i frassini e le rose canine) le frecce, le scimitarre e le tende, un po’ della loro musica, un po’ del loro ricordo e qualche anno dopo, ai tempi di Carlomagno, tornarono, guidati dalla leggenda e dal re Agolante, dopo la presa di Agen; Saraceni, Mori, Moabiti, Etiopi, Turchi e Persiani si radunarono nell’Ovest e Carlomagno diede loro battaglia di fronte a Taillebourg presso Saintes, di cui i Mori occupavano il castello. La sera prima del grande combattimento avvenne un miracolo; avendo i Franchi formato per la notte i fasci di lance davanti alle tende, scoprirono al mattino che il loro legno aveva messo radici, che le lance erano rivestite di corteccia e che, su alcune, erano spuntate le foglie; erano le armi di coloro che dovevano trovare il martirio in battaglia, per amore di Gesù Cristo. Quei futuri martiri si gettarono nella mischia con tutta la forza concessa loro dal Signore – prima di soccombere, costoro uccisero numerosi Saraceni: quattromila furono i martiri quel giorno, e fu in gran difficoltà lo stesso Carlo il Grande, con il cavallo ucciso sotto di lui. Il re Agolante finì col darsi alla fuga, attraverso il fiume chiamato Charente, e lì morì il re di Bejaïa, annegato insieme con il suo destriero, che fu sepolto rivolto verso La Mecca, su un’altura poco distante, prode cavaliere di Maometto, prima che il suo esercito passasse i porti e ripiegasse verso Pamplona.
Arnaud vedeva tutto questo e molto altro, con gli occhi nelle fiamme del camino, accanto al nonno, e se non amava guardare la televisione era perché lo schermo sostituiva ai suoi racconti interiori immagini meno belle, meno vivide dei riflessi sulla Sèvre o sulla Charente quando sembrano bruciare nei tramonti infuocati dell’inverno; le fiamme gli mostravano il ponte trasportatore di Rochefort, l’estuario e i suoi serpenti di fango a bassa marea, gli aeroplani a reazione della base aerea che giocavano a inseguirsi come passeri sopra le isole, l’arsenale dove un tempo si tessevano i sapienti trefoli del cordame, le forme dove riposavano le navi il tempo di calafatarne la carena o terminarne le opere vive, prima di imporre loro la prova dell’acqua; vedeva l’imponente ospedale della marina, in rovina, dove si moriva di febbri esotiche e di tristi cancrene e in cui l’odore delle grandi corsie dicono prendesse alle budella più dei rantoli dei moribondi, nonostante i profumi di resina dei balsami e dei collutori; distoglieva lo sguardo dal bagno penale, in cui tanti avevano sofferto ad alare le navi sotto le frustate, dal porto fino al mare – evitava anche le atroci prigioni galleggianti dove morirono di tifo, ammassati come i vermi che gli brulicavano sulle tonache, i preti refrattari che la Repubblica voleva dimenticare, le cui ossa fanno bianchi gli spruzzi del mare all’île d’Aix o all’île Madame; si attardava in place Colbert per sfiorare con lo sguardo la magnifica fontana in cui l’Oceano di calcare confonde le proprie acque con quelle della verde Charente – poi si perdeva nel quadrilatero delle vie antiche, perpendicolari, con le vie basse, le case basse, fino alla sobria facciata che celava la folie di Julien Viaud, l’amante dei viaggi, l’ufficiale di marina diventato scrittore con il nome di Pierre Loti, figlio di quei rari protestanti dell’Ovest risparmiati dalle persecuzioni – Arnaud non conosceva il Pierre Loti scrittore, quello che aveva fatto sognare alle signore del suo tempo matrimoni esotici e amori proibiti dietro gelosie turche; conosceva solo il Pierre Loti della dismisura, che aveva trasformato l’austerità della sua casa di Rochefort in un trionfo dell’eccesso, scaloni di marmo, alte finestre gotiche a ogiva, camini enormi, boiseries scolpite, pesanti tendaggi, e l’infanzia gelida di Arnaud trovava quel luogo affascinante, un teatro, un teatro per i festini in costume di Loti negli anni Ottanta del 1800, omaggio a Carlo VII, a Luigi XI, in cui si parlava antico francese, le signore in cuffie e veli, gli uomini in calzature a punta, i levrieri ai piedi, l’ermellino sulle spalle, intenti a togliere con le mani i filetti da un riccio, da uno scoiattolo o a tagliare il dorso di un cigno sul cui collo bianco si rizzavano le piume macchiate, al suono dei liuti e delle cornamuse.
Al primo piano, dopo il tardo Medioevo e il Rinascimento, c’era l’Oriente, e la più bella moschea di Francia: il soffitto di cedro proveniente da Damasco sovrastava sei colonne venate di rosa che reggevano archi cordovani, il mihrab di legno pregiato illuminava la qibla con la sua nicchia di ceramiche verdi e azzurre provenienti dalla Persia e dalla Turchia, sulle pareti si alternavano le porte dipinte dello Sham e le piastrelle di Iznik – la moschea era zeppa di candelabri, di tappeti da preghiera, di alti catafalchi vuoti di santi immaginari e di ricordi di amori morti: la lapide ottomana di Hatice, vero nome di Aziyadé, dava a un tratto l’impressione di trovarsi all’esterno, all’aria aperta, su una collina emersa dal Corno d’Oro; a un tratto si era usciti da un mausoleo per percorrere un cimitero. Arnaud, ipnotizzato, osservava Julien Pierre-Loti Viaud camminare nel cimitero di Eyüp a Istanbul, con l’anima in pena, gli occhi verso il Corno d’Oro in basso, quando il vento giunto dal Bosforo scompiglia i boschetti di cipressi neri che svettano come minareti; Julien Viaud vaga fra le tombe per scoprire la lapide di colei che ha amato dieci anni prima, la giovane circassa dalla pelle di latte, dalla voce di miele, dallo sguardo di papavero, Hatice, che nel suo romanzo Aziyadé, ha vestito di tutte le sete d’Oriente, e di cui ha appreso che era morta, morta di crepacuore, di solitudine e di abbandono. Loti non legge l’ottomano, qualcuno decifra per lui le iscrizioni delle pietre tombali, quelle spighe del campo dei morti – in lontananza la luce di Stambul, che lui conosce bene, si riflette fin nelle nuvole. Trovano la tomba, e Julien Viaud è commosso; pronunciano per lui il nome della giovane donna e la fatiha, la breve preghiera che apre e chiude ogni vita. A lei, che dorme sotto quella pietra, Loti dice, come tra sé: «Verrò a trovarti da solo, povera piccola, passerò la mattinata di domani con te, nel tuo deserto; capisci già bene che ti amo, poiché ho fatto, per ritrovarti, tutto questo lungo viaggio…!». Nel 1905, quasi vent’anni dopo la prima visita sulla tomba di Aziyadé, Pierre Loti fa sostituire la sua pietra tombale con una copia e spedire la lapide a Rochefort: la ruba. La ruba per passione malinconica, lo scrittore-viaggiatore diventa un ladro di tombe; nella moschea di rue Chanzy la pietra non ha perso nulla del suo bel colore; Loti possiede l’illusione del tempo, l’illusione del ricordo dell’amore, davanti al quale forse si prosterna, travestito da turco o da beduino, poiché non c’è niente al mondo che lui ami quanto la magia del falso, e in quella casa che fa tanto sognare Arnaud il babbeo, quella casa che è un baule riempito di falso e di illusione, Loti accumula le immagini, gli oggetti, le scenografie per il teatro della sua esistenza – dove scrive? Davanti alle mummie di gatti egizie della stanza delle mummie, mummie che potrebbero essere un monito per tutti i gatti viventi e troppo altezzosi? O sui cuscini del salotto arabo, del salotto turco, steso sui tappeti della moschea, languido come un’almea in un caftano, con un turbante avvolto malamente intorno alla fronte? Che cosa legge? In quella casa ci sono solo i libri che ha scritto lui. Niente biblioteca, o quasi; niente librerie, giusto un secrétaire con i cassetti vuoti – immagini, immagini ovunque tranne che nell’ultima stanza, in disparte, la camera da letto, la sobria camera da letto dell’ufficiale di marina protestante di Rochefort, nella quale si trovano, alla rinfusa, due fioretti, una maschera da scherma, un letto di ferro, un baule, un tavolo da toilette, un rasoio, una boccetta di profumo e quattro pareti nude imbiancate a calce.
* * *
Thomas il ciccione sbatté lo straccio sul bancone, la partita di belote era finita, Paco e gli altri se n’erano tornati a casa o alle loro occupazioni, era l’ora di pranzo e il caffè era deserto; Thomas mise a posto qualche bicchiere sorridendo: proprio vero che il dio delle carte era spietato e imprevedibile, quale doveva essere. Era una divinità piccola e brutta, con le corna; sovente mordeva la mano che l’accarezzava, pensava Thomas il ciccione, e colui che sarebbe diventato una cimice dei letti, una Cimex lecturarius, stava finendo di riordinare quando il dottor Hervé Nicoleau, il medico di Villiers-en-Plaine, spinse la porta del Caffè-Pesca, cosa che accadeva talmente di rado da impensierire Thomas – il dottor Nicoleau era quel che si poteva definire una pasta d’uomo, dedito al suo territorio e ai suoi pazienti fino all’eccesso; andava verso la sessantina e, anche se grazie a Dio era ancora lontano dalla pensione, tutti si chiedevano che ne sarebbe stato del circondario quando Nicoleau (occhialini tondi, faccia tonda, stretta di mano schietta) non avrebbe più visitato a domicilio. Thomas si posò lo strofinaccio sulla spalla destra e accolse il medico con un saluto rispettoso, chiedendogli nel contempo qual buon vento lo portasse a La Pierre-Saint-Christophe – temeva che fosse per lui; temeva che all’improvviso, con l’angelo della morte, il medico avesse intuìto in lui una malattia segreta, un tumore invisibile e maligno, il cui odore inconfondibile solleticava le narici dell’intero corpo medico. Thomas il ciccione era ipocondriaco quanto era cattivo: con una costanza da obeso. Il dottor Nicoleau rispose, sibillino, il freddo, e ordinò un Viandox®; Thomas si rammentò di quel brodo di una volta e si chiese se in qualche angolo della cucina possedesse ancora la bottiglia in questione. È da un sacco che nessuno mi ordina un Viandox®, pensò; quel nome suscitò in lui una marea di ricordi, il vassoio portauova e i pescatori che all’alba si facevano un uovo sodo con il caffè prima di andare a perdersi nella nebbia delle paludi. Thomas andò in cucina a prendere il condimento in questione, quindi versò quel catrame inquietante in una tazza che poi riempì con l’acqua calda della macchina da caffè-filtro. Il dottor Nicoleau seguiva deliziato i suoi gesti, sfregandosi le mani. Fuori la bufera di neve si faceva più intensa; il medico aveva una visita difficile a casa di un paziente moribondo, ci teneva a scaldarsi, prima. Nicoleau amava il suo lavoro. Amava i suoi pazienti, il suo studio di Villiers, le sue visite a domicilio; era sobrio e amichevole; aveva studiato a Poitiers, tutta la sua famiglia era della zona: lo zio era il defunto Marchesseau, il veterinario petrocristoforiano che si era occupato per quasi quarant’anni delle bestie della regione, curando gli equini, i bovini, i caprini, la stirpe canina e anche, in tempi remoti e in casi di estrema urgenza, gli ominidi, ma senza mai vantarsene con il nipote o i colleghi di quest’ultimo; il genitore, Germaine Nicoleau padre, sempre arzillo nonostante l’età avanzata e la passione per il cognac, aveva dal canto suo curato generazioni di contadini e di notabili a Coulonges-sur-l’Autize; amava pranzare con i notabili in una locanda dopo un battesimo tanto quanto in un’aia in pieno inverno quando ammazzavano il maiale e l’aria sapeva di setole bruciate – né il padre né il figlio si erano arricchiti; spesso avevano ricevuto, quale omaggio per il miracolo della guarigione, galline, anatre, uova, conigli, vino in quantità, acquavite, cognac, whisky e anche un colpo di fucile in aria, per una storia complicata che alla fine si era risolta in maniera amichevole. Il dottor Nicoleau figlio viveva bene, con una certa agiatezza, usava le auto come se fossero pantofole e conosceva la zona meglio delle sue tasche: sapeva a memoria il nome dei paesi, delle località e dei loro abitanti – non c’era boschetto di cui non conoscesse il nome, non c’era fattoria isolata di cui non sapesse chi ci abitava e se vivevano ancora fianco a fianco con gli animali, direttamente sulla terra battuta.
Quel giorno il dottor Nicoleau guardava dalla finestra la neve che veniva giù fitta, un monsone invernale, sorseggiando il suo Viandox® e godendosi il tepore della stufa a legna. Thomas il ciccione osservava il medico, ma da lontano, dalla cucina, come se tenesse d’occhio un animale pericoloso, una tigre che con uno schiocco delle dita poteva metterti a dieta o spedirti all’ospedale. Nicoleau raccoglieva le forze per la visita che doveva fare al vecchio maestro poeta Marcel Gendreau, che aveva lasciato Échiré per una stanza a casa della figlia, di ritorno a La Pierre-Saint-Christophe, dove aveva insegnato per tanti anni, ritorno che questa volta Nicoleau sapeva sarebbe stato definitivo: poteva davvero essere l’ultima visita, il vecchio Gendreau era al lumicino, con i polmoni che a ogni respiro gracchiavano come cornacchie, incosciente da due giorni, con le braccia gonfie di edemi, il cuore irregolare, situazione che riempiva il medico di tristezza – faceva il possibile per alleviargli le ultime ore, il dottor Nicoleau, e mandò giù il suo Viandox® come se fosse un sorsino di alcol alla menta, ringraziò Thomas il ciccione che ne stava relegato in cucina per via della paura della malattia, ma fu indotto dalla sete di guadagno a tornare al bancone giusto in tempo per incassare i due euro che il medico gli doveva (aveva indicizzato il prezzo del Viandox® su quello del tè, gli sembrava corretto), stringergli mollemente la mano e fargli un cenno di saluto con lo strofinaccio quando Nicoleau varcò la porta. Il turbinio della neve avvolse il medico in una coltre mobile, gelida e fiabesca che lo accompagnò fino alla casa di Magali, la figlia del vecchio Martial Gendreau, il maestro scrittore di cui tutti avevano dimenticato il romanzo La Natura lo impone…, pubblicato quasi sessant’anni prima e per il quale era stato per così dire cacciato dal paese dove insegnava e dove da decenni risiedeva la figlia, oggi anche lei in pensione. La vecchiaia aveva costretto Marcel Gendreau a lasciare il suo rifugio di Chalusson presso Échiré, nonché le rive della Sèvre, le lasche e il castello di La Taillée, costruito dalla pronipote di Agrippa d’Aubigné reincarnazione post quem di Jérémie l’impiccato, padre adottivo del nonno di Lucie Moreau e di Arnaud il cugino sempre assorto nelle fiamme e nelle fantasticherie, e nel momento in cui il dottor Nicoleau suona alla porta di Magali Belloir nata Gendreau, il padre lotta ancora, nel silenzio di una respirazione pietrosa, di un rantolo continuo, sostenuto sotto voce dal ronzio della macchina per l’ossigeno, ritmato largo dall’orologio a muro, contro la morte certa, quella di cui il medico, giunto nella camera ultima, sente distintamente la presenza, nella mollezza della mano che afferra, nel solco lasciato sull’avambraccio dal suo dito, nella debolezza del battito del cuore, nella sua aritmia, in quel viso girato verso il cuscino che lo sorregge, con gli occhi chiusi, le guance inflaccidite dalla morfina, la bocca leggermente aperta dal peso del mento, il corpo pesa, pensa Nicoleau, e guarda Magali, con le occhiaie per le ore che ha passato sveglia, turbata dall’attesa dell’inevitabile, si direbbe, la mano davanti alla bocca, lo sguardo febbrile – Marcel Gendreau forse sogna Virgilio, Omnia vincit amor: et nos cedamus amori, forse pensa alle sue poesie ispirate dal Marais, ai riflessi sul dorso delle perche, ai cieli rossi dell’inverno, alla storia di Jérémie e di Louise, brutale come una stagione morta, o all’affetto della figlia che l’ha accompagnato negli ultimi mesi mentre, indebolito dall’età e dalla malattia, si raggomitolava nel letto inghiottito pian piano dal cotone del materasso, dissolto nelle piume del guanciale, non si sa a cosa pensi, e Magali e Nicoleau sentono che il punto sta per mettere fine alla frase, che la voce è in procinto di cadere con la fine della proposizione, che il respiro, sempre meno sorretto dalle virgole, si smorza nelle spire delle sibilanti, nella frequenza delle fricative, dopo la lunga impennata della nasali, e di colpo si spegne. Come se Marcel Gendreau avesse aspettato la presenza rassicurante del dottor Nicoleau per non sentirlo dire è finita, per non avvertirlo posare un’ultima volta le sue dita sulla carotide, ascoltare il grande silenzio del cuore, lui la cui anima inizia il suo soggiorno nel Bardo, lui per il quale sorge come un’alba di speranza la Chiara Luce – Marcel Gendreau il maestro poeta, il romanziere della vita infelice di Jérémie, se n’è andato, lo conferma or ora Nicoleau nel certificato di morte azzurro, di cui piega la parte riservata, mentre Magali piange tutte le lacrime che ha in corpo – come il vecchio albero sull’orlo della parete di roccia cui bastano le zampe o l’ala di un passero, un giorno, per farlo precipitare nel dirupo, la tristezza di Magali aveva resistito fino alla fine, fino a riversare mesi di singhiozzi trattenuti.
Prese un’ultima volta la mano del padre.
Balbettò fra le lacrime una specie di preghiera.
Si richiuse alle spalle la porta della camera e ritrovò il dottor Nicoleau che finiva di compilare la parte del certificato di morte riservata alla pubblica amministrazione.
Disse singhiozzando l’aspettava, dottore. L’aspettava.
Disse singhiozzando vuol bere qualcosa, dottore.
A cui Nicoleau rispose, con voce un po’ arrochita, non dico di no, signora Belloir. Non dico di no.
E mentre il dottor Nicoleau vuotava il suo bicchierino di acquavite, Magali sollevava il telefono per chiamare Martial Pouvreau e i becchini dalle lunghe figure.
1 EARL (Exploitation Agricole à Responsabilité Limité): azienda agricola a responsabilità limitata.
2 GAEC (Groupement agricole d’exploitation en commun): associazione agricola di coltivazione in cooperativa.