IL CAMMINO CHE HO PERCORSO insieme al lettore, attraverso paradigmi e aspetti problematici sempre nuovi e diversi è stato davvero lungo: siamo partiti dall’immagine negativa e dall’immagine idealizzata dell’islam con lo scopo di individuarne la reale fisionomia per approdare in questa parte finale alla descrizione dell’islam in cui spero.
Trattando della dottrina originaria dell’islam e cioè del Corano in quanto parola di Dio, abbiamo analizzato il suo messaggio centrale: Dio è Uno solo e Muhammad è il suo Profeta e abbiamo illustrato i cinque elementi strutturali fondamentali o «pilastri»: oltre alla professione di fede, la preghiera, l’obolo per i poveri, il digiuno, il pellegrinaggio. Abbiamo constatato che l’«essenza» dell’islam ha sempre assunto volti diversi e abbiamo dunque ripercorso il faticoso cammino della sua storia, lunga 1400 anni, per cercare di descrivere e di definire in modo più preciso le cinque costellazioni epocali che ne contraddistinguono lo sviluppo storico: dal paradigma della comunità islamica primitiva (P I) e del regno arabo (P II) attraverso il paradigma classico-islamico della religione universale (P III) e il successivo paradigma degli ulama e dei sufi (P IV) per arrivare infine al paradigma della modernizzazione islamica (P V).
Ne sono derivate due constatazioni: questi paradigmi sono sopravvissuti fino a oggi all’interno di determinate strutture e tendenze; tuttavia, le opzioni politiche degli ultimi decenni che vi si sono ispirate – panarabismo, panislamismo, fondamentalismo islamico, socialismo e laicismo – non si sono rivelate capaci di risolvere i problemi più importanti. Se, nonostante le sfavorevoli previsioni economiche, il mondo islamico dovesse invece entrare in una fase di ripresa e di rinnovamento religioso, alcuni decisivi nodi problematici dovranno essere energicamente affrontati ed avviati a risoluzione: la sharia e i diritti dell’uomo, lo stato e la religione, la violenza e le guerre «sante», l’economia e la morale islamica, l’islam e il suo stile di vita... Sarà dunque possibile riuscire a trovare in tempi relativamente brevi una via di mezzo tra l’ideologia del fondamentalismo islamico e la sua opposta versione, l’ideologia del secolarismo, senza imporre divieti ma ricercando il dialogo, senza mirare a soluzioni ideologiche ma ricercandone di pragmatiche?
Vorremmo concludere questo libro offrendo una immagine ideale dell’islam, diametralmente opposta a quell’immagine negativa presentata nelle prime pagine del volume ma che tuttavia non coincide con una sua visione idealizzata poiché l’immagine che ne daremo presuppone l’analisi della storia e della situazione attuale dell’islam e comprende, al tempo stesso, realistiche prospettive future – rappresentando un, per così dire, «Best-Case-Scenario», contrapposto al famoso «Worst-Case-Scenario» di Samuel Huntington: una stimolante e fondata visione del futuro che apra la strada alla speranza.
La questione decisiva è questa: nei paesi più importanti del mondo islamico verrà prima o poi concessa la libertà di rapportare la sostanza dell’islam alle sfide del XXI secolo? La risposta è decisiva non solo per un’interpretazione e una rilettura dell’islam dalle prospettive aperte, ma anche per un corretto utilizzo e una coerente applicazione dei risultati così ottenuti, cosa che risulterebbe estremamente importante soprattutto in campo scientifico e sociale. Quali tendenze si affermeranno sul piano politico – nel diritto e nella giurisprudenza, nella umma e nello stato, nella scienza e nella società? Come ci siamo già chiesti in precedenza, quali saranno i veri eredi di una cultura e di una religione che ha 1400 anni di storia alle spalle: i tradizionalisti ortodossi, i laicisti ideologizzati o gli innovatori religiosi e politici? Quest’ultimi – chiaramente consapevoli dei mutamenti di paradigma che si sono compiuti nel corso del tempo – auspicano, in opposizione all’ostinata conservazione della tradizione (taqlīd), la riapertura di quella porta dell’interpretazione personale (iğtihād) chiusa da secoli e cercano di «tra-durre, tras-porre», il messaggio islamico originario nella realtà attuale per permettere così la nascita di una società democratica e di una cultura creativa in cui trovino posto una scienza innovativa e un’economia efficiente. In questo modo l’islam potrebbe dare il proprio contributo alla costituzione di una società mondiale nella quale, nonostante qualsivoglia diversità culturale, i diritti e i doveri dell’uomo potrebbero costituire il fondamento comune.
Considerando le numerose opposizioni e imposizioni,1 ritengo che l’interrogativo sulla possibilità di godere di una tale libertà sia la questione cruciale nell’islam; si tratta di una questione di natura al tempo stesso politica e teologica.
Per quel che riguarda la dimensione politica, molti musulmani, dal Marocco all’Iran, dall’Afghanistan all’Indonesia, più o meno apertamente sperano che:
– l’islam e la democrazia moderna possano coesistere, cioè che l’islam cessi di tradursi in forme di autoritarismo politico, dato che il suo fondamento teorico è l’ideale di fratellanza islamica (come dimostrano il califfato sunnita e l’imamato sciita). L’islam non può corrispondere a nessun tipo di stato clericale teocratico, dove governano presunti rappresentanti di Dio in terra illegittimamente autonominatisi, che vogliono essere contemporaneamente sovrani, legislatori e giudici, dichiarando di essere esclusivamente responsabili di fronte a Dio e non verso il loro popolo; non è neppure accettabile l’idea di una «sacra Scrittura» che sostituisca o condizioni totalmente la costituzione scritta (fino a vietare il consumo di carne di maiale e di alcool o a permettere la poligamia);
– possa nascere un sistema democratico caratterizzato dalla separazione dei poteri: che possano costituirsi un governo indipendente e dei partiti indipendenti; che sia tutelata la libertà di religione e di coscienza e garantito il diritto di dissenso e di opposizione; che venga concesso alle donne il diritto di responsabilità della persona e di partecipazione alla vita pubblica, dall’accesso ai vari livelli d’istruzione al coinvolgimento nelle decisioni politiche, in breve che siano riconosciuti alle donne gli stessi diritti fondamentali riconosciuti agli uomini. All’interno di questo stato i non musulmani non verrebbero più considerati alla stregua di una minoranza tollerata (come, notoriamente, nell’Alto medioevo) bensì cittadini a tutti gli effetti.
Per quel che concerne la dimensione religiosa sono in molti — credenti musulmani di una certa istruzione, ulama dalle ampie vedute nonché «laici» interessati alle questioni religiose – a sperare nell’avvento di un’interpretazione responsabile e pluralistica del Corano e degli ḥadīṯ, che si faccia finalmente interprete delle conoscenze e delle esigenze attuali:
– sperano che i musulmani del XXI secolo non siano più costretti ad attenersi alla nozione di sacralità assoluta e quindi di perfezione, d’infallibilità e d’immutabilità delle 78.000 parole del Corano (e nel frattempo anche della sunna del Profeta e addirittura della sharia);
– sperano che, invece, venga seriamente riconosciuto il carattere storico della rivelazione divina (la parola di Dio è racchiusa nella parola del Profeta, la parola di Dio si è manifestata attraverso la parola degli uomini). Ne consegue che non bisogna adottare un’interpretazione fissa e letterale e un modello argomentativo tradizionalmente prescritto bensì un’interpretazione dell’intero testo profetico secondo categorie spirituali e intellettuali. La religione non è una disputa legale, ma è un’eredità spirituale che va ricollegata ai suoi fondamenti originari e va interpretata in modo nuovo, alla luce del nostro tempo. L’islam vale come fondamento, non però fondamentalistico ma calato nel nostro tempo.
Oggi molti musulmani hanno compreso che la cultura arabo-islamica, ostinatamente ancorata a quella sua fase di massimo sviluppo ormai da lungo tempo trascorsa, ha sempre soffocato tutti gli sforzi riformatori e progressisti che avrebbero potuto precludere a un cambio di paradigma, col risultato di sprofondare in una crisi permanente. Non è infatti un puro caso della storia che i paesi islamici, al contrario di quelli europei, non siano riusciti ad approdare al capitalismo industriale, superando il capitalismo mercantile. Tutto questo ha prodotto effetti ben noti: la totale esclusione di questi paesi dal progresso scientifico-tecnologico e la conseguente situazione di inferiorità nei confronti dell’Occidente sul piano scientifico, tecnico, militare e culturale – situazione d’inferiorità alla quale alcuni singoli gruppi islamici hanno reagito, e reagiscono tuttora, invocando la lotta contro l’«Occidente infedele». La lunga dipendenza politica dalle potenze coloniali, prolungatasi fino al XX secolo, ha ovviamente esasperato questa disastrosa condizione.
Qualsiasi siano i motivi del sottosviluppo dei paesi islamici è indubbio che di fronte ai rapidi processi innovativi dell’attuale economia mondiale e alla prevista riduzione dei redditi dell’economia petrolifera, sussiste il rischio di una chiusura a riccio della cultura islamica e di una pericolosa crescita del senso di frustrazione in quei paesi. Le inchieste dell’ONU prima citate, compilate da specialisti arabi del settore, dimostrano che i paesi islamici, ed è un dato terribile, seguono nella classifica di sviluppo molti paesi dell’Asia orientale e del Sud-Est asiatico, nonostante alcuni di loro abbiano avviato già da tempo un processo di modernizzazione. Sono certamente queste le radici fondamentali – accanto alla politica palestinese dello stato di Israele – del terrorismo degli estremisti arabi, rivolto innanzitutto a contrastare il ruolo di egemonia assunto dagli Stati Uniti fra le potenze occidentali.
Anche nei paesi islamici ci si rende ormai sempre più conto che la situazione di crisi non dipende dalla mancanza di capitali ma dal cosiddetto human factor: dagli uomini, dalle concezioni e dagli ideali che li animano, dal loro livello d’istruzione e senso di responsabilità. E tutte queste strutture e processi sono a loro volta il prodotto del «fondamento» culturale-religioso della società: «La rielaborazione delle istanze occidentali – di derivazione cristiana ma ormai secolarizzate – appartenenti alla mentalità scientifica e alla sua modalità di azione, intendendo con ciò la loro integrazione all’interno del proprio modello valoriale, non è stata ancora attuata in modo soddisfacente nella maggioranza dei paesi islamici, secondo il loro proprio giudizio, a differenza di quanto è accaduto nelle società dell’Asia orientale».2 L’avanzamento tecnologico non allevia bensì acuisce tale problematica poiché esso non richiede più semplicemente abilità meccaniche, come accadeva agli inizi dello sviluppo tecnologico, bensì un’apertura mentale e capacità di adattamento alle situazioni, creatività e spinta innovativa – tutto questo non si può comprare con i petrodollari e non si può ricevere con gli aiuti per lo sviluppo ma si può ottenere solo a questo prezzo: la concessione della libertà intellettuale. La vita in una «modernità dimezzata», nella quale sono accolte le innovazioni tecnologiche ma non altrettanto le conquiste socio-politiche, sembra una pericolosa acrobazia destinata a durare poco.
Il confronto che abbiamo attuato tra i paradigmi ha reso evidente che in Occidente la Riforma (P IV) e l’Illuminismo (P V) hanno sancito istituzionalmente – per la prima volta nella storia dell’umanità – la dignità umana, i diritti fondamentali e la libertà dell’individuo, proteggendolo dalle violazioni contro la sua persona ad opera della religione e dello stato. È inevitabile che tutto questo abbia ripercussioni anche in ambito islamico, che ci piaccia o no. E così, a causa della scarsa libertà intellettuale, una élite di studiosi musulmani delle scienze religiose o naturali, che non intendeva né affrontare il carcere o le percosse né cedere alle lusinghe e alle profferte economiche dei relativi regimi, ha dovuto cercare riparo in Europa occidentale e in America – per non parlare di tutti i profughi musulmani provenienti dalla Palestina, dall’Afghanistan e dall’Iran. Allo stesso modo, milioni di musulmani, alla ricerca di possibilità di lavoro e di condizioni di vita migliori, si sono visti costretti a emigrare, in parte anche a causa di «situazioni» di cui loro stessi sono colpevoli, in paesi non musulmani – i turchi in Germania, gli algerini in Francia, i pakistani in Gran Bretagna... Anche qui è percepibile il cambio di paradigma nell’islam: non abbiamo più a che fare con un colonialismo occidentale imposto militarmente, ma con una emigrazione verso l’Occidente più o meno volontaria, segno dell’epoca postmoderna.
Le conseguenze per il mondo islamico di questa emigrazione si possono già intravedere oggi. L’islam europeo e americano, il messaggio delle élite che sorgono tra questi milioni di musulmani della diaspora che vivono in paesi dove non vigono l’obbligo del ramadan e il divieto del consumo d’alcool ma dove, invece, sono sanciti la libertà intellettuale e la fondamentale uguaglianza dei diritti per le donne, lascia già presagire quale potrà essere il volto dell’islam del futuro (così come è accaduto e accade tuttora nel caso degli ebrei della diaspora): contrariamente a tutte le aspettative, una religione non volta al passato e all’interpretazione ortodossa e letterale dei testi sacri ma aperta al futuro, agli impulsi costruttivi e riformatori. «Non bisogna dimenticare la speranza di milioni di musulmani», scrive lo studioso musulmano sovra citato Malek Chebel, «che rifiutano l’islam radicale (molti lo combattono anche a rischio della propria vita) e confidano nella rinascita di un islam positivo, quello preannunciato da Averroè, quello dell’indagine intellettuale critica o della «renaissance» (nahda) del XIX secolo: si tratta, in una parola, di un «"islam des Lumières", un islam illuminato.»3
Speriamo che sempre più musulmani si convincano che non è possibile attuare una modernizzazione senza congiungervi l’Illuminismo e un certo grado di secolarizzazione (da non confondersi con il secolarismo!). A questo proposito, secondo gli intellettuali islamici, è degna di particolare attenzione la situazione che sta maturando in Francia.4 La laicità non si risolve affatto in una semplice privatizzazione della fede, in una totale separazione della sfera politica da quella religiosa! Essa porta invece alla luce una nuova forma di religiosità illuminata. Tuttavia molti musulmani si chiedono perplessi quale sarebbe il risultato di una tale reale modernizzazione e limitata laicizzazione del mondo islamico, che includerebbe necessariamente lo sviluppo di una scienza moderna, il progresso tecnologico e la democrazia. Le seguenti considerazioni possono aiutarci a comprendere meglio i meccanismi del processo di modernizzazione.
In origine l’atteggiamento dell’islam verso il progresso spirituale e scientifico era positivo, così come evidenziano molti versetti del Corano e gli ḥadīṯ; la storia dei primi cinque secoli dell’islam, quando questo era culturalmente più avanzato rispetto all’Occidente («terra del tramonto»), parla da sé. Oggi i musulmani non potrebbero trarre una lezione (sia positiva che negativa) dal processo di modernizzazione occidentale, evitando così contemporaneamente gli errori commessi in Occidente?
A questo proposito dobbiamo innanzitutto constatare il fatale fallimento della chiesa cristiana (soprattutto di quella cattolica ma in parte anche di quella protestante) che, privilegiando le cecità della fede tradizionale, ha dichiarato guerra alla scienza, alla tecnologia e alla democrazia moderna per paura di perdere il proprio dominio e il proprio potere spirituale. Viceversa, è stato un errore fondamentale della modernità (errore del quale si ha oggi piena consapevolezza) ritenere di poter soffocare, ignorare o privatizzare per sempre la religione. La chiesa cristiana e la società moderna sono quindi entrambe responsabili di quel processo che in Europa ha spesso condotto, anziché a un’autonomia degli ambiti laici, a una loro anomia, tanto criticata dai musulmani, a una perdita di senso e alla scomparsa della religiosità: l’aspirazione a una secolarizzazione di per sé razionale si è tramutata nella realizzazione di un secolarismo ateistico-agnostico ben scarsamente razionale, gravido di conseguenze negative.
Tuttavia l’islam non è costretto a ripetere gli errori dell’Europa cristiana. Per questo i suoi capi spirituali dovrebbero senz’altro sottoporre la problematica della laicizzazione ad un’analisi più circostanziata. La moderna sociologia della religione – richiamandosi a Max Weber, Talcott Parsons e Niklas Luhmann – ha studiato in termini precisi il passaggio socio-strutturale dalla società premoderna alla società moderna, giungendo alle seguenti conclusioni: la società premoderna era fondamentalmente strutturata secondo i differenti ceti sociali (l’aristocrazia, il clero, i borghesi, i contadini...), la società moderna è fondamentalmente strutturata secondo le diverse funzioni sociali. A differenza dell’antico sistema sociale unitario, nella moderna società industriale europea si sono lentamente costituiti, in relazione alle diverse funzioni sociali, dei sottosistemi laici relativamente autonomi: la politica, il diritto, l’economia, la scienza, l’istruzione, l’arte, l’assistenza sanitaria, la previdenza sociale...; ambiti indipendenti dalle ingerenze della chiesa, della teologia e della religione, dotati di proprie istituzioni, di specifici codici di comportamento e scale di valori nonché propri criteri generali d’orientamento.
La religione dunque non più come nel medioevo e durante l’età della Riforma quale sovraordinato garante istituzionale dell’unità del sistema sociale, ma unicamente quale uno dei tanti fattori, ambiti, sottosistemi. Ma non e così semplice: questa visione dei fatti non sembra troppo superficiale? Si tratta di una questione di straordinaria importanza per l’islam.
Nell’islam una tale concezione differenziata della religione suscita fin da subito reazioni non trascurabili. Ma è possibile continuare ad ignorare totalmente questo processo? Il cambiamento è in corso già da tempo. Nella società premoderna, quella islamica come quella cristiana, che concepiva se stessa come un tutto relativamente unitario, dominato dai ceti più alti (l’élite religioso-politica), l’intera persona, con tutte le sue funzioni, era parte integrante di quell’unitario sistema religioso-morale che veniva strenuamente difeso da ogni possibile cambiamento. Erano soprattutto la famiglia e il diritto familiare a indicare a ogni persona il proprio posto all’interno del ceto sociale d’appartenenza. La religione, da parte sua, legittimava il sistema sociale vigente e ne garantiva la stabilità.
Eppure: per quanto proprio nell’Europa cristiana questo sistema medievale sia rimasto per molto tempo religiosamente compatto e istituzionalmente forte, esso non era destinato a reggere ancora a lungo né in Europa né in America del Nord – con l’eccezione di alcuni retrogradi paesi cattolico-romani ed enclave culturali, tali fino all’avvento del concilio Vaticano II. Come può essere che, nel mondo islamico, questo sistema riesca dunque a sopravvivere a lungo?
Bisognerebbe essere finalmente realistici: se in una società moderna la tradizionale struttura dei ceti sociali è necessariamente destinata a scomparire di fronte alla nascita delle nuove strutture funzionali, se né l’appartenenza a una determinata cerchia familiare né la religione svolgono più un ruolo determinante all’interno dei sottosistemi di più recente formazione, allora anche nelle società islamiche attraversate dal processo di modernizzazione la religione non può più svolgere il tradizionale ruolo centrale di garante dell’unità del sistema sociale. Anche nelle società islamiche – e tale processo è già indiscutibilmente avviato – la politica, il diritto e l’economia, la scienza, l’istruzione e l’arte si trasformano lentamente in ambiti autonomi, non più controllati dalla religione ma emancipati da questa e dunque, appunto, laici. In particolare, se vuole essere efficiente, il moderno sistema educativo deve costituire la sua autonomia rispetto a qualsiasi ingerenza religiosa e questo risultato è già stato ottenuto in molti paesi islamici – grazie agli sforzi del sottosistema politico (lo stato) e scientifico (l’università).
Questo complesso processo di mondanizzazione e secolarizzazione non è dunque il prodotto di una volontà sbagliata, come vuole ripetutamente cercare di convincerci il clero (cristiano e islamico). Si è trattato di un fenomeno inevitabile e necessario affinché la modernizzazione, alla quale l’Occidente aspirava fin dal XVII secolo, così come oggi vi aspira l’islam, potesse affermarsi pienamente. Per i paesi islamici questo sviluppo non è una sorta di scadente articolo d’importazione occidentale, al quale l’educazione religiosa può porre rimedio edulcorandolo o addirittura annientandolo bensì un dato imprescindibile per qualsiasi società moderna. Non sono state le missioni cristiane ad aver decisamente indebolito l’islam, come amano ripetere i musulmani, bensì quel processo di modernizzazione che è dilagato in tutto il mondo e che non può essere arrestato neppure nei paesi islamici.
Di una cosa bisogna certamente tener conto: il prezzo che l’Occidente ha pagato per questa differenziazione dei compartimenti sociali, e per la conseguente e successiva trasformazione epocale dei valori e dei criteri di comportamento, è stato molto alto: gli altri ambiti dell’esistenza sono rimasti privi di una base religiosa e, a tutti gli effetti, morale; privi di un senso ultimo di riferimento. Gli interessi particolari degli individui e dei gruppi sociali, che facilmente degenerano nel più spietato egoismo, non possono essere considerati in prospettiva un fondamento accettabile. La qualità della vita non è un surrogato del significato della vita. È sorta così una profonda crisi d’orientamento e, al tempo stesso, una ricerca spesso disperata del senso dell’esistenza, dei criteri che la regolano, dei valori che accomunano gli uomini. Così come la fede assolutizzata, anche la razionalità assolutizzata scatena energie distruttive che hanno dato origine a ideologie irreligiose o pseudo-religiose devastanti. Se oggi molti musulmani ritengono insoddisfacente non solo il modello marxista-materialistico ma anche la modernizzazione occidentale-tecnologica, preferendo rivolgersi alle tradizioni della propria religione, ebbene tutto ciò è da ascriversi a simili timori – in realtà assolutamente giustificati. È qui che si colloca un nuovo progetto che i cristiani e i musulmani sono chiamati a realizzare insieme!
«Lo stato laico liberale si fonda su premesse che esso stesso non sa garantire senza porre in dubbio la propria liberalità», queste parole, spesso citate, sono del costituzionalista Ernst-Wolfgang Böckenförde. 5 Lo stato neutrale non confessionale non può infatti imporre una determinata visione sul senso della vita e neppure prescrivere per legge l’obbedienza a valori assoluti, eppure questi costituiscono i suoi presupposti, pena il malfunzionamento dei suoi stessi meccanismi e l’inosservanza delle sue stesse leggi. Lo stato democratico ha insomma bisogno di un consenso etico fondamentale, che verrà condiviso da tutti i gruppi sociali e al quale ogni sorta di religione, di filosofia e di «Weltanschauung» darà il proprio contributo – nei paesi islamici sarà ovviamente primario l’apporto dell’islam, nei paesi di cultura cristiana quello del cristianesimo. Un consenso fondamentale, vale a dire non «rigido» o totale bensì solo un consenso esteso a più livelli (John Rawls: «overlapping consensus»6), riferito a valori vincolanti, criteri imprescindibili e comportamenti personali fondamentali.
In una tale situazione la religione non verrà certo sacrificata a quel secolarismo ideologico eticamente improduttivo che, a ben vedere, rappresenta un fenomeno del tutto eccezionale in ambito mondiale, diffuso solamente nell’Europa occidentale e centrale, nonché fra le élite del continente americano. La religione tuttavia, saggiamente, non aspirerà a instaurare nuovamente quel dominio clericale sul mondo laico che si nasconde dietro la nozione di «verità» dei pronunciamenti papali e vaticani, decretata come «infallibile» dal suo depositario, dal detentore assoluto del potere. Sarà invece compito della religione integrare, ispirare ed eventualmente anche correggere la «secolarità», il «carattere mondano» secondo i suggerimenti della fede:
– se, per esempio, all’interno di una democrazia una (per quanto notevole) maggioranza si dichiara favorevole alla legalizzazione della tortura o alla soppressione violenta di una minoranza, di qualsiasi genere questa sia, le religioni devono difendere la dignità inalienabile di ciascun uomo ed esprimere la propria opposizione;
– se in un paese alcuni maggiorenti ultraricchi sfruttano senza pietà il proprio popolo o se nel moderno sistema economico globalizzato alcuni manager licenziano migliaia di lavoratori e, così facendo, ricavano per sé immensi profitti, allora è lecito che le religioni invochino la giustizia sociale, anzi è un loro preciso dovere;
– se una potenza o una superpotenza ritiene legittimo, ai fini di imporre la propria egemonia, praticare una politica unilaterale, ledere il diritto dei popoli, ignorare le disposizioni dell’ONU e condurre una guerra preventiva, allora i capi delle religioni devono impegnarsi insieme per la pace, esprimendo la loro condanna alla guerra.
In sostanza la politica, l’economia, il diritto, la scienza, l’istruzione hanno bisogno, per il bene dell’individuo così come per il bene della società, di un moral framework, di una cornice morale di valori che io designo col nome di etica dell’umanità o etica mondiale. E alla creazione di questo ethos tutte le religioni, anche l’islam, l’ebraismo e il cristianesimo sono invitate a dare il loro apporto sostanziale. Il Corano, così come la Bibbia ebraica o il Nuovo Testamento, per quanto spesso soggetti a fraintendimenti, possono costituire un solido fondamento e una valida esemplificazione di una tale «etica mondiale». In questo senso la religione è allora qualcosa di più di un semplice «fattore» o «sottosistema» fra i tanti. La religione si trova in un rapporto di interdipendenza e interazione con tutti gli altri sottosistemi (la cui totale «autoreferenzialità» è dunque solo presunta), anzi svolge per i diversi sottosistemi la funzione di un approfondimento del discorso etico al quale la società può sempre attingere. Naturalmente anche un ethos umanistico privo di connotazioni religiose può svolgere la medesima funzione sociale.
Oggigiorno anche nei paesi islamici i musulmani sono sempre più posti di fronte a una pluralità di opzioni e stili di vita e a precise scelte individuali: istruzione, scelta del lavoro, scelta del proprio coniuge, numero della prole, comportamenti nel tempo libero. Anche in questi paesi le tendenze individualizzanti e pluralizzanti si ripercuotono in campo religioso. Poniamoci dunque la seguente domanda: in una democrazia moderna quale aiuto esistenziale può dare l’islam all’individuo? In sintesi, sono due i punti che possiamo schematicamente individuare.
1. Di fronte a un crescente individualismo, le convinzioni della fede musulmana, adeguate al proprio tempo, possono aiutare l’uomo a realizzare in giusta misura le aspirazioni personali: la propria capacità d’esperienza, la ricerca della propria identità, l’autodeterminazione e l’auto-realizzazione. Realizzare se stessi non si traduce allora in un’esagerata percezione di sé e in un’autoreferenzialità artistica, ma si coniuga con la responsabilità di sé e la responsabilità del mondo, con il senso di responsabilità verso gli altri uomini e la società.
2. Di fronte a un crescente pluralismo le convinzioni della fede musulmana, calate nel proprio tempo, possono contrastare la diffusa tendenza a confezionarsi, secondo i propri esclusivi bisogni, una religione privata ritagliata su misura, accozzando fra loro elementi religiosi, parareligiosi nonché pseudo-religiosi disponibili sul libero mercato delle religioni (patchwork religion). Quindi nessuna dissoluzione, dettata dall’esigenza del momento, delle vincolanti indicazioni della fede bensì apertura, arricchimento, approfondimento della propria religiosità islamica grazie agli spunti, ai simboli, alle esigenze etiche e alle pratiche religiose di altre religioni o movimenti alternativi.
Un islam di questo tipo, calato nel proprio tempo, non liquiderà troppo frettolosamente la modernità bensì ne apprezzerà il contenuto umano: non vorrà riconoscersi nella sottocultura islamica del ghetto. Tuttavia, al tempo stesso, si terrà ben lontano dalle scorciatoie inumane e dagli effetti distruttivi della modernità stessa: nessuna concessione modernistica e nessuna svendita dell’identità islamica. Un rapporto razionale con il mondo moderno e la fiducia in un dio «personale» possono tranquillamente coesistere e rafforzarsi vicendevolmente. L’islam, aperto al proprio tempo, è invece chiamato a una sfida ben più grande: non solo tutelare ciò che è umano e respingere ciò che è inumano ma approdare a una nuova fase, a una differenziata sintesi pluralistico-olistica alla quale si dà giustamente il nome di «postmoderno».
Un esempio? È degno di nota il caso dell’Egitto, dove ha trovato ampia risonanza nei mass media la figura di un giovane predicatore islamico di nome Amr Khalid, il quale, a differenza degli ulama, si veste in modo moderno (giacca e cravatta), parla una lingua moderna (il dialetto egiziano anziché l’arabo classico) e utilizza modalità comunicative moderne (anziché minacciare severe punizioni, offre amichevoli ammonimenti). Khalid fonde un islam dal volto completamente tradizionale con uno stile di vita moderno tramite l’insistenza sulla soggettività, sullo sviluppo della propria individualità e sulla responsabilità verso se stessi. Eppure, le preghiere quotidiane, il divieto del consumo di alcool, la morale sessuale conservatrice non vengono assolutamente messe in discussione. In Egitto molti si chiedono se Amr Khalid – che non è un fondamentalista ma neppure un ulama antiquato – non possa rappresentare, in quanto musulmano moderno il «modello del futuro».7
Comunque sia, i problemi che deve affrontare l’islam nel XXI secolo non sono molto diversi da quelli del cristianesimo, anche se li differenzia una certa sfasatura temporale. Sia nel caso dell’islam sia nel caso del cristianesimo possiamo individuare quattro ambiti problematici, attinenti a diverse dimensioni della realtà – dalla vita quotidiana individuale alle problematiche globali – e bisognosi di una riflessione più attenta e di risoluzioni pratiche maggiormente accettabili:
– la dimensione cosmica: uomo e natura (istanze del movimento ecologista);
– la dimensione antropologica: uomo e donna (istanze del movimento femminista);
– la dimensione socio-politica: ricchi e poveri (istanze delle organizzazioni socialiste);
– la dimensione religiosa: l’uomo e Dio (istanze dell’ecumene cristiana e interreligiosa).
L’islam rappresenta dunque certamente un sostegno nella vita dei singoli, un aiuto per la risoluzione dei loro problemi. Ma possiamo affermare lo stesso per quel che riguarda i grandi problemi mondiali? I diritti dell’uomo, la scarsità di risorse naturali, l’inquinamento dell’ambiente, i danni al patrimonio forestale, i cambiamenti climatici, i problemi del traffico, il problema dello smaltimento dei rifiuti, la disoccupazione di massa, l’ingovernabilità, la crisi del debito pubblico, il divario tra Nord e Sud del mondo, i problemi del Terzo Mondo, la corsa al riarmo, la manipolazione genetica, la minaccia atomica? Naturalmente sarebbe una pretesa assolutamente esagerata ritenere che una religione debba essere tenuta o possa essere intenzionata a offrire un contributo sostanziale per la risoluzione di tutti questi problemi. Ma è vero che dovrebbe comunque riuscire a proporre elementi utili alla risoluzione di questo o di quel problema fra i tanti. Anche l’islam sa fare questo, come ci dimostra il caso seguente.
La politica demografica non è certamente un banco di prova solo per l’islam bensì per tutte le religioni. L’alto tasso di crescita demografica rappresenta, soprattutto nei paesi più poveri, una delle più gravi minacce alla sopravvivenza dignitosa dell’uomo: secondo la proiezione a medio termine dell’ONU la popolazione è destinata a crescere da 6,3 miliardi di individui (2004) fino a 7 miliardi di individui nel 2015 – se non prima, ammonterà a circa 9 miliardi di individui nel 2050 e potrebbe arrivare a sfiorare un picco massimo di 11 miliardi di individui, in seguito al quale è prevista un’inversione di tendenza.8 In molte regioni della terra gli effetti della crescita demografica sono già adesso catastrofici: milioni di giovani non hanno accesso all’istruzione e al lavoro e neppure ai minimi mezzi di sostentamento poiché acqua e cibo scarseggiano. Eppure in alcuni paesi dell’emisfero meridionale sembra delinearsi chiaramente una controtendenza. I minori tassi di crescita vanno senz’altro attribuiti in prima battuta all’uso già oggi sempre più diffuso dei metodi anticoncezionali; vanno poi elencate altre cause negative del fenomeno, come la crescita del tasso di mortalità a causa delle guerre e dell’Aids e la riduzione dell’aspettativa di vita in alcuni paesi, nonché ulteriori cause positive come la lotta alla povertà e l’offerta di migliori possibilità d’istruzione.
In confronto alle altre religioni, il cristianesimo non sembra cavarsela molto brillantemente sulle questioni della politica demografica dato che da decenni il papa e le alte gerarchie della chiesa cattolicoromana, ignorando le posizioni della stragrande maggioranza dei propri fedeli e dei loro sacerdoti, condannano ottusamente qualsiasi mezzo contraccettivo (non solo la pillola!) ritenendolo immorale; il papa, durante i suoi numerosi viaggi, ha imposto dogmaticamente l’osservanza di questa «morale» e ha così indirettamente contribuito in modo massiccio al fenomeno dell’esplosione demografica. Infatti in occasione della «Conferenza mondiale sulla popolazione» dell’ONU del Cairo (1994) i contrasti sorti in merito alla questione della crescita demografica e del controllo delle nascite sono stati così appianati: l’infausta allenza tra i fondamentalisti d’impronta cattolico-vaticana e gli estremisti islamici rappresentanti dei paesi islamici minori ha fatto di tutto per imporre la propria ristretta morale sessuale, lasciando così libero sviluppo a un incontrollato aumento della popolazione – e dimostrando in tal modo uno scarsissimo senso di responsabilità.
Si è tuttavia fortunatamente verificata una controtendenza: proprio le grandi e più popolose nazioni islamiche, dall’Indonesia all’Egitto, non hanno adottato questa politica ostruzionistica ma hanno realizzato il programma dell’ONU. Le più recenti indagini dimostrano che l’equazione «islam = prolificità» è altrettanto banale quanto l’equazione «cattolico = prolifico». Lo studio di Ahad Rahmanzadeh9 dal titolo Politica demografica nei paesi islamici evidenzia che su queste questioni spetta alla politica prendere posizione contro i capi religiosi islamici.
Quello che è accaduto nell’Iran islamico fondamentalista è particolarmente significativo: nel corso del XX secolo la popolazione iraniana è aumentata da 9 ad oltre 63 milioni di individui (sette volte la sua dimensione originaria). A metà degli anni Ottanta l’incremento demografico aveva raggiunto il suo drammatico apice, con un tasso di crescita annuale del 3,4 per cento. Dopo la rivoluzione del 1979 le autorità spirituali iraniane, sulla scorta di motivazioni religiose ma anche strategiche, avevano in un primo tempo messo al bando, proprio come ha fatto il papa, qualsiasi pianificazione familiare. Più tardi tuttavia questa politica venne modificata e la crescita demografica in Iran ha cominciato costantemente a rallentare, tanto che nel 2003 il tasso di crescita era disceso all’1,2 per cento. Senza l’intervento dei capi religiosi a sostegno del progetto di limitazione delle nascite, questo non avrebbe mai potuto attuarsi in modo così soddisfacente, continuativo ed estensivo, ben diversamente da quel che accade in altri paesi di religione islamica. La stretta collaborazione tra stato e religione, dettata da esigenze più di tipo pratico che dogmatico, è risultata vantaggiosa anziché svantaggiosa. E stato anche propizio che il progetto non avesse come obiettivo l’approvazione di leggi obbligatorie in materia ma l’educazione alla salute tramite una campagna informativa, riguardante per esempio l’uso dei diversi metodi contraccettivi. A differenza dello stato islamico iraniano, la Turchia laica ha per lungo tempo raccolto insuccessi su questo versante proprio perché il suo programma di pianificazione familiare non prevedeva sufficienti informazioni e offerte di consulenza. In Iran nell’anno 1999 circa il 57 per cento delle coppie sposate utilizzava moderni metodi contraccettivi mentre in Turchia la percentuale era solo del 38 per cento.
L’islam può dunque senz’altro fornire soluzioni non solo alle questioni più serie della vita individuale ma anche ai grandi problemi del mondo. Ma possiamo estendere tale affermazione anche al più importante tra questi problemi: l’alternativa guerra/pace, scontro o dialogo tra le civiltà?
Già nel 1998, quasi esattamente tre anni prima dell’11 settembre 2001, l’Assemblea generale dell’ONU aveva annunciato in una risoluzione la «ferma decisione di promuovere e favorire il dialogo tra le culture» e aveva quindi voluto «dichiarare l’anno 2001 Anno del dialogo tra le culture»,10 contro i foschi presentimenti di chi prospettava uno «scontro di civiltà» («clash of civilizations»).
Inaspettatamente, lo spunto per questa risoluzione era giunto dal mondo islamico e cioè dalla Repubblica islamica dell’Iran, in particolare dal suo presidente Seyed Mohammad Khatami (eletto nel suo paese a larghissima maggioranza, eppure continuamente contestato e boicottato da parte dello schieramento conservatore), il quale nel suo discorso davanti all’Assemblea generale dell’ONU del 21 settembre 1998 aveva dichiarato: «A nome della Repubblica islamica vorrei proporre come prima cosa che le Nazioni Unite dichiarino l’anno 2001 "Anno del dialogo tra le culture" nella ferma speranza che grazie a un tale dialogo possa realizzarsi la giustizia e la pace universale. Fra le conquiste più preziose di questo secolo c’è la consapevolezza di quanto sia necessario e importante favorire il dialogo e condannare la violenza, promuovere la comprensione reciproca nei diversi settori della cultura, della politica e dell’economia, consolidare i principi fondamentali della libertà, della giustizia e dei diritti dell’uomo. L’affermazione e la diffusione di comportamenti civili, sia in campo nazionale che internazionale, dipende dalla capacità di dialogo tra le varie società e culture, che sono portatrici di visioni, orientamenti e tendenze diverse. Se, alla soglia del nuovo secolo, l’umanità sarà capace di convogliare tutti i suoi sforzi verso il consolidamento istituzionale del dialogo, se saprà sostituire l’inimicizia e la controversia con il confronto e la comprensione reciproca, allora lascerà davvero alle generazioni future un’eredità d’incalcolabile valore».11
Gli avvenimenti dell’11 settembre 2001, la guerra in Afghanistan e la crescente tensione in Medio Oriente confermano tragicamente quanto sia assolutamente urgente intraprendere iniziative come quella dell’«Anno internazionale del dialogo tra le culture». Nei giorni 8 e 9 novembre 2001 l’Assemblea generale dell’ONU si raccoglieva nuovamente per deliberare sul tema del dialogo tra le culture – presentando le attività in corso, la relazione del gruppo degli esperti e i progetti in cantiere. Sotto la direzione dell’ex segretario generale dell’ONU Giandomenico Picco, alcuni membri del cosiddetto «Gruppo di personalità eminenti» («Eminent Persons Group EPG»), costituitosi su invito dal segretario generale dell’ONU Kofi Annan e al quale appartengono personalità del mondo islamico come il dott. A. Kamal Aboulmagd (Egitto), il principe El Hassan bin Talal (Giordania) e il dott. Javad Zarif (Iran),12 hanno consegnato al segretario generale dell’ONU una copia dell’edizione originale americana della loro relazione dal titolo Crossing the Divide. Dialogue among Civilizations. Come ho già indicato trattando del conflitto israeliano-palestinese (cfr. cap. D III) questa pubblicazione mira a definire un nuovo paradigma di rapporti internazionali fondati su un’etica universale. Purtroppo negli Stati Uniti – a differenza di quanto è accaduto in Germania – i mass media così come l’opinione pubblica e la classe politica non hanno dedicato alcuna attenzione all’iniziativa, nonostante la sua bruciante attualità e il dirompente significato politico che avrebbe potuto avere proprio nella situazione americana.
All’Assemblea generale dell’ONU le delegazioni dei diversi stati, fra i quali si contavano moltissimi stati islamici, si pronunciarono dopo due giorni di dibattito a favore di un dialogo tra le culture, condannando l’idea di scontro tra le culture. Infine, il 9 novembre l’Assemblea generale promulgò una risoluzione (soprattutto grazie all’iniziativa degli stati islamici) dal titolo Agenda globale per il dialogo tra le culture.13 Questo documento, in continuità con le precedenti risoluzioni, sottolinea il grandisssimo significato che nella situazione attuale riveste il dialogo tra le culture. Nove articoli descrivono dettagliatamente gli obiettivi, i principi e i soggetti di questo dialogo: l’articolo 1 definisce programmaticamente il dialogo tra le culture come un processo fondato sulla «volontà collettiva di conoscenza, di verifica e di superamento dei pregiudizi, di ricerca di un senso più ampio dell’esistenza e dei suoi valori fondamentali»,14 mentre l’articolo 2 invoca concretamente «una maggiore comprensione reciproca sulla base di criteri etici comuni e valori umani universali».15
Con questa risoluzione l’Assemblea generale dell’ONU intende affermare, in rispondenza a quanto ampiamente e dettagliatamente illustrato dal gruppo di esperti, che sulla terra può esserci una reale convivenza, può nascere un autentico senso di comunità solo se «gli uomini vivono gli uni insieme agli altri, condividono un ethos comune, coltivano un concreto senso civico e aspirano a un bene comune superiore». 16 Che cosa significa? Non certo, come temono alcuni musulmani, un imperialismo culturale occidentale: l’obiettivo non è il dominio mondiale di una determinata religione o di un determinato mondo culturale. È invece quello di una convivenza di «diversi stili di vita e confessioni religiose» che, naturalmente, può essere pacifica solo «se la loro varietà e molteplicità non lede i diritti fondamentali e le libertà altrui».17
Per questo, in perfetta rispondenza con gli intenti del Parlamento delle religioni mondiali, gli autori ritengono importante definire i contenuti di quella regola aurea, radicata in tutte le tradizioni religiose e umanistiche, che costituisce il primo grande valore etico comune dell’intera umanità. Essa ci porta a «concepire, riconoscere, accettare e apprezzare l’altro in quanto parte integrante della propria autorappresentazione», ci aiuta «a imparare a diventare esseri umani».18 L’umanità, la disponibilità reciproca e la fiducia —queste sono le doti fondamentali che coltiva chi vive secondo lo spirito della regola aurea: «Senza umanità e fiducia non può esistere una base comune per quella definizione di valori intesa come sforzo spirituale comune di soggetti affini, coinvolti in un dialogo reciproco».19
Nell’ottica della conciliazione, unica vera risposta alla spirale viziosa dell’odio e della violenza – e l’assoluta necessità di un tale approccio è stata drammaticamente dimostrata dagli avvenimenti dell’11 settembre e dalle sue ripercussioni – vengono infine citati quei quattro criteri imprescindibili che costituiscono, insieme alla regola aurea e al principio d’umanità, il nucleo dell’etica universale: l’ideale della non violenza, della giustizia, dell’amore per la verità e dell’uguaglianza tra uomo e donna.20
Come possiamo dunque giustificare, convalidare e rafforzare questi criteri e questi principi alla luce della tradizione islamica?
Asghar ’Alī Engineer, uno studioso musulmano indiano di grande prestigio, ha voluto confrontare la Dichiarazione per un’etica mondiale del Parlamento delle religioni mondiali del 1993 con il messaggio del Corano. Questa è la sua netta conclusione: «I contenuti della dichiarazione per un’etica mondiale sono perfettamente rispondenti allo spirito dell’islam».21
Tenendo conto dei risultati di questo studio, intendo brevemente esporre lo stretto legame che intercorre tra i quattro doveri etici fondamentali, radicati in tutte le grandi tradizioni religiose e filosofiche, e il libro sacro dei musulmani, il Corano. Mi attengo ai principi centrali della «Dichiarazione per un’etica mondiale» del 1993, ripresi nel documento «Appello alle istituzioni di governo», siglato nel 1999 dal Parlamento delle religioni mondiali riunitosi a Città del Capo (Sudafrica), e ulteriormente riaffermati nel manifesto programmatico del 2001 Crossing the Divide. Dialogue among Civilizations.
«Abbi rispetto per la vita» – «Non uccidere», non infliggere torture, supplizi, sevizie!
Il rispetto per la vita, per ogni forma di vita, è profondamente radicato nell’etica islamica. Il Corano dice che uccidere un uomo innocente è come uccidere l’intera umanità.22 E sappiamo dagli ḥadīṯ quanto il Profeta amasse gli animali e la natura.
Nell’etica del Corano la giustizia è un aspetto talmente importante che solo chi è giusto può credere: «O voi che credete! State ritti innanzi a Dio come testimoni d’equità e non vi induca l’odio contro gente empia ad agire ingiustamente. Agite con giustizia, ché questa è la cosa più vicina alla pietà».23 Un sistema sociale ingiusto non può essere un modello islamico di società. Il Corano richiede che le eccedenze di beni e denaro, tutto ciò che non è strettamente necessario venga distribuito ai poveri e ai bisognosi. Ecco perché la tassa sociale obbligatoria detta zakāt è addirittura uno dei cinque pilastri dell’islam.
«Parla e agisci secondo verità» – «Non dire il falso», non ingannare, mentire, tramare nell’ombra!
L’etica del Corano è essenzialmente fondata sull’amore per la verità: la verità (haqq) è uno dei nomi di Dio e ha lo stesso altissimo valore che ha la giustizia. Una società giusta non può realizzarsi senza il fondamento essenziale dell’amore per la verità.
«Amatevi e rispettatevi gli uni con gli altri» – «Non commettere atti impuri», non umiliare e calpestare la dignità dell’altro sesso!
In linea di principio il Corano assegna lo stesso status all’uomo e alla donna: «Esse agiscano coi mariti come i mariti agiscono con loro, con gentilezza».24
Tutto ciò è così palesemente eredità comune delle tre religioni abramitiche che, tenendo conto di questo, molte aspre contrapposizioni del passato avrebbero potuto essere risolte. Il famoso codice islamico dei doveri del buon musulmano riportato in Cor XVII,22-38 e largamente coincidente con il Decalogo della Bibbia (cfr. la tabella nel cap. B II, 2: «L’etica fondamentale comune») rappresenta una dimostrazione storica di questa rispondenza.
Il dialogo tra le culture e anche l’idea di etica universale hanno avuto ampia risonanza all’interno delle Nazioni Unite, come ci dimostra il confronto su questi temi e la successiva risoluzione ONU, soprattutto grazie allo stimolo e alle iniziative del segretario generale Kofi Annan, premio Nobel per la pace. Il grande e apprezzatissimo discorso sull’etica mondiale dal titolo Esistono ancora dei valori universali? che Annan ha tenuto il 12 dicembre 2003 all’Università di Tübingen su invito della Fondazione per l’etica universale (Stiftung Weltethos), rappresenta una conferma di questo suo impegno personale.
Kofi Annan è convinto che «in quest’epoca di globalizzazione i valori universali sono divenuti più che mai necessari. Ogni società deve essere unita da valori condivisi affinché i suoi membri siano consapevoli di ciò che possono aspettarsi gli uni dagli altri e sappiano che esistono dei principi fondamentali, capaci di armonizzare in modo incruento le differenze sociali. Questo vale sia per le piccole comunità locali che per le grandi collettività nazionali».28
Questo vale in particolare per il rapporto tra l’Occidente e l’islam: pur esprimendo la totale condanna agli attentati dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti non si può «permettere che questi attentati conducano a quello “scontro di civiltà” che è in realtà uno scontro tra due entità astratte – l’“islam” e l’“Occidente” – nel quale milioni di uomini in carne e ossa perdono la vita, come se i valori islamici e occidentali fossero inconciliabili»: «In realtà non lo sono affatto, come possono confermare milioni di credenti musulmani che vivono qui in Germania o in altre parti del mondo. Eppure molti musulmani oggi sono oggetto di diffidenza, sciacallaggio e discriminazione, mentre in alcune regioni del mondo islamico chi viene sospettato di avere legami con l’Occidente o i valori occidentali subisce ostilità o addirittura atti di violenza».29
Kofi Annan sottolinea «che la validità dei valori universali non dipende dal fatto che siano ovunque rispettati o utilizzati. Un codice etico è sempre espressione di un ideale o di un’aspirazione; è un criterio di riferimento con il quale poter individuare un comportamento moralmente sbagliato e non tanto una prescrizione atta ad impedire che un simile comportamento erroneo si verifichi».
Il cristianesimo e l’islam sappiano che «nessuna religione e nessun sistema etico possono essere condannati invocando le deviazioni morali di alcuni loro rappresentanti. Per fare un esempio, se io, in quanto cristiano, non voglio che la mia fede venga giudicata secondo le attività dei crociati o dell’Inquisizione, devo essere poi attento, a mia volta, a non giudicare la fede di un’altra persona sulla scorta di quello che un piccolo gruppo di terroristi commette in nome di quella fede».
È dunque sbagliato «condannare una determinata fede o un determinato sistema di valori sulla base delle azioni o delle affermazioni di alcuni suoi seguaci». Tuttavia è «ugualmente sbagliato rinunciare a credere che certi valori siano universali solo perché alcuni uomini non sembrano accettarli. Al contrario, proprio per il fatto che esistono tali deviazioni è doveroso riaffermare e tutelare i valori universali. Dobbiamo essere in grado di riconoscere che alcuni comportamenti e alcune convinzioni non feriscono solamente le concezioni etiche che ci sono proprie, ma dovrebbero essere rigettati da tutti gli uomini».
Kofi Annan è pienamente consapevole che i valori e le norme non possono mai valere in senso astratto ma solo nel caso concreto, tenendo conto della particolare situazione individuale e culturale, cosa che permette una vasta gamma di interpretazioni e realizzazioni diverse: «L’adesione a tali valori comuni non risolve naturalmente tutti i problemi e non vuole negare alle diverse società un certo margine di libertà nella risoluzione specifica dei problemi».
Il segretario generale dell’ONU illustra questo aspetto in relazione ai quattro principi esposti nella Dichiarazione per un’etica universale del Parlamento delle religioni mondiali:
– «Crediamo tutti sinceramente nella non violenza e nel rispetto per la vita e tuttavia valutiamo in modo diverso la legittimità di uccidere uomini che a loro volta hanno ucciso altri uomini o di ricorrere alla violenza per difendere degli innocenti, vittime di atti di violenza.
– Crediamo tutti sinceramente nella solidarietà tra gli uomini e in un sistema economico giusto e tuttavia non sappiamo quale politica possa essere più adatta per realizzare questo tipo di sistema economico.
– Crediamo tutti sinceramente nella tolleranza e nell’amore per la verità e tuttavia non sappiamo con certezza in che misura dobbiamo essere tolleranti nei confronti di quegli stati o di quei sistemi che riteniamo intolleranti e bugiardi.
— Crediamo tutti sinceramente nell’uguaglianza e nella parità tra uomo e donna, pur non essendo perfettamente concordi sull’opportunità della divisione dei ruoli tra uomo e donna o sulla doverosità di un riconoscimento da parte della società della sacralità del matrimonio» .30
Queste sono state dunque le parole di Kofi Annan, un uomo che ha saputo egregiamente presiedere l’ONU durante il 2003, il periodo forse più difficile nella storia di questa istituzione mondiale.
Con l’esposizione di queste tendenze di sviluppo, sono giunto infine al termine della mia trilogia La situazione religiosa del nostro tempo, e non posso nascondere un sospiro di sollievo. Sono certamente consapevole che in questi tre volumi – Ebraismo (1991), Cristianesimo (1994) e Islam (2004) – ho talvolta espresso opinioni scomode nonché prospettato sviluppi futuri che possono apparire troppo utopistici in relazione a ognuna delle tre religioni abramitiche, al cui studio mi sono dedicato quasi interamente negli ultimi venticinque anni. L’intera opera è però sorretta da una triplice e incrollabile speranza:
– che ognuna delle tre religioni profetiche, grazie alla propria ricchezza spirituale ed etica, abbia un grande potenziale;
– che tutte e tre le religioni, grazie al dialogo e alla collaborazione reciproca, possano arrivare a scoprire maggiori punti di contatto;
– che tutte e tre le religioni possano offrire un contributo irrinunciabile alla costruzione di un mondo più pacifico e più giusto.
Vorrei dunque concludere questa trilogia con alcune frasi programmatiche alle quali essa si è ispirata fin dai suoi inizi, un quarto di secolo fa. Ora però, dopo aver svolto quella «ricerca sui fondamenti» delle religioni abramitiche che mi ero allora proposto, intendo integrare e precisare il mio programma in modo tale da renderlo più che mai condivisibile da ebrei, cristiani e musulmani:
Non c’è pace tra le nazioni
Senza pace tra le religioni!
Non c’è pace tra le religioni
Senza dialogo tra le religioni!
Non c’è dialogo tra le religioni
Senza valori etici globali!
Il nostro pianeta non può sopravvivere
Senza un’etica globale, un’etica universale,
Condivisa da tutti gli uomini,
Credenti e non credenti!