A.

ORIGINE

ALLA MAGGIOR PARTE DEGLI EUROPEI, le religioni di origine cinese – il confucianesimo e il taoismo – danno certamente l’impressione di essere ancora molto distanti, sconosciute, «Lontano Oriente», ma in nessun caso pericolose.

Le religioni di origine indiana – l’induismo e il buddhismo – a molti sembrano più vicine, meno ignote, ad alcuni risultano persino simpatiche e vengono considerate non minacciose, in quanto perlopiù pacifiche e prive di lunghi confini conflittuali con i paesi «cristiani»; e questo nonostante il crescente e violento fondamentalismo indù che dalla fine del XX secolo si va diffondendo in India.

Di certo le religioni originarie del Medio Oriente – ebraismo, cristianesimo e islam – sono strettamente imparentate le une alle altre e si somigliano tra loro molto più di quanto non somiglino, rispettivamente, agli altri due sistemi. Eppure non ci sono altre religioni che siano state, e siano, così tanto in conflitto come queste tre religioni monoteiste e profetiche, che sembrano contraddistinguersi per una particolare aggressività e per un’inclinazione a ragionare secondo uno schema «amico-nemico». Abbiamo dovuto dar conto di questa impostazione già nei primi due volumi di questa trilogia «Sulla situazione religiosa del tempo», rispetto all’ebraismo e soprattutto al cristianesimo. 1 E qual è la situazione relativa all’islam, del quale questo volume dovrà occuparsi dettagliatamente?

I. Una religione discussa

L’islam, con il quale il cristianesimo ha diverse migliaia di chilometri di confini in comune, è percepito da molti in Occidente sempre più come un’aperta minaccia. Anche il già citato politologo americano Samuel Huntington, dichiarò apertamente, nel 1993: «I confini dell’ islam sono macchiati di sangue».2 I confini del cristianesimo invece no? Così iniziò la produzione di quelle rappresentazioni dell’islam come avversario, come nemico, molto utili a tutti quegli ideologi (in America o da qualsiasi altra parte) che avevano assoluto bisogno di un nemico per la loro politica imperialistico-militare e per le loro ambizioni egemoniche: l’immagine del nemico islam!

1. L’IMMAGINE DEL NEMICO ISLAM

Sebbene il fenomeno di per sé esista probabilmente da sempre, il termine Feindbild («immagine del nemico») si trova solo nei vocabolari più recenti; comparve durante la fase di tensione nel conflitto Est-Ovest ed è divenuto popolare con la Seconda guerra del Golfo. A partire dal crimine contro l’umanità dell’ 11 settembre, perpetrato da ciechi fanatici, sussiste il pericolo che la politica mondiale venga completamente determinata dall’immagine del nemico islam, alla quale corrisponde sin troppo facilmente – da parte musulmana – un’immagine del nemico Occidente.

 

Sull’utilità di un’immagine del nemico

«L’immagine del nemico rappresenta una totalità strutturata di percezioni, rappresentazioni e sentimenti che, unificati sotto l’aspetto dell’ostilità, vengono rivolti a un uomo, a un gruppo di uomini, di popoli o di stati» (H. Nicklas).3 Tale immagine del nemico, in contrapposizione continua con l’immagine dell’amico (perlopiù il proprio gruppo di appartenenza), non è costituita solo da pensieri e opinioni - come suggerisce la nozione inglese di concept of the enemy – ma anche da percezioni, sentimenti e pre-giudizi: in questo contesto assumono una grande rilevanza i media televisivi.

Un’immagine del nemico – che per l’Occidente è stato dapprima il comunismo, e oggi è l’islam – è utile sotto molti aspetti. Svolge diverse funzioni di psicologia individuale e politico-sociali, come si può osservare ad esempio nella «guerra contro il terrorismo», determinata dall’aspirazione degli USA all’egemonia e sostenuta molto efficacemente dai media dell’immagine.

– L’immagine del nemico discolpa: non siamo «noi» (americani, europei, i nostri amici europei e israeliani), bensì il nemico, l’islam, ad avere tutte le responsabilità! Il nostro rimosso in fatto di sensi di colpa e di inferiorità, le nostre aggressioni e le nostre frustrazioni si lasciano deviare senza pericolo verso l’esterno e si possono proiettare su di esso. Le immagini del nemico rendono possibile pensare per capri espiatori.

– L’immagine del nemico stabilizza: anche se sotto molti aspetti «noi in Occidente» ci troviamo in disaccordo, essa fa di noi dei congiurati contro il nemico, contro il «regno del male», l’«asse del male»! Un nemico comune rafforza la coesione, la NATO, l’amicizia transatlantica. Ci fa stare insieme uniti, ci fa demonizzare i critici ed emarginare tutti coloro che hanno opinioni divergenti. Le immagini del nemico favoriscono il pensiero per blocchi.

– L’immagine del nemico polarizza: riducendo le alternative disponibili a un aut aut («chi non è con noi, è contro di noi»), è possibile raggruppare e strumentalizzare con più efficacia le persone, costruendo una contrapposizione politica e militare in amici e nemici, in nazioni «pronte alla guerra» e «indignate dalla guerra». Se molto spesso non sappiamo dire a favore di quali valori ci schieriamo, sappiamo però sempre contro quali lottiamo. Pertanto i fronti sono chiari: ognuno sa dove sta lui e dove sta l’altro. Le immagini del nemico comprimono tutto in uno schema manicheo amiconemico.

– L’immagine del nemico attiva: informazioni e istruzioni più precise non sono necessarie. Le informazioni dei servizi segreti possono essere gonfiate, falsificate, manipolate e, in caso di necessità, persino inventate. Noi possiamo, anzi, dobbiamo difenderci contro gli altri, gli stranieri, i nemici, sia interni che esterni. Non vi è, quindi, solo diffidenza, bensì anche ostilità e, se necessario, persino violenza applicata contro le cose e le persone: violenza fisica, psicologica, politica e addirittura militare. Meglio ancora della somministrazione di droghe, le immagini del nemico aiutano a superare gli scrupoli dei soldati davanti all’omicidio: esse motivano facilmente alla Guerra Fredda o alla guerra calda.

Rimane tuttavia una consolazione: anche le immagini del nemico non sono idee eterne, né necessità immutabili. Non solo infatti sono trasferibili, ad esempio dai «russi» agli «arabi», ma si possono anche correggere, se i nemici diventano amici (Francia-Germania) e possono diventare inconsistenti (comunismo). Possono essere superate concentrandosi di nuovo su compiti comuni (di fronte alla minaccia atomica o alla crisi ecologica) e possono sfociare in una comunità mondiale responsabile del proprio destino, che includa anche l’islam.

 

Intolleranza, ignoranza, arretratezza?

«La pace tra le religioni come presupposto per la pace tra le nazioni? E per di più, la pace tra le religioni a Gerusalemme, la città delle tre religioni? Un’illusione!» Questo mi obiettò anni fa un «esperto del Vicino Oriente» e giornalista televisivo, all’epoca popolare.4 Alla mia controdomanda su quale fosse la sua alternativa, egli replicò lapidariamente: «La guerra!». Davvero cinque guerre arabo-israeliane non erano state abbastanza? No, pareva che non ci fosse altra soluzione all’antagonismo arabo-israeliano. Purtroppo quest’uomo è rappresentativo di quei non pochi giornalisti e divulgatori in Europa, e specialmente in Nord America, che – partendo da un atteggiamento di latente aggressività – «trasmettono» gli avvenimenti attuali in immagini e parole a un pubblico di massa inconsapevole e che sono capaci di suscitare comprensione persino per una politica aggressiva come quella di Ariel Sharon o di coloro che ne condividono le opinioni. Questi rappresentanti dei media populisti sono corresponsabili per la persistenza di immagini del nemico. E come per alcuni cristiani devoti il nemico numero uno è stato a lungo l’ebraismo, e in seguito il comunismo, così oggi lo è l’islam per molti cristiani ed ebrei. Dunque ci sono uomini che non possono vivere senza un’immagine del nemico. «L’islam vuole il dominio sul mondo! La falsa fede anticristiana, intollerante e aggressiva domina già sulla metà del globo»: ecco le parole che risuonano dalle roccaforti dei cristiani fondamentalisti.

Eppure un simile atteggiamento, anti-islamico per principio, non si trova solo presso raggruppamenti della destra radicale di matrice cristiana o ebraica: si è introdotto in modo strisciante in un gran numero di nazioni industrializzate. Quando i media occidentali mostrano i musulmani, si tratta per la maggior parte di esperti di religione fanatici con la barba lunga, di terroristi violenti e senza scrupoli, di sceicchi del petrolio straricchi o di donne velate. Nessuna meraviglia, quindi, se per molti in Occidente l’immagine dell’islam ha tinte fosche.

L’islam sembra distinguersi per:

– l’intolleranza verso l’interno: una religione totalitaria, che produce entusiasmo, irrazionalità, fanatismo e isteria, di preferenza sottomette le minoranze cristiane e perseguita in modo sanguinario i dissidenti come i bahai e gli ahmadi;

– la militanza verso l’esterno: una religione violenta, che porta avanti «guerre sante», che mira alla conquista del mondo e di fronte alla quale bisogna stare in guardia;

– l’arretratezza: una religione rigida, che rimane bloccata al medioevo e che ha caratteristiche riduttive, persino arcaiche: inciviltà, disprezzo delle donne, rifiuto del dialogo...

Alcuni aspetti di queste critiche vanno analizzati, e gli esiti estremi di un islam militante da Khomeini fino a Bin Laden – hanno danneggiato pesantemente l’immagine dell’islam in Occidente. Tuttavia, quei giudizi generalmente aggressivi, polemici, cinici e sprezzanti devono urgentemente essere differenziati e spiegati, se non si vuole che abbiano effetti disastrosi sia nei rapporti personali, sia nella grande politica. Chi ha in mente una simile immagine stereotipata del nemico islam percepisce la realtà solo in maniera selettiva: tutto ciò che si allontana da quest’immagine viene dissolto e male interpretato. Alcuni cristiani, ad esempio, non notano che la stessa attività («missione», sostegno finanziario, costruzione di edifici di culto in territorio straniero, imposizione aggressiva di se stessi) è sempre buona quando serve al proprio gruppo, e cattiva quando è praticata dagli «altri».

A ogni modo, anche a prescindere da un «doppio standard» nella valutazione, una simile immagine dell’islam concorda poco con la realtà dell’islam. L’immagine del nemico provoca più che mai reazioni astiose e dunque funziona come una «profezia che si autoavvera». Acuisce i conflitti, favorisce l’escalation, ostacola la valutazione realisticamente differenziata dell’altro, fa sembrare impossibile un’intesa e così prepara il terreno a conflitti militari, come in Afghanistan e in Iraq. Ma è possibile, di fatto, instaurare un dialogo serio coi musulmani?

 

Dialogo impossibile?

«Ma quali sono i musulmani con cui lei vorrebbe avere un dialogo?» mi chiese ironicamente, qualche tempo fa, un benemerito giornalista televisivo la cui visione del mondo è fin troppo determinata da esperienze di guerra e di antagonismi fra le religioni e le culture, e la cui immagine del mondo musulmano viene aspramente criticata anche dagli stessi esperti di islam.5 «Io dialogo con musulmani ai quali in genere lei non ha nemmeno accesso», fu la mia risposta, e mi venivano in mente così tanti volti amici, vivi e desiderosi di imparare, di teologi, professori, intellettuali e studenti islamici a Islamabad, Lahore e Karachi, a Gerusalemme, al Cairo, a Riad, Teheran, Algeri, Fès, Lagos e Dar es-Salam. Per non parlare dei miei interlocutori musulmani, molto saggi, nell’area linguistica tedesca, in Francia, in Inghilterra e naturalmente anche in America. No, io non sono disposto a ridurre la differenza tra «l’Occidente» e «il mondo islamico» a un dualismo «essenziale» tra razionalità e fede, scienza e religiosità, superiorità e inferiorità, persino tra natura pacifica e disposizione alla violenza.

Come se nell’«Oriente arabo» ci fossero solo fondamentalisti, sovrani demagogici e masse fanatiche; come se presso gli stessi fondamentalisti non si dovesse fare alcuna differenza tra coloro che interpretano la «guerra santa» (ǧihād) come una incitazione alla violenza e quegli islamisti per i quali si tratta di una fondazione dell’identità pacifica e di matrice religioso-culturale. Come se il violento insorgere di gruppi etnici musulmani fosse fondato solo ed esclusivamente sull’essenza dell’islam e non, perlomeno, anche sugli abusi politici, sociali ed economici e sulle frustrazioni di fronte alla dittatura e alla corruzione delle élite dominanti, spesso corteggiate dall’Occidente. Come se oggigiorno non si potesse riuscire a sviluppare efficaci programmi politici, religiosi e culturali alternativi al fondamentalismo militante: una democratizzazione e una modernizzazione, una forma di secolarizzazione che tuttavia prenda sul serio la parte costruttiva della religione nella società, ovvero l’opposto di un secolarismo senza religione. Considerato globalmente, il secolarismo europeo rappresenta - nelle sue forme che escludono la religione – un cammino particolare, che proprio in America si confronta continuamente con la religiosità (quella reazionaria, ma anche quella innovativa).

In base alle mie esperienze personali, nonostante io venga quotidianamente a contatto con le numerose notizie negative dall’area islamica, devo sollevare una risoluta obiezione contro quei terribles semplificateurs che informano tendenziosamente sull’islam, che passano sotto silenzio numerosi aspetti positivi, che rafforzano i pregiudizi anti-islamici e semplificano tutte le contrapposizioni tra musulmani, ebrei e cristiani in un’eterna «lotta, dettata dal destino, tra i figli di Abramo». In questo modo, essi ravvivano più che mai le oscure paure di un «regno del male», di un «asse del male» e di una congiura islamica mondiale, per sfruttarle poi dal punto di vista politico-militare ed economico-commerciale. Se ci si dovesse davvero comportare come continuamente suggeriscono – in modo diretto o indiretto – certi ideologi, politici e giornalisti neoconservatori, allora sarebbe quasi inevitabile un confronto storico mondiale tra l’Occidente e l’islam, addirittura una Terza guerra mondiale, come in America desiderano i «neocon» della lobby israeliana (sostenuti dai «teocon» cristiano-fondamentalisti), e bisognerebbe tempestivamente formare una «lega» in difesa «dell’umanità bianca». Che cosa questo significhi concretamente nei ricchi paesi industriali, sullo sfondo del continuo flusso migratorio causato dalla mancanza di lavoro e dalla povertà, si può solo presagire: di certo, per quanto tutto ciò possa a volte suonare moderno, si tratta di una ricaduta nel medioevo. Lo stato delle conoscenze sull’islam di alcuni dei nostri contemporanei si trova, per così dire, a un livello medioevale. Le implicazioni risultano chiaramente da un rapido sguardo sulla storia: cosa sanno e sapevano i cristiani dell’islam?

 

Sapere orientale e ignoranza occidentale

Mentre i primi autori greco-cristiani, specialmente quelli che si trovavano nei territori musulmani, si mostrano relativamente ben informati sulla dottrina islamica e sul profeta Muḥammad, sorprendentemente nell’Occidente latino, fatta eccezione per l’Andalusia, in pratica non ha avuto luogo alcun confronto di contenuti con l’islam fino al XII secolo inoltrato.

Che cosa si sapeva nell’Oriente islamico? Lì i cristiani nestoriani, siri e copti non sentirono affatto la dominazione araba come più oppressiva rispetto a quella precedente dei Bizantini. Che nel mondo islamico anche i cristiani potessero essere discretamente informati sulla vita e l’insegnamento del profeta Muḥammad lo mostra la prima storia mondiale arabo-cristiana di Agapio (arabo: Maḥbūb ibn Qusṭanṭīn), vescovo di Hierapolis (Manbig) in Siria, che narra molto obiettivamente le origini dell’islam e del profeta Muḥammad.6 Per rendere comprensibile ai suoi fratelli cristiani il motivo per cui così grandi e importanti territori cristiani avevano potuto essere conquistati dai musulmani, il vescovo si appella a uno scritto (leggendario?) dell’imperatore bizantino Eraclio (610-641), un contemporaneo del Profeta: rifacendosi alla promessa biblica per il figlio di Abramo, Ismaele, capostipite degli Arabi, l’imperatore avrebbe ordinato ai suoi luogotenenti in Egitto, Siria, Armenia e Mesopotamia di smettere la resistenza contro gli Arabi. Anche il vescovo giacobita Gregorio Abū’l Faraǧ (Barhebreo, 1226-1286), verso la fine del califfato degli Abbasidi, prende una posizione relativamente positiva nei confronti dell’islam, giudicando in maniera molto ragionata la pretesa profetica di Muḥammad.

Il primate della chiesa nestoriana (Katholikós) Timoteo I (dal 780 fino all’823) ebbe persino l’onore di portare avanti per due giorni un dialogo erudito sulle differenze teologiche con il califfo al-Mahdī (775-785).7 Un dialogo solo fittizio, ma molto più influente, ci è stato trasmesso da uno scolaro dello scolaro di Yuhanna ibn Sargun, conosciuto come Giovanni Damasceno (morto attorno al 750), figlio di uno dei più alti funzionari delle finanze sotto il califfo Mu’āwiya di rito bizantino (melchita). Giovanni era segretario privato nell’amministrazione finanziaria (poi arabizzata) e alla fine, quando il califfo ’Umar II vietò ai cristiani e agli ebrei gli alti uffici di stato, divenne monaco nel famoso convento di Mar Saba, presso Gerusalemme. La Disputatio Christiani et Saraceni8 non proviene da lui, ma di certo è suo il capitolo sull’islam nella sua opera dogmatica fondamentale Fonte della conoscenza. In essa Giovanni Damasceno riporta una breve storia di cento eresie, che sono riprese alla lontana da un’altra opera, mentre proprio il capitolo conclusivo sull’islam (n. 100), l’eresia più recente, è chiaramente di sua mano.9 Le affermazioni sull’islam, molto sicure di sé e spesso ironiche, sono piene di equivoci, le risposte cristiane mostrano la mancanza di ogni riflessione autocritica e finiscono con un ridicolo capitolo su di una sura che dovrebbe avere come oggetto una femmina di cammello... Poiché tuttavia Giovanni Damasceno era considerato il più importante pensatore sistematico della chiesa ortodossa e l’ultimo Padre della chiesa, la sua interpretazione dell’islam ebbe un’ampia diffusione: l’islam non sarebbe affatto una religione indipendente, Muḥammad non sarebbe un vero profeta e la sua rivelazione sarebbe un prodotto della fantasia.10

Allo stesso modo, nel mondo greco si diffuse un’intera serie di giudizi (Muḥammad un impostore, epilettico, Anticristo, servitore di Satana) e di leggende: un monaco cristiano, in seguito assassinato da lui, avrebbe insegnato il Corano a Muḥammad; una colomba, che avrebbe mangiato chicchi di grano dal suo orecchio, sarebbe valsa per lui come Spirito Santo e rivelazione; la visione della sua tomba alla Mecca sospesa nell’aria sarebbe stata frutto di forze magnetiche...

E com’era lo stato delle conoscenze in Europa occidentale? Qui non si sapeva ancora nulla di autentico sull’islam, quattrocento anni dopo la comparsa di Muḥammad: «l’epoca dell’ignoranza»!11 Solo quando, dopo le conseguenze problematiche della Prima crociata, l’ultimo importante abate di Cluny, Pietro il Venerabile, intraprese nel 1142 un viaggio in Spagna, convinto che l’islam si sarebbe potuto vincere unicamente con la forza della parola, si cominciò a studiare con attenzione le fonti islamiche. Su sua commissione si giunse, nel 1143, alla prima traduzione (latina) del Corano, da parte dell’ inglese Robert di Ketton. Sebbene pubblicata insieme a scritti polemico-apologetici di Pietro contro l’islam, essa viene giustamente celebrata come una «pietra miliare» negli studi sull’islam, che ha messo fine all’epoca dell’ignoranza: «per la prima volta l’Occidente ha uno strumento per uno studio serio dell’islam».12 Se ne serviranno tanto l’irenico cardinale del Rinascimento Nicolò Cusano, quanto il grande inquisitore spagnolo Juan de Torquemada e il riformatore Martin Lutero.

Furono tuttavia, paradossalmente, proprio le crociate che, nonostante l’ostilità e la guerra, portarono a un’esatta conoscenza dell’islam e del suo Profeta. L’imperatore Federico II Hohenstaufen, nato a Palermo e cresciuto tra cristiani e musulmani, venne a stretto contatto con la cultura araba-orientale in Sicilia e nel Sud Italia. Il viaggio di Francesco d’Assisi dal sultano al-Malik al-Kāmil, nel mezzo della crociata e durante l’assedio di Damietta, nei pressi della foce del Nilo, è circondato di misteri. Egli viaggiò nel 1219, apparentemente senza conoscenza dell’islam e senza alcuna difesa, rischiando il martirio: «Arrivato davanti a Damietta, Francesco dissuade i crociati dalla battaglia ed egli stesso non vuole prendere parte all’attacco. Ma la crociata non si cura di lui: è il sultano ad ascoltarlo! In questo modo pare anche essere completamente documentato, che l’impresa del santo Francesco è l’esatto contrario di ogni mistica della crociata».13

In seguito, Guglielmo di Tiro (1130-1186) e Guglielmo di Tripoli (1220-1273) scrivono molto correttamente sull’islam. Il sultano Saladino d’Egitto (1137-1193) è rispettato anche in Europa e vale come modello di uomo cavalleresco. Si esprime maggiore ammirazione per la superiorità della cultura, della filosofia, delle scienze naturali, della medicina arabe e naturalmente anche della forza militare ed economica dell’islam; non però per l’islam come religione.

Tommaso d’Aquino non rientra certamente fra i pionieri del dialogo con i musulmani nel pieno medioevo. Egli conosce l’islam solo attraverso le opere dei grandi filosofi musulmani e crede di poter difendere i dogmi cristiani contro l’islam dal punto di vista filosofico, su di un piano meramente razionale,14 senza interessarsi al Corano o al dialogo con i musulmani (cfr. cap. C IV, 6). Pionieri sono piuttosto due contemporanei di Tommaso, buoni conoscitori dell’arabo: da un lato il francescano inglese dalla cultura enciclopedica Ruggero Bacone (1220-1292), che si adopera energicamente per la conoscenza delle scienze arabe, influenzato soprattutto da Avicenna. Dall’altra parte il nobile catalano Ramon Llull (Raimundus Lullus, 1232-1316), che dedica la propria vita alla conversione dei musulmani, compie tre viaggi in Nordafrica e s’imbarca in un dialogo non polemico, quasi socratico, con i musulmani, nel quale egli si basa più su argomentazioni razionali che su documenti ecclesiastici.15 Deportato due volte, Llull verrà lapidato nel corso del terzo viaggio, e morirà durante il ritorno a casa.

La svalutazione e il rifiuto di tutto ciò che era arabo, compresa la lingua, cominciarono già nel Rinascimento. E questo nonostante la creazione di cattedre di arabo e le numerose traduzioni, nonostante gli sforzi di studiosi e uomini di stato famosi come Juan de Segovia, Niccolò Cusano ed Enea Silvio Piccolomini (il futuro papa Pio II), che tra il 1450 e il 1460, in un «moment of vision» (R.W. Southern),16 si confrontarono con il problema dell’islam in una nuova prospettiva pacifica.

 

Dalla caricatura polemica alla rivalutazione differenziata

Circa cento anni dopo, nel 1530, l’anno della confessione luterana di Augusta, papa Clemente VII (Medici) fece bruciare il testo arabo del Corano immediatamente dopo la sua pubblicazione, di fronte alla minaccia militare, costantemente in crescita, che i turchi costituivano per la cristianità (1529 alle porte di Vienna, 1541 conquista di Budapest!). Il testo era stato pubblicato a Venezia, città che all’epoca – poiché da lungo tempo collaborava con l’impero ottomano come grande potenza politica nel Mediterraneo orientale – veniva chiamata «la prostituta dei turchi». Forse queste prime copie del Corano stampate erano comunque destinate a essere esportate in quei paesi islamici che ancora per molto tempo non avrebbero conosciuto alcuna tipografia. Ma come sempre a Roma, e anche a Basilea, patria della stampa per eccellenza, si temeva un rafforzamento della corrente antitrinitaria (che si richiamava alla Bibbia!).

Lutero, da parte sua, si era pronunciato a favore della traduzione e della pubblicazione del Corano, ma solo affinché ognuno potesse vedere che razza di – e questi sono insulti luterani – libro maledetto, dannoso e senza speranza esso fosse, pieno di bugie, fandonie e ogni sorta di nefandezze! Devono esserci ancora oggi dei teologi luterani che leggono il Corano con questo spirito. Lutero, a causa dell’incombente minaccia militare e della sua personale paura apocalittica, demonizzò i musulmani, i dominatori turchi, come servitori del diavolo: in quest’epoca da fine del mondo, Muḥammad sarebbe stato uno pseudo-profeta guidato dall’istinto e l’islam un contropotere anticristiano.17

Fino alla pionieristica opera di storia delle religioni Pansebeia (1650, traduzione tedesca 1668),18 dello scozzese Alexander Ross, si è avuta in Occidente un’immagine completamente distorta dell’islam, come dimostra ampiamente lo studio di Norman Daniel Islam and the West: The Making of an Image (1960):19 una religione simile poteva essere solo un’eresia e una cosciente falsificazione della verità, un miscuglio di violenza e ricerca del piacere! E Muḥammad: un impostore, un posseduto dal demonio, persino l’Anticristo per antonomasia. Era facile, allora, contrapporre a questo quadro caricaturale dell’islam un’immagine ideale del cristianesimo come religione della verità, della pace, dell’amore e della temperanza. Per immunizzare i propri seguaci contro i sistemi di fede avversari, si diffamavano i concorrenti.

L’opera dell’orientalista di Utrecht, Adrian Reland, De Religione Mohammedica (1705)20 fu pionieristica: dopo Pansebeia fu la prima rappresentazione in certo modo oggettiva dell’islam e del suo Profeta, corresse alcune visioni comuni errate sull’islam contenute nell’apologetica e prontamente fu messa nell’Indice romano dei libri proibiti. Essa trovò conferma anche nella traduzione inglese del Corano di George Sale, con il suo famoso «Preliminary Discourse» (1734),21 commissionata dalla Society of Christian Knowledge (SPCK) ma debitrice verso l’Illuminismo e verso una religione razionale e tollerante.

 

Illuminismo attraverso la poesia

Che dopo la Guerra dei Trent’anni l’Illuminismo avesse riportato in voga il pensiero della tolleranza, in Germania è dimostrato in modo esemplare dal dramma di Gotthold Ephraim Lessing Nathan der Weise (1779),22 in cui compare la nota parabola dei tre anelli, delle tre religioni delle quali nessuno può dire con certezza quale sia quella giusta. Un testo ancora attuale dopo 225 anni. Nel 1984, io tenni a Tübingen, insieme allo studioso di letteratura Walter Jens, delle lezioni in forma di dialogo su otto scrittori della letteratura mondiale e parlai il 19 novembre del Nathan, questo «dialogo drammatico tra le tre religioni di origine semitica, dal carattere profetico, presentate in figure plastiche piene di spirito e ragione»: un ebreo illuminato (il primo ebreo nobile in un’opera teatrale tedesca, dopo la precedente commedia di Lessing, Gli ebrei, del 1749), un altrettanto illuminato musulmano (l’illustre sultano Saladino) e un immaturo, ma in fin dei conti illuminato, cristiano (il giovane crociato come controfigura del patriarca autoritario). Chi avrebbe potuto immaginare allora, quale terribile attualità avrebbe potuto ancora contenere questo dramma, con la sua «visione ispirata di una pace tra le religioni come presupposto di una pace tra l’umanità in generale»?23

Nei due anni fra l’11 settembre 2001 e la fine del 2003, il Nathan ha avuto ventiquattro allestimenti su palcoscenici tedeschi (e uno addirittura a New York). Karl-Joseph Kuschel ha dedicato a questo dramma una brillante analisi, che dimostra in maniera convincente «perché ancora oggi non ci siano alternative al Nathan»: «solo il Nathan di Lessing è strutturato "in maniera trialogica", solo in questo dramma vengono messe in discussione le tre tradizioni e culture nel loro potenziale di conflitto e di riconciliazione. Noi non abbiamo nessun altro grande testo di riferimento nella letteratura tedesca, quando si tratta del rapporto fra ebrei, cristiani e musulmani. E nell’epoca attuale ricompare questo conflitto fra il mondo ebraico, cristiano e islamico, specchiato nel punto cruciale della Palestina, come ai tempi delle crociate».24

Kuschel critica giustamente il fatto che alcuni registi contemporanei abbiano fissato il dramma sulla problematica tedeschi-ebrei, tralasciando quella musulmana, mentre invece Lessing intraprende una «calcolata o strategica rivalutazione dei disprezzati», attraverso i tre musulmani presentati positivamente sul palcoscenico, che sono «l’opposto di una ingenua idealizzazione».25

Oltre a Lessing, quasi nessuno in Europa ha contribuito così tanto alla rivalutazione dell’islam quanto Johann Wolfgang Goethe, con il suo Divano occidentale orientale (1819):26 una raccolta (dal persiano: dīwān) nata dall’incontro con l’opera del poeta persiano Hafiz (XIV secolo), che con «occidentale orientale» esprime l’incontro di due poeti, di due letterature, di due culture – con al centro «l’esperienza dell’amore» nel libro Suleika, e la problematica religiosa che sta al cuore degli ultimi libri. Rifacendosi a Goethe, l’orientalista e poeta Friedrich Riickert mise il suo straordinario talento formale e linguistico al servizio di un riadattamento del Corano.

In Inghilterra, qualche tempo dopo, il traduttore di Goethe Thomas Carlyle,27 con la sensazionale conferenza The Hero as Prophet, (1840) sviluppò un ritratto psicologico che rappresentava Muḥammad come un profeta autentico – completamente in contrasto con la tragedia, assolutamente antistorica, Mahomet (rappresentata per la prima volta a Lille nel 1741), nella quale Voltaire metteva in scena il suo disprezzo per il Profeta, rappresentandolo negativamente come uomo di potere senza scrupoli. Comportamento deplorevole, per uno dei più importanti pionieri della tolleranza.

 

Orientalistica e orientalismo

Il XIX secolo – il secolo della storiografia e dell’espansione coloniale europea – portò infine quell’enorme progresso dell’orientalistica e insieme dell’islamistica che fu il presupposto per una valutazione meno polemica dell’islam da parte della teologia e della chiesa cristiana. Nel XIX e nel XX secolo si delineò un progresso decisivo sotto cinque punti di vista:28

– un apprezzamento storico-critico del profeta Muḥammad attraverso ricercatori come Gustav Weil, Aloys Sprenger, William Muir, Reginald Bosworth Smith, Leone Caetani, Tor Andrae, Régis Blachère, Maxime Rodinson e W. Montgomery Watt;

– una storia del Corano di Theodor Nöldeke, rimasta fondamentale sino ad oggi, come anche edizioni storico-critiche del Corano e traduzioni moderne adeguate, legate ai nomi di Gustav Flügel, Richard Bell, Rudi Paret e Adel Th. Khoury;

– una vasta indagine della cultura islamica, dalla funzione religiosa, alla mistica, al diritto e ai costumi, sino alla letteratura e all’arte, da parte di studiosi importanti come Ignaz Goldziher, C. Snouck Hurgronje, Annemarie Schimmel e soprattutto il grande orientalista Louis Massignon, il quale ha richiesto ai cristiani una «rivoluzione spirituale copernicana» e ha invitato alla pacificazione tra la religione della speranza (ebraismo), la religione dell’amore (cristianesimo) e la religione della fede (islam);

– un apprezzamento storico-critico dell’immagine coranica di Gesù che, introdotta da G.F. Gerock centocinquant’anni fa e portata avanti da ricerche di storia della tradizione, ha definitivamente mutato la concezione apologetico-missionaria, grazie agli ampi recenti lavori di Geoffrey Parrinder, Heikki Räisänen, Claus Schedl e Martin Bauschke (e di Olaf H. Schumann per la più tarda letteratura arabo-islamica);

– una storia in più volumi della teologia classica islamica, basata su di un preciso studio delle fonti, redatta da Josef van Ess.

La scienza orientalistica europea, quindi, ha prodotto nel XIX e nel XX secolo studi imponenti e ha creato i presupposti per la comprensione dell’Oriente in generale e dell’islam in particolare: dovremo ricorrervi continuamente. Tuttavia, da molto tempo l’orientalistica ha smesso di rendersi conto – nonostante tutte le sue preoccupazioni di oggettività scientifica – del proprio fattivo asservimento alla politica egemonica economico-culturale delle potenze europee. Sulla storia e l’immagine di sé dell’orientalistica, che inizialmente fu ammirata anche nel mondo arabo, è iniziata in Occidente, dagli anni Sessanta del XX secolo. una riflessione autocritica per cui bisognerebbe nominare, accanto a Norman Daniel, anche Jacques Waardenburg. 29

A produrre uno shock salutare e porre le basi per la discussione sulla comprensione della cultura postcoloniale e per «gli studi postcoloniali» fu soprattutto il libro Orientalismo30 pubblicato nel 1978 da Edward W. Said, un palestinese cristiano di nazionalità americana, professore di inglese e letteratura comparata alla Columbia University di New York. Questo critico della letteratura, della cultura, della società, e dal 1967 combattente per la causa palestinese, andò indubbiamente troppo oltre quando volle trovare nell’orientalistica europea un antiarabismo paragonabile al precedente antisemitismo e volle presentare l’«Oriente» (voluttuoso, corrotto, vizioso, inerte e tirannico) dell’orientalistica come una proiezione desiderata dallo spirito eurocentrico, ovvero l’Oriente come il paradigma centrale dell’altro.31 Tuttavia è incontestabile che anche l’orientalistica europea fu in parte influenzata dagli interessi nazionali e religiosi delle potenze coloniali. I militari, i politici, i missionari e gli studiosi dell’Oriente europei hanno spesso collaborato e la sopravvalutazione della civiltà europea comparve insieme alla sottovalutazione di quella araba. Si tratta quindi, sotto molti aspetti, di un imperialismo culturale e «spirituale».32 Dopo la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto, il conflitto arabo-israeliano ha fatto sì tra l’altro che la maggioranza degli orientalisti tedeschi, memore della colpa storica tedesca, si schierasse univocamente con la fazione israeliana.33 Lo stesso Said, del resto, ha preso posizione anche in modo veemente contro lo stile di comando autoritario di Yasser Arafat e ha fondato, con il direttore d’orchestra ebreo Daniel Barenboim, l’eccellente «West-Eastern Divan Orchestra», che ha festeggiato successi mondiali come opera di pacificazione tra ebrei e arabi.

Edward Said è morto di leucemia a 67 anni, il 25 settembre del 2003. È stato definito come «l’unico pensatore arabo del XX secolo che abbia influenzato sensibilmente il dibattito intellettuale in Occidente». 34 Le frasi conclusive del suo ultimo articolo a me noto (scritto dopo l’11 settembre 2001) mi sembrano un testamento: «Il tempo odierno è pieno di tensioni, ma meglio ci si chiede se le comunità siano potenti o impotenti e se la politica mondiale si basi sulla ragione o sull’ignoranza, o meglio, se si giudichi sotto le categorie universali di giustizia o ingiustizia, o piuttosto ci si perda in astrazioni violente, che possono forse rendere momentaneamente soddisfatti, ma che contribuiscono ben poco alla conoscenza di se stessi e a un’analisi competente. La tesi dello "scontro delle civiltà" è un luogo comune banale come "la guerra dei mondi" e favorisce più una superbia piena di sé che non una consapevolezza critica della strabiliante interdipendenza delle società odierne».35

La discussione, inizialmente molto controversa, sul libro di Edward Said36 portò certamente, se si prescinde dalle organizzazioni fondamentaliste islamiche e dai loro portavoce, a una visione oggettiva delle cose, soprattutto a sforzi comuni degli scienziati arabi per una valutazione differenziata e critica dell’orientalistica (una «occidentalistica» araba non si è sviluppata). Non meno lodevole è che la guerra del Golfo del 1990 e i giornalisti «creatori di panico» abbiano contribuito a una svolta proprio tra gli orientalisti tedeschi. In effetti, diversamente dagli orientalisti inglesi e francesi, essi non provenivano dall’amministrazione coloniale, bensì dalla scienza linguistica e storica e quindi erano stati risparmiati dalla critica di Said. Anche studiosi stimati, che finora si erano accontentati di un ribrezzo personale nei confronti dei giornalisti autori di bestseller e praticavano all’interno della élite della loro disciplina una scienza piuttosto distaccata dal mondo, percepiscono ora la propria responsabilità politica. Osano andare davanti al pubblico dei media per correggere, con informazioni oggettive, quella caricatura dell’islam e degli arabi, indifferenziata e antistorica, prodotta dagli opinionisti e particolarmente pericolosa in un’epoca di crescente xenofobia.37

Naturalmente, anche quando in veste di teologo cristiano si combatte decisamente la caricatura dell’islam, questo non significa affatto che si debba indulgere a un’immagine ideale dell’islam.

2. L’IMMAGINE IDEALE DELL’ISLAM

È un dato incontestabile: per centinaia di milioni di persone su questa terra islam emana un certo fascino. E chi, come me, ha partecipato in maniera del tutto consapevole ai tempi dell’acritica apologetica cattolico-romana, precedenti il concilio Vaticano II, può perlomeno comprendere perché alcuni devoti musulmani tentino di descrivere la propria religione nei colori più brillanti. Senza alcuna critica, da molti viene rappresentato un «mondo sano» dell’islam, che a malapena si differenzia dalle rappresentazioni cristiane che abbelliscono il cristianesimo.

 

Un invito alla conversione

Fu così che Muḥammad Aḥmad Rassoul, un missionario musulmano in Germania, mi inviò il suo scritto Che cos’è l’islam? con l’amichevole invito a diventare musulmano. Finalmente avrei avuto la possibilità di entrare nella storia della vera fede e di fare la mia fortuna in questo e nell’altro mondo. Nel suo libretto, questo musulmano riassume «l’essenziale» sulla sua religione «in forma breve e chiara»: innanzitutto, i «pilastri della fede» (in un Dio, i suoi angeli, i suoi libri sacri, i suoi messaggeri così come nel giudizio universale e nella predestinazione), poi «i cinque pilastri dell’islam» (la professione di fede, la preghiera rituale, l’obbligo dell’elemosina, il mese di digiuno e il pellegrinaggio). Proprio all’inizio si trova il concetto fondamentale: «islam: questa parola araba significa "totale sottomissione e dedizione" ad Allāh, l’Unico Dio. Con questa espressione, lo stesso Allāh indica nel Qur’an, il libro sacro dell’islam, la religione dei musulmani; la parola "musulmano" – derivata dalla stessa radice etimologica slm come "islam" – indica coloro che "si sono dati completamente ad Allāh" ».38

In questo modo ci viene presentato il modello ideale di una religione. L’islam, nella vita e nella morale, non è complicato, è ragionevole e tollerante. Non è altro che l’eterna dottrina religiosa del puro monoteismo. Lo stesso ci viene dato a intendere anche in un Piccolo catechismo islamico ufficiale turco. Vi si legge:

Il nome della nostra religione è Islam.
Questa definizione non fu ideata dagli uomini,
bensì venne data da Dio nel santo Qur’an.
Perciò l’islam non è la religione di un solo popolo, di una nazione,
bensì esso è la religione di tutti gli uomini,
è la religione finale,
è la religione della ragione e della scienza,
è la religione della morale,
è la religione della pace e dell’ordine,
è la vita di coloro che credono in esso.

L’islam purificò le leggi, che erano già disponibili nelle religioni, ma che poi erano state falsificate per mano degli uomini. Esso salvò l’umanità dal suo basso livello spirituale e la condusse verso un’elevazione morale, che lo spirito degli uomini non sarebbe stato capace di concepire. 39

Chi, come cristiano, voglia porsi in un dialogo fruttuoso coi musulmani, accetterà tali professioni islamiche con benevolenza, nonostante non possa sfuggirgli che l’islam qui risalta a spese dell’ebraismo e del cristianesimo, che avrebbero – secondo quel che si dice – «falsificato le leggi per mano degli uomini». Del resto, senza empatia, immedesimazione, se non addirittura simpatia e comunanza di sentimenti, non si dovrebbe condurre alcun dialogo interreligioso, né tantomeno scrivere un libro su di un’altra religione. Un’incorruttibile onestà scientifica, che da tutti i punti di vista dica coraggiosamente la verità, e un impegno appassionato, che lavori instancabilmente contro l’odio e l’incomprensione per la pace e l’accordo, non si escludono a vicenda. E naturalmente lo stesso progetto dovrebbe essere portato avanti anche da parte musulmana.

 

Il fascino dell’islam

In effetti, il fascino dell’islam può cogliere anche gli ebrei e i cristiani. Come testimone insospettabile sia nominato uno dei fondatori dell’islamistica moderna: Ignaz Goldziher. Tra il 1873 e il 1874, questo intellettuale ebreo di origine ungherese soggiornò a Damasco e al Cairo. Il suo diario mostra in maniera impressionante, in poche pagine, come si diventa un vero «esperto del Vicino Oriente».40 La gentilezza e cortesia spontanee della gente, che ancora oggi ognuno può sperimentare nei paesi del Vicino Oriente, fecero familiarizzare rapidamente il ventitreenne, estraneo al luogo e alla religione, con la «potente religione mondiale dell’islam»: «Io mi immedesimai così tanto nello spirito maomettano, anche durante queste settimane, che mi convinsi infine interiormente di essere io stesso maomettano e trovai ragionevole che questa fosse l’unica religione capace – nella sua stessa impostazione e formulazione dottrinaria ufficiale – di accontentare le menti filosofeggianti. Il mio ideale era di innalzare l’ebraismo a un simile livello razionale. L’islam, così mi insegnò la mia esperienza, è l’unica religione nella quale l’idolatria e i rudimenti pagani vengono proibiti non attraverso il razionalismo, bensì attraverso la dottrina ortodossa». E ancora: «II mio modo di pensare era completamente dedicato all’islam, la mia simpatia mi spingeva anche soggettivamente in tal senso. Io chiamavo il mio monoteismo islam e non mentivo quando dicevo di credere alle profezie di Muḥammad. Il mio esemplare del Corano può dimostrare quanto io fossi rivolto interiormente all’islam. I miei maestri attendevano seriamente il momento della mia dichiarazione ufficiale».41

Ciò nonostante, Goldziher rimase ebreo e fu un grande esperto anche di giudaistica. In questo egli si differenzia da un filosofo dei nostri giorni, il francese Roger Garaudy. Questi era stato per molto tempo membro del Politbüro del partito comunista francese, prima di diventare comunista riformista e per un certo tempo cristiano. Alla fine, dopo un lungo viaggio spirituale, si convertì all’islam. Ora denuncia duramente la boria e la cecità dell’Occidente cristiano, chiede con energia un «dialogo delle civiltà» e presenta ai suoi lettori, di fronte all’impeto dell’integralismo islamico, un islam ideale, capace di portare alle civiltà in tensione l’anima di una nuova vita comune. In un mondo che si sta disgregando, «l’intento principale» del suo libro è perciò quello di mettere in evidenza le «promesse dell’islam»: «L’islam non ha solo integrato le culture più antiche e sviluppate, quella della Cina e dell’India, della Persia e della Grecia, quella di Alessandria e quella di Bisanzio, facendole fruttare e diffondendole dal Mare Cinese fino all’Atlantico, da Samarcanda fino a Timbuctu. Esso ha anche portato, agli imperi mondiali in disfacimento e alle civiltà in tensione, l’anima di una nuova vita in comune, ha ridato agli uomini e alle società le loro specifiche dimensioni umane e divine della trascendenza e della comunione, e – sulla base di questa fede semplice e forte – il terreno propizio per una nuova fioritura delle scienze e delle arti, della saggezza profetica e delle leggi».42 Che un simile entusiasmo per l’islam possa avere anche dei lati oscuri, lo dimostrano alcune affermazioni fatte da Garaudy negli anni Novanta, che furono sentite come antisemite e che in parte effettivamente lo erano.

Garaudy costituisce un caso isolato? Anche in Germania il cammino di un convertito venne conosciuto pubblicamente e fu oggetto di controversia: Murad Wilfried Hofmann ha attirato l’attenzione anche perché quest’uomo, formato in ambito giuridico e filosofico, era ambasciatore tedesco in Marocco e in Algeria. Per lui, nel suo scritto di conversione, proprio l’islam classico sunnita (diversamente da Garaudy, egli tiene in poco conto il sufismo) incarna una religione ideale, viva, che merita di essere vissuta. Più ancora, Hofmann considera l’islam come una promettente alternativa: «Finché ancora si opponevano il mondo occidentale e il comunismo, l’islam si poteva intendere come "terza strada", ovvero come un’opzione tra queste due concezioni del mondo. Oggi, tuttavia, esso si vede come un progetto alternativo per il compimento della vita in un mondo divenuto nuovamente dualista. È pressoché evidente agli osservatori lungimiranti che l’islam diventerà nel XXI secolo la religione dominante in tutto il mondo. Il motivo per cui sarà così, se Dio vorrà, lo spiega il titolo del libro. L’islam non si considera solo come alternativa alla società occidentale postindustriale. Esso è l’alternativa».43

 

È lecito criticare?

Naturalmente questo fascino dell’islam andrà esaminato con attenzione. Si tratta veramente dell’«alternativa», della «promessa»? Infatti, così come non dobbiamo spaventarci di fronte all’immagine del nemico, allo stesso modo non possiamo neanche farci abbagliare da un modello ideale. Questo lo sanno anche altri convertiti all’islam: la critica non scientifica è considerata un compito della scienza islamica tradizionale, e di questa differenza con la moderna islamistica occidentale si deve tener conto fin dall’inizio. La sua prospettiva è innanzitutto la descrizione, la spiegazione e la giustificazione di un islam ideale. Chissà se si può allora esercitare seriamente una critica all’islam, una critica dall’interno, una critica addirittura dall’esterno?

Molti musulmani ortodossi rinuncerebbero per principio a ogni critica alla loro religione – come anche molti credenti di stretta osservanza, cristiani o ebrei, reagiscono ancora oggi sfavorevolmente e non oggettivamente alle critiche mosse alla loro religione. Per quanto riguarda i miei volumi sull’ebraismo e sul cristianesimo io sono venuto a sapere, per esempio, che la mia critica alla politica dello stato di Israele e quella alla politica di Pio XII hanno indotto rispettivamente un esperto recensore ebreo e un altrettanto esperto recensore cattolico-romano a «esercitarsi nel tiro a segno» su singoli frammenti dei relativi libri e a condannare tutte le parti restanti ignorandole volutamente. Al contrario, alcuni intellettuali musulmani hanno applicato già precocemente la critica della scienza occidentale anche alla propria religione, alla propria storia e alla propria cultura, cosicché oggi la linea del fronte fra i critici e gli acritici passa in diagonale attraverso l’islam e, sebbene sia spesso nascosta, provoca innumerevoli conflitti interni. Non vi è allora anche nell’islam, come nel cristianesimo e nell’ebraismo, accanto a tutto il progresso, molto regresso? Non vi sono anche lì sviluppi errati, irrigidimenti e smarrimenti? Così come le rappresentazioni idealizzate della chiesa si allontanano molto dalla realtà del cristianesimo veramente esistente, allo stesso modo si comportano probabilmente anche le corrispettive rappresentazioni dell’islam. Certo a lungo andare le idealizzazioni, le mistificazioni e le glorificazioni vanno a spese della religione stessa, si tratti del cristianesimo o dell’islam. Ma non è forse vero che entrambe le religioni hanno una pretesa di verità? Perché allora non anche nei confronti di se stesse?

 

Né divieti di fare domande, né paragoni zoppicanti

Nessuno, nessuna autorità religiosa o statale, ha il diritto di impedire la ricerca della verità vietando di fare domande. Proprio per amore della verità della propria religione è richiesta una veridicità senza riserve, che deve accompagnarsi alla giustizia e alla lealtà. A lungo andare, anche nei sistemi autoritari o totalitari, la libera discussione non si lascia sottomettere. Lo stesso papa non ha potuto bloccare il dibattito sull’ordinazione delle donne con un’affermazione «infallibile» e l’ayatollah Khomeini non ha potuto concludere la controversia su Salman Rushdie con una fatwa. Deve quindi essere permesso anche verificare se e in che misura l’islam favorisca, nella figura di alcuni rappresentanti, l’intolleranza (in particolare nei confronti delle minoranze religiose), se ispiri la militanza e personifichi l’arretratezza (per esempio riguardo alla democrazia, ai diritti dell’uomo e alla condizione della donna).

Inoltre, si dovranno considerare anche i grandi confronti nella storia mondiale tra l’islam e il cristianesimo: la conquista araba di territori originariamente cristiani nel Vicino Oriente e in Nordafrica, la secolare occupazione della Spagna a ovest e dei Balcani a est. E certamente non possono essere ignorate neanche le espansioni dell’islam nell’Africa Nera e nel Sud-Est asiatico e le preoccupazioni per un unico «fronte» islamico contro l’Occidente. Ma con altrettanta precisione occorre esaminare le controffensive europee nei riguardi dell’islam: non solo le crociate e la Reconquista spagnola, bensì anche e soprattutto l’espansione militare, economica, culturale e religiosa dell’Occidente all’epoca del moderno colonialismo e imperialismo, fino alla fatale guerra in Iraq del 2003, questa guerra delle grandi menzogne.

In questo libro, spero di occuparmi di tutte queste domande nello spirito dell’obiettività e della giustizia. I conoscitori dell’islam (studiosi musulmani) e gli esperti di islam (specialisti occidentali dell’islam) dovrebbero essere convinti di poter imparare gli uni dagli altri. È proprio necessario, come accade spesso da parte cristiana, in maniera più o meno intenzionale, confrontare sin dall’inizio la supposta intolleranza islamica con la «tolleranza» e la «mancanza di pregiudizi» occidentale? O la militanza islamica con il supposto «amore per la pace» e la «democrazia» occidentale, oppure l’arretratezza islamica con il «progresso» e la «modernità» occidentali? O addirittura l’islam come «religione della legge» con il cristianesimo come «religione della libertà»?

Di certo questi paragoni zoppicanti suscitano fin da subito forti dubbi.

– Qui non viene per caso paragonata un’immagine del nemico islam con un’immagine ideale dell’Occidente?

– Non vi sono forse anche in Occidente molta intolleranza, militanza e arretratezza e, viceversa, anche nell’islam molta tolleranza, amore della pace e progresso?

- Non è forse possibile che, con uno schema amico-nemico, si diffami ed escluda chi ci è estraneo?

- L’immagine dell’islam reale viene cercata con serietà?

Il cristianesimo oggi è del tutto, apertamente, pluralistico; anche l’islam è pluralistico, più di quanto sembri. Uno dei migliori conoscitori cristiani dell’islam, Wilfred Cantwell Smith, ha sempre dato molta importanza al fatto che l’islam dovrebbe essere compreso dai cristiani nello stesso modo in cui lo comprendono i musulmani.44 Giusto! Ma si pone subito la domanda: quali musulmani? Esistono d’altra parte «i musulmani», «l’islam»?

3. L’IMMAGINE REALE DELL’ISLAM

Esiste una via di mezzo tra la distorsione dell’islam e la sua esaltazione. Questi due atteggiamenti hanno mancanze di fondo comuni: entrambi si attaccano a un’immagine dell’islam monolitica e astorica, con il preconcetto che «l’islam è uguale dappertutto e in ogni tempo!». Per quanto possano essere diversi tra loro i wahhabiti sauditi o i mulla iraniano-sciiti, i Fratelli Musulmani egiziani e i combattenti palestinesi di Hamas, i sufi pakistani o i Black Muslims americani, vi sarebbe un’eterna, immutabile essenza dell’islam, radicalmente diversa da tutto quanto è occidentale. Di fronte a una tale semplificazione può essere d’aiuto solo una considerazione costante e ragionata di due punti di vista. Come quella del cristianesimo, l’immagine dell’islam è normalmente determinata da una doppia dialettica: quella tra essenza e figura e quella tra essenza e inessenza. Guardiamo più attentamente.

 

L’«essenza» dell’islam in figure mutevoli

Se alcune vecchie pubblicazioni sull’islam possono aver rispecchiato una mancanza di conflitti oggi dimenticata, allo stesso modo alcune pubblicazioni attuali soffrono di un fiato corto dominato dal contemporaneo. Certamente solo un’interpretazione attuale, con una profonda dimensione storica, aiuta a portare avanti il dialogo tra le religioni e le culture. Anche il concetto di islam viene sempre codeterminato dalla sua concrezione storica del momento. Si potrebbe quasi formulare, esagerando al contrario: «L’islam non è mai e da nessuna parte uguale!». Ogni epoca ha le proprie immagini e le realizzazioni dell’islam, nate da una precisa situazione storica, vissute e plasmate da determinate forze sociali regionali e da determinate comunità musulmane, premodellate o riprodotte concettualmente da determinate personalità stimolanti dal punto di vista spirituale.

Tuttavia lo sguardo deve essere sincronico. Nonostante tutte le mutevoli correnti e controcorrenti contemporanee resiste effettivamente, nelle diverse immagini storiche dell’islam che si trasformano e nelle sue realizzazioni esistenti, qualcosa di permanente, cui dovremo prestare qui di seguito tutta la nostra attenzione: componenti e prospettive fondamentali che sono poste a partire da una stessa origine, la quale non è casuale, ma è stabilita con una personalità storica ben determinata, con un testo sacro. Questo resta la norma valida. Come nella storia del cristianesimo, così anche in quella dell’islam c’è un qualcosa che persiste, un’«essenza», una «sostanza» comune, o come la si vuole chiamare. Gli equivoci legati a questi concetti tradizionali mi sono ben noti. Comunque, contro ogni rigido «essenzialismo», aggiungo subito: questa essenza che rimane si mostra solo in ciò che diviene.

Come per il cristianesimo, anche per l’islam c’è qualcosa di identico, ma solo nel variabile, una continuità, ma solo nell’avvenimento, una persistenza, ma solo nell’apparizione mutevole. In breve: l’«essenza» dell’islam non si mostra nell’immobilità e nella determinazione metafisica, bensì solo in una forma storica sempre mutevole o in una «forma». E proprio per avere sotto gli occhi quest’«essenza» dell’islam originaria e rimanente – non statica né rigida, ma che si compie dinamicamente – si deve fare attenzione alle sue forme storiche in mutazione, alla sua «forma».45

Questo metodo di analisi storica potrebbe, all’inizio, sembrare insolito ad alcuni musulmani (come anche ad alcuni cristiani). Ma solo se vediamo l’«essenza» dell’islam nelle sue forme storicamente variabili possiamo comprendere quell’islam dal quale vogliamo prendere le mosse in questa rappresentazione: non un islam ideale nelle sfere elevate di una teoria filosofica, teologica o giuridica, bensì quello realmente esistente, il vero islam inserito in questo mondo e in questa storia del mondo. In poche parole: la vera essenza del vero islam si compie in diverse forme storiche.

È chiaro: da nessuna parte esiste un’«essenza» dell’islam «in sé», svincolata, «chimicamente pura», distillata dal corso della storia; essenza e forma non si lasciano separare con precisione. Ma allo stesso tempo è importante che l’essenza e la figura siano viste nella loro differenziazione. Altrimenti, per esempio, i «riformatori» islamici, che ci sono stati in ogni tempo e ci sono anche oggi, come potrebbero determinare ciò che non cambia nel divenire della forma, come potrebbero altrimenti giudicare la concreta forma storica? Altrimenti i musulmani e i non musulmani come potrebbero avere un criterio, una norma a portata di mano per determinare – nella rispettiva forma storico-empirica dell’islam – che cosa è accettabile e che cosa è da rigettare? L’importanza di questa riflessione risulta evidente se facciamo attenzione anche alla seconda prospettiva.

 

L’«essenza» dell’islam e la sua «inessenza»

Non pochi musulmani (e cristiani) soffrono per il fatto che l’islam (come il cristianesimo) può essere deturpato, falsificato e abusato, nella vita privata di tutti i giorni così come nella grande politica. Ogni volta che l’islam, come il cristianesimo, è stato ed è usato dai dominatori come strumento politico, invece che essere vissuto come fede ed ethos. Ogni volta che, come il cristianesimo, l’islam ha seminato odio e violenza, ha ispirato e legittimato la sottomissione e la guerra, invece di diffondere giustizia e umanità.

Anche le persone religiose non dovrebbero negare che la religione, in quanto fenomeno umano, è ambivalente. Questo significa che in ogni religione vi sono non solo l’essenza e la figura, ciò che rimane e ciò che muta, bensì anche il buono e il cattivo, il benefico e il funesto, l’essenza e l’«inessenza»,46 intrecciati gli uni negli altri e, attraverso gli uomini che sono in se stessi profondamente ambivalenti, mai scindibili in modo chiaro e univoco. L’inessenza può essere indotta persino con ciò che vi è di più essenziale, con la Bibbia o col Corano. Anche la cosa migliore, anche l’idealismo e lo spirito di sacrificio religiosi possono essere abusati e sono soggetti al male. Anche con ciò che vi è di più santo – lo dimostrano i rappresentanti assetati di potere e irragionevoli in entrambe le religioni – sono possibili la colpa e il peccato, personali e «strutturali». In una battuta: anche la vera essenza dell’islam può aver luogo nell’«inessenza». E quest’ultima non è la sua essenza legittima, bensì l’illegittima, non è quella giusta, bensì quella perversa.

Come un’ombra cupa, l’inessenza accompagna innegabilmente l’essenza di ogni religione attraverso tutte le epoche storiche; per questo la storia di ogni religione può essere vista sia sotto un segno positivo, sia sotto un segno negativo. E anche se questo viene deplorato, nell’islam, molto meno pubblicamente che nel cristianesimo, poiché il pericolo è molto maggiore, nell’islam come nel cristianesimo si possono riconoscere nel corso dei tempi non solo una raffigurazione e un compimento della storia, bensì anche un declino e una capitolazione di fronte ad essa. La religione può deteriorarsi in un apparato di potere che lavora con mezzi veramente mondiali e in una burocrazia che ruota attorno a se stessa; può diventare una religiosità appiattita e povera di sostanza. E chi, come storico o come corrispondente di guerra, volesse fissarsi su tutto ciò che vi è di negativo, potrebbe facilmente scrivere una «storia criminale» sia del cristianesimo che dell’islam e lasciarsi sfuggire completamente l’essenza dell’islam, di fronte a tutto il sangue e le lacrime, a tutti gli omicidi e le azioni di vendetta, agli errori e alle mancanze.

Tutto ciò significa che, come la storicità in generale, anche l’irritabilità storica dell’islam di fronte all’anti-islamico sarà già nella protostoria musulmana una condizione fondamentale, lamentata spesso da molti musulmani (tre dei quattro califfi ben guidati furono assassinati...). Pochi dicono pubblicamente ciò che oggi alcuni musulmani criticano in segreto. E dove un sistema politico autoritario non permette di distaccarsi apertamente da una religione, ci si rifugia nell’interiorità. Nuove voci critiche, da Salman Rushdie sino a Taslima Nasrim, per quanto possano apparire a molti musulmani come unilaterali, presuntuose, maligne ed esecrabili, dovrebbero essere tenute in considerazione. Sarebbe sbagliato cercare di rimediarvi solo con una pigra apologetica, con la persecuzione, addirittura con la minaccia di morte, invece che con una sincera apologia, con una difesa e una giustificazione della fede musulmana, che sappia differenziare i rimproveri fondati da quelli infondati ed esiga riforme sostanziali.

 

Lo status quo come unità di misura?

Per il nostro studio questo significa che, seguendo lo spirito anche di molti musulmani – ne sono convinto – non prenderò mai semplicemente lo status quo contemporaneo dell’islam come unità di misura, né tanto meno lo giustificherò; certo, tra gli stessi musulmani molti si aspettano o sollecitano un rinnovamento della loro religione. Come loro – per così dire – avvocato cristiano, eseguirò piuttosto un vaglio critico, che dovrebbe essere un aiuto per quel rinnovamento dell’islam che è sempre e nuovamente necessario. Avevo scelto la stessa impostazione anche per Ebraismo e, più che mai, per Cristianesimo, senza falsi «abbellimenti» della mia religione. E la stessa impostazione – per quanto possa sembrare inconsueta innanzitutto ad alcuni musulmani – cercherò di utilizzare ora per la rappresentazione dell’islam.

Forse una simile aspirazione è troppo ardita? Assolutamente no. Quello che ho detto riguardo al cristianesimo vale anche qui: contro tutte le frustrazioni e la rassegnazione sempre incombenti tra i riformatori in tutte le religioni, che a volte hanno l’impressione di abbaiare alla luna come i cani o di sbattere contro i muri, come teologo ecumenico tenuto alla lealtà di fronte a tutte le religioni vorrei contribuire a ottenere, attraverso un’osservazione analitica, una diagnosi contemporanea che, dove necessario, stigmatizzi gli abusi, dia un nome ai responsabili, incrementi la spinta riformatrice e incoraggi i cambiamenti strutturali. In nessuna religione – né nell’ebraismo, né nel cristianesimo o nell’islam (e neanche nelle religioni di origine indiana o cinese) – possiamo accontentarci dello status quo, in un simile periodo di sconvolgimenti. Dappertutto, in vista di un futuro rinnovamento, si pongono problemi sorprendentemente paralleli. E di fronte a ogni odioso antisemitismo e a ogni crescente fobia nei confronti dell’islam, per questi tempi a venire non c’è bisogno di filosemiti o di islamofili (di «cristianofili» non parla quasi nessuno) acritici, ma piuttosto di autentici amici dell’ebraismo e dell’islam.

Come l’ebraismo e il cristianesimo anche l’islam, in questa fase di transizione della storia mondiale, si trova in un conflitto di fondo tra tradizione e innovazione, e il modo in cui esso verrà definito e infine deciso è ancora incerto. Come nell’ebraismo e nel cristianesimo, così anche nell’islam ci si chiede: riuscirà questa religione, tra tutte le differenze e i conflitti, tra tutte le diverse direzioni e scuole, in tutte le battaglie tra i tradizionalisti e i modernisti, a conservare la propria «sostanza» religiosa, la propria «essenza», e allo stesso tempo a «trasformarla» per una nuova generazione? Riusciranno le popolazioni islamiche, che all’apice della modernità sono finite in una crisi esistenziale immensa, attraverso il confronto con l’imperialismo e il colonialismo occidentali, con la scienza e l’economia europee, con la tecnologia e la democrazia, a raccogliere la sfida della nuova epoca mondiale e a trasformarsi creativamente per una nuova, postmoderna forma dell’islam? In questo mondo globalizzato, tutte le grandi religioni si trovano ormai nella transizione dalla crisi della modernità a una (cosiddetta) «postmodernità» e sono perciò esposte a problemi strutturali simili, come è stato già mostrato nei miei due studi sull’ebraismo e sul cristianesimo.

 

Comprendere l’islam dal suo interno

Quel fruttuoso sviluppo dell’islamistica che oggigiorno viene sempre più sollecitato dagli scienziati sia occidentali sia islamici, ed è riconoscibile anche dagli esterni, rappresentò – insieme con la rivalutazione politica ed economica delle nazioni islamiche e dell’immigrazione islamica in Europa occidentale e in America – il presupposto per l’indubbio cambiamento epocale di orientamento da parte della chiesa cattolica: un cambiamento documentato dalla dichiarazione sulle religioni del concilio Vaticano II (1965)47 e che si è successivamente manifestato in diversi incontri, ufficiali o informali, tra islamici e cristiani. In seguito, anche il Consiglio mondiale delle chiese si è adoperato per un’apertura nei confronti delle altre religioni e nel 1979, per la prima volta, ha pubblicato delle Linee guida per il dialogo tra persone di diverse religioni e ideologie.48

È evidente che nella cristianità non vi è alcun ritorno all’apologetica e alla polemica antiche, all’immunizzazione attraverso la diffamazione. Allo stesso modo, l’isolamento secolare e la reciproca ignoranza sono impossibili per un numero sempre maggiore di persone: i libri, i mass media, i viaggi e le centinaia di migliaia di persone di diversa religione nei vari paesi hanno il loro effetto. E lentamente – nonostante tutte le guerre, gli attentati e gli insuccessi politici – il disprezzo delle altre religioni fa posto alla comprensione, l’ignoranza all’informazione, l’evangelizzazione al dialogo. E se l’Occidente cambia il proprio atteggiamento nei confronti del mondo islamico, allo stesso modo anche quest’ultimo, prima o poi, cambierà di nuovo la propria predisposizione nei confronti dell’Occidente.

Ma il teologo cristiano non interrogherà l’islam sui suoi problemi, dalla sua posizione inattaccabile, solo «dall’esterno», con un’obiettività distanziata. Piuttosto egli rifletterà, in quanto persona coinvolta, sulle domande rivolte alla sua propria religione e le formulerà anche apertamente. I cristiani (e spesso anche gli stessi musulmani) considerano ancora troppo «l’islam» come una grandezza immobile, come un sistema religioso chiuso, invece che come una religione viva, come un movimento religioso che – lo vedremo – nel corso dei secoli ha attraversato diversi cambiamenti epocali di paradigma, in una costante mutazione, che si è sviluppata in una grande multiformità e che ha modellato gli uomini più diversi in un ampio spettro di atteggiamenti e sensibilità.

Oggi si tratta di comprendere lentamente dall’interno, nel miglior modo possibile, perché i musulmani vedano con altri occhi Dio e il mondo, la liturgia e il servizio agli uomini, la politica, il diritto e la cultura, perché li vivano con un altro cuore rispetto ai cristiani. E come prima cosa bisognerebbe rendere chiaro a se stessi che l’islam, in quanto religione, ancora oggi non è semplicemente, per la maggior parte dei musulmani, un aspetto parziale della vita, non è semplicemente quello che le persone secolarizzate usano chiamare il «fattore religioso» accanto agli altri «fattori culturali». No: vita e religione, religione e cultura, come anche religione e politica, sono per i musulmani credenti intrecciate in modo vivo le une nelle altre. L’islam vuole essere una visione della vita che comprenda tutto, un atteggiamento della vita che penetri in tutto, un cammino di vita che determini tutto. In che misura questo sia realizzabile, in una nuova costellazione della storia mondiale, dovrà essere provato.

In epoca di risveglio della coscienza ecumenica, vorrei – ancor di più in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 (New York e Washington) e dell’11 marzo 2004 (Madrid) – invitare a una responsabilità ecumenica totale di tutti verso tutti, ma in particolare dei governanti e dei politici, proprio in considerazione di una situazione mondiale inasprita da una politica totalmente sbagliata. In base a una simile responsabilità interreligiosa ci si dovrà interessare anche al benessere dell’islam. Il rispetto per l’islam e l’ammirazione per i suoi grandi contributi sia culturali che spirituali, attraverso ormai più di quattordici secoli, dovrebbero essere la base per formulare precise richieste di riforma, partendo dall’essenza dell’islam – nella solidarietà interreligiosa con innumerevoli musulmane e musulmani, che sentono l’urgenza della riforma diversamente, dal punto di vista esistenziale, rispetto a un teologo cristiano.

Allora – questa domanda si pone a ogni autore – da dove bisogna cominciare una rappresentazione dell’islam? La mia risposta: da dove, se non dall’inizio? Ma come deve essere datato l’inizio dell’islam? Non è una domanda a cui sia facile rispondere.

AII. Problemi dell’inizio

Chi fu il primo musulmano? La maggior parte dei cristiani risponderebbe certamente: Muḥammad, il Profeta. E per questo ancora oggi molti chiamano scorrettamente questa religione «maomettismo» e i suoi adepti «maomettani», con grande rabbia dei musulmani, poiché in ogni semplice introduzione all’islam si può leggere ciò che è scritto nel Corano: il primo musulmano è Adamo, il primo uomo. Fu lui infatti il primo a «sottomettersi» al solo e unico Dio, così come poi si «sottomisero» anche Noè e Abramo, Mosè e tutti i profeti e, alla fine anche Gesù. Tutti loro, ciascuno a modo proprio, compirono già l’«islam»: «sottomissione», «abbandono» alla volontà del solo e unico Dio. E sebbene gli sviluppi di questa dottrina fossero sempre adeguati ai diversi popoli e tempi, e quindi fossero diversi sotto alcuni aspetti, tuttavia si trattò sempre di un unico identico messaggio: sottomissione a Dio, abbandono a Dio.

Il profeta Muḥammad non ha annunciato niente di diverso. Come ultimo dei profeti, egli ha soltanto innalzato al suo massimo, definitivo livello questa dottrina eterna. L’islam è quindi la sola vera, completa ed eterna religione degli uomini: la religione del principio. Non è solo il Corano, ma anche la Bibbia a insegnare che il primo uomo credette all’unico Dio. Fin qui la comprensione di sé dei musulmani, fin qui la teologia storica dell’islam. Che cosa, di tutto questo, è documentabile storicamente?

1. 5000 ANNI DI RELIGIONI SUPERIORI DEL VICINO ORIENTE

Prima di dedicarci alla personalità del profeta Muḥammad, è necessario considerare alcune strutture determinanti e fissare un quadro di riferimento, per avere ben presente tutta la sua originalità. Infatti, a dire il vero, dobbiamo risalire molto indietro: quanto lontano? All’inizio della storia dell’umanità? Nei suoi primi arditi sviluppi, l’etnologia avrebbe voluto risalire subito al primissimo inizio della religione; nel frattempo, ha rinunciato a cercare una religione originaria – che fosse di natura animistica o monoteistica. Perché? Semplicemente perché mancano le fonti necessarie per una spiegazione storica dell’origine della religione, visto che i popoli primitivi contemporanei, diversamente da quanto si credette in un primo momento, non sono affatto rimasti «popoli originari» puri. Anche essi hanno già dietro di sé una lunga storia, sebbene non scritta.1

E la Bibbia? La teologia cristiana dovrebbe ammettere apertamente che anche la Bibbia non sa nulla, storicamente, sull’inizio della religione. Le affermazioni del libro della Genesi su uno stato originario paradisiaco degli uomini e sul successivo peccato originale, dato il loro genere letterario, non pretendono di essere delle «memorie dei tempi originari», dei racconti storici. Esse contengono un messaggio religioso espresso in forma poetica: sulla grandezza dell’unico Dio e Creatore, sulla fondamentale bontà della sua creazione, sulla libertà, sulla responsabilità e la colpa dell’uomo. La teologia cristiana determinante oggigiorno ha quindi perso il suo iniziale interesse per un «monoteismo originario»: non ha alcuna difficoltà ad accettare un’evoluzione del mondo e dell’uomo da organismi inferiori, e rinuncia a perseguire una sintesi tra la testimonianza biblica e il parere dell’etnologia. È sufficiente sapere che, nelle migliaia di anni di storia dell’umanità, finora non è stato trovato alcun popolo, alcuna tribù, che non abbia almeno un qualsivoglia tratto religioso (nel più ampio senso del termine, che comprende anche la magia).

 

L’Arabia alla periferia dei grandi imperi

Sulle prime civiltà superiori si è relativamente bene informati, poiché si tratta delle prime culture della scrittura. E se anche la discussione su dove siano comparsi i primi uomini (l’«homo sapiens»), se in Africa o in diversi altri punti della nostra Terra, è ancora in pieno svolgimento, d’altra parte si è già esaurito da tempo il dibattito sulle prime civiltà e religioni superiori protostoriche, che si sono formate circa 5000 anni fa. La prima civiltà superiore – di gran lunga precedente alla civiltà indù nella valle dell’Indo e alla civiltà shang nella valle del Fiume Giallo, ma anche molto precedente a quella egiziana nella valle del Nilo – si sviluppò nella Mesopotamia del sud, nelle pianure alluvionali del Tigri e dell’Eufrate. Le conseguenze della sua influenza si estesero fino all’Arabia.

Cosa sarebbe l’Arabia senza le invenzioni delle città-tempio nel regno sumerico? Senza la scoperta della ruota, del tornio, del carro, del più antico sistema di calcolo, utilizzato lì per l’economia del tempio e l’individuazione di un ordine divino nel sistema cosmico? Cosa sarebbe l’Arabia, senza l’invenzione della scrittura? Cosa sarebbe senza quella scrittura ideografica (che fu inventata quasi contemporaneamente anche in Egitto), incisa nel regno sumerico dapprima su tavolette di argilla, dalla quale poi derivò una scrittura cuneiforme e infine una scrittura sillabica?2 Senza la scrittura non ci sarebbero state né la compilazione di registri amministrativi, né la trasmissione di messaggi su lunghe distanze – che sono il presupposto per l’organizzazione di grandi popolazioni e per il mantenimento delle conoscenze per le generazioni successive.

Dai tempi più antichi, sino all’epoca islamica inoltrata – secondo la ricerca storica – la società del Vicino Oriente è stata determinata sia da una microstruttura, sia da una macrostruttura a essa contrapposta:

– una fondamentale microstruttura duratura, modellata da piccoli gruppi, che erano tenuti insieme dalla parentela e dalla vicinanza; erano le famiglie, i clan, le tribù a essere competenti per i matrimoni e per l’educazione dei bambini, ad appianare le liti e a costituire un fronte comune di difesa nei confronti del mondo esterno;

– una macrostruttura, che si stendeva sulla prima in senso opposto, costituita da una parte dalla religione e dall’altra dai regni che costantemente crescevano e si alternavano; essa era capace di integrare i piccoli gruppi dei clan, dei villaggi, delle tribù in un’unica società e di arrivare così a grandi opere culturali: dall’invenzione della scrittura, attraverso la creazione di opere importanti del mito, della religione e della poesia, sino ai capolavori dell’architettura e della scultura.

La vasta penisola arabica, tra il Golfo Persico e il Mar Rosso, si trovava quindi alla periferia di questo primo grande spazio culturale, che si era sviluppato in un ampio semicerchio, quello della «mezzaluna fertile».3 Il nome dei suoi abitanti, «Aribi», si trova per la prima volta nel IX secolo a.C., in un rapporto in scrittura cuneiforme del re assiro Salmanassar III riguardo alla battaglia di Qarqar (853 a.C.), per cui resta controverso che cosa si nasconda esattamente (dal punto di vista etnico e geografico) dietro a questo nome.4 Già nel primo millennio a.C., i semiti si erano spinti dal nord sino al sud della penisola. Nel triangolo sudoccidentale ricco di piogge, ben protetto dal Mar Rosso, dal Mar d’Arabia e dal grande deserto interno all’Arabia, essi avevano fondato nei territori delle oasi diverse città-stato con grandi templi, monumenti e impianti di irrigazione: una civilizzazione semitica del sud, come postazione esterna («Fenici del sud») alla civilizzazione semitica del nord della mezzaluna fertile – con la più lunga via commerciale del mondo di allora. Erano questi gli abitanti del Ma’in, di Saba, del Qataban e dell’Hadramaut, che perlopiù venivano chiamati Sabei, più tardi Himyariti («Omeriti»), e oggi invece Yemeniti. Questa Arabia del Sud mantenne per secoli il predominio, grazie al clima favorevole (vicinanza dei monsoni), grazie al lucroso monopolio dell’incenso e soprattutto grazie all’ottima posizione geografica per l’antico commercio tra l’Oriente (India) e l’Occidente (Egitto, paesi del Mediterraneo, Mesopotamia). Non per niente l’Arabia del Sud, con i suoi porti di Aden e Qana, veniva chiamata «Arabia felix».

Da questa ricca «Arabia fortunata», produttrice e importatrice di beni di lusso, ma senza grandi imprese intellettuali, artistiche e spirituali, l’Arabia del Nord era profondamente diversa: povera di acqua, inospitale, sabbiosa, sassosa, rocciosa, senza laghi e fiumi, solo wadi. Una terra che esige dalle piante, dagli animali e dagli uomini, dalle palme da dattero e dai cammelli («le navi del deserto») il massimo della resistenza, della perseveranza e dello «spirito combattivo»! Eppure, proprio questo Nord dei deserti di sabbia, delle steppe e dei monti basaltici, ma anche delle oasi – che consentirono ai beduini il sedentarismo, l’agricoltura e il commercio – si sarebbe fortemente trasformato a causa del crescente traffico carovaniero lungo la «via dell’incenso», che doveva essere organizzato, difeso e incentivato. Questo Nord – più precisamente il centro dell’Arabia occidentale – è la vera patria degli arabi e, con le sue superbe città La Mecca, Ṭā’if, Yaṯrib (più tardi, dopo Muḥammad, rinominata al-Madina, Medina, «la città» del Profeta) e Nağrān, il paese natale dell’islam. A esso doveva appartenere il futuro.

Già nel VII secolo a.C. i grandi regni mesopotamici (babilonese, assiro e caldeo), che erano succeduti alle prime città-stato sumere, erano tramontati. Al loro posto era subentrato il primo grande impero del Vicino Oriente, quello degli Achemenidi persiani, che fu a sua volta distrutto nel IV secolo a.C. da quell’Alessandro Magno che conquistò anche l’Egitto e portò in dote la cultura e la religione indipendenti dell’Egitto al suo impero ellenistico. Per l’Arabia ebbe un’importanza cruciale, a lungo termine, il fatto che questo primo grande impero occidentale-orientale alla fine venisse di nuovo suddiviso: in Oriente, inizialmente il regno persiano dei Parti e, dal III secolo d.C., dei Sasanidi (con capitale Ctesifonte sul Tigri), in Occidente invece l’impero romano, che dal IV secolo d.C. venne governato da Bisanzio. L’Arabia, per così dire in mezzo ai due, fu ancora per molto tempo una marionetta delle grandi potenze, tra le quali, oltre alla Persia e a Bisanzio, giocava un ruolo anche l’Etiopia cristianizzata (capitale Aksum).

Tuttavia, le tribù arabe riuscirono già a spingersi lontano dalla loro penisola, fino alla Siria e al Mediterraneo. Questo accadde, nei secoli precedenti l’islam, non per conquista, bensì con un processo di lenta migrazione e infiltrazione di singole persone o gruppi di tribù arabofoni, in parte nomadi, in parte seminomadi, in parte già sedentari. Gli arabi non erano più lontani, bensì si trovavano proprio di fronte alle grandi civiltà, sul loro terreno.

L’ARABIA ALLA PERIFERIA DEI GRANDI IMPERI

L’ARABIA ALLA PERIFERIA DEI GRANDI IMPERI

L’occasione storica per l’Arabia doveva tuttavia ancora venire – e questo sarà di decisiva importanza per la diffusione dell’islam – e si presentò quando nel VII secolo d.C. si trovarono in decadenza sia l’impero bizantino, sia quello dei Sasanidi. Si creò un vuoto di potere, che le forze arabe in espansione erano in grado di colmare. Questa espansione non sarebbe stata pensabile, tuttavia, se una nuova fede non le avesse messo le ali. Ma questa fede era veramente nuova?

 

Irruzione del monoteismo profetico: Israele e l’Iran

Non erano solo i regni a subire dei sovvertimenti nel Vicino Oriente, ma anche le religioni. A più riprese, nel corso del tempo, agli dèi delle famiglie, dei villaggi, delle tribù e delle città subentravano degli dèi universali, gli dèi degli imperi, che perlopiù costituivano pantheon e gerarchie. Da qui, non si trattava di compiere un piccolo passo, come spesso si crede, ma anche per Israele si trattava di intraprendere un lungo sviluppo fino alla fede in un unico Dio, un Dio dell’intero universo e di tutta l’umanità. Anche in Israele, fino all’esilio babilonese (VI secolo a.C.), il politeismo era infatti ampiamente diffuso.

In Israele si arrivò alla fede in un unico Dio solo in seguito a un’intera serie di rivolgimenti:5

– nell’VIII secolo a.C. cominciò un movimento, inizialmente minoritario, dell’unico Jahvè: la venerazione di un Dio (monolatria), senza che venisse negata l’esistenza di altri dèi al di fuori di Israele. Di qui l’aspra polemica del profeta Osea contro la venerazione di altri dèi in Israele e contro la prostituzione nell’ambito del tempio, che era espressione di questa civiltà estranea;

– nel VII secolo a.C. si affermò la venerazione esclusiva di Jahvè: in Israele, durante il culto divino si doveva venerare esclusivamente Jahvè; sotto il re Giosia si arrivò alla riforma del culto e alla sua centralizzazione a Gerusalemme;

– solo nel VI secolo a.C. la venerazione dell’unico Jahvè (monolatria) poté evolversi in una rigorosa fede in un solo Dio (monoteismo), che negava l’esistenza di tutti gli altri dèi. Così annuncia il secondo Isaia (Deuteroisaia): «Non c’è altro Dio al di fuori di me! Non esiste accanto a me un Dio giusto e salvatore».6 La conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi, la distruzione del tempio di Salomone e la deportazione dell’intero ceto alto a Babilonia (587-586 a.C.) furono interpretate come punizione per l’aberrazione politeistica, e i testi antichi, in seguito, furono rielaborati in senso strettamente monoteistico.

Nel VII secolo a.C. il monoteismo si era affermato anche nell’impero persiano, attraverso la figura profetica di Zoroastro. E dopo che, sette secoli più tardi, anche il cristianesimo ebbe ripreso il monoteismo ebraico, finalmente quasi tutti i popoli attorno all’Arabia – tanto gli abitanti dell’impero persiano-sasanide, quanto quelli dell’impero romano-bizantino – furono seguaci dell’unico Dio. E quanto più si approfondivano i contatti tra i popoli del Vicino Oriente, tanto più anche la fede nell’unico Dio sostenuta dall’impero bizantino e da quello cristiano poté dispiegare la propria forza missionaria. I commercianti e le carovane arabe non avevano bisogno di viaggiare lontano in nessuna direzione sulle grandi vie commerciali, per imbattersi in popoli monoteisti. Accanto alla chiesa imperiale bizantina, erano di casa in Egitto la chiesa copta, in Siria la giacobita e in Iraq la nestoriana.

2. EBREI, CRISTIANI E GIUDEO-CRISTIANI IN ARABIA

Anche nel centro dell’Arabia alcuni, attorno al 600 d.C., credevano in un solo Dio: gli ebrei e i cristiani, ma anche arabi che non erano né ebrei né cristiani. Diamo uno sguardo innanzitutto agli ebrei e poi ai cristiani in Arabia.

 

Gli ebrei nella lotta per l’Arabia

Prima dei cristiani, gli ebrei erano presenti già da molto tempo nella penisola arabica. Essi avevano contatti con il regno sabeo, del quale si parla diverse volte nella Bibbia, già nelle genealogie dei figli di Joktan 7 e di Abramo,8 in particolare tuttavia nel racconto della visita della leggendaria regina di Saba (in ebraico Seba) al re Salomone a Gerusalemme. 9 I primi ebrei arrivarono nell’Arabia del Sud forse già nel I secolo a.C. (come mercanti o con l’esercito romano di conquista nel 25 a.C.).10 L’Arabia ebbe ancora maggiore importanza per gli ebrei dopo la distruzione del secondo Tempio a Gerusalemme nel 70 d.C. e il loro bando dalla città nel 135 d.C. da parte dei romani e, inoltre, con la rapida diffusione del cristianesimo nell’impero romano. Da allora, le due grandi religioni monoteiste si trovarono in lotta l’una con l’altra per l’Arabia.

L’ARABIA AL TEMPO DEL PROFETA

L’ARABIA AL TEMPO DEL PROFETA

Nei lunghi secoli in cui l’Arabia del Sud mantenne il predominio, l’ebraismo era molto diffuso. Il cristianesimo veniva associato con Bisanzio e con l’Etiopia, due tradizionali nemici. Tuttavia, già nel IV secolo Teofilo l’Indiano (probabilmente eritreo, morto nel 365), in quanto missionario bizantino di confessione ariana, deve aver mosso i principi degli Himyariti, che dal I secolo a.C. dominavano l’Arabia del Sud come successori dei Sabei, all’adozione del cristianesimo, deve aver battezzato molte persone e fondato tre chiese a Tapharan (Zafar?), Aden (Adan) e Hormuz. Certamente, sebbene il cristianesimo si diffondesse fortemente nell’Hadramaut e nella ormai arabizzata Nağrān, la posizione dell’ebraismo rimase stabile.

Un grave inasprimento della lotta tra ebrei e cristiani ebbe luogo nel primo quarto del VI secolo: si giunse a più di una persecuzione dei cristiani da parte degli ebrei nell’Arabia del Sud. Evidentemente, nessuna religione giunta al potere è immune dall’abusare della propria forza. In particolare, il re Yūsuf (Ḏū Nuwās), convertito all’ebraismo, cercò di diffondere sistematicamente la propria religione, perseguitò i cristiani e provocò quindi un intervento militare da Aksum, dall’Etiopia cristiana. Le numerose conversioni forzate e le distruzioni di chiese e villaggi culminarono all’epoca nel massacro di cristiani a Nağrān, oggi città di confine tra l’Arabia Saudita e lo Yemen.11 È ancora dubbio se il Corano si riferisca a questo episodio nella sura 85, 1-912 ma questo fu, in ogni caso, un punto di svolta: il predominio dell’Arabia del sud, durato circa 1000 anni, si concluse in questo momento. Intorno al 520, infatti, una spedizione etiope attraversò lo stretto di Bab al-Mandab, sconfisse l’ultimo re giudaizzante di Himyar e trasformò l’Arabia del Sud per mezzo secolo in un protettorato etiope. Nağrān era ora il più grande centro cristiano: una città santa con i suoi santi martiri, Arethas, Elesbaas e Gregentius, e una famosa chiesa, un luogo di pellegrinaggio in Arabia. Ma per gli ebrei giunsero tempi duri, fino a quando la città fu conquistata, nel 575, dai persiani che dominarono l’Arabia del Sud per mezzo secolo, fino alla conquista da parte degli arabi. Dal marzo del 630 fino al marzo del 631, tra le numerose delegazioni ne giunse anche una «di cristiani di Nagràn dagli inviati di Dio, circa 60 cavalieri forti, tra i quali 14 dei più nobili», così racconta Ibn Hisàm nella sua biografia del Profeta; ma ciò che fu detto in quest’occasione con questi cristiani, evidentemente di confessione monofisita, sinora neppure la ricerca più approfondita è riuscita ad accertarlo.13

Nel frattempo l’ebraismo era ampiamente rappresentato non solo nel sud, bensì anche nel nord, forse già dall’esilio di Babilonia, ma certamente dal I secolo a.C.14 In diverse delle oasi fertili di palme dell’Ḥiǧāz (Arabia occidentale) gli ebrei vivevano come contadini e artigiani, tuttavia apparentemente non alla Mecca, ma soprattutto a Yatrib, la futura Medina. Qui c’era persino un clan ebraico di orafi e fabbricanti di armi e di studiosi familiari con la Bibbia ebraica e col Talmud; la popolazione di Yaṯrib doveva essere per un terzo ebrea. I nomi e le opere di poeti ebrei dell’Arabia, una generazione prima di Muḥammad e ancora nella sua epoca, si trovano conservati nella poesia classica araba. Gli storici arabi accennano al fatto che circa venti stirpi ebraiche avrebbero vissuto in questa regione. Ma si narra anche di ebrei in numerosi altri posti dell’Ḥiǧāz settentrionale. E i cristiani? Qual è la loro situazione?

 

Sei secoli di cristianesimo arabo

Ignaz Goldziher, che univa alla sua grande erudizione un insormontabile risentimento anticristiano, era «convinto» della «mancanza di qualsivoglia sensibilità del mondo arabo per le idee dotte del cristianesimo». Si dovrebbe prendere in considerazione «in quale modo superficiale il cristianesimo penetrò in quei pochi ceti del mondo arabo ai quali trovò accesso, e quanto l’anima del popolo arabo stesse di fronte ad esso in modo del tutto estraneo e indifferente, nonostante l’appoggio che questa religione trovò in alcune parti del territorio arabo».15

Al contrario Kenneth Cragg, un eminente studioso cristiano dell’islam e del Vicino Oriente, ha mostrato, in una prima storia dei cristiani arabi scientificamente completa,16 quale ruolo abbia giocato il cristianesimo, relativamente presto, nel Vicino Oriente,17 e il principe El Hassan bin Talal di Giordania, dotto portavoce di un islam pronto al dialogo, l’ha confermato in una ricerca storica.18 Certo, anche secondo Cragg è a malapena possibile trarre qualche deduzione dall’accenno agli «arabi» nel racconto della Pentecoste degli Atti degli Apostoli:19 non si sa di quali arabi si trattasse, ma certo, da principio, non di quelli della penisola arabica (Ǧazīrat al-’Arab: «Isola degli arabi»). Anche il soggiorno in «Arabia»,20 attestato da Paolo stesso, non deve essere stato necessariamente un soggiorno nella penisola arabica (o sul Sinai). In entrambi i casi può essersi trattato del vicino deserto siriano presso Damasco.

Indubbiamente, l’influsso cristiano nell’Arabia pre-islamica deve essere stato notevole, soprattutto presso i confederati con Roma (confoederati), non da ultimo attraverso i monaci siri, che con i loro monasteri penetrarono nel deserto più delle chiese. Ma per poter valutare correttamente questo influsso, bisogna differenziare un triplice significato del termine «Arabia».

- Nel nord-ovest e nel nord-est della penisola arabica (all’incirca a nord dell’attuale linea Bassora/Kuwait-Golfo di Aqaba), dopo l’annessione di Petra nel 106 d.C., la Provincia romana Arabia (l’arabo ar-Rum poteva significare l’antica o la nuova Roma, Bisanzio): a sud di Damasco la tribù cristiano-araba dei Ghassanidi (Banū Ġassān: «i figli di Gassan»), che erano di confessione monofisita, uno stato cuscinetto a difesa di Roma. Per il resto, il principato cristiano-arabo dei Lakhmidi nell’Eufrate inferiore (capitale al-Ḥīra, dove nel 1936 sono state scavate due chiese decorate con affreschi) che, di tendenza nestoriana, si trovava sotto il predominio dei persiani. Questi principati arabi erano in costante contatto con i centri della cristianità aramaica, con Edessa, Gerusalemme, Palmira e Damasco.

– Poi nel sud-ovest la già nominata Arabia Felix. Da sempre esistevano qui dei legami con l’Etiopia cristiano-monofisita e Aksum, la sua capitale, a occidente del Mar Rosso. Durante i cinquant’anni di predominio etiope sull’Arabia del Sud Abraha, un etiope ambizioso che aveva assassinato il viceré himyarita del Negus, si ribellò con successo contro Aksum. In maniera praticamente indipendente, accanto ad altre misure di governo, egli costruì una chiesa sfarzosa anche a San’a. Anzi, osò persino un attacco militare nel nord, contro la città carovaniera della Mecca ormai sempre più potente, che tuttavia non si concluse con successo. A ciò si riferisce la sura 105 del Corano («L’elefante») e gli storici musulmani mettono in relazione questa spedizione con il 570, l’anno di nascita del profeta Muḥammad, quando presumibilmente Abraha non era neanche più in vita. Quando poi l’Arabia del Sud cadde sotto il dominio persiano, la chiesa cristiana finì sotto la sovranità del katholikos nestoriano di Seleucia-Ctesifonte. L’ultimo governatore persiano si convertì, mezzo secolo più tardi, all’islam (634) e presto l’intero popolo dovette seguirlo.

- Infine la costa del Golfo nell’Arabia orientale: secondo sporadiche notizie vi era là, a sud del territorio lakhmida fino al Bahrein, il Qatar e l’Oman una serie di vescovadi cristiano-nestoriani, che dipendevano da al-Ḥīra e da Edessa. Proprio i cristiani nestoriani, spesso mercanti, si distinguevano per la loro intensa attività missionaria, che giungeva sino all’Asia centrale e alla Cina. Fu in questa regione che comparve un profeta di nome Maslama o Musailima, che annunciava anch’egli, in concorrenza con il profeta Muḥammad, l’unico Dio, «il Misericordioso». Dalle coste, il cristianesimo si espanse nell’interno del paese.21

Da tutto ciò si evince che l’influsso cristiano non si limita in alcun modo a «pochi ceti dell’Arabia». Piuttosto vi furono, prima della nascita dell’islam, sei secoli di cristianesimo arabo: secondo Cragg «una cristianità ampiamente diffusa, e che si reggeva da sé, apparteneva effettivamente al Gazirat al-’Arab». Vi era «un legame riuscito tra ciò che è arabo e ciò che è cristiano, tra questo popolo e questa fede».22

 

L’arabo, lingua anche dei cristiani

Della presenza del cristianesimo (e dell’ebraismo) in Arabia è testimone anche la lingua araba (al-’arabīya).

– La scrittura dell’arabo classico si sviluppò dalla forma tardo-nabatea dell’aramaico. L’alfabeto aramaico dei Nabatei arabi, con la loro capitale Petra, è il precursore della scrittura araba. La scrittura dei graffiti arabi era soprattutto aramaica o nabatea.23 Secondo il Kitāb al-Aghani («Il libro dei canti») tra i primissimi inventori della scrittura araba ci furono due cristiani di al-Ḥīra (Zaid ibn Hammàd e suo figlio).24 Che a Zabad (a sud-ovest di Aleppo) siano state trovate delle iscrizioni cristiane in tre lingue, siriano, greco e arabo, degli anni 512-513 d.C. – finora le più antiche testimonianze scoperte della scrittura araba – non rappresenta tuttavia in sé ancora alcuna prova che la scrittura fosse stata inventata da missionari cristiani.

– È però incontestabile che i cristiani arabi abbiano giocato un ruolo nella storia della lingua araba nel VI secolo.25 I testi più antichi di un arabo «classico» risalgono al III secolo d.C. e presto si sviluppò una poesia araba straordinariamente artistica in ambito semitico. È certo che la lingua e la scrittura araba furono ulteriormente sviluppate alla corte di Hira, quella città araba sulla riva occidentale dell’Eufrate del Sud, la cui sede vescovile è spesso citata, che fu un grande centro cristiano ancora prima di Nagràn nell’Arabia del Sud. Qui si studiava l’arte dello scrivere, molto prima che fosse praticata in generale nel resto della penisola arabica. L’arabo fu infine fondamentale per il senso di unità e di identità degli arabi.

D’altra parte, l’originalità del Corano non viene in alcun modo sminuita se, con l’aiuto del Foreign Vocabulary of the Qur’ān26 di A. Jeffery, si riconosce che non furono prese a prestito da altre lingue solo parole profane, come per esempio qaṣr (da latino castrum «accampamento», «cittadella»), bensì anche parole che sono state molto rilevanti per il Corano e per l’uso della lingua: così la parola qalam (dal greco kàlamos), che significa il «calamo» attraverso il quale Dio ha insegnato agli uomini ciò che essi prima non sapevano.27 Dalle fonti semitico-ebraiche o cristiane derivano:

ṣīraṭ= «il giusto cammino», «guida del cammino» (dal latino strata, «strada lastricata») che si trova in posizione centrale già nelle sure di apertura del Corano;28

sūra = «un pezzo di scrittura»;

rabb = «Signore» (nel Corano riservato solo a Dio);

’abd = «servo» (nel Corano riservato solo al servizio di Dio);

ar-rahmān = «il Clemente» (due volte programmaticamente nelle sure di apertura, assieme alla parola dal suono simile ar-raḥīm = il Misericordioso. Due parole per l’unico Dio, completamente misericordioso).

Non si può ignorare il fatto che il siriaco qeryānā (= «lettura» nella liturgia) dimostra un legame con il nome al-Qur’ān (attraverso il verbo affine qara’a = «leggere ad alta voce»). Ma ancora più importante: la parola che il Corano conosce per il solo e unico Dio fu utilizzata in Arabia già prima di Muḥammad per il massimo Dio («il Dio superiore»): Allāh (il padre di Muḥammad si chiamava per esempio «servo di Allàh» = ’abd Allāh) risultò, se è di origine puramente araba, dalla contrazione al-ilāh, cioè «il Dio». Secondo altri autori, però, esso potrebbe aver avuto anche un’origine non araba, ma generalmente semitica (reminiscenze dell’ebraico elohim o dell’antico siriaco alaha = «il Dio»).29 Ad ogni modo, ancor oggi gli ebrei, i cristiani e i musulmani in arabo non conoscono alcuna altra parola per Dio che Allāh, e per questo Allāh va semplicemente tradotto con «Dio». Ebrei, cristiani e musulmani venerano uno stesso, unico Dio.

 

Lo scarso radicamento del cristianesimo ellenistico

«Sebbene il cristianesimo fosse sostenuto da Bisanzio» dice ‘Irfān Shahid «esso restò tuttavia per gli arabi una religione semitica, annunciata loro da ecclesiastici orientali la cui lingua liturgica era semitica e i cui due grossi centri, al-Ḥīra e in seguito Naǧrān, erano dominati dalla cultura siriaca.»30 È possibile che verso il 600 l’Arabia fosse davvero in procinto di diventare cristiana, come sostiene qualche storico cristiano?

L’antica religione araba era ancora forte proprio in quell’Arabia occidentale che sarebbe stata importante per il futuro. La Mecca era il suo luogo di culto centrale. E il cristianesimo era assai diffuso nel nord, nel sud e nell’est dell’Arabia: evidentemente – e in questo bisogna dare ragione a Goldziher – né il cristianesimo ortodosso-bizantino, né quello monofisita e neppure quello nestoriano sono riusciti a radicare a lungo la fede cristiana nella coscienza araba. Perché no? Già qui si può notare un aspetto che in seguito dovrà essere analizzato ancora attentamente: agli arabi del periodo pre-islamico il monoteismo sembrava senz’altro accettabile, così come i profeti e i testi sacri, ma ciò che risultava del tutto inaccettabile era una cristologia ellenistica che aveva divinizzato di fatto Gesù, il Messia/Cristo, lo aveva identificato con Dio e annunciava un «Dio» incarnato e persino crocefisso.

Anche Cragg dimostra che il radicamento del cristianesimo nella coscienza araba fu scarso e domanda: «la cristianità araba, nei secoli sia pre- che postislamici, non avrebbe potuto avere maggiori possibilità se l’elemento greco nella sua storia fosse stato intellettualmente meno cavilloso rispetto alle formule, più in accordo con le simpatie e l’animo arabi?».31 Cragg ha ragione: «era in gioco la natura del cristianesimo stesso in quanto ebraico, nella sua qualità messianica, e in quanto greco-romano nella sua espressione cristologica. L’islam portò un teismo più forte, nel quale esso confermava nuovamente una fede semitica, che – come la vedeva l’islam – non era stata solo raffinata, bensì anche tradita dalla teologia cristiana».32

La questione però non è ancora sufficientemente definita. Evidentemente, qui Cragg non ha considerato abbastanza quella grandezza che avrebbe potuto costituire il vero correttivo di questo cristianesimo modellato sul mondo greco: non solo in generale un «cristianesimo che parlava aramaico» – questo fu anzi sotto molti aspetti nondimeno un cristianesimo pagano che pensava in greco e, accusato di eresia a partire dal V secolo come «nestoriano», spostò il proprio baricentro verso est e verso nord, soprattutto verso la Persia. Piuttosto l’originario giudeo-cristianesimo dei primi discepoli di Gesù, della chiesa primitiva di Gerusalemme, delle comunità a est del Giordano: ovvero il primissimo paradigma del cristianesimo (P I) prima del cambiamento di paradigma, che inizia già con Paolo, verso quello greco-ellenistico (P II). Ho già mostrato in precedenza lo stato della ricerca contemporanea (ancora per nulla conclusa) 33 per poi descriverlo in tutta la sua ampiezza nel secondo volume di questa trilogia (sul cristianesimo): ci sono delle linee del primissimo giudeo-cristianesimo che portano sino al VII secolo, e cioè proprio fino all’islam.34

 

Le tracce del giudeo-cristianesimo

Eusebio racconta, nella sua storia della chiesa fino all’inizio del IV secolo, 35 come la comunità primitiva di Gerusalemme giudaico-cristiana, dopo l’esecuzione capitale di Giacomo, il suo capo, e prima dello scoppio delle guerre giudaico-romane nel 62, fosse emigrata e si fosse trasferita a Pella, nella terra del Giordano orientale. Ricerche più recenti36 hanno riconosciuto quest’informazione come credibile, almeno per una parte della comunità primitiva.37

Non è più possibile stabilire fino a che punto i membri della comunità primitiva siano rimasti a Gerusalemme o vi siano tornati dopo la guerra. In ogni caso, secondo la lista dei vescovi di Eusebio, si contano a Gerusalemme non meno di quindici «vescovi» giudaico-cristiani – tutti quanti circoncisi (forse furono contati anche dei presbiteri e dei parenti di Gesù)38 – fino a quel fatale anno 135 che, do- . po l’ennesima rivolta ebraica, avrebbe portato la completa distruzione di Gerusalemme, la cacciata di tutti gli ebrei, il cambiamento di nome della città in «Aelia Capitolina» e, di conseguenza, anche la fine della comunità giudaico-cristiana di Gerusalemme e della sua posizione predominante nella giovane cristianità. La sua aureola era svanita, quindi, proprio per i pagano-cristiani.

I moderni storici della chiesa non hanno timore di chiamare il giudeo-cristianesimo, in modo spregiativo, «il periodo paleontologico» della storia della chiesa. E i dogmatici cristiani, che perlopiù prendono atto dei risultati dell’esegesi critica e della storia dei dogmi solo nella misura in cui esse non disturbano il loro sistema costruito sulla base ellenistico-latina, di norma ignorano il giudeo-cristianesimo biblico. La storia del giudeo-cristianesimo dei primi secoli appartiene certamente, allora, a uno dei capitoli più bui della storiografia della chiesa. I motivi sono molti.39 1) La «scienza dell’antichità» europea in linea di principio si orientò esclusivamente sull’antichità greco-romana. 2) Già i teologi dei primi secoli, che parlavano greco o latino, mostrarono poco interesse per i manoscritti nelle lingue semitiche. 3) Le comunità giudaico-cristiane confinanti con l’impero romano, essendo entrate in contatto con le sette battiste e gnostiche, furono sin da principio sospette di eresia. 4) Una gran parte degli scritti andò perduta poiché il fango umido attorno all’Eufrate e al Tigri non ha conservato così bene i documenti del giudeo-cristianesimo (all’epoca in Siria e Palestina non si scriveva più sulle tavolette di argilla), come ha fatto invece la sabbia secca del deserto egiziano con i documenti della chiesa copta.

In questo modo, riguardo alle comunità giudaico-cristiane del Vicino Oriente, dove spesso – per usare un’iperbole – per centinaia di anni di storia sono disponibili solo poche pagine di documenti, dobbiamo affidarci alle supposizioni molto più di quanto non accada per la chiesa dell’Occidente, dove spesso abbiamo a disposizione migliaia di pagine per ogni dieci anni di storia. E mentre Simon Pietro e Saulo /Paolo, nel Nuovo Testamento, vengono citati per nome rispettivamente circa 190 e 170 volte, Giacomo, il capo dei giudeo-cristiani, viene nominato solo 11 volte e negli Atti degli Apostoli addirittura solo tre, il che lascia supporre una rimozione del giudeo-cristianesimo (e dei fratelli di Gesù) nella chiesa pagano-cristiana.

Ma molti specialisti si dedicano oggi all’affascinante compito di trovare le tracce di un giudeo-cristianesimo molto ramificato, che nel complesso degli scritti neotestamentari è ampiamente documentato, 40 ancora nel periodo post-neotestamentario. Molti dati portano verso la Transgiordania. Non si può negare che, nel periodo post-neotestamentario, abbiano continuato a esistere i giudeo-cristiani, che si richiamavano a Pietro e a Giacomo e che non erano ancora stati in alcun modo intaccati dalla gnosi. Questo è documentabile rifacendosi a brani della tradizione che appaiono inseriti in un racconto cristiano (attribuito a Clemente di Roma, e per questo chiamato «Pseudoclementine») di riconoscimento (conversione del romano Clemente, accompagnatore di Paolo in Palestina e in Siria, e ritrovamento della sua famiglia creduta morta): accanto ai «kerygmata Pétrou» («predicazioni di Pietro») soprattutto l’«ascensione in cielo» («anábathmoi») di Giacomo.41

Lo sfondo è costituito da alcuni giudeo-cristiani di lingua greca, proprio in Transgiordania nella seconda metà del II secolo. Essi praticano il battesimo nel nome di Gesù, ma osservano allo stesso tempo la legge di Mosè (e anche, certamente, la circoncisione). Venerano Giacomo come il capo della comunità di Gerusalemme e biasimano Paolo per aver impedito, con la sua missione al di fuori della legge, la possibile conversione di tutto il popolo ebraico al Messia Gesù. La loro situazione è precaria: questa comunità giudaico-cristiana si differenzia dalla nuova grande chiesa pagano-cristiana per l’insistenza sull’osservanza della legge. Dalla corrente principale dell’ebraismo, però, la separa la fede in Gesù, che era un profeta come Mosè e identico a quel Messia che così tanti ebrei avevano atteso.42 Per il resto vi sono in Siria delle comunità giudaico-cristiane fedeli alla legge, che vengono attestate dalla «didaskalía» («istruzione») degli apostoli. Nella valle del Giordano e nel corso superiore dell’Eufrate si trovano i seguaci di Elkesai, che rappresentano una setta giudaico-cristiana, ma allo stesso tempo gnostico-sincretistica.

 

L’accusa di eresia al giudeo-cristianesimo

Le usanze giudeo-cristiane evidentemente rimasero in auge per molto tempo. Ancora nell’epoca successiva alla svolta di Costantino, i sinodi cristiani prendevano posizione contro di esse: in Spagna il sinodo di Elvira (intorno al 305), in Asia Minore il sinodo di Laodicea (tra il 343 e il 381). E ancora nel passaggio dal IV al V secolo veniamo informati, dal Padre della chiesa Gerolamo, dell’esistenza a Berea (Aleppo in Siria) di una piccola comunità giudaico-cristiana di «Nazarei» (Nazarent), a lui nota, che evidentemente non era ancora separata dalla grande chiesa: essi riconoscevano senz’altro Paolo come apostolo tra i pagani, ma usavano apertamente un Vangelo di Matteo in ebraico.43

Il destino di queste comunità giudaico-cristiane era tuttavia quello di venire molto presto ignorate, disprezzate e considerate eretiche dai cristiani di provenienza pagana e di formazione classica. Furono dichiarate eretiche in primo luogo da vescovi come Ignazio di Antiochia, che già nel 110 aveva escluso categoricamente qualsiasi collegamento tra fede in Cristo e prassi ebraica,44 poi, nel 180-185, da Ireneo di Lione, anch’egli scrittore in lingua greca, che annoverava esplicitamente i giudeo-cristiani in maniera del tutto indifferenziata, in quanto «ebioniti» (questo nome compare in lui per la prima volta), tra gli «eretici».45

Eppure, noi sappiamo ancora incomparabilmente molto di più dei cristiani mediorientali provenienti dal paganesimo, che del giudeo-cristianesimo. Secondo le fonti dei Padri della chiesa, da leggere in maniera critica, si devono in ogni caso distinguere diversi raggruppamenti in diversi territori e con diversi nomi, anche se solo con difficoltà si può ricostruire storicamente ciò che si nasconde realmente dietro ai nomi.46 Mentre quella di «ebioniti» ( i «poveri» di Dio) è stata l’autodenominazione di un preciso gruppo giudaico-cristiano (non ci fu un «Ebion»), e «cerintiani», «simmachiani» ed «elkesaiti» (da Cerinto, Simmaco, Elkesai o Elchasai) risalgono a una persona, i «nazarei» (in collegamento con il Gesù «Nazoreo») si rifanno alla definizione ebraico-aramaica utilizzata dagli ebrei per i cristiani. Non è quindi strano che nasara, questa parola di origine siriana, sia anche il nome dei cristiani nel Corano?

Per il dialogo cristiano-musulmano è importante: l’odierna ricerca tiene in molto maggior considerazione la continuità tra il giudeo-cristianesimo e gli inizi della cristianità primitiva che non la sua deformazione eretica. Per essa i giudeo-cristiani sono gli eredi legittimi della cristianità primitiva, mentre il resto del Nuovo Testamento rispecchia perlopiù il punto di vista del cristianesimo proveniente dal paganesimo, così come esso era stato difeso da Paolo e dai seguaci. L’esegeta di Góttingen, Georg Strecker mette in evidenza con chiarezza l’attuale significato teologico del giudeo-cristianesimo: «come non può essere identificato con la cristologia "naturale" ebionitica (vi si trova anche la rappresentazione della preesistenza), il giudeo-cristianesimo, rivolgendosi alle fondamenta storiche della fede cristiana, può servire a limitare la tendenza della grande chiesa o della chiesa esteriore al docetismo e alla spiritualizzazione».47 La teologia giudaico-cristiana, quindi, come correttivo critico di una cristologia fin troppo evidenziata ed esposta al pericolo del docetismo48 e della spiritualizzazione!

In questa sede, la questione davvero appassionante è la seguente: il Corano, che visto nel suo complesso rifiuta ugualmente un docetismo nella cristologia, rivela forse delle influenze del giudeo-cristianesimo? Visto che, dopo la seconda metà del V secolo, si perdono progressivamente le tracce del giudeo-cristianesimo, mentre le tendenze sincretistiche diventano più forti, si pone senz’altro storicamente la domanda: che ne è stato dei raggruppamenti giudaico-cristiani? Né l’ebraismo, né la grande chiesa possono averli completamente assorbiti. Forse è utile uno sguardo verso l’Arabia.

 

Il giudeo-cristianesimo nella penisola arabica?

Per la questione di un possibile influsso del giudeo-cristianesimo nella penisola arabica è importante, innanzitutto, rilevarne le tracce presso i grandi vicini dell’Arabia. Il cristianesimo è arrivato in Arabia per lo più dalla Siria (di cui si è già parlato), dall’Iraq e infine anche dall’Etiopia.

– In Etiopia (vicina all’Arabia sull’altra sponda del Mar Rosso, con la quale vi erano stati sempre numerosi rapporti commerciali e culturali) il cristianesimo era monofisita: si credeva solo a un’unica «phisys» o natura divina in Cristo. Ma sembra che alla base del cristianesimo monofisita-ellenistico, presso questo popolo semitico, vi sia stato un precedente paradigma giudaico-cristiano, come ho potuto osservare io stesso nel corso di una visita ad Addis Abeba, durante una festa dell’Epifania: venerazione dell’arca dell’alleanza di Mosè (Tabot); lingua liturgica semitica (Ge’ez); sacerdoti che cantano i salmi e danzano al suono di trombe e tamburi. Accanto al battesimo la circoncisione, accanto alla domenica il sabato e, infine, prescrizioni particolari riguardo al digiuno e agli alimenti: divieto delle carni suine.49 Sotto la preziosa copertura di broccato ellenistica lavorata in argento, così mi parve, vi era forse un semplice panno di lino giudaico-cristiano...

- Nell’India meridionale c’è un gruppo, distinto etnicamente, di circa 70.000 persone, denominate cristiani- tekkumbagam o southists, che secondo la loro tradizione locale, discenderebbero da un Tommaso di Cana (Canaan?) venuto nel Kerala nel 345 assieme a settantadue famiglie cristiane della Siria e della Mesopotamia: giudeo-cristiani che credevano in Gesù quale Messia per gli ebrei, mentre i cristiani che già vivevano nel Kerala erano discepoli dell’apostolo Paolo.50 D’altra parte, nella Storia della Chiesa scritta da Eusebio51 è tramandato che già l’apostolo Bartolomeo, indubbiamente un giudeo-cristiano, aveva annunciato il messaggio cristiano in India e vi aveva lasciato in eredità un Vangelo di Matteo in ebraico (oggi introvabile). Questo sarebbe stato appurato dal filosofo alessandrino Panteno, che era giunto in India come missionario cristiano e successore dell’apostolo. In base a ciò, alcuni suppongono che probabilmente siano esistiti non solo intensi rapporti commerciali, bensì anche missionari tra i cristiani dell’Arabia meridionale e quelli dell’«oltremare», nell’India del Sud.

- Nella Babilonia meridionale (Iraq) operò quel nobile persiano, Mani (in greco Manes, Manichaios, 216-276) che, collegandosi ad Adamo, Set, Enoch, Noè, Zoroastro, Buddha e soprattutto al Cristo – inteso in maniera gnostica come profeta definitivo e universale («Sigillo dei Profeti») e come «promesso» paracleto («consolatore») – fondò una religione mondiale cristiana di nuovo tipo: il manicheismo dualistico e ascetico. Esso si dimostrò allora, anche nel III e IV secolo, un serio concorrente del cristianesimo, dall’Atlantico fino alla Cina, dal Caucaso fino all’Oceano Indiano. E questo è noto alla ricerca da molto tempo. Ma la nuova scoperta dei nostri giorni è che Mani, secondo la tradizione del bibliografo arabo Ibn an-Nadim e secondo il Codice greco di Mani,52 scoperto recentemente a Köln, sarebbe appartenuto in gioventù alla setta giudaico-cristiana dell’arabo Elkesai: «influssi ebraici, come la dimensione giuridica e il pensiero apocalittico, gli sono giunti [a Mani] attraverso il giudeo-cristianesimo», ha affermato lo specialista tubinghese di Mani, Alexander Böhling, in occasione di un congresso sul codice di Colonia. «I battisti, tra i quali Mani crebbe, erano degli elkesaiti. Essi vedevano in Elkesai il fondatore della loro legge. [...] Il carattere legale del giudeo-cristianesimo costituisce il presupposto del carattere legale del manicheismo.»53 Gli elkesaiti sono quindi l’anello di congiunzione tra il battismo palestinese e il giudeo-cristianesimo, da una parte, e il manicheismo, dall’altra. Ma c’è ancora una traccia che continua ed è molto più importante.

Se si può prestare fede alle relative ricerche, allora le comunità giudaico-cristiane dovrebbero aver dispiegalo – a dispetto di ogni accusa di eresia, di ogni commistione e di ogni eliminazione – un’influenza che sarebbe diventata importante addirittura per la storia mondiale: e precisamente proprio in Arabia, attraverso il profeta Muḥammad. I rapporti sotterranei tra il giudeo-cristianesimo e il messaggio coranico sono discussi ormai da molto tempo anche dai ricercatori cristiani. 54 Già nel 1926, il famoso esegeta protestante di Tübingen, Adolf Schlatter, aveva scritto: «La chiesa giudaica, tuttavia, si era estinta solo in Palestina, a ovest del Giordano. Comunità cristiane con usanze giudaiche continuavano a esistere, invece, nelle regioni orientali, nella Decapoli, nella Batanea, presso i nabatei, ai margini del deserto siriaco e in Arabia, completamente staccate dal resto della cristianità e senza comunione con essa. [...] L’ebreo era per il cristiano soltanto un nemico e l’opinione greca, che guardava ai massacri compiuti dai generali di Traiano e di Adriano come al destino ben meritato dei cattivi e disprezzati ebrei, era penetrata anche nella chiesa. Anche i suoi capi, che vivevano e insegnavano a Cesarea, come Origene ed Eusebio, rimasero stranamente ignari della fine di Gerusalemme e della sua chiesa». Schlatter aggiunge tuttavia: «Nessuno dei capi della chiesa imperiale immaginava che per questa cristianità da essi disprezzata sarebbe venuto il giorno in cui essa avrebbe scosso il mondo e distrutto gran parte del mondo ecclesiastico da essi costruito; quel giorno venne quando Muḥammad riprese il patrimonio preservato dai giudeo-cristiani, la loro coscienza di Dio, la loro escatologia che annunciava il Giorno del giudizio, i loro costumi e le loro leggende e, in qualità di "inviato da Dio", istituì un nuovo apostolato».55

Questa tesi dell’influenza del giudeo-cristianesimo sul Corano era già stata discussa e confermata dapprima da Adolf von Harnack56 e, più tardi, da Hans-Joachim Schoeps.57 Anche studiosi dei giorni nostri, come Christopher Buck, giungono alla seguente conclusione: «Nel corso del tempo gli ebioniti sembrano essersi imposti in Arabia assieme ai battisti sabei. Questo influsso fecondo invita a formulare l’ipotesi che il Corano rifletta una profetologia ebionitica».58 Anzi, Georg Strecker dichiara «non contestabile» il fatto «che l’islam fosse aperto alle influenze non soltanto ebraiche e cristiane, ma anche giudaico-cristiane, sebbene si tratti di un campo di studio ancora in larga misura inesplorato».59 L’originario paradigma giudaico-cristiano dovrebbe quindi essere stato tramandato in una qualche forma. Ma esiste realmente un legame con il Corano? Tra la cristianità giudaica nel IV e V secolo e il Corano intercorre pur sempre più di un secolo.

Riguardo a possibili anelli di congiunzione tra giudeo-cristianesimo e Corano non si dovrà pensare direttamente ai primitivi nazorei cristiani. Piuttosto, già con Harnack, si rinvia a giudeo-cristiani d’impronta gnostica come gli elkesaiti, che secondo le più recenti ricerche dovrebbero essere stati identici ai «sabi’un» menzionati nel Corano.60 In ogni caso, oggi non può più venir contestata l’esistenza di scritti giudaico-cristiani in lingua araba. Non solo gli ibadi61 di al-Hira e Anbar, ma anche alcune personalità nell’ambito della poesia sono già state menzionate da Julius Wellhausen.62 Come informa sinteticamente lo studioso berlinese delle religioni, Carsten Colpe,63 si sono trovati sufficienti accenni a libri liturgici per una liturgia arabo-cristiana che rimandano alla presenza di comunità cristiane nella penisola arabica; sembra che ci siano state traduzioni arabe del salterio e dei Vangeli.

Oltre a ciò, però, Colpe ha fatto una sensazionale scoperta: la famosa designazione del profeta Muḥammad come «Sigillo dei Profeti »64 si troverebbe già in uno dei primi scritti del più antico Padre della chiesa latino, nell’Adversus Judaeos (prima del 200)65 di Tertulliano - naturalmente come designazione di Gesù Cristo.66 È forse possibile che il titolo di «Sigillo dei Profeti» sia stato preteso dal profeta Muḥammad in polemica con i giudeo-cristiani o con i manichei?67 Quali siano i precedenti «profeti», è noto attraverso il Corano: non sono – con l’eccezione di Giona (Yunus) – i «piccoli» (Amos, Osea...) o i «grandi» (Isaia, Geremia...) profeti scritturali di Israele. Sono i personaggi biblici di cui Muḥammad, interessato alla religione, potrebbe aver sentito parlare già durante i suoi viaggi o attraverso altri contatti con i cristiani: Adamo (Adam) e Noè (Nūḥ), il patriarca Abramo (Ibrāhīm), Isacco (Isḥāq) e Giacobbe (Ya’qūb), Giuseppe (Yūsuf), Mosè (Mūsā) e Aronne (Hārūn), Elia (Ilyas) e i re David (Ḏāwūd) e Salomone (Sulaimàn), Esra (’Uzair) e naturalmente Gesù (’Isā).

Dovrebbe essere possibile trovare ancora altre tracce. Una prima traccia è quella seguita dallo stesso Colpe, quando, sulla base di un testo di storia della chiesa, redatto tra il 439 e il 450 dal bizantino Sozomeno, accenna ai giudeo-cristiani, che fondavano la propria legittimità proprio nella discendenza da Ismaele e da sua madre (Agar), quindi dagli ismaeliti o agareni: «Emerge così una "confessione" giudaico-cristiana orientale, che è più antica dei nestoriani e dei giacobiti, e che più tardi, assieme a questi ultimi, sopravvivrà soprattutto tra gli arabi. Per il loro tipo, essi avrebbero potuto essere stati degli ebrei, dai quali Muḥammad ricevette le sue tradizioni ebraiche – ebrei con i midrashím ma senza Talmud, contemporaneamente cristiani con la venerazione di Gesù e Maria, ma senza una cristologia duo- o monofisita. Un giudeo-cristianesimo simile è pensabile anche nella penisola arabica, soprattutto a Medina. Esso può essere stato il depositario di tradizioni bibliche e di interpretazioni della Bibbia del tipo di quelle che si trovano nel Corano».68

Una seconda traccia è stata trovata dallo studioso ebreo S. Pines (a dire il vero criticato dal suo correligionario S.M. Stern) in un manoscritto arabo di ’Abd al-Ğabbār, che aveva operato a Raiy (Iran) tra il X e l’XI secolo (oppure di un precedente dotto musulmano), che costituisce una elaborazione di un testo giudaico-cristiano certamente del V e VI secolo. Questo testo contiene un’antica storia della comunità cristiana, lamenta la divisione fra ebraismo e cristianesimo, critica la «romanizzazione» della cristianità e pretende nello stesso tempo di continuare la tradizione originaria, non ancora corrotta, della comunità di Gerusalemme, quale era stata fondata dai primi discepoli di Gesù, che credevano che questi fosse un uomo e non un essere divino, e osservavano i precetti mosaici.69 Qui viene attestato un giudeo-cristianesimo – sopravvissuto in ogni caso fino al VII secolo inoltrato – sia per l’area siro-palestinese, sia per quella araba e babilonese.70

Oggigiorno anche i musulmani riconoscono che in Arabia esisteva un giudeo-cristianesimo. Il principe Hassan bin Talal, musulmano credente, archeologo colto e rampollo di una casa reale araba, che fa risalire le proprie origini sino al profeta Muḥammad, dà tuttavia rilievo anche, nel contempo, alla sfida per il cristianesimo implicita in questo dato di fatto: «Al tempo del profeta Muḥammad vi erano ancora tali giudeo-cristiani, forse ebioniti, in Arabia – e forse anche negli altri territori periferici del mondo cristiano. In arabo erano chiamati nasara, termine che era anche la denominazione comune per i cristiani. Dal Corano si evince che i veri nasara riconoscevano Gesù come il messia (in arabo masih). Inoltre essi vedevano in lui il figlio della Vergine Maria attraverso lo Spirito Santo (un insegnamento che il Corano sostiene in toto) e un profeta di Israele. Ma essi non attribuivano alla sua persona alcuna divinità, come facevano altri nasara, e non intendevano neppure l’unico Dio come trinità. In seguito si evince dal Corano che gli scritti di questi veri nasara erano un "evangelo" (in arabo inğil, al singolare). Dalla tradizione islamica si viene a sapere che questo inğil non era composto in greco, bensì in al-’Ibraniyya: nell’uso dell’arabo dell’epoca una definizione sia per l’ebraico sia per l’aramaico, che erano abitualmente scritti con gli stessi caratteri. Il Corano loda la lealtà e la moderazione dei veri nasara, come anche la simpatia che essi dimostrarono alla nascente comunità islamica, la cui concezione di Gesù come un Cristo umano investito dallo Spirito Santo non si allontanava molto dalla loro. La tradizione islamica descrive i sacerdoti e i devoti tra i nasara come vestiti di bianco, presumibilmente in un segno di purezza».71 Noi possiamo tracciare un bilancio provvisorio:

– i rapporti storici con individui o con comunità cristiane o ebraiche, dei quali si parla del tutto naturalmente anche nel Corano, sono documentabili, ma non mettono in questione, con una critica delle fonti, l’originalità e l’autenticità delle rivelazioni di Muḥammad;

– deve rimanere aperta la questione di quali rapporti storico-genetici dimostri il Corano, con quale intensità e con quali gruppi cristiani;

– le analogie di contenuto tra l’immagine coranica di Gesù e una cristologia plasmata dal giudeo-cristianesimo sono strabilianti. Questi paralleli sono innegabili e attendono una riflessione storico-sistematica più profonda. Che cosa tutto ciò significhi in riferimento ai contenuti e quali conseguenze debbano esserne tratte, a livello interreligioso, verrà discusso più avanti in questo volume (D IV, 2).

 

Per il momento, però, deve essere presa in considerazione quella figura che è di importanza fondamentale per gli ebrei, i giudeo-cristiani e i pagano-cristiani, così come per il profeta Muḥammad, e che ancora oggi può come «padre della fede» costituire un punto di incontro per ebrei, cristiani e musulmani: Abramo.

3. ABRAMO – IL CAPOSTIPITE DELLA «GENTE DEL LIBRO»

Importanza fondamentale di Abramo per la storia, la devozione e la teologia sia dell’ebraismo, che del cristianesimo e dell’islam ancora ai giorni nostri è palese. Essa viene messa efficacemente in evidenza già nel primo libro della Bibbia ebraica, nei Vangeli e anche nel Corano. Abram, il cui nome viene programmaticamente cambiato (secondo l’interpretazione più tarda) in «Abramo», il «padre di molti popoli», secondo i testi della Bibbia ebraica è chiaramente il progenitore del popolo di Israele, secondo il Nuovo Testamento il capostipite spirituale anche dei cristiani e, secondo il Corano, il capostipite fisico in particolare degli arabi. Ma che cosa si nasconde dietro quest’eminente figura biblica e coranica? Dobbiamo rifarci innanzitutto all’opinione biblica, la più antica.

 

Chi era Abramo?

Di lui come persona non si sa nulla di certo: una biografia di Abramo è impossibile.72 Le nostre fonti più antiche sono le storie dei patriarchi, raccontate dai capitoli 11-35 della Genesi,73 che non sono proprio una biografia, racconti storici nel senso comune del termine. Queste storie, e ciò vale per tutti e tre i patriarchi, sono costituite da una serie di racconti brevi, liberamente collegati, pieni di ripetizioni e di contraddizioni. Più esattamente, si tratta in primo luogo di racconti tramandati oralmente molto tempo prima di essere fissati per iscritto.74 Certo non sono delle favole:75 di norma, per quanto brevi, semplificati e concentrati su poche persone, questi racconti possiedono un nucleo storico. Non da ultimo grazie ai nomi propri, comuni nel contesto semitico-occidentale, con Abramo, Isacco e Ismaele sembra di avere a che fare con figure storiche, anche se finora tutti i tentativi di datarle sono falliti.

Ma dalle storie dei patriarchi traspaiono le condizioni socio-culturali che devono essere state predominanti nel Vicino Oriente nei circa 500 anni tra il 1900 e il 1400 a.C. Su di esse siamo in una certa misura informati, e precisamente dal racconto di Sinuhe, l’egiziano che visse lì tra i seminomadi (secolo XX a.C.); in seguito dai testi egiziani di proscrizione, che esecravano i principi ribelli (secoli XIX-XVIII a.C.); poi dai testi mesopotamici di Mari sul medio Eufrate (secolo XVIII) e di Nuzu presso Kirkuk (secoli XV-XIV); infine dalle lettere trovate ad Amarna sul medio Nilo e provenienti dall’archivio di stato dei faraoni Amenofi III e Amenofi IV Ekhnaton (secolo XIV) – quest’ultimo, con la sua nuova fede in un unico Dio, fu la causa della profonda crisi in cui cadde l’impero egiziano.76

Anche nel caso di Abramo, di suo figlio e di suo nipote non si tratta affatto soltanto, come è stato affermato qualche volta, della storia privata di una famiglia che si estende su tre generazioni. Sono ormai troppo importanti le implicazioni politico-religiose di queste storie, tratteggiate nella Bibbia come nel Corano. Qui è in gioco anche l’orizzonte politico mondiale. Non si può infatti ignorare che, già nel libro della Genesi, la storia di Abramo viene collegata alla preistoria e alla storia universale dell’umanità in generale, la cui conclusione è fissata innanzitutto nel racconto della «costruzione della torre» di Babele. 77 Secondo la tradizione biblica, che tenta di combinare due tradizioni, 78 la famiglia di Abramo è emigrata da Ur, ricca città commerciale del sud della Mesopotamia (la cui ziqqurrat, o tempio a terrazze, dedicata al dio lunare Sin è stata riportata alla luce tra il 1922 e il 1934) ed è giunta nel paese di Canaan passando dalla città di Carran, nel nord della Mesopotamia, vicino alla grande ansa dell’Eufrate, come facevano in tanti nel secondo millennio a.C., dalla Mesopotamia e dal deserto siro-arabico.79

Proprio questa origine, tuttavia, doveva acquistare continuamente un grande significato simbolico nella tanto precaria storia ebraica. All’inizio Abramo non era un indigeno, ma un immigrato, un «forestiero senza cittadinanza».80 L’unica proprietà che egli acquistò deve essere stata il luogo della sua sepoltura a Hebron,81 dove ancora oggi ai pellegrini ebrei, cristiani, musulmani e ai turisti viene mostrato il «sepolcro di Abramo» e a lui viene data prova di devozione con celebrazioni liturgiche, persino nel mezzo del conflitto israelo-palestinese. Vivendo tra città e villaggi come nomade in una civiltà agricola, Abramo ebbe sicuramente un certo contatto con gli indigeni; ma nella forma e nel tipo di vita deve aver mantenuto una certa distanza da loro, e in ogni modo questo ha impedito a lui e agli altri patriarchi legami matrimoniali con le famiglie indigene. Certo Abramo viene designato come un «ebreo» (’ibrī),82 ma questo termine, secondo gli studi più recenti, non dovrebbe essere inteso come sinonimo di «israelita». In effetti gli «habiru» o «hapiru» dei testi cuneiformi mesopotamici e i «’prw» dei testi egiziani, che si devono certamente identificare con gli «ebrei», più che un determinato popolo indicano uno strato sociale e una forma di vita inferiore, spesso gli stranieri, i nomadi, i mercenari o gli schiavi, degli outlaws che però in certi casi possono raggiungere le posizioni migliori.83

 

Abramo, Isacco e Ismaele: prospettive bibliche

Per l’attuale situazione delle religioni vi è tuttavia un altro aspetto di non poca importanza: a causa della successione delle generazioni, della genealogia,84 Abramo appare inserito nella «parentela» semitica, e suo figlio Isacco e suo nipote Giacobbe – forse così collegati tra loro solo in seguito – vengono considerati insieme a lui i progenitori di Israele. I critici odierni dell’islam, specialmente i cristiani, dovrebbero tener conto del fatto che anche per le primitive civiltà tribali bibliche la poligamia era cosa ovvia. Lo stesso Abramo ebbe notoriamente numerose concubine.85

Secondo il libro della Genesi, infatti, con sua moglie Sara egli generò Isacco,86 il padre di Esaù e di Giacobbe, il quale – chiamato in seguito Israele – è considerato il padre delle dodici tribù. Ma con la concubina egiziana, la schiava Agar, Abramo generò per primo Ismaele,87 il capostipite di dodici gruppi appartenenti alla federazione ismaelita;88 la Bibbia non conosce l’espressione «arabi», ma intende certamente gli abitanti del deserto arabo nordoccidentale (nella ricerca si parla spesso di protoarabi). Con la sua seconda concubina, Chetura, Abramo divenne infine l’antenato di sedici gruppi nomadi, anch’essi (proto)arabi.89 Tutto ciò non è privo di importanza per alcune questioni odierne: in origine, Israele ha di certo sentito la propria parentela con gli aramei semiti della fine del secondo millennio e con gli arabi (protoarabi) nell’Arabia nordoccidentale, parimenti semiti, della prima metà del primo millennio. Questo è, perlomeno, ciò che intendono esprimere le genealogie (in alcuni punti per nulla attendibili storicamente). «Mio padre era un arameo errante» si dice nel quinto libro di Mosè (Dt 26, 5).

Ma nella Bibbia ebraica il figlio di Abramo Ismaele, questo figlio del deserto, non viene del tutto svalutato in confronto a Isacco? E anche nel Nuovo Testamento, nella Lettera ai Galati dell’apostolo Paolo, con la sua allegoria di Sara e Agar,90 non viene trattato in modo molto sprezzante? Senza dubbio, ma si tratta solo di un aspetto. La generale preferenza biblica di Isacco rispetto a Ismaele nella tradizione giudaico-cristiana è un dato di fatto. Eppure, d’altra parte, non si può ignorare nemmeno il fatto che la Bibbia ebraica, su Ismaele, faccia affermazioni non solo interessanti dal punto di vista «biografico», bensì anche rilevanti sotto il profilo teologico. Karl-Joseph Kuschel ha ragione quando, nel suo libro programmatico su Abramo, dà rilievo proprio alle affermazioni positive su Ismaele, nell’interesse di un ecumenismo abramico:91

– non fu Isacco, bensì Ismaele il primo figlio di Abramo (per desiderio di sua moglie Sara): Ismael= «(esa)udito da Dio»;92

– ancora prima di Isacco, Ismaele ricevette il segno dell’alleanza con Dio: la circoncisione;93

– non solo la sopravvivenza di Isacco, ma anche quella di Ismaele è dovuta alla particolare protezione di Dio. Al salvataggio di Ismaele dal deserto, narrato due volte, corrisponde il salvataggio di Isacco dall’incombente immolazione;94

– la promessa divina di fecondità e di una numerosa discendenza non poggia solo su Isacco, ma anche su Ismaele: «Moltiplicherò la tua (di Agar) discendenza e non si potrà contarla per la sua moltitudine». 95 I discendenti di Ismaele costituiscono, come i figli di Giacobbe, un gruppo di dodici tribù. Dio dice espressamente ad Agar: «Anche riguardo a Ismaele io ti ho esaudito: ecco, io lo benedico e lo renderò fecondo e molto, molto numeroso: dodici principi egli genererà e di lui farò una grande nazione»;96

– non solo Isacco, ma anche Ismaele è presente alla sepoltura di Abramo: nonostante la cacciata di Agar e Ismaele nel deserto,97 alla fine Ismaele ricompare sorprendentemente alla morte del padre Abramo: «Lo seppellirono i suoi figli, Isacco e Ismaele...».98

Tuttavia non è meno importante la domanda: ma quale Dio è quello di cui si parla in questi racconti dei patriarchi? Fin dal principio il Dio della religione dei patriarchi non era legato né al cielo, né a un santuario. È l’unico «Dio del patriarca» (degli antenati), al quale ha comunicato le sue rivelazioni: il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei padri. Dopo la sedentarizzazione, questo Dio ha però ripreso elementi del Dio cananeo El (sotto nomi diversi, come «El Šaddai»), cosicché il Dio della Genesi può essere designato sia come Dio dei padri, sia come El, e si presenta come un Dio personale e allo stesso tempo cosmico.99 Perciò oggi regna l’accordo tra gli esegeti critici: come il grande ethos della Bibbia, anche il monoteismo rigoroso non poteva essersi già imposto al tempo dei patriarchi. Dal punto di vista storico, Abramo era sicuramente un enotesista che presupponeva l’esistenza di più dèi, ma riconosceva come autorità suprema e vincolante soltanto l’unico Dio, il suo Dio.

E la circoncisione?100 Non si tratta di un rito del tutto nuovo, introdotto solo allora. È un’usanza antichissima (praticata con un coltello di pietra), che originariamente non era diffusa soltanto in Canaan, presso i vicini semiti di Israele, e in Egitto, bensì anche in Africa, in America e in Australia, ma non presso i filistei, i babilonesi e gli assiri. Veniva praticata per ragioni medico-igieniche, oppure per motivi sociali o religiosi (come rito di iniziazione). Tra gli israeliti questa pratica era tanto comune dopo l’insediamento in Canaan, che nei loro più antichi documenti giuridici non la si trova quasi per niente e nel libro del Levitico101 viene menzionata solo una volta, senza darle particolare rilievo. Ma dopo la caduta dei regni di Israele e di Giuda e dopo l’esilio tra i babilonesi, che non la praticavano, la circoncisione (che prima era una pratica normale) diventa un particolare segno religioso dell’appartenenza al popolo di Israele. Soltanto ora essa acquista il suo specifico significato di indelebile marchio di proprietà di Dio e di segno dell’alleanza, che alla fine si trova addirittura formulato come prescrizione della legge in Genesi 17.

Stando al libro della Genesi, tuttavia, per Abramo è più importante la fiducia in Dio: fondamentale è la fede incondizionata. Questa fede, come si dice nella Genesi, ad Abramo viene «accreditata come giustizia».102 Eppure nell’intera Bibbia ebraica la fede (ebraico āman = essere saldo; forma causativa he’emīn = credere, avere fiducia) non viene mai concepita come accettazione di una verità preesistente, come un «ritenere per vero» qualcosa di indimostrabile, bensì come una fiducia incrollabile in una promessa che non può essere realizzata dall’uomo, una fedeltà, una sicurezza, un dire amen. Abramo è quindi l’archetipo e il modello del credente inteso in questo senso, un uomo che in virtù di questa fede può poi anche superare la più grande delle prove: il sacrificio di suo figlio Isacco, richiestogli, ma poi alla fine non voluto da Dio.103

Una prima bella conclusione: c’è un motivo se – contrariamente alle religioni mistiche dell’India o anche alle religioni sapienziali della Cina – le tre religioni che si richiamano a lui, Abramo, e nelle quali l’uomo sta «davanti» a Dio («coram Deo»), si abbandona completamente a Dio e, quindi, crede «in» Dio («in Deum»), vengono definite religioni della fede. Abramo si presenta allora come il comune capostipite di tutte e tre le grandi religioni di origine semitica, che perciò vengono anche dette le tre religioni abramitiche. Esse possono essere concepite come un grande sistema religioso, originario del Vicino Oriente, che si distingue essenzialmente dai sistemi di origine indiana o estremo-orientale.104

Eppure già qui non si può ignorare che nello stesso unico capostipite Abramo, nonostante tutti gli elementi in comune, si delinea anche un conflitto tra le tre religioni abramitiche. Perché? Com’è visto Abramo nell’islam ?

 

Il conflitto intorno all’eredità abramica: prospettive coraniche

Dopo Mosè, Abramo (Ibrāhīm) è la seconda figura biblica menzionata più spesso nel Corano. Circa 245 versi, in 25 sure, si riferiscono ad Abramo. Vi compaiono paralleli sorprendenti con le descrizioni di Abramo non solo bibliche, ma anche extrabibliche, rabbiniche. Dal punto di vista storico è importante: già prima della comparsa di Muḥammad come profeta, vi fu tra gli arabi un movimento di riforma monoteistico, che si richiamava alla «religione di Abramo». I suoi seguaci vengono chiamati «ḥanīf», che equivale a «coloro che cercano Dio», «devoti a Dio». Queste informazioni sugli «ḥanīf», disponibili molto presto nella storiografia islamica, sono accettate anche dall’odierna ricerca storica critica: «già prima di Muḥammad nell’antica Arabia devono esserci stati dei singoli uomini dediti a inesauste riflessioni, che, non trovando più alcuna soddisfazione nella tradizione religiosa autoctona, prontamente colsero e fecero proprie delle idee che - se così si può dire – venivano offerte in continuazione dai cristiani e dagli ebrei. Che essi professassero il monoteismo nei dettagli, lo si può dedurre indirettamente dall’uso della lingua nel Corano. In esso l’espressione ḥanīfha pressappoco il significato di "monoteista musulmano"» (R. Paret).105

Il patriarca Abramo gioca quindi un ruolo importante nel Corano: una sura porta addirittura il suo nome (Sura 14).106 Nelle prime sure della Mecca, Abramo compare soprattutto come il combattente contro l’idolatria di suo padre Adar (secondo Gen 11, 26: Terach) e della sua gente, e si dimostra così per Muḥammad come il modello originario di portavoce della verità e grande profeta. Nelle successive sure medinesi, poi, compare anche Ismaele – prima citato senza riferirsi precisamente ad Abramo – dal quale discendono gli arabi, mentre gli ebrei derivano da Isacco e da suo figlio Giacobbe. Ismaele sostiene il padre Abramo nello sforzo di costruire la Ka’ba alla Mecca, di trasformarla in un luogo di pura adorazione monoteistica di Dio e di renderla un centro di pellegrinaggio.107 La ripresa nell’islam del culto della Ka’ba, in sé pagano, appare così giustificata.

Che Abramo si sia spinto tanto lontano verso sud, lui che anche secondo il Corano operò in Palestina e la cui tomba secondo la comune interpretazione musulmana si trova in Hebron, non è storicamente provato. E da quando l’olandese Christiaan Snouck Hurgronje, visitatore alla Mecca, già nella sua dissertazione Het Mekkaansche Feest (1880) ha sviluppato dettagliatamente la tesi secondo la quale solo a Medina il profeta Muḥammad avrebbe sostenuto l’interpretazione di Abramo come ḥanīf e primo musulmano108 – per puntellare la sua posizione rispetto agli ebrei critici – il conflitto non si è mai placato.109 Nel frattempo, a dire il vero, anche la ricerca occidentale ha dovuto riconoscere che il legame di Abramo con La Mecca si trova già nelle prime sure del Corano110 e che l’espressione «religione di Abramo» (millat Ibrāhīm) non rimanda «esclusivamente alla polemica del primo periodo a Medina con gli ebrei (e con i cristiani)», ma trae origine da uno sviluppo «che risale in profondità nel periodo della Mecca».111 Tuttavia, in generale si rimane su due fronti: i musulmani prendono come dato storico il fatto che Abramo sia stato alla Mecca e che secondo un versetto del Corano112 abbia costruito la Ka’ba, il santuario islamico centrale, assieme a suo figlio Ismaele, o che secondo un altro versetto113 si sia limitato a «purificarla» dall’idolatria. I non musulmani, invece, la considerano una leggenda religiosa, 114 la cui non veridicità, a dire il vero, è altrettanto indimostrabile.

Anche il Corano chiama Abramo l’«amico di Dio».115 Per esso, tuttavia, è importante soprattutto il fatto che Abramo non «era né ebreo, né cristiano; piuttosto [...] un ḥanīfdevoto (a Dio) e non un pagano». 116 Scelto da Dio, Abramo sarebbe stato il primo a convertirsi all’unico vero Dio e a opporsi a ogni forma di idolatria.117 In questo modo, egli avrebbe già praticato l’«islam», la «sottomissione" incondizionata alla volontà di Dio, specialmente allorché si dichiarò disposto a sacrificare il proprio figlio (qui Isacco non viene nominato,118 l’esegesi islamica tradizionale pensa a Ismaele).

L’immagine coranica di Abramo, in particolare dal secondo periodo della Mecca, si può determinare – e in questo mi attengo ancora una volta all’analisi sistematica di Karl-Joseph Kuschel119 – attraverso i seguenti punti fermi:

– Abramo è per un monoteismo coerente e inequivocabile, che è stato riscoperto e risvegliato dallo stesso Profeta: la «religione di Abramo»;

– Abramo è la figura archetipica di ogni rifiuto dell’idolatria, che rigetta radicalmente come contraria a Dio ogni forma di venerazione o glorificazione («latria») di valori terreni o persone mortali («idoli»);

Abramo è il modello per la salvezza e la promessa, da parte dello stesso Dio, della discendenza di un monoteista combattente per la fede;

– Abramo appare come intercessore per i giusti, come mostra il salvataggio di suo fratello Lot durante la distruzione di Sodoma.120

Dunque Abramo è stato sin dall’inizio per i musulmani un grande profeta dell’unico Dio. È comprensibile che, così stando le cose, la pretesa dell’ebraismo e del cristianesimo di essere la sola vera religione debba venire contestata dal Corano. Secondo questa concezione, infatti, Abramo non fu né ebreo, né cristiano, bensì dopo Adamo il musulmano esemplare per eccellenza: «Io ti farò principe del popolo», 121 Egli era un monoteista credente, eletto da Dio, molto prima che ci fossero la Torah (in arabo Taurāt) e il Vangelo (in arabo inğīl), gli altri due libri, certamente sacri ma purtroppo falsificati da ebrei e cristiani. L’islam, quindi, può legittimarsi attraverso Abramo come la religione più antica e insieme più autentica: una religione che sarebbe stata insegnata da tutti i profeti (ai quali sarebbe stata rivelata la medesima verità) e, infine, annunciata in maniera nuova e definitiva da Muḥammad, il «sigillo» che conferma i profeti, dopo che il Profeta l’ebbe ricevuta direttamente da un angelo del Dio unico e vero, senza gli errori e le deformazioni degli ebrei e dei cristiani. Perciò per il Corano è chiaro che i musulmani sono i più vicini ad Abramo; essi non sono di certo gli unici nella discendenza di Abramo, ma sono tuttavia i soli adoratori autentici di Dio. A lui essi devono molto: il loro «nome» (muslim), la loro fede, i loro riti della Mecca e quindi anche il loro teocentrismo e il loro universalismo.

Una seconda conclusione meno bella: già sulla base di un esempio apparentemente innocuo, come questo di Abramo, ci si rende conto che abbiamo a che fare con questioni estremamente difficili, discusse appassionatamente fra le religioni e anche delicate sotto il profilo politico; anzi, qui è in gioco l’identità peculiare di ognuna delle tre religioni.

Ma tutto ciò significa, forse, che per le tre religioni solo a un primo sguardo Abramo rappresenta «un punto di riferimento comune», mentre a un secondo sguardo, che tenga presente «il modo di vedere di ogni singola tradizione religiosa» egli si rivelerebbe anche come «la quintessenza di ciò che le distingue e ciò che le separa». In questo modo, Abramo non potrebbe essere considerato «un punto di partenza ideale per il dialogo odierno»?122 Se ancora una volta si guarda più a fondo, in ogni caso Abramo non si presenta certo come punto di partenza ideale, ma sicuramente come un punto di partenza molto reale per quello che oggi si può chiamare (con un neologismo) «trialogo» tra ebrei, cristiani e musulmani.

 

Che cosa unisce ebrei, cristiani e musulmani?

A un terzo sguardo potrebbe sembrare che tra le tre religioni non vi sia certamente un accordo totale su Abramo, ma neppure un totale dissenso, semmai una convergenza che permette di considerare sensato un dialogo. Può forse una delle tre religioni pretendere Abramo in modo esclusivo? Abramo non appartiene forse a tutte loro, e non potrebbe, anzi, rappresentare una sfida per tutte e tre le religioni anche oggi?

Abramo

Abramo

Gli ebrei non possono ignorarlo: neppure nelle epoche peggiori dell’odio antiebraico medievale o moderno, la cristianità ha mai potuto dimenticare del tutto di aver avuto origine dall’ebraismo, il quale si richiama ad Abramo e con il quale continua a condividere per lo meno la Bibbia ebraica, i Salmi e molti elementi ebraici della liturgia (dall’«Osanna» fino all’«amen»). Nei due grandi Vangeli di Luca e di Matteo (il quale pure era di origine ebraica) già con la genealogia di Gesù si intendeva richiamare alla memoria il fatto che Gesù Cristo era un discendente di Abramo.123 E il Dio che «glorificò il suo servo Gesù» non era altri che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe».124 È anzi vero che, secondo l’insegnamento di Paolo, la cristianità affermò la giustificazione mediante la fede, ma secondo il modello di Abramo, il padre della fede,125 non per questo essa intese rinunciare alle opere buone, in quanto anche per Paolo la fede deve essere operosa mediante la carità. 126 Infine, assieme al vangelo di Giovanni, che come Abramo richiede operosità,127 specialmente la lettera a Giacomo sottolinea la necessità delle opere in maniera straordinariamente forte, a fronte di una «fede» che consista solo in una professione inoperosa.128

Viceversa, però, i cristiani dovrebbero osservare che nell’ebraismo i rabbini pongono certamente l’accento sull’importanza dell’obbedienza di Abramo alla Torah129 e considerano solo i figli di Isacco come i discendenti legittimi di Abramo. Eppure anche loro sono dell’opinione che la discendenza fisica di Abramo si decida definitivamente dalla sua filiazione. Anche persone dei popoli pagani possono diventare, come «proseliti» (letteralmente: sopraggiunti, convertiti), figli di Abramo. Manifestamente anche il Corano, con la sua argomentazione, ha colto benissimo qui un punto giusto: Abramo stesso all’inizio, prima di diventare il primo «missionario» monoteista, fu innanzitutto un convertito alla vera fede, e questo per molti decenni. Anzi, secondo le spiegazioni di alcuni rabbini, proprio con la sua circoncisione assai tardiva (all’età di 99 anni!) Abramo avrebbe dischiuso per sempre anche ai non ebrei la possibilità di aderire all’ebraismo, così da diventare modello non soltanto per gli ebrei, ma anche per tutti i pagani convertiti all’ebraismo (proseliti), e di conseguenza il capostipite di tutte le nazioni. Almeno in questo senso, quindi, è possibile anche per l’ebraismo una discendenza spirituale da Abramo. «[Nome], figlio del nostro padre Abramo» è il modo in cui ancora oggi ci si rivolge al convertito, per invitarlo a leggere la Torah!130 Anzi, più ancora: anche i cristiani che tali vogliono restare, secondo l’odierna teologia ebraica possono, insieme ai musulmani, essere considerati «figli di Abramo». Come dichiara lo studioso di Gerusalemme, David Flusser: «Nella religione ebraica l’esistenza del cristianesimo (e dell’islam) può essere concepita come un compimento delle promesse che Dio ha fatto ad Abramo, di renderlo padre di molti popoli».131

Infine i musulmani non possono ignorare le strette relazioni dell’islam con l’ebraismo, nonostante tutte le dottrine particolari del Corano. Per la loro fede i musulmani si richiamano alla medesima origine abramitica, mentre gli israeliti si sentono da parte loro imparentati, fin dalle origini, ai primi arabi. Storicamente, come abbiamo visto, al più tardi dai tempi del re Salomone, sono esistiti numerosi e documentabili legami economici tra il paese di Canaan e l’Arabia, che si protrassero fino all’epoca del profeta Muḥammad, quando in Arabia vivevano molte comunità ebraiche. L’esegesi coranica e la storiografia islamica integrano infatti, senza alcuna riserva, anche le affermazioni del Corano su Abramo, senza alcun intralcio, con la Bibbia o la Haggadah giudaica e, a loro volta, esercitano un influsso anche sulla tradizione e l’interpretazione ebraiche. La stessa Bibbia ebraica contiene tutta una serie di allusioni agli stretti rapporti esistenti tra ebrei e arabi; nel libro di Giobbe e nel libro dei Proverbi sono entrate numerose parole arabe, e anche la successiva Mishnah contiene sezioni che si riferiscono alle usanze degli ebrei in Arabia. Non può perciò stupire che lungo tutta la loro storia gli ebrei abbiano avvertito una certa affinità con la civiltà araba, così che i centri più fiorenti dell’ebraismo medievale si sono potuti sviluppare proprio nei paesi musulmani: sotto gli Abbasidi nell’attuale Iraq, sotto i mori in Spagna e, dopo l’espulsione da quest’ultimo paese, sotto gli ottomani a Istanbul e a Salonicco...

Già da ora ci si deve chiedere, dunque, che cosa unisce, al di là di tutte le relazioni storiche più o meno accidentali, le tre correnti del Vicino Oriente. Che cosa unisce, fondamentalmente, gli ebrei, i cristiani e i musulmani? Che cosa può essere considerato – al di là di ogni autonomia delle tre religioni – come il reale fondamento di un ecumenismo abramico di cui prendere coscienza e da realizzare nei fatti in maniera nuova? Che cosa unisce già ora le tre religioni abramitiche? Nei dialoghi interreligiosi è sufficiente mettere a confronto ebrei e musulmani con i rappresentanti delle correnti religiose indiana e cinese, per rendersi conto di quanto, nonostante tutte le polemiche, ebrei, cristiani e musulmani abbiano in comune: è soprattutto una comprensione di fondo di Dio, dell’uomo, del mondo e della storia in gran parte simile.

Una terza conclusione fondamentale e allo stesso tempo aperta sul futuro: l’ebraismo, il cristianesimo e l’isiam sono legati da importanti elementi comuni, che sono già dati con il nome di Abramo. Una specie di ecumenismo abramico fondato su una lunga storia, che tutte le ostilità e le guerre non sono riuscite a cancellare. «Una storia di un’eredità di grandissima portata» (Kurt Rudolph) «che viene in luce qui nella storia religiosa del nostro universo culturale e che ancora ai giorni nostri determina il rapporto fra le tre grandi religioni del Vicino Oriente, anche se spesso i credenti non se ne rendono (consapevolmente o inconsapevolmente) conto.»132

Una domanda si pone di fronte a questo «ecumenismo» abramico e alla simile comprensione fondamentale di Dio e dell’uomo, del mondo e della storia mondiale, nelle tre religioni abramitiche: il cristiano concepisce il cristianesimo come cammino verso la salvezza eterna. Ma anche il musulmano concepisce l’islam, questo corso della vita che determina tutto, come un cammino verso la vita eterna, verso il «paradiso», verso la salvezza definitiva. Che cosa può dire un teologo cristiano nei confronti di questa pretesa? Un problema fondamentale di primaria importanza per una migliore comprensione tra cristiani e musulmani e rispettivamente anche per i cristiani e gli ebrei.

 

Controdomanda I: l’islam – un cammino della salvezza?

Voglio avanzare una richiesta molto esplicita, non da ultimo anche in considerazione della posizione discordante del Consiglio ecumenico delle chiese. Né nelle sue Linee guida per il dialogo con gli uomini di diverse religioni e ideologie (1979), né nelle assemblee plenarie, esso è stato capace di rispondere alla domanda, oggi senza dubbio molto urgente, sulla salvezza al di fuori della cristianità. I punti di vista delle chiese che ne fanno parte sono troppo contrapposti; del tutto contrarie le chiese ortodosse dell’Est e più che mai alcune chiese protestanti fondamentaliste. Alcuni si chiedono, in maniera esasperata: che tipo di dialogo dovrebbe esserci con coloro che, a meno di convertirsi alla fede cristiana, andranno tutti quanti all’inferno?!

La posizione cattolica tradizionale fin nel XX secolo – preparata già nei primi secoli cristiani da Origene, Cipriano e Agostino – è generalmente nota: «Extra Ecclesiam nulla salus!», nessuna salvezza al di fuori della chiesa! Perciò, anche per l’intero avvenire: «Extra Ecclesiam nullus propheta!», nessun profeta al di fuori della chiesa! Il concilio ecumenico di Firenze del 1442 aveva stabilito inequivocabilmente: «La Chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che "nessuno di quelli che sono fuori dalla chiesa cattolica, non solo i pagani", ma anche i giudei o gli eretici e gli scismatici, potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, "preparato per il diavolo e per i suoi angeli" [Mt 25,41], se prima della morte non saranno stati ad essa riuniti».133 La pretesa dell’islam non è quindi già liquidata, per i cattolici? Lo è stata, pare, per più di 1200 anni.

La teologia cattolica, tuttavia, ha cercato nel XX secolo di «comprendere in modo nuovo» il valore dogmatico dell’«extra» senza compromessi e ciò significa che ha cercato per lo più di reinterpretarlo, anzi, di volgerlo nel suo opposto. Ma il dogma non è mai stato corretto pubblicamente, poiché «infallibile». Certamente la chiesa di Roma aveva già dovuto condannare, rispetto ai rigorosi giansenisti nella Francia del XVII secolo, la frase: «Extra Ecclesiam nulla gratia» (nessuna grazia al di fuori della chiesa).134 Ma se allora ci possono essere, al di fuori della chiesa, «gratia», «charis» e «carisma», non potrebbe essere che ci siano anche delle profezie – che per il Nuovo Testamento sono chiaramente un carisma – al di fuori di essa?

In ogni caso, la posizione cattolica tradizionale non è più la posizione cattolica ufficiale. Il concilio Vaticano II ha infatti spiegato finalmente nella sua costituzione dogmatica sulla chiesa (1964) in modo del tutto inequivocabile: «quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna».135

Qui vengono allora nominati proprio coloro che, già per la loro provenienza, hanno più di tutto in comune con gli ebrei e i cristiani, attraverso la fede in un unico Dio e il fare la sua volontà – i musulmani: «Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale».136

Anche i musulmani, quindi, secondo il concilio Vaticano II non hanno più bisogno di «cadere nel fuoco eterno, che è preparato per il diavolo e i suoi angeli»; essi «possono ottenere la salvezza eterna»! Questo significa che anche dal punto di vista cristiano l’islam può essere un cammino verso la salvezza.

Quest’idea potrebbe essere un buon presupposto oggettivo e mentale, per procedere ora, dopo la spiegazione della storia originaria e della preistoria dell’islam, direttamente alla questione essenziale: che cos’è il centro, qual è il messaggio centrale dell’islam?