B.

CENTRO

CON «CENTRO» NON SI INTENDE un «concetto fondamentale» o una «idea fondamentale» (in senso hegeliano), rispetto ai quali tutti gli altri concetti e idee della religione islamica sarebbero solo manifestazioni e sviluppi storici. Con «centro» non si intende neppure un «principio fondamentale», sulla base del quale si potrebbe costruire sistematicamente (come in una dogmatica vera e propria) la totalità della fede islamica. Il discorso su un «centro» dell’islam non mira alla questione teoretica di una concezione unitaria sistematica. No, esso mira alla questione, del tutto pratica, di ciò che è stabilmente valido e permanentemente vincolante nell’islam.

Né per i cristiani, né per gli ebrei, e neppure per gli stessi musulmani, è irrilevante o illegittimo chiedere: in che cosa si distingue allora la religione islamica dalle altre religioni? Qual è la peculiarità specifica della religione islamica? Per l’ebraismo, la peculiarità specifica è: Israele come popolo e terra di Dio.1 Per il cristianesimo invece: Gesù Cristo come Messia e figlio di Dio.2 Ma che cos’è allora, per l’islam

– il presupposto (non: il principio) permanente,

– l’idea fondamentale (non: il dogma) determinante,

– la forza (non: la legge) motrice?3

I. Il verbo di Dio è diventato libro

Un fondamentale malinteso cristiano sull’islam fu già quello di credere che laddove nel cristianesimo sta Gesù Cristo, nell’islam stia il profeta Muḥammad. Questo equivoco venne sottolineato dalla denominazione dell’islam come «maomettismo» e dei musulmani come «maomettani». Tali denominazioni vengono giustamente rifiutate dai musulmani. Si può infatti certamente dire nel cristianesimo, con le parole del prologo al Vangelo di Giovanni: «E il Verbo si fece carne»,4 la parola o la saggezza di Dio si è «incarnata» veramente in un uomo, in Gesù di Nazaret. Nell’islam, però, non si può dire nulla di simile del profeta Muḥammad, e nessun musulmano lo ha mai detto. Qui vale piuttosto: il verbo di Dio è diventato libro! E con ciò è anticipata la risposta fondamentale alla domanda sul centro delfislam: la peculiarità specifica della loro religione consiste per i musulmani in questo: il Corano è il verbo e il libro di Dio.5

Aspetti caratteristici delle tre religioni monoteistiche

Aspetti caratteristici delle tre religioni monoteistiche

1. IL CORANO – LO SPECIFICO DELL’ISLAM

«Nel nome di Dio (bi-smi Llāh), clemente (ar-Rahmān) misericordioso (ar-Raḥīm)! – Sia lode a Dio, il Signore del Creato – il Clemente, il Misericordioso – il Padrone del dì del Giudizio! – Te noi adoriamo, Te invochiamo in aiuto – guidaci per la retta via – la via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di quelli che non vagolano nell’errore!»6

Così recita la prima sura del Corano: «La sura aprente» (al-fātiha), che introduce anche regolarmente la preghiera obbligatoria. Alcuni autori musulmani, classici e anche contemporanei, vedono in essa il fondamento, la somma e la quintessenza del Corano: «essa (la sura aprente) contiene in forma concentrata tutti gli insegnamenti che sono messi per iscritto nel Corano: unità e unicità di Dio; Dio origine e tutore dell’universo; Dio di fronte al quale ci si dovrà infine giustificare; lui, l’unica forza che può guidare nel giusto e aiutare. Dottrina della vita dopo la morte e delle conseguenze dei fatti e del comportamento. Giusta direzione attraverso i portatori del messaggio divino e con ciò continuità di tutte le vere religioni. Necessità di abbandonarsi alla volontà di Dio e di adorare solo lui» (Muḥammad Asad).7

Ma questa «fātiha», che deve essere il fondamento, la somma e la quintessenza dell’islam, non potrebbe interamente essere recitata anche da un ebreo o da un cristiano? In ogni caso, l’ho fatto con assoluta convinzione interiore in ambiente musulmano, e anche negli incontri «trialogo», ovunque nel mondo, viene detto qualcosa di simile. Ma allora si pone più che mai la questione fondamentale: che cos’è ciò che differenzia effettivamente l’islam? Che cos’è suo peculiare, il suo centro, la sua «essenza»?

 

Definizione dell’essenza dall’essenza passata

Le definizioni dell’essenza dell’islam, sia sociologico-politiche che storico-filologiche, hanno contenuti importanti, ma rivelano spesso preoccupanti limiti di comprensione. «L’islam è il progetto di un ordine sociale», così inizia il suo libro Muslim Society il sociologo inglese Ernest Gellner.8 Oppure: «L’islam non è solo un’ideologia politica, bensì anche e soprattutto un sistema culturale», così scrive il politologo di Göttingen, di origine siriano-musulmana, Bassam Tibi.9 L’isiam è certamente anche tutto ciò, ma chissà se la maggior parte dei musulmani lo comprende in primo luogo così?

«Io mi oppongo nettamente a questa interpretazione», scrive perciò Anton Schall, islamista e semitista di Heidelberg, e sottolinea: non come «un rappresentante retrogrado di discipline elitarie, che sono mal disposte, in un modo che sembra anacronistico, verso la sociologia» e per questo rifiutano l’interpretazione di Bassam Tibi, bensì «perché Gellner e Tibi non comprendono gli inizi religiosi di Muḥammad».10

Si potrebbe essere d’accordo con questo giudizio, ma poi si esita nel leggere la definizione di islam dello studioso di Heidelberg. Sempre alla voce «Islam» nella Theologische Realenzyklopädie, opera di consultazione di origine protestante, nel volume XVI (1987) recita la prima frase di Schall: «Islam (Islām) è la religione fondata da Muḥammad Ibn ’Abdallāh ibn Abdalmuttalib, i cui aderenti si autodefiniscono musulmani. L’islam è una riduzione sincretica ed eclettica di più religioni dell’ambiente di Muḥammad. Centro della religione dell’islam è Allàh, derivato secondo l’interpretazione comune dall’arabo al-Ilāh, il Dio primario o superiore della città della Mecca già prima della comparsa di Muḥammad».11

Questa definizione, in verità, non è proprio un buon punto di partenza per un dialogo ragionevole con i musulmani sulla loro religione. Anzi, per molti musulmani queste frasi potrebbero essere tanto empie quanto i «versi satanici» condannati dall’ayatollah Khomeini, cui fa riferimento il romanzo dello scrittore anglo-indiano Salman Rushdie.12 Come il sociologo e il politologo, così anche questo semitista equivoca gli «inizi religiosi di Muḥammad» e così si comincia a capire perché alcuni orientali abbiano qualcosa contro gli orientalisti.

Certamente, da parte sua, anche il teologo cristiano ricaverebbe una comprensione ristretta dell’islam, se guardasse esclusivamente agli «inizi religiosi di Muḥammad» e nello stesso tempo abbracciasse con lo sguardo da una parte la dimensione sociale e politica dell’islam, e dall’altra la sua connessione con altre religioni. Per questo motivo io ho innanzitutto trattato, considerando un orizzonte politico e storico più ampio possibile, dei «problemi dell’inizio», prima di osare ora una definizione della sua essenza e del suo «centro».

 

Il Corano – un libro arabo, vivo, sacro

È il Corano (al-Qur’ān) il centro dell’islam. Nel corso di 1400 anni, l’ordine sociale si è continuamente trasformato, le ideologie politiche si sono date il cambio, i sistemi culturali hanno attraversato cambiamenti epocali di paradigma. Ma che cosa rimane in ogni mutamento delle persone, delle strutture, delle istituzioni e delle interpretazioni? Il Corano è origine, fonte e criterio di distinzione di tutto ciò che è islamico, di tutta la fede, l’agire e la vita islamici. A esso spetta l’autorità superiore, assoluta. E anche il sociologo e il politologo occidentali, come anche il filologo e lo storico occidentali devono innanzitutto prendere sul serio, una buona volta, ciò che il Corano significa per i musulmani credenti, del tutto concretamente, nella loro vita.

Colui che, solo come straniero, a Fès o a Kairouan, al Cairo, Amman, Kabul o Lahore, sente già nel crepuscolo del mattino recitare la chiamata alla preghiera e i versi del Corano dai minareti, non ha la benché minima idea di quale fascino possa scaturire per i musulmani dal Corano. Persino uno studioso musulmano imparziale come l’arabo Toufic Fahd, allora, può scrivere riguardo al Corano, in maniera pressoché inneggiante: «Esso sembra essere l’ultimo testimone di un’antica tradizione semitica, dove il mondo delle immagini si congiunge con il realismo, dove la parola crea la magia dell’espressione e dove il fisico è spiegato attraverso il metafisico. Un pensiero discorsovo che si propaga in frasi poste una accanto all’altra, spesso senza sostegno grammaticale, senza rapporto di causalità, di finalità, di conseguenza; idee che si ripetono, si sviluppano, si pervadono a vicenda in un insieme di parole dello stesso contesto; un’armonia di sonorità monotona, alla lunga stancante, ma spesso allettante, tranquillizzante, che si forma secondo il ritmo del respiro e che produce l’effetto del vuoto e dell’astrazione; così appare il Corano al lettore che è addestrato alle finezze della lingua araba e che è sensibile al ritmo poetico, il quale sostiene l’anima semitica attraverso tutte le incarnazioni delle civiltà che essa conosce da più di cinque millenni».13

Il Corano, quindi, non è per i musulmani un relitto del passato. Esso è un libro sacro pieno di vita, in lingua araba; ogni parola di questa caratterizzazione è importante:

1. Si tratta di un libro. Esso ha il vantaggio che ogni credente sa in che cosa crede. Qui c’è tutto quello che Dio ha rivelato in maniera diretta. Qui è fissato in modo inequivocabile quello che Dio vuole. Perciò qui non vi è più nulla da cambiare. Al contrario: il musulmano si deve imprimere tutto nella memoria, possibilmente già sin da bambino. Questo libro annuncia l’«islam»: l’«abbandonarsi a Dio»; esso regola la vita dei musulmani e insegna i loro doveri.

2. Si tratta di un libro. Il Corano non è come la Bibbia ebraica una raccolta di scritti profondamente eterogenei, che all’estraneo in un primo momento sembrano non avere un comune denominatore. Esso non è neppure come il Nuovo Testamento, che riferisce il suo messaggio in quattro Vangeli certamente molto differenziati, in molti dettagli persino contraddittori e che danno perciò luogo a qualche confusione. No, il Corano è un libro unico, di uno stesso Profeta, trasmesso nell’arco di ventidue anni, perciò coerente e, nonostante tutte le differenze di tempo e di stile, uniforme. Esso fu ordinato successivamente (in generale secondo la lunghezza) in 114 capitoli, che vengono indicati con l’espressione araba «sura» (sūra, pl. suwar) e che, per parte loro, sono costituiti da versi, le più piccole unità di testo («segni»: āya, pl. āyāt). Già nel Corano stesso si parla di un «libro» (kitāb).

3. Si tratta di un libro arabo. Il Corano, con i suoi 6666 versi, è soprattutto la più antica opera araba in prosa: essa ha favorito la diffusione della lingua e della scrittura araba come poco altro e ancora oggi svolge la funzione di criterio unificante per quanto riguarda la sintassi e la morfologia. Il Corano è però, soprattutto, il libro della rivelazione donato agli arabi, cosicché anche loro, come gli ebrei e i cristiani, sono infine detentori della scrittura, «gente del Libro» (ahl alkitāb). Essi posseggono ora un proprio libro sacro – «il libro» (al-kitāb), «il libro di Dio» (kitāb Allāh) – che può affascinare e trascinare persino i non arabi tra i musulmani, con la sua melodia commovente e con il ritmo spesso sfrenato. Anche per essi è l’arabo la lingua del culto, anche per essi la scrittura araba è in un certo modo loro propria. «Nella storia della lingua araba non vi è stato alcun avvenimento che abbia influenzato il destino di essa in maniera più durevole della diffusione dell’islam» (J. Fück).14 A parte il turco (sostituzione dell’arabo con la scrittura latina da parte di Atatiirk nel 1928) e le lingue dell’Asia centrale e sudorientale (riforma della scrittura dal 1920 circa), quella araba rimase la scrittura per il berbero, il persiano, il curdo, ma anche per l’urdu indiano e per il sindi: numerose parole straniere arabe in tutte queste lingue dimostrano la predominanza della civiltà arabo-islamica. Ancora ai giorni nostri, la letteratura araba è plasmata in modo straordinariamente forte dal Corano nelle sue metafore, nei suoi detti, nei suoi temi e nei suoi personaggi. Persino i musulmani riformisti sono dell’opinione che solo chi comprende il puro arabo comprende veramente il Corano, e perciò ogni musulmano si dovrebbe preoccupare della propria padronanza dell’arabo. Come sempre: attraverso il Corano, l’arabo divenne la lingua sacra dell’intero mondo musulmano.

4. Si tratta di un libro vivo. Il Corano non è un libro che sta nell’armadio, come una Bibbia di casa usata solo di rado, o che sarebbe da leggere prevalentemente in silenzio. Esso è un libro che viene recitato continuamente ad alta voce in ogni occasione pubblica: Qur’an deriva dal verbo qara’a = «leggere ad alta voce, recitare» e significa «lettura» o «declamazione» nel doppio (in fin dei conti quadruplice) senso della parola: una volta l’atto del declamare il testo della rivelazione (rivelazione a Muḥammad, poi trasmissione attraverso Muḥammad), poi lo stesso testo declamato e infine il libro di lettura e declamazione. Ciò che il Profeta udì, egli lo ha esattamente ritrasmesso agli uomini.

In questo libro, grazie alla prosa rimata, le sure e i versi hanno un suono tale, che esso può e deve essere recitato ritmicamente.15 Le sue parole e le sue frasi accompagnano il musulmano dal momento della sua nascita, quando gli viene detta all’orecchio la professione di fede coranica, fino all’ultima ora, quando le parole del Corano lo accompagnano nell’eternità. Con l’ascoltare, il memorizzare e il recitare, il musulmano professa la rivelazione di Dio e allo stesso tempo la fa propria. Alcuni musulmani, che hanno cominciato con lo studio già nell’infanzia, conoscono a memoria tutto il Corano; essi portano il titolo onorifico di «guardiano, custode» (hafiz). Gli straordinari declamatori professionisti, che declamano il testo in forma salmodiata, vengono stimati moltissimo come artisti. Quando il Corano viene declamato davvero con fervore, riesce altrettanto bene ad affascinare un musulmano, come la parola di un buon predicatore fa col cristiano, o il canto di un abile cantore con l’ebreo. Chi ascolta la Sura 97, quella del destino del Corano, nella traduzione tedesca di Friedrich Riickert, che è adattata al testo poetico arabo, può intuire qualcosa della qualità estetica dell’arabo coranico:

Wir sandten ihn hernieder in der Nacht der Macht.
Weißt du, was ist die Nacht der Macht?
Die Nacht der Macht ist mehr als was
In tausend Monden wird vollbracht.
Die Engel steigen nieder und der Geist in ihr,
Auf ihres Herrn Geheiß, daß alles sei bedacht.
Heil ist sie ganz und Friede, bis der Tag erwacht.16

5. Si tratta di un libro sacro. Il Corano non è un libro come gli altri, che si può anche toccare con le mani sporche, o che si potrebbe leggere con spirito sleale. No, esso è un libro prima di leggere il quale ci si deve lavare le mani con l’acqua o con la sabbia, e si deve aprire il cuore con un’umile preghiera. Non è un libro profano, piuttosto un libro sacrale da cima a fondo e talmente onnipresente, che i suoi versi, lavorati a regola d’arte nella pietra con lo scalpello, ricamati o dipinti su maioliche, ornano gli edifici islamici, ma anche le opere dell’arte dell’intaglio o della lavorazione dei metalli, della ceramica, della miniatura e della tessitura. Con un’estetica impressionante, scritti in svariate scritture, si distinguono soprattutto gli stessi esemplari del Corano; sono spesso rilegati lussuosamente e perlopiù decorati con arabeschi colorati. La casa di Dio musulmana, la moschea, non conosce quadri, ma la calligrafia del Corano da sola è sufficiente. La liturgia musulmana non conosce né strumenti musicali, né canto corale, ma la declamazione festiva del Corano è sufficiente alla musica. Allora il Corano è per i musulmani, detto in modo cristiano, parola e sacramento in uno: verbo ascoltabile e visibile (verbum audibile et visibile). Una parola che offre una guida spirituale, che è avvertimento e ammonimento, che produce ricordo e discernimento – e tutto questo in modo incomparabile, poiché deriva direttamente da Dio. Non è solo «ispirata» da Dio, bensì «rivelata» da Dio e perciò direttamente «verbo di Dio» (kalimat Allāh).

Ma come ci si deve immaginare questo: un libro sulla terra sarebbe il verbo di Dio? Il musulmano non vede nessun problema, in ogni caso molti meno problemi di quando i cristiani sostengono che un uomo è il verbo di Dio. Accettare l’uno o l’altro è, in ultima analisi, una questione di fede. Di certo, per i musulmani come per i cristiani, questione di una fede non cieca, bensì di una fede che comprende.

 

Il Corano – il verbo di Dio

Il Corano è la sacra scrittura dell’islam, che contiene le rivelazioni del profeta Muḥammad, così si legge talvolta. Questo è giusto, ma per i musulmani è ambiguo: rivelazioni del profeta Muḥammad – deve significare che il Profeta è il soggetto, l’autore di questa rivelazione? Secondo l’immagine che il Corano ha di sé, assolutamente no! Il Profeta non è altro che l’oggetto, il destinatario di questa rivelazione, il cui soggetto, il cui autore è solamente l’unico Dio. E questa rivelazione dà essa stessa un ragguaglio su come ciò deve essere pensato. «Ecco i segni del libro chiarissimo», così dice Dio al Profeta all’inizio della sura di Giuseppe,17 «ecco l’abbiam rivelato in dizione araba e che abbiate a comprenderlo. – Noi ti narreremo ora la più bella delle storie, col rivelarti questa Lettura, nonostante che tu, prima, sia stato fra i non curanti.»

Storicamente è certo: tra il 610 e il 632, Muḥammad annunciò, nelle città mercantili della Mecca e di Medina sulla via dell’incenso, il messaggio profetico che è fissato nel Corano. Secondo alcune affermazioni tuttavia – e qui si fa appello alla fede – il Corano è stato trasmesso al profeta Muḥammad dall’angelo Gabriele: «Gabriele (Ǧibrīl) fu lui che depose il Corano nel tuo cuore, col permesso di Dio, a conferma dei precedenti messaggi, Guida divina e Buona Novella ai credenti».18

Certamente il libro originario («la madre del libro»: umm al-kitāb) che vale come originale di tutti gli scritti sacri, secondo l’interpretazione musulmana comune, non è custodito sulla terra, bensì in cielo, come si può capire leggendo il Corano stesso: «Che questo è un Corano nobilissimo (in originale lassù nel cielo?) – vergato su libro ascoso – che toccare non possono che i Puri – (ora come) rivelazione del Signore del Creato!».19 O in un altro punto: «E questa è un lettura santissima (che viene qui annunciata), (nell’originale lassù in cielo?) preservata su tavole pure».20

In questo modo è diventato il libro del verbo di Dio: nella «notte del destino» (Laylat al-qadr) – nel mese di digiuno di Ramadan celebrato solennemente – i musulmani festeggiano la rivelazione del Corano, mandata da Dio agli uomini per la retta direzione. Dove nel cristianesimo vi è il logos divino divenuto uomo, nell’islam c’è il verbo di Dio divenuto libro: «È il mese di Ramadan, il mese in cui fu rivelato il Corano come guida per gli uomini e (i versi del Corano) come prova chiara di retta direzione e salvazione».21

In questo modo il Corano si manifesta come il costante presupposto dell’islam da noi cercato, la sua idea fondamentale, la sua forza trainante. E, in quanto attestato originario della definitiva rivelazione di Dio valida, il Corano ha profondamente plasmato tutti gli ambiti dell’islam. Ciò che la Torah rappresenta per gli ebrei e Cristo per i cristiani, il Corano lo è per i musulmani: «la via, la verità e la vita». In effetti il Corano è per tutti i musulmani:

– la verità: la fonte originaria dell’esperienza di Dio e della devozione e il criterio vincolante della giusta fede;

– la via: la vera possibilità di superare il mondo e la norma di comportamento valida in eterno (ethos);

– la vita: il fondamento durevole del diritto islamico e l’anima della preghiera islamica, la materia di insegnamento già per i bambini musulmani, l’ispirazione dell’arte islamica e dello spirito della civiltà islamica che tutto pervade.

Il Corano è quindi allo stesso tempo un codice religioso, etico e giuridico-sociale, che è tuttavia verità, cammino e vita solo in quanto è verbo di Dio. E il fatto che il Corano sia il verbo di Dio ha pesanti conseguenze: gli attributi divini lo contrassegnano. Il Corano è, secondo la tradizionale dottrina musulmana, (e qui si tratta proprio di dogmi islamici):

perfetto dal punto di vista linguistico: l’arabo ha ottenuto con il Corano lo status di una lingua divina, che è santa e solenne, senza carenze e asperità, tuttavia non senza segreti, che non potranno mai essere tutti decifrati dagli interpreti;

unico nel suo genere, inimitabile e insuperabile: il Corano è per i musulmani una meraviglia, che supera le capacità umane. Gli infedeli non avrebbero mai potuto produrre un simile scritto, neppure dieci sure, anzi, neppure una, si dice già nel Corano stesso.22 Il Profeta, quindi, non ha bisogno di alcun miracolo per essere accreditato, poiché il Corano stesso è il più grande miracolo di attestazione;

intraducibile: ogni giovane musulmano dovrebbe conoscere a memoria il Corano in arabo. Ma poiché ciò è praticamente impossibile, si devono utilizzare delle traduzioni, che però si definiscono preferibilmente come delle spiegazioni o parafrasi. In effetti il Corano, con il suo ritmo e le sue parole in rima, è straordinariamente difficile da tradurre. Nelle traduzioni fatte da musulmani normalmente viene riprodotto insieme anche il testo arabo;23

infallibile e assolutamente affidabile: poiché la rivelazione venne consegnata parola per parola al Profeta, essa deve essere esente da ogni errore e anche da contraddizioni: «Non esaminano dunque il Corano? Se venisse da altri che (da) Dio vi troverebbero contraddizioni numerose».24

In fin dei conti, allora, ci si chiede ora certamente: un libro «caduto dal cielo», non di questo mondo, non può neppure essere esaminato secondo criteri scientifici laici?

2. IL CORANO – UN LIBRO CADUTO DAL CIELO?

«Un libro caduto dal cielo» così si parla spesso in Occidente del Corano. E in un mondo secolarizzato, dove nel migliore dei casi cade dal cielo un meteorite o la capsula di missile, ma in nessun caso un libro sacro, il Corano viene liquidato sin da principio come inattendibile. Ma il Corano, secondo l’interpretazione islamica, è veramente caduto come libro dal cielo? Niente affatto. Piuttosto, esso fu calato nel «cuore»25 del Profeta, fu annunciato da lui e soltanto in seguito scritto e raccolto. Anche la scienza coranica islamica ortodossa non ha mai nascosto che il libro sacro, come lo possediamo noi oggi, nacque soltanto decenni dopo la morte del Profeta.

 

Un processo di formazione del canone in tutte le «religioni del Libro»

In linea di massima, tutte le tre religioni profetiche hanno conservato il proprio libro sacro solo in seguito a un lungo processo di origine, e di formazione del canone. Laddove gli scritti della Bibbia ebraica si formarono in un lasso di tempo di forse mille anni, e quelli del Nuovo Testamento in meno di cento, il Corano si formò in ventidue anni. Il processo di formazione del canone, per fissare la precisa consistenza della scrittura riconosciuta sacra, fu rispettivamente più breve.

– Nell’ebraismo la «Torah» (i cinque libri di Mosè) fu redatta al più presto a partire dall’esilio babilonese, forse soltanto dalla soglia tra il V e il IV secolo a.C.; i «Profeti» (Neviim) vennero redatti soltanto alla fine del III secolo e le «Scritture» (Ketuvim: Salmi, Giobbe, Cantico dei Cantici...) ancora più tardi. Solo riguardo al paradigma teocratico del giudaismo postesilico (ebreo P III) si può parlare di un libro sacro, la Bibbia ebraica (indicata con l’acronimo «Tanak» costituito dalle iniziali di Torah, Neviim e Ketuvim).

– Nel cristianesimo vennero composte già vent’anni dopo la morte di Gesù di Nazaret le prime lettere dell’apostolo Paolo e, entro la fine del I secolo, anche tutti e quattro i Vangeli. Soltanto alla fine del II secolo, tuttavia, furono fissati circa i nove decimi del canone definitivo. Quanto ad alcuni scritti, a dire il vero di second’ordine, si decise solo verso la fine del IV secolo nei sinodi (cristianesimo P II), che essi corrispondono alla «norma» (greco: kanon = «norma, criterio») della chiesa e sono allora «canonici» e di conseguenza possono essere letti durante la liturgia.

– Nell’islam il processo di formazione del canone non durò tanto a lungo. Non si trattava, infatti, di raccogliere e riconoscere gli scritti di diversi autori, bensì di raccogliere, ordinare e pubblicare diverse sure dell’unico Profeta. E in questo processo di formazione del canone non avevano voce i vescovi e i sinodi, bensì il califfo (sostituto del Profeta dopo la sua morte), i dotti e infine anche i tribunali.

 

La rivelazione coranica, secondo la tradizione, fu trascritta all’inizio su foglie di palma, pietre, pezzi di osso, pelle e legno. Molti musulmani accettano che il Profeta fosse analfabeta. In ogni caso è dubbio che egli si sia occupato di redigere o almeno ordinare la rivoluzione: Sicuramente ai posteri non ha lasciato alcun libro.

E tuttavia è certo che molti musulmani conoscevano a memoria alcune delle sure recitate continuamente, alcuni forse la gran parte del futuro libro. Certuni possono aver trascritto per sé interi passaggi. Ma chi ha raccolto, trascritto, ordinato e redatto il tutto? Una volta morto il Profeta e diventati sempre più vecchi i suoi compagni, si prese la decisione di riunire tutto ciò che era stato trasmesso in un libro che fosse facilmente comprensibile.

 

Un lungo e complicato processo di raccolta e pubblicazione

Delineiamo qui brevemente il processo nel corso del quale si completò la formazione del canone del Corano, in base alle indicazioni della tradizione musulmana.26

1. Ci fu un’edizione provvisoria del Corano già sotto il primo califfo Abū Bakr? Che sia stata ordinata una raccolta delle sure già sotto di lui, il cui dominio durò solo due anni (632-634), o del successivo califfo ’Umar, viene messo in dubbio nella ricerca storica – per diversi motivi, ma soprattutto perché in un altro racconto manca il nome di Abū Bakr.27 Di certo si può difficilmente escludere che un precedente segretario di Muḥammad, Zaid ibn Ṭābit, già sotto il secondo califfo ’Umar (634-644), uno stretto compagno del Profeta, abbia cominciato il proprio lavoro di trascrizione e raccolta. In ogni caso, sembra che la figlia di ’Umar, Ḥafṣa, una vedova del Profeta, abbia posseduto singoli fogli, forse già persino un codice. Questo, tuttavia, non era di certo l’unico, poiché vi era un’intera schiera di conoscitori del Corano e nelle diverse province del nuovo regno, erano già in circolazione differenti versioni del Corano, che differivano in numerose parti e nella disposizione delle sure. Si imponeva dunque un ordine.

2. L’edizione canonica: il Corano del califfo ’Uṯmān. In particolare durante le campagne militari arabe verso l’Armenia e l’Azerbaigian, tra i musulmani della Siria e alcuni dell’Iraq si era giunti a uno scontro sulla giusta interpretazione (variante) delle sure. In ogni caso, è certo che sotto il terzo califfo, ’Uṯmān (644-656), venne compilato un testo del Corano più autorevole. Un Corano che in futuro doveva essere l’unico testo vincolante e in questo modo una specie di «vulgata coranica ("generalmente in uso")». Ancora oggi tutte le edizioni del Corano sono essenzialmente copie del Corano di ’Utmàn. Tale esito fu possibile grazie alla grande attività letteraria e redazionale sui numerosi e piccoli frammenti, oltre che sulla tradizione orale, operata da Zaid ibn Tābit e da tre compilatori della Mecca. In molti casi le sure poterono già essere strutturate come delle unità separate. In alcuni punti i redattori si sono dati poca pena per evitare disuguaglianze o fratture, ma di certo non hanno mai unito degli elementi del testo in maniera arbitraria.28

Già ’Uṯmān inviò delle copie di questo testo dell’unità da Medina nei più importanti centri del regno, a Damasco in Siria, a Kufa e Bassora in Iraq e anche alla Mecca. Una resistenza degna di nota da parte dei recitatori del Corano contro il nuovo testo canonico di ’Utmàn non si è mai verificata da nessuna parte. In generale si ritenne che quest’edizione contenesse l’essenziale della rivelazione donata dal Profeta per la comunità islamica. D’altra parte è certo che l’ordine del califfo, di far cancellare tutte le edizioni del Corano precedenti, non venne eseguito. Esse rimasero conservate perlomeno in frammenti. In seguito, presso i dotti si parlerà continuamente delle ulteriori «versioni» (qirā’ăt) e dei codici (maṣāḥif). E i commentari classici, quello enorme di aṭ-Ṭabarī o quello concentrato e quindi popolare di al-Baidāwī (di cui vi sono più di 80 commentari arabi e circa 70 turcoottomani) registrano varianti sempre più piccole, cosicché all’inizio del X secolo alcuni dotti musulmani redassero persino un proprio studio di queste varianti, che a dire il vero non portò alla luce alcuna differenza importante. Occorre comunque ricordare che l’edizione dell’unità di ’Utmàn apparve poi insufficiente sotto molti aspetti, ed è ora definita dai filologi una «scriptio defectiva».

3. Dall’edizione insufficiente a quella pienamente valida: l’edizione standard del 1923, pubblicata su iniziativa del re egiziano Fu’ād dagli studiosi dell’Università di al-Azhar sulla base della tradizione testuale irachena.

Le sure erano state fissate, in maniera inequivocabile, nel numero e nella successione, dall’edizione di ’Uṯmān, ma tutto ciò era riprodotto in una scrittura consonantica, senza vocali e con le consonanti prive di segni diacritici, cosicché erano possibili ambiguità e malintesi rispetto a numerose parole e versi. Sotto molti aspetti, questo testo era più un promemoria che un documento univoco e normativo. A tutto ciò si aggiungevano i modi di declamare il testo, spesso molto diversi. Si impose allora la necessità di migliorare nuovamente l’edizione del Corano: questo accadde gradualmente col segnare le vocali, coi segni per la differenziazione tra consonanti della stessa forma e coi segni per la recitazione (pause ecc.). Il risultato non fu più una «scriptio defectiva», bensì una «scriptio plena», un’edizione pienamente valida senza dubbi e problemi testuali.

Ma in questo modo i problemi dell’edizione di ’Uṯmān divennero più che mai visibili: chiaramente non vi era completa corrispondenza e altrettanto chiaramente non la si poteva neppure ricavare. Negli importanti centri della scienza coranica – a Medina e alla Mecca (per l’Arabia), a Damasco (per la Siria) come anche a Bassora e Kufa (per l’Iraq) – si continuava a recitare il Corano in modi differenti, con varianti testuali o di dizione: si mantenevano dunque diverse «varianti» (qirā’a, pl. qirā’āt) del Corano. Per questo si cercò presto di limitare perlomeno la scelta individuale dei diversi «lettori del Corano» (qāri’, pl. qurrā): questi recitatori del Corano assomigliavano agli antichi rapsodi, che recitavano i testi a memoria in modi sempre differenti.

Sarebbero state sette le versioni, né più né meno, e sette i famosi recitatori: così spiegò attorno al 900 Ibn Mugahid di Kufa – fissando il sette per motivi teologici (il teologo cattolico si ricorda del Concilio di Trento del XVI secolo, coi suoi sette sacramenti, né più né meno). Questa idea ha avuto fortuna: vengono accettate sette versioni del Corano, tra le quali non occorre che vi sia perfetta coerenza. E naturalmente, nel corso del tempo, si è affermata per motivi pratici un’unica versione: la lezione di ’Aṣim (morto nel 744) di Kufa, nella trasmissione di Ḥafṣ (morto nell’805). Quest’unica lezione costituì infine il fondamento per l’edizione standard del Corano pubblicata nel 1923 in Egitto, che oggi gode della massima considerazione e perciò viene utilizzata quasi ovunque.

Persino gli sciiti seguono il Corano di ’Uṯmān,29 sebbene talvolta gli rinfaccino l’appropriazione indebita di materiale sul loro «antenato» ’Ali e sulla famiglia del Profeta. A dire il vero questa è un’accusa di falsificazione dogmatica, non qualificata storicamente, che non può inficiare l’autorità della versione di ’Uṯmān e l’attuale edizione standard. Naturalmente è possibile che le prime rivelazioni fossero già cadute nell’oblio quando Muḥammad era in vita; secondo un ḥadīṯ, lo stesso Profeta ammise in un caso di aver dimenticato certi versi del Corano. Ma nel complesso i musulmani suppongono che le rivelazioni del Profeta si siano conservate complete, senza falsificazione come confermano, del resto, alcuni ricercatori occidentali: «Le conoscenze della scienza moderna avallano l’interpretazione secondo cui il testo del Corano, nella sua forma attuale, è in tutti i punti essenziali il testo che Muḥammad ha lasciato ai suoi seguaci» (W.M. Watt).30 Ci si dovrà occupare della più recente critica storico-formale in un momento successivo.

Le sure furono però ordinate anche nella giusta successione? Qual è la cronologia delle singole sure, che è certamente di importanza decisiva per la loro comprensione? Non vi è una storia di questa rivelazione che si possa fissare? In misura limitata, questo viene sancito anche dalla dottrina tradizionale, attraverso la definizione dei periodi della rivelazione.

 

I periodi della rivelazione

Con l’edizione standard, disponiamo ora di un testo del Corano perfettamente definito: le 114 sure con tutti i segni delle vocali, con i punti diacritici, le indicazioni per la recitazione e talvolta anche con la sottotitolazione in singoli capitoli e sezioni. Le sure sono ordinate in generale secondo lunghezza decrescente: la più lunga, la sura 2, dopo la sura aprente, conta 286 versi, la più corta, alla fine, non più di tre. Tutte sono provviste di brevi intitolazioni, aggiunte più tardi: non titoli veri e propri, bensì spunti per aiutare la memoria nella declamazione. L’intitolazione può essere presa dal nome del personaggio principale della sura, oppure semplicemente da una parola tratta dalla sura (spesso dal primo verso).

Ma per una reale comprensione delle singole sure è necessaria la storia del testo oltre alla loro perfetta riproduzione. I lettori spesso vogliono sapere quando e in quale occasione ha avuto luogo la rivelazione e, in base a questo, come essa debba essere compresa. Che cosa potrebbe dare più informazioni sulla personalità del Profeta stesso e sullo sviluppo del messaggio coranico di una cronologia relativamente certa dei testi coranici? In base a ciò non si comprenderebbero anche gli aggiustamenti degli accenti importanti per i contenuti e non si spiegherebbero alcune insensatezze e fratture nel testo dato?

La ricerca coranica musulmana è senz’altro sensibile alla questione della cronologia. Lo si evince già dall’indicazione del luogo di provenienza delle sure, che permette anche un’approssimativa suddivisione dei tempi: le sure meccane dal 610 al 622 (emigrazione) e quelle medinesi dal 622 al 632 (morte). Anche nelle stesse sure si trovano già accenni a determinati avvenimenti storici: sulla vita di Muḥammad (soprattutto la sua esperienza della vocazione), sui conflitti con gli oppositori e i nemici nella città della Mecca o sul destino della comunità (soprattutto il trasferimento dalla Mecca a Medina) e poi sugli avvenimenti dell’epoca di Medina (determinate battaglie, la cacciata degli ebrei). Anzi, nel Corano vi sono ulteriori affermazioni che hanno già portato gli interpreti musulmani a interrogarsi sulla rispettiva causa della rivelazione, cosicché infine si è sviluppata un’intera letteratura sulle «cause della rivelazione» (asbāb an-nuzūl). A dire il vero, essa contiene talvolta elementi contraddittori e leggendari ed è utilizzabile solo in parte per la ricerca storica. Ora è comunque possibile, anche in base all’edizione standard egiziana del 1923, un’elencazione cronologica tradizionale di molte sure.

La ricerca coranica europea accetta nel modo più ampio possibile i risultati dei musulmani, ma va anche oltre. Che cosa l’ha resa capace di farlo? I metodi della ricerca filologica storico-critica, che in Europa sono stati sviluppati soprattutto in relazione all’indagine della Bibbia, e che però per l’islam, nonostante tutti gli sforzi dell’islamistica e dell’arabistica (come scienze della lingua e della letteratura) sono ancora in gran parte agli inizi.31 Ci si chiede: non dovrebbe essere possibile stabilire uno sviluppo (naturalmente nel contesto degli avvenimenti noti) anche nel Corano, che fu rivelato nel corso di vent’anni, in base all’evidenza interna del contenuto, dello stile e del vocabolario?

A questo risultato arriva – preparata dalla «introduzione storico-critica» di Gustav Weil32 – una vera opera pionieristica del 1860: la Geschichte des Qōrans («Storia del Corano») del già citato Theodor Nöldeke (cfr. cap. A I, 1), rivista e ampliata dal suo miglior studente Friedrich Schwally e da altri in tre volumi (1909, 1919, 1938),33 e ripresa con pochi cambiamenti anche dal principale studioso francese del Corano, Régis Blachère.34 La struttura cronologica definita da quest’opera è ancora oggi il fondamento per un consenso internazionale di vasta portata nell’indagine storico-critica del Corano.35 La tradizionale suddivisione musulmana delle sure meccane e medinesi, per esempio, non viene rigettata da Nöldeke e Schwally, bensì solo raffinata e differenziata secondo le peculiarità formali e, quindi, linguistiche e letterarie del testo coranico. Si possono distinguere tre periodi alla Mecca e uno a Medina e inoltre si può stabilire un lento cambiamento di stile dai versi marcatamente poetici, brevi, ritmici alla Mecca, sino ai versi a poco a poco più lunghi e infine alle lunghe affermazioni prosaiche di Medina. Senza riportare le tabelle dei versi e delle sure che si trovano in Nöldeke-Schwally e Blachère,36 descriviamo qui brevemente i quattro periodi della rivelazione secondo Nöldeke-Schwally, che a dire il vero già Nöldeke voleva intendere non come cronologia assoluta, bensì come «successione di sviluppo».

Le sure del primo periodo, quello iniziale della Mecca (610-615: piccola emigrazione di famiglie musulmane verso l’Etiopia) mirano alla conversione degli infedeli all’unico vero Dio. Nello stesso tempo vengono evidenziate in modo drastico le pene dell’inferno dei peccatori e la beatitudine dei devoti. I numerosi giuramenti ricordano le sentenze dei veggenti o degli indovini pagani. Le sure sono brevi, la lingua dei versi ritmati è poetica. «Il discorso è imponente, solenne e pieno di immagini ardite, lo slancio retorico ha ancora una colorazione completamente poetica.»37

Nelle sure del secondo periodo, quello medio della Mecca (615-620: ritorno di Muḥammad dalla città di Tà’if) i giuramenti sono più rari, aumenta la lunghezza dei versi e delle sure, ma essi non hanno alcun tratto comune. «Noi vediamo in essi il passaggio dall’entusiasmo grandioso alla grande tranquillità delle sure successive più prosaiche. »38 Sono soprattutto illustrazioni della natura e della storia (in particolare dei primi profeti della Bibbia ebraica), che richiamano alla fede nell’onnipotenza e nella bontà di Dio.

Le sure del terzo periodo, quello tardo della Mecca (620-622: grande migrazione verso Medina) sono più lunghe, danno l’impressione di essere meno ispirate e sembrano talvolta ripetitive. «La lingua diventa dilatata, stanca e prosaica.»39

Le sure del periodo di Medina (622-632: morte del Profeta) sono indirizzate a consolidare la comunità dei musulmani e l’attività di Muḥammad come il loro capo riconosciuto, spirituale e temporale. Da una parte, queste sure attaccano il politeismo dei pagani, dall’altra si difendono dalle pretese degli ebrei e dei cristiani. Stilisticamente sono meno diverse dalle sure del terzo periodo della Mecca, ma contengono numerose norme, prescrizioni rituali e disposizioni amministrative.40

Tutte queste definizioni sono solo approssimative. Molto, nella ricerca coranica, è ipotetico e manca ancora una solida verifica. Si porta ad un limite estremo l’esame del testo quando alcune sure, all’epoca tramandate senza disputa, vengono semplicemente scomposte in versi o in minuscole unità, le quali poi vengono di nuovo combinate secondo presunti criteri oggettivi (dello studioso in questione!). Tuttavia, in questo modo sono stati raggiunti importanti giudizi sul Corano. E se esso può sempre essere contestato o incerto nel dettaglio, non vi può essere alcuna incertezza su quello che anche oggi è il messaggio centrale del Corano. In esso è radicata la fede musulmana.

 

Il Corano come costante dell’islam

Il Corano è più che una parola trasmessa oralmente e quindi facilmente modificabile: esso è la parola scritta, fissata una volta per tutte e perciò non più passibile di cambiamenti successivi; in questo è simile alla Bibbia. Essendo stato fissato per iscritto, il Corano ha procurato una straordinaria continuità nella storia dell’islam, così mutevole e molteplice, di secolo in secolo, da paese a paese, di generazione in generazione, da persona a persona. Ciò che è scritto rimane scritto.

«Sebbene il Corano sia stato formato dalla comunità musulmana», afferma il teologo musulmano Mahmoud M. Ayoub, «in pratica è il Corano che ha creato la comunità e rimane il fondamento della sua fede e della sua moralità. Molti versi furono determinati singolarmente dalle condizioni e dalle questioni sociali e religiose della società del Profeta, tuttavia si crede che il Corano vada oltre ogni riflessione di epoca e luogo».41 In tutte le diverse interpretazioni e i diversi commenti, in tutti gli ordini sociali, le ideologie e i sistemi differenti, in ogni elaborazione del diritto islamico, della sharia, il Corano resta il comune denominatore, qualcosa come il comune «filo rosso» che sembra intrecciato in tutti gli aspetti, i riti e le istituzioni islamiche. Se si vuole sapere che cos’è non solo l’islam cresciuto storicamente, bensì anche che cos’è l’islam normativo, ancora oggi non si può fare altrimenti che ritornare all’origine, al Corano del VII secolo. Esso viene riconosciuto da tutti i gruppi islamici come rivelazione divina. Esso è per l’islam e per tutta la sua legislazione qualcosa come la costituzione data da Dio, la legge fondamentale rivelata, che – nonostante tutta l’ampiezza dell’interpretazione a seconda del luogo, del tempo e della persona – non può essere interpretata a proprio piacimento.

Sicuramente il Corano non ha in alcun modo predeterminato lo sviluppo dell’islam, ma è vero che lo ha sempre nuovamente ispirato. Esso ha permeato tutta la legge religiosa, e ha formato la giurisprudenza così come la mistica, l’arte e in generale il modo di vivere degli uomini. I commentatori andavano e venivano, ma il Corano restava: in tutte le innumerevoli variabili di tempo e di luogo, esso è la grande costante dell’islam. Se si vuole rispondere alla domanda posta nell’introduzione, su che cosa è fondata la forza dell’islam, allora si dovrà in primo luogo indicare il Corano. Esso è la fonte principale e la norma della fede e del comportamento musulmani. Esso trasmette all’islam gli obblighi etici, la dinamica esterna, la profondità religiosa, ma anche convinzioni di fede e principi etici del tutto determinati e che si mantengono costantemente: la responsabilità dell’uomo di fronte a Dio, la giustizia sociale e la solidarietà musulmana.

Allora il Corano è il libro sacro dell’islam, in quanto esso, proprio come parola messa per iscritto, venne compreso all’atto pratico non come parola umana, ma come il verbo di Dio. Anzi, per i musulmani esso è diventato il libro del verbo di Dio. Ma si può chiedere: anche i cristiani possono riconoscere questo libro come verbo di Dio?

 

Controdomanda Il- il Corano – verbo di Dio anche per i cristiani?

Per secoli fu vietato porre questa domanda in maniera seria: sui musulmani (come sui cristiani rispetto alla Bibbia) incombeva la scomunica con tutte le sue conseguenze. E come non vedere che questa domanda ha profondamente diviso l’umanità dalle prime conquiste islamiche, dalle crociate, dalla conquista di Costantinopoli e l’assedio di Vienna sino alla rivoluzione iraniana sotto l’ayatollah Khomeini? Poiché così ovviamente come i musulmani dall’Africa occidentale fino all’Asia centrale e all’Indonesia dicono sì al Corano in quanto verbo di Dio e orientano verso di esso la loro vita e la loro aspirazione, altrettanto ovviamente dicono no i cristiani ovunque nel mondo. E non solo loro, bensì anche gli scienziati occidentali e secolarizzati delle religioni, che altrettanto ovviamente non hanno inteso il Corano come verbo di Dio, bensì sempre come parola di Muḥammad.

Fu lo studioso canadese delle religioni Wilfred Cantwell Smith ad analizzare per primo, nel 1963, questa domanda, ancora minacciosa per i fedeli di entrambe le parti: «Il Corano può essere verbo di Dio anche per i cristiani?».42 E bisogna concordare con lui: le due risposte, date entrambe stranamente anche da uomini intelligenti, critici e senz’altro onesti, si basano in fin dei conti su di una pre-convinzione («pre-convinction») non indagata. Rispondere diversamente sembra dar luogo a una miscredenza – così i musulmani considerano la risposta negativa alla domanda, data da parte cristiana – o a una superstizione – così i cristiani considerano la risposta positiva alla domanda, data da parte musulmana.

Il collega americano di Smith, Willard Oxtoby, si preoccupa di far presente come ammonimento, rispetto allo studio delle religioni, che «You get out what you put in», ovvero che si ricava come risultato ciò che si è prima inserito: è proprio così? Colui che sin da principio considera il Corano come il verbo di Dio, si vedrà sempre confermato nel corso della lettura – e viceversa?

Allora mi chiedo: bisogna sempre rimanere a questa contraddizione, che alla lunga non può soddisfare nessuno dal punto di vista intellettuale? Non ci sono sempre più cristiani e forse anche musulmani che, dopo essersi procurati migliori informazioni sulla propria religione e su quella degli altri, pongono domande autocritiche? Voglio qui indirizzare una domanda critica in primissimo luogo ai cristiani: si può, in quanto cristiani, considerare il Corano come verbo di Dio per i musulmani?

Troppo a lungo la teologia cristiana ha squalificato il Corano semplicemente come «libro delle bugie» rattoppato in base a elementi biblici. Ancora l’eminente autore della «primissima traduzione tedesca dallo scritto arabo originale», il professore David Fridriech Megerlin, presentò nel 1772 il Corano sul frontespizio come «la Bibbia turca» e nella pagina di fronte un’incisione di «Mahumed, il falso Profeta».43 Similmente anche il primo traduttore diretto in una lingua volgare europea, il francese André du Ryer (1647). Per fortuna il teologo cattolico di Tübingen Johann Adam Möhler nel 1830 dette rilievo, per primo, all’autonomia del Corano come documento religioso, in un saggio su Gesù e Muḥammad. Con l’assunzione che Muḥammad non sarebbe altro che un impostore e un falso profeta, diventerebbe «quanto di più inspiegabile [...] la nascita del Corano, nella quale a noi spesso si fa incontro una pietà del tutto originale, un raccoglimento toccante e una poesia religiosa del tutto peculiare. È impossibile che questo sia qualcosa di falso e forzato, come dovremmo ammettere se volessimo trovare in Muḥammad un mero impostore. [...] Molti milioni di uomini nutrono e conducono in base al Corano una vita degna di rispetto, religiosamente integra, e non si creda che essi attingano da una fonte vuota».44

Per di più, la missione islamica dei cristiani si è rivelata completamente inefficace, come d’altra parte è stata e rimane inefficace la missione cristiana dei musulmani. E quanto più i cristiani e i musulmani si sono conosciuti e non hanno più cercato semplicemente di «convertirsi» a vicenda, tanto più i cristiani hanno cominciato a chiedersi se la propria posizione negativa nei confronti del Corano fosse giusta. Per la nostra attuale problematica teologica non è decisivo determinare come Muḥammad abbia ricevuto la rivelazione; per la formulazione della nostra domanda è decisivo se Muḥammad abbia ottenuto una rivelazione di Dio.

Ma d’altra parte come cristiani si può porre una domanda del genere? Una simile possibilità non dovrebbe essere esclusa sin da principio, in base alla Bibbia? Non si trova nel Nuovo Testamento una gran quantità di affermazioni negative sull’errore, le tenebre e la colpa del mondo non cristiano? Ma in effetti, questi giudizi riguardano gli uomini che rifiutano colpevolmente il messaggio biblico. Essi sono però più dei chiari inviti alla conversione, che dei giudizi di dannazione definitivi. E accanto a ciò si trovano anche – e questo non può essere ignorato – non poche affermazioni positive sul mondo non cristiano, secondo le quali ci sarebbe un’originaria manifestazione di Dio a tutta l’umanità. Anzi, anche i non ebrei e i non cristiani possono riconoscere il vero Dio secondo l’Antico e il Nuovo Testamento; essi possono riconoscere ciò che questi stessi testi intendono come rivelazione di Dio nella creazione.

Possiamo allora escludere, davanti a questo sfondo biblico, che innumerevoli uomini dell’antichità e del presente conobbero e conoscono il mistero di Dio in seguito alla rivelazione di Dio nella creazione? 45 Possiamo escludere che ad alcuni uomini fu donata una particolare conoscenza in materia, fu affidato un particolare compito, toccò un particolare carisma? E questo, sulla base di tutto quello che è stato detto, non potrebbe essere anche il caso di Muḥammad, il Profeta dell’Arabia pagana? «Extra Ecclesiam nulla conceditur gratia» - al di fuori della chiesa non viene concessa alcuna grazia: questa concezione venne espressamente condannata persino dal magistero romano. 46 Se riconosciamo Muḥammad come profeta post-cristiano, allora dobbiamo anche coerentemente ammettere ciò che conta più di tutto per i musulmani: che Muḥammad non ricava semplicemente da sé la rivelazione, che la sua rivelazione non è semplicemente la parola di Muḥammad, bensì il verbo di Dio.

Ma che cosa significa verbo di Dio? Che cosa si intende per rivelazione? La rivelazione di Dio deve veramente essere stata non solo ispirata in maniera diretta da Dio parola per parola, bensì dettata? Questo a dire il vero non lo credono solo i musulmani, ma anche alcuni cristiani – naturalmente rispetto alla Bibbia. Su questo punto, divenuto di scottante attualità solo negli ultimi tempi, si dovrà discutere dettagliatamente in un successivo capitolo sull’attuale contrapposizione teologica (cap. D IV,1).

II. Il messaggio centrale

La professione di fede ebraica (che è stata ampiamente illustrata nel libro sull’ebraismo)1 si può esprimere in una frase: «Jahvè è il Dio di Israele e Israele è il suo popolo». Lo stesso vale anche per la professione di fede del cristianesimo (come è stato evidenziato nel libro sul cristianesimo)2: «Gesù è il Cristo (di Dio)». Ma né la professione di fede dell’ebraismo, né quella del cristianesimo hanno potuto affermarsi in maniera così accentuata, esclusiva e universale come quella dell’islam, anche se essa non si trova ancora espressa in questa forma bipartita nel Corano: «Non vi è alcun dio al di fuori di Dio, e Muḥammad è il suo Profeta». Chi professa ciò è un musulmano, chi non lo professa non è un musulmano. Ogni musulmano credente introduce questa professione con le parole: «Io testimonio che...».

Nessun dio al di fuori di Dio e Muḥammad il suo Profeta: questa professione di fede (šahāda = testimonianza) è indiscutibilmente e incontestabilmente il messaggio centrale dell’islam, la pietra angolare sulla quale esso si basa, il suo primo «pilastro». Entrambi gli articoli di questa professione di fede devono essere ora analizzati in maniera più precisa: 1. il concetto di Dio e 2. il concetto di Profeta.

1. NON VI È ALCUN DIO AL DI FUORI DI DIO

Come è stato spiegato nel precedente capitolo, tutte e tre le religioni profetiche fanno riferimento all’unico Dio, il creatore del mondo e Dio di Abramo. Ma oltre a ciò è significativo che l’ebraismo riceva il proprio nome da un popolo: da «Israele» (per la precisione dalla stirpe di «Giuda»). Il cristianesimo venne definito secondo la sua figura guida centrale: in base a «Cristo» (Gesù di Nazaret). L’islam invece – dal verbo arabo aslama = «rimettere, arrendersi, abbandonarsi» – già attraverso il suo nome non professa niente altro che Dio: «la resa, la dedizione, l’abnegazione» a Dio. La fede in un unico Dio (tawḥīd)3 dal verbo «dichiararsi per uno» (waḥḥada), dedotto dal sostantivo «uno, unico» (wāḥid): questo è il dogma fondamentale dell’islam ed è inteso in un modo del tutto pratico.

 

Il teocentrismo pratico dell’islam

La parola islam4 – in arabo non vi è scrittura maiuscola e minuscola – può avere due significati:

– islam, scritto per così dire minuscolo, significa il fatto del darsia-Dio: «il vostro Dio è un Dio unico, a lui abbandonatevi tutti»;5

– Islam, per così dire maiuscolo, significa la religione di coloro che si riconoscono in quest’abbandono a Dio: «Iddio stesso è testimonio che non c’è altro Dio che Lui [...] in verità la religione, presso Dio, è l’Islàm (al-islām)»;6

– coloro che credono in Dio vengono sempre definiti nel Corano come «musulmani» (muslimūn) e «musulmane» (mulslimāt) e naturalmente mai come «maomettani» (il nome del Profeta nel Corano viene citato solo quattro volte).

La tipica immagine-simbolo degli ebrei, fino a oggi, potrebbe essere quella dell’ebreo devoto con il rotolo della Torah, per i cristiani certamente sarà quella della celebrazione dell’eucaristia. Per l’islam, invece, è tipica l’immagine della preghiera rituale comune, coi musulmani che si prostrano davanti a Dio e toccano terra con la fronte. In ogni caso, con essa viene espresso in modo assolutamente fedele il centro dell’islam: non un nuovo sistema sociale o un’ideologia politica, non un’antropologia e neppure una teologia. Si tratta piuttosto di un abbandono a Dio del tutto pratico, così come viene manifestato nella preghiera, nell’atteggiamento religioso e in determinati riti e obblighi. Il «versetto del trono» (sura 2, 225) è spesso rappresentato calligraficamente:

Dio, non v’è altro Dio che Lui,
il Vivente, che di Sé vive:
non lo prende mai né sopore né sonno,
a Lui appartiene tutto ciò che è nei cieli e tutto ciò che è sulla terra.
Chi mai potrebbe intercedere presso di Lui,
senza il suo permesso? Egli conosce
ciò che è avanti a loro e ciò che è dietro di loro,
mentre essi non abbracciano della sua scienza
se non ciò che Egli vuole. Spazia il suo trono
sui cieli e sulla terra,
né Lo stanca vegliare a custodirli:
è l’Eccelso, il Possente!

Qui è inteso un teocentrismo del tutto pratico, che deve influire sulla vita individuale e sociale: dall’educazione all’economia e l’ordinamento giuridico, dalla scienza e dall’arte sino alla politica e allo stato. Teocentrismo, concentrazione su Dio – ma Dio esiste? Per il musulmano medio, ancora oggi, di questo non si discute nemmeno: naturalmente egli esiste! L’esistenza di Dio – come anche nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento – non viene provata da nessuna parte già nel Corano, ma è semmai presupposta in maniera ovvia in ogni punto. Dio si manifesta sin dall’inizio all’uomo attraverso la sua creazione e tutti i fenomeni naturali, che sono i «segni» della sua bontà. Dio si manifesta, ancora, in gran parte attraverso la sua cura per gli uomini e i suoi atti salvifici nella storia; Dio si manifesta, infine, soprattutto attraverso le sue rivelazioni ai profeti. L’uomo non dovrebbe affatto speculare e teorizzare così tanto su Dio stesso; la teologia come riflessione scientifica su Dio esiste certamente anche nell’islam, ma in confronto con il cristianesimo essa ha un’importanza di second’ordine. L’uomo deve onorare Dio, adorarlo, essergli obbediente: nell’islam il diritto religioso, che indica all’uomo il giusto cammino dell’obbedienza a Dio in tutte le cose, è più importante della teologia.

Come l’ebraismo e il cristianesimo, anche l’islam è una religione della fede: l’uomo non deve affrontare Dio né con un’argomentazione razionale distaccata, né con un’aspirazione mistica all’unione con Dio, bensì con una fede fiduciosa (īmān = «fede» viene utilizzato spesso nel Corano con lo stesso significato di islām).7 La fede nell’unico Dio è perciò:

  • il primo e più nobile dovere di ogni musulmano, fondamento e senso della sua esistenza islamica;
  • la base irremovibile della comunità musulmana e del suo ordinamento giuridico, il vincolo spirituale dell’unità per tutte le tribù e tutti i popoli islamici;
  • l’unico contenuto della preghiera rituale musulmana: Dio è il suo destinatario, altrimenti nessun altro;
  • il presupposto di ogni teologia musulmana: Dio è un unico, sia verso l’esterno (nel mondo), sia verso l’interno (nella sua essenza).

In questo modo è già stata menzionata una caratteristica essenziale di Dio. Certamente Dio – come sentiremo ancora – ha centinaia di nomi diversi. Ma che Dio sia il solo, anzi l’unico, questo è per l’islam assolutamente fondamentale.

 

Il monoteismo come questione centrale e programma di lotta

Nell’ebraismo lo stretto mono-teismo, la fede in un unico Dio, che non riconosce l’esistenza di nessun altro Dio, ha potuto affermarsi solo dopo secoli. Prima contro il poli-teismo, la fede in molti dèi, che venera molti dèi e dee, e poi contro l’eno-teismo, che presuppone l’esistenza di più dèi, ma che accetta solo «un» Dio come autorità suprema e vincolante (cfr. cap. A II, 1).

Al cristianesimo, radicato nell’ebraismo, lo stretto monoteismo fu dato sin dall’inizio. Ma non si può negare che il crescente accostamento ellenistico di Gesù Cristo all’unico Dio di Abramo (il cambiamento di paradigma della cristologia e della dottrina della Trinità, inconscio nella maggior parte dei cristiani e persino dei teologi, è già stato spiegato dettagliatamente)8 rese dubbio il monoteismo cristiano perlomeno agli ebrei e certamente anche ai giudeo-cristiani: un Dio in due, persino tre «persone», come può essere ancora un Dio?

Nell’islam, invece, lo stretto monoteismo è addirittura una richiesta centrale e un programma di lotta: un unico Dio senza eguali e senza pari! Perciò si afferma nel Corano: «Dio [...] non ha altro dio accanto a sé, altrimenti ogni dio si porterebbe via per sé quel che ha creato, e gli uni sopraffarebbero gli altri».9 Diversi dèi rivaleggerebbero gli uni con gli altri e litigherebbero per le sfere di influenza. La lotta del Profeta si rivolge dapprima contro l’autentico politeismo, come era diffuso soprattutto tra i nomadi arabi, i quali fin dai tempi antichi accettavano un’intera schiera di dèi più o meno sullo stesso piano (forze della natura, principi della tribù). Ma egli si rivolge sempre più anche contro quella forma speciale di enoteismo che dominava soprattutto nei dintorni della Mecca: Allāh sarebbe il Dio supremo, ma subordinate a lui ci sarebbero altre essenze divine, ovvero degli intercessori presso il massimo Dio. Angeli, spiriti oppure le «figlie di Dio» – che evidentemente giocheranno un ruolo particolare, come vedremo, in rapporto con il centro di pellegrinaggio della Mecca e la Ka’ba – tra le quali persino una con il nome femminile corrispettivo di Allāh, Allat.

Sempre contro divinità secondarie di tale specie si rivolge il primo articolo della professione di fede islamica, divisa in due parti, che è formulato precisamente: «Non vi è alcuna divinità (ilāh) al di fuori di Dio (Allāh)». Allāh è la contrazione di al-ilāh (la divinità): non è un nome proprio come Zeus, bensì un appellativo come «theós, Deus, Dieu» e perciò va tradotto con «Dio». Anche la parola «Allāh» ha di certo un plurale (come la parola ebraica per Dio «el», plurale «elohim»), ma āliha viene usato solo per gli «dèi» dei pagani e non è mai utilizzato per l’unico vero Dio. Inoltre i musulmani, diversamente dagli ebrei che cominciarono solo tardi a evitare di pronunciare il nome «Jahvè» per profondo rispetto, non hanno la benché minima inibizione a pronunciare direttamente il nome «Allàh». Al contrario, esso non viene mai utilizzato abbastanza, e per questo esso compare ancora oggi in tutti i possibili nomi, come «’Abd-Allāh» («servo di Dio»), o nelle espressioni come in šā’a llāh («se Dio vuole») usate continuamente nella quotidianità. E anche chi non conosce l’arabo può sentire la potente sonorità che è data dalla professione «Nessun dio al di fuori di Dio»: la ilāha illā llāh. Essa si trova già nel Corano stesso, 10 dove spesso vi sono anche figure analoghe come: «In verità l’Iddio vostro è uno!».11 L’unicità di Dio è formulata in maniera classica nella breve sura 112, spesso citata dai musulmani, con il titolo «La sura del culto sincero»:

Di’: «Egli, Dio, è uno,
Dio l’Eterno.
Non generò né fu generato
e nessuno Gli è pari.

Il lato negativo di questa professione di fede positiva è il rifiuto del tutto polemico del širk, della «associazione» di qualsivoglia essenza a Dio. Da ciò divenne in seguito opinione comune nell’islam, che il solo peccato che esclude un uomo dalla comunità musulmana è il širk, appunto l’associazionismo: la peggior forma di «miscredenza» (kufr). Poiché se afferma l’esistenza di un socio (šarīk), il musulmano diventa un «associazionista» (mušrik), un «politeista»: un «miscredente» (kāfir) per eccellenza.

Ma ciò viene affermato contro i cristiani? Tutti i versetti del Corano contro l’associazionismo sono rivolti innanzitutto contro i politeisti e gli enoteisti arabi, e non contro i cristiani. Tuttavia, essi hanno trovato applicazione anche contro i cristiani già nel Corano. Il califfo omayyade ’Abd al-Malik farà incidere tali parole sulle prime monete d’oro e d’argento con scritta araba e le lascerà inserire come iscrizione sulla Cupola della Roccia a Gerusalemme (controproposta islamica alla Basilica del Santo Sepolcro). Il Cristo della cristologia ellenistica non è poi equiparato del tutto a Dio e in questo modo «associato»? Il Corano protesta energicamente non contro Gesù in quanto Messia, bensì contro la sua equiparazione a Dio: «E dicono: "Dio s’è scelto un figlio". Gloria a Lui! Tutti quei che sono nei cieli e sulla terra, tutti servono Lui».12 Oppure: «Certo sono empi quelli che dicono: "Il Cristo, figlio di Maria, è Dio!" [...] E sono empi quelli che dicono: "Dio è il terzo di Tre". Non c’è altro Dio che un Dio solo».13 Anche i cristiani compaiono, dunque, come «associazionisti», e si dovrà indagare se nel Corano si tratti in effetti semplicemente di un fraintendimento del dogma cristiano, come viene supposto spesso da parte cristiana (cfr. cap. D IV, 2).

In ogni caso non c’è da stupirsi del fatto che unità (tawḥīd), sebbene non sia contenuta nel Corano come parola, sia diventata tuttavia un termine programmatico dell’islam: la fede in un solo e unico Dio costituisce qualcosa come l’«articulus stantis vel cadentis islamismi»: la fede su cui l’islam si regge e con cui cade. E ci saranno sempre movimenti di rinnovamento islamici, che scrivono la parola «unità» sulle bandiere. Assieme all’unità e all’unicità di Dio vengono dati naturalmente anche altri attributi, soprattutto la sua eternità e la sua capacità di comprendere tutto. Ma per l’islam potrebbero essere più importanti due altre caratteristiche, che ora verranno esaminate più da vicino nel loro significato: l’onnipotenza e la giustizia di Dio.

 

La creazione del mondo e dell’uomo

Se c’è una frase araba, che attraverso i media è nota anche ai non arabi e ai non musulmani, è il grido «Allāhu akbar!». Spesso esso viene tradotto con «Dio è grande». Ma Dio, secondo il senso di questa frase, non è solo e semplicemente «grande». Allāhu akbar è un superlativo assoluto che alla lettera significa: «Dio è il più grande» – grande dappertutto, in ogni caso, assolutamente. Nulla lo eguaglia, nulla può essere paragonato a lui.

La grandezza di Dio trova espressione nella sua onnipotenza, la quale si manifesta prima di tutto nella sua creazione. I presunti dèi dei pagani non potrebbero creare neanche una mosca, neppure se si mettessero tutti insieme.14 Ma Allāh, l’unico Dio, è il creatore del cielo e della terra e di tutto ciò che vi è in mezzo. Il mondo intero è opera di Dio. Come l’ebraismo e il cristianesimo, anche l’islam non conosce – nonostante tutte le credenze negli esseri spirituali, angeli e demoni – nessun secondo principio creativo accanto all’unico buono, nessun dualismo di un male-originario accanto al bene-originario. Piuttosto, il solo e unico Dio è il creatore di tutto: «Rispondi: "È Dio il creatore di tutte le cose, è Lui l’Unico, il Vittorioso!"».15

In modo simile a ciò che nella Bibbia ebraica si afferma rispetto all’atto di creazione di Dio: «Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu»,16 così nel Corano si dice: «Egli è colui che vivifica e uccide e allorché ha deciso una cosa basta che le dica: "Sii!", ed è».17 Ma proprio questo versetto, con il quale vi sono numerosi paralleli, mostra che la prospettiva del Corano è un’altra. La Bibbia è profondamente interessata all’inizio della creazione, il Corano molto di più al suo proseguimento e alla sua continuità: alla forza creatrice di Dio oggi. Dio non ha solo creato il mondo, egli lo conserva anche sino a quando vuole.

Talvolta i musulmani affermano che il Corano non parlerebbe di un’opera di sei giorni del creatore e non offrirebbe quindi alcuna occasione di conflitto con la moderna scienza naturale. Tuttavia si dice anche nel Corano: «È Dio che ha creato i cieli e la terra e quel che v’è frammezzo in sei giorni, poi s’assise sul Trono (per governare il mondo) ».18 Ma mentre nella Bibbia l’«opera di sei giorni» è ampiamente raccontata nei dettagli e sta programmaticamente all’inizio di tutto, essa viene menzionata nel Corano in mezzo ad altre discussioni in modo breve e quasi per caso;19 solo in un punto essa è descritta un po’ più dettagliatamente.20 Di un settimo giorno della creazione come giorno di riposo di Dio non vi è cenno nel Corano, poiché il creatore non conosce «nessuno sfinimento», 21 piuttosto è costantemente presente per il mondo, in quanto è l’Eterno.

La creazione del primo uomo dall’argilla o dalla terra è in generale raccontata indipendentemente dall’opera di sei giorni.22 Eppure, proprio il famoso incipit della sura 96, che passa per la più antica del Corano, mostra con il titolo «La sura del grumo di sangue», quanto il Corano sia fortemente interessato, anche rispetto alla creazione dell’uomo, alla forza creatrice di Dio nella contemporaneità: «Grida il nome del tuo Signore, che ha creato, – ha creato l’uomo da un grumo di sangue!».23 Dio crea ogni singolo essere umano e provoca anche ogni nuova fase di sviluppo (secondo lo stato delle conoscenze di allora, fedeli alla natura: sperma – embrione – feto – ossa – carne).24 In questo modo il mondo e l’uomo vengono prodotti sempre nuovamente e mantenuti costantemente da Dio. Egli vincola allora gli uomini alla fede, alla gratitudine, e un giorno esigerà la resa dei conti. All’uomo è offerta, con la sua vita, una chance unica, ma anche irreversibile, che egli può sfruttare o sprecare. Come in tutti i sistemi religiosi semitici del Vicino Oriente (e in quelli dell’Estremo Oriente cinese) – del tutto diversamente dalle religioni di origine indiana – non vi è alcun’idea di un ciclo di rinascite sulla terra.

Con ciò si è già espresso anche quale sia lo scopo della creazione dell’uomo. Egli è creato per essere un servitore di Dio: «E io non ho creato i ginn (gli spiriti) e gli uomini altro che perché M’adorassero». 25 Il servizio a Dio, questo è, per così dire, il principio fondamentale dell’antropologia islamica: «Tutti coloro che sono nei cieli e sulla terra, tutti s’accostano al Misericordioso come servi al Signore».26 Eppure, così come accade nella Bibbia, non è possibile fraintendere la parola «servitore» o «servo» nel Corano. Infatti la parola araba ’abd diventa una denominazione altamente positiva, poiché essa viene unita ad allāh: ’abd allāh: servitore, servo, proprio non di un uomo e quindi schiavo, bensì di Dio stesso e perciò libero e posto con dignità all’interno della creazione. Anzi, proprio in ciò è fondato ora paradossalmente anche il messaggio antropologico di punta del Corano, nel fatto che l’uomo in quanto servo di Dio è allo stesso tempo il «ḫalīfa» di Dio, il suo «successore», «luogotenente», «rappresentante sulla terra».27 Ma in che rapporto stanno Dio e l’uomo?

 

La potenza superiore di Dio – e la responsabilità dell’uomo?

Non ci sono anche nel Corano, come nella Bibbia, affermazioni che sottolineino l’onnipotenza di Dio, intesa proprio come sua potenza superiore, alla quale l’uomo sembra essere del tutto abbandonato? L’uomo non è qui così totalmente sottomesso al volere di Dio, da non poter più fare nulla senza di esso? Anzi, l’uomo non appare addirittura predeterminato come colui nelle azioni del quale è in realtà Dio che agisce? Così per esempio Dio viene considerato come il vero vincitore della battaglia di Badr contro i Meccani nel 624: «Ma non voi (musulmani) li uccideste, bensì Dio li uccise, e non eri tu (Muḥammad) a lanciar frecce, bensì Dio le lanciava».28 Non sembra che da una simile fede in Dio si possa dedurre che all’uomo non accade alcuna disgrazia, se non quando Dio vuole?29 E in effetti Muḥammad, nei suoi ultimi anni, ha esortato gli uomini a dire, quando alcuni si lamentavano della propria sventura: «Non ci capiterà che quel che Dio ha decretato per noi. È Lui il nostro Padrone: in Dio dunque confidino i credenti».30

Non hanno quindi ragione coloro i quali affermano che il Corano insegna la totale predestinazione? Coloro i quali affermano che, secondo la concezione musulmana, l’uomo è debitore a Dio non solo della guida, della grazia e del soccorso, ma gli è debitore anche quando è condotto nell’errore e abbandonato? Si consideri per esempio il seguente versetto del Corano: «E se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una nazione sola, ma Egli travia chi vuole e guida chi vuole».31

A dire il vero, si legge anche nella Bibbia che Dio stesso avrebbe indurito il cuore del faraone, anzi del proprio popolo,32 e accanto alla luce e alla salvezza avrebbe creato anche le tenebre e la sciagura.33 Eppure, chi vede solo questi e simili passi della Bibbia e del Corano, e da ciò deduce l’arbitrio di Dio, disconosce il messaggio fondamentale sia dell’una, sia dell’altra religione. Poiché fa parte anche del messaggio fondamentale del Corano il fatto che non vi sia contraddizione tra l’onnipotenza di Dio e la responsabilità del singolo uomo. L’agire di Dio non è indipendente dalla fede o dalla miscredenza, dalle buone o dalle cattive azioni degli uomini: «ma chi travierà non saranno che gli empi».34 Anzi, della profezia che ha ricevuto il profeta Muḥammad fa parte in modo assolutamente decisivo anche la minaccia secondo la quale ogni uomo dovrà rispondere di sé nel Giorno del giudizio universale e verrà punito per le sue azioni; e di questo parleremo ancora.

Per il momento basti constatare che le affermazioni sull’onnipotenza di Dio e sulla responsabilità dell’uomo stanno le une vicine alle altre in modo sconnesso, nel Corano come nella Bibbia, e non vengono compensate in nessun punto le une con le altre. Per questo gli interpreti parlano di due verità complementari, che devono essere entrambe prese seriamente, che non sono riconciliate razionalmente da nessuna parte e che, come nella tarda teologia cristiana, anche nella tarda teologia musulmana saranno l’argomento di contrapposizioni intense e noiose e offriranno l’occasione per soluzioni molto diversificate della problematica che oppone predeterminazione di Dio e autodeterminazione dell’uomo (cfr. cap. C II, 7). Certamente si può comprendere tutto ciò nella sua intera portata solo in seguito, se si prende atto non soltanto delle affermazioni del Corano sul Creatore onnipotente e sulla responsabilità dell’uomo, bensì anche di quelle sul giudice equo e sul destino finale dell’uomo. Perciò ora, dopo la riflessione sulla protologia coranica, la dottrina delle «prime cose», prenderemo in esame l’escatologia coranica, la dottrina delle «ultime cose».

 

Il giudizio finale e il destino finale dell’uomo

Dio non è solo l’Onnipotente, bensì anche il Misericordioso. Già nella sura aprente, come abbiamo visto, Dio viene chiamato «il Clemente, il Misericordioso» e la maggior parte delle sure vengono annunciate «Nel nome del Clemente, del Misericordioso». In effetti, ar-Raḥmān, «il Clemente» o «Misericordioso», divenne quasi una specie di nome proprio di Dio, cosicché sussistette il pericolo che le persone ingenue potessero intendere allāh e ar-raḥmān come due diverse divinità. 35 Anche l’espressione «Misericordioso» verrebbe fraintesa se si volesse subordinare la «Misericordia» e la «Concordia» (in greco: apokatástis tōn pántōn) al Corano, e quindi insinuare, come fa Paolo, la salvezza di tutti gli uomini senza eccezione.36

Poiché secondo il Corano il «Giorno del giudizio» (yawm ad-din) è il «giorno della resa dei conti» (yawm al-hisab). In questo ultimo giorno della storia dell’umanità si aprono le tombe e i morti vengono riportati alla vita. Questo Dio, che ha creato il mondo e lo conserva costantemente, è anche capace di ricreare e risuscitare; protologia ed escatologia sembrano perciò nel Corano strettamente legate. Ciò significa concretamente: alla fine l’intera umanità verrà riunita di fronte a Dio. Dio non è descritto da nessuna parte, ma appare con i suoi angeli, per eseguire la grande divisione tra i salvati e i dannati.

In modo simile all’apocalittica ebraica e all’Apocalisse del Nuovo Testamento, questo essere radunati di tutti gli uomini presso Dio, il giudice universale e colui che compie, viene descritto in una grande rappresentazione del giudizio. Essa è accompagnata dal suono delle trombe e dei corni e da catastrofi cosmiche: mari che tracimano, montagne che crollano, soli oscurati, stelle che cadono dal cielo.37 Poi appare l’equo giudice, il quale lascerà aprire a ognuno il libro della vita, dove sono registrate tutte le buone e le cattive azioni. Il suo giudizio risulta incorruttibile e preciso: nessuno porterà i peccati di un altro. Che nel giudizio la grazia possa essere emanata prima della giustizia, di ciò si parla tanto poco nel Corano quanto nei discorsi sul giudizio nei Vangeli. I buoni (i credenti) vengono inclusi nella beatitudine eterna, nel paradiso; i cattivi (i miscredenti) invece entrano nella dannazione eterna, nell’inferno. O l’uno, o l’altro: uno stato intermedio non esiste.38 Il paradiso e l’inferno vengono descritti molto concretamente nel Corano.

 

Il paradiso e l’inferno concreti

Mentre le tarde rielaborazioni cristiane della beatitudine eterna possono sembrare troppo spirituali e soprannaturali, le descrizioni nel Corano sono molto legate ai sensi. Non mancano di certo affermazioni su di una visione beatifica di Dio, come anche sul perdono e sulla pace, ma sono comunque molto marginali,39 se le si paragona con le straordinarie descrizioni del paradiso pieno di beatitudine celeste. Poiché nel «giardino delle delizie» («giardino dell’Eden»), con il compiacimento di Dio, toccherà ai giusti la «grande felicità»: una vita piena di serena gioia dei sensi su letti ornati di gemme, pasti squisiti, ruscelli di acqua sempre pura, latte con miele chiarificato e persino vino pregiato, offerto da fanciulli eternamente giovani. Sì, i beati possono persino godere della compagnia delle incantevoli vergini del paradiso, che prima non erano mai state toccate («in ispose fanciulle dai grandi occhi neri»).40

Chissà se tutte queste affermazioni sulle urì – che hanno naturalmente trovato grande interesse presso i dotti dell’antichità e di oggi – si possono intendere in modo simbolico, come le parabole del Nuovo Testamento, dove anche si parla del banchetto della fine dei tempi col vino nuovo,41 del matrimonio,42 della grande cena a cui tutti sono invitati?43 Molti combattenti di Dio islamici dei giorni nostri le hanno indubbiamente prese alla lettera. In ogni caso si tratta, per quanto riguarda le rappresentazioni del paradiso nel Corano, di immagini di speranza, non ancora guastate dalla macchia del pensiero, che esprimono i più profondi desideri del cuore umano e comprendono persino intensi rapporti umani. Si riferirà in seguito sulle discussioni dei teologi a questo riguardo (cfr. cap. C II, 7).

Non meno concrete sono le descrizioni dell’inferno, che perlopiù viene chiamato «il fuoco» (an-nār), talvolta anche «Geenna» (ğahannam: prestito linguistico dall’ebraico o dall’etiope). Qui si trovano crudi discorsi sui tormenti dei dannati, ai quali «il calore dell’inferno bruciacchia la pelle»,44 ai quali è preparato un pasto «che a uno (per il disgusto) rimane conficcato in gola»,45 che soprattutto debbono mangiare dall’albero, ben noto in Arabia, del zaqqūm, il cui frutto è «come metallo fuso» e «nella pancia cuoce come acqua bollente».46

Nel Corano si tratta inequivocabilmente di una dannazione eterna. Di un’invocazione di Muḥammad nel Giorno del giudizio in favore dei credenti, che egli potrebbe salvare dall’inferno (un tema importante nella tradizione tarda), non c’è ancora menzione nel Corano stesso; l’intercessione non può aiutare. Dio suddivide la salvezza e la dannazione secondo la vita passata degli uomini. Certamente il Corano resta fedele a una convinzione di fondo, e di conseguenza in esso la questione del destino finale dei dannati è forse alla fin fine anche aperta: Dio è imprevedibile, il miglior «insidiatore»,47 egli si riserva il giudizio su tutto.

Questo significa che in tutte le sue rivelazioni egli rimane l’Impenetrabile, in tutti i prodigi e in tutte le allegorie della sua creazione egli resta l’Enigmatico. Anzi, Dio rimane a una distanza superiore dal mondo, anche se egli non è in alcun caso solitario, inflessibile e immobile, come presso alcuni filosofi greci. Non è un «motore immobile» (Aristotele), bensì come nella Bibbia un Dio vivente, con il quale è possibile un dialogo.

 

I più bei nomi di Dio

«E Dio possiede (tutti) i nomi più belli, invocatelo dunque con quei nomi», così si dice nel Corano.48 Secondo la successiva tradizione devozionale, Dio ha 100 nomi: 99 sono noti agli uomini, ma il centesimo nome non è stato svelato loro. Non lo conosce nessuno se non Dio stesso. L’essenza di Dio si trova al di là della riflessione e della speculazione dell’uomo. Qui – e non solo qui – sta il grande segreto secondo la fede islamica: non presso chissà quali «misteri» dogmatici irrazionali (come Unità e Trinità), bensì nella trascendenza di Dio, sulla quale non si deve speculare, ma che va rispettata. Essa è perfetta, poiché la sovranità di Dio sul mondo è assoluta.

In nessun passo del Corano, quindi, l’uomo viene chiamato, come accade nella Bibbia, «immagine e somiglianza»49 di Dio, in nessun luogo viene tematizzato un «patto» (mīṯāq) tra Dio e l’uomo. Dove risuona vagamente una simile idea, essa potrebbe essere compresa come un «obbligo»50 assunto dall’uomo. In base al Corano non si può assolutamente parlare di un «autoannuncio», neppure di un «diventare uomo» di Dio, bensì «solo» della sua rivelazione di quello che è per noi il «giusto cammino». Gli uomini sono in grado, hanno l’autorizzazione e il dovere morale di pregare Dio. Ma alla fin fine gli uomini non possono mai sapere com’è Dio in se stesso. Anche se gli uomini applicano a lui dei concetti rivelati, essi non sanno che cosa tali concetti significhino in sé, quando sono applicati a Dio. Certamente essi esprimono la gran quantità delle caratteristiche di Dio e sono assolutamente presenti nella quotidianità dei musulmani, nell’imposizione dei nomi come nella calligrafia.

I più bei nomi di Dioa

Egli è Iddio, non vi altro dio che Lui.
Il Clemente.
Il Misericordioso verso i credenti.
Il Sovrano, il Santissimo.
L’impeccabile fonte di salvezza.
Il Fedele.
Il Custode.
L’Onnipotente inattingibile.
Colui che costringe.
L’Altero.
Il Creatore.
Il Produttore.
Colui che crea le forme.
Colui che dispiega il manto del suo perdono.
Il Dominatore.
Il Munifico.
Colui che provvede alle creature ciò di cui abbisognano.
L’Apritore.
L’Onnisciente.
Colui che rinserra e toglie.
Colui che elargisce e allarga i cuori alla speranza.
Colui che abbassa.
Colui che eleva.
Colui che esalta.
Colui che umilia.
Colui che ode.
Colui che vede.
L’Arbitro.
Il Giusto.
Il Sottile.
Colui che ha la piena coscienza di ogni cosa.
Colui che indugia a punire.
L’Immenso.
Il Perdonatore.
Colui che premia al di là del merito.
L’Eccelso.
Il Grande.
Colui che preserva le creature in equilibrio.
Colui che dà il nutrimento.
Colui che tien conto di ogni cosa.
Il Maestoso.
Il Generoso.
Colui che tiene ogni cosa sotto controllo.
L’Esauditore.
Il Largo.
L’infinitamente Sapiente.
Colui che ama il servo obbediente.
Il Nobilissimo.
Colui che resuscita.
Il Testimone assoluto.
Il Vero.
Il Curatore.
Il Forte.
Colui che è fermo.
Il Protettore.
Il Lodato.
Colui che ha la conoscenza di ciascuna cosa.
Colui che ha dato inizio a ogni cosa.
Colui che richiama a Sé.
Colui che fa vivere.
Colui che fa morire.
Il Vivente.
Colui che per Sé sussiste e per gli altri è sussistenza.
Colui cui nulla manca.
Il Glorioso.
L’Unico.
Il Supremo Signore cui rivolgersi.
L’Onnipotente.
Colui che manifesta la propria onnipotenza.
Colui che prepone.
Colui che pospone.
Il Primo.
L’Ultimo.
L’Evidente.
Il Nascosto.
Il Reggitore.
L’Altissimo.
Il Benefico.
Colui che si volge verso colui che si pente.
Il Vendicatore.
Colui che cancella i peccati.
Il Pietoso.
Il Detentore del Regno.
Il Detentore della maestà e dell’ onore.
L’Equo.
Colui che riunisce.
L’Autosufficiente.
Colui che rende autosufficienti.
Colui che preserva.
Colui che danneggia.
Colui che benefica.
La Luce.
La Guida.
La Causa originaria incomparabile.
Il Perenne.
L’Erede.
Colui che dirige.
Il Paziente.

Secondo Abū Hurayra (compagno del Profeta)
tramandato nella raccolta di ḥadīṯdi Timidi
b

Con molti di questi nomi ci si rivolge anche direttamente a Dio. Il Corano – sebbene sia un discorso di Dio stesso – contiene anche preghiere 51 dirette, ovvero discorsi rivolti a Dio, al «Signore» (rabb),52 più di rado a «Dio» (allāhumma).53 Certamente non vi è nel Corano alcuna preghiera esemplare come il «Padre Nostro» nel Nuovo Testamento. Il nome «Padre», poiché in questo modo figli e figlie di Dio possono essere intesi insieme, viene in ogni caso rigorosamente evitato. E certamente Dio, secondo il Corano, possiede proprio delle qualità come la bontà e la misericordia, che in base alla Bibbia verrebbero definite come «paterne». Anzi, Misericordioso (raḥma) è proprio una sua caratteristica fondamentale come la sua giustizia (‘adl). Questo Dio non si può in nessun modo inserire nella cornice interpretativa (luterana) della «legge» (Dio richiedente) e del Vangelo (Dio donante). Il Dio del Corano si prende cura degli uomini con la sua misericordia, di cui si parla in centinaia di punti.

Tutte le preghiere coraniche si rivolgono a Dio, che può e vuole aiutare, e sono quindi più che altro delle preghiere di supplica nel bisogno, nella difficoltà e nel pericolo, per l’indulgenza dei peccati e per essere preservati dalla punizione dell’inferno, ma anche per il bene nella vita terrena e nell’aldilà: «Dacci in questo mondo cosa buona, e nell’altro cosa buona».54 Preghiere di lode sono più rare, preghiere di ringraziamento si trovano a malapena, ma il ringraziamento talvolta è compreso nella richiesta: «Signore, concedimi che io Ti ringrazi dei favori che Tu hai accordato a me e ai miei genitori, e che compia opere buone a te accettevoli, e fammi entrare, per Tua misericordia, fra i tuoi servi buoni!».55 Molte preghiere sono formulate in base a una determinata situazione, ma spesso in modo così generico che possono essere recitate da chiunque in qualsiasi momento. Numerose preghiere appaiono messe in bocca a personaggi della Bibbia ebraica (Adamo, Noè, Abramo, Lot, Mosè, Salomone, Giobbe...) o del Nuovo Testamento (Zaccaria, Gesù, discepoli di Gesù...), ma naturalmente anche ai compagni del Profeta alla Mecca e a Medina e infine a Muḥammad stesso. Da lui viene tramandato: «Di’: "O mio Dio! Padrone del Regno!"».56

 

La comune fede in Dio delle tre religioni abramitiche

Ebraismo, cristianesimo e islam sono religioni della fede. Le unisce la fede viva nell’unico Dio e nella sua opera. Che cosa si intende con questa «fede viva», che ha già dimostrato Abramo (cfr. cap. A II, 3)? La fede è una questione di ragione? O un atto di volontà? O un moto dell’animo? Certamente la fede per gli ebrei, i cristiani e i musulmani non è solo un fatto di mera ragione. Fede non consiste per loro né nel prendere per veri i testi biblici o coranici, né nell’approvazione di af fermazioni più o meno improbabili; questo sarebbe un fraintendimento intellettualistico. D’altra parte la fede non è per gli ebrei, i cristiani e i musulmani neppure il mero prodotto di uno sforzo di volontà, un’avventura alla cieca, un salto nel vuoto, o addirittura un «credo quia absurdum»: un simile «io credo proprio perché è assurdo» sarebbe un fraintendimento volontaristico. Infine la fede non è neanche un moto dell’animo soggettivo, non è un atto di fede («fides qua creditur», «faith») senza un contenuto di fede («fides quae creditur», «belief»), non è un sentire in cui vale di più il fatto che si creda, piuttosto che ciò in cui si crede; questo sarebbe un fraintendimento emotivo.

No, fede significa per gli ebrei, i cristiani e i musulmani un’adesione e un abbandono, necessariamente fiduciosi, dell’intero uomo qui e ora con tutte le forze del suo spirito e animo a Dio e alla sua parola. Questa fede è quindi allo stesso tempo un atto del riconoscere, del volere e del sentire: una fiducia, che comprende il prendere per vero. Si tratta di un atteggiamento fondamentale personale, vissuto e pieno di fiducia – semplice o altamente differenziato: un atteggiamento e uno stile di vita da credenti, in base ai quali gli uomini vivono e pensano, agiscono e soffrono.

Né la Bibbia ebraica, né il Nuovo Testamento e neppure il Corano vogliono «dimostrare» Dio, ma vogliono «richiamare l’attenzione» su di lui costantemente e ovunque. E che nella fede in Dio non vi sia nulla di irrazionale, ma che si tratti (per dirlo secondo la mia concettualizzazione) di una fede altamente ragionevole («reasonable trust», non «rational proof»), lo si sottolinea con enfasi anche nell’islam. In altre parole: poiché anche al Corano interessano assolutamente l’uomo e il suo mondo, così gli interessa in modo centrale Dio: il solo nome «Allāh» viene menzionato nel Corano più di 2500 volte. In che cosa consiste allora concretamente l’affinità?

L’affinità fondamentale tra ebrei, cristiani e musulmani consiste nella fede in un solo e unico Dio, che dà a tutto senso e vita. Questa fede in un unico Dio è per l’islam una verità originaria già data con Abramo: sull’unico Dio si fondano l’unità del genere umano e l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio. E rispetto alla dottrina cristiana della Trinità bisognerà dire sempre che essa non vuole certamente mettere in questione la fede in un solo e unico Dio, bensì interpretarla e svilupparla concretamente. Questo significa che nella contrapposizione all’antico politeismo, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam sono altrettanto uniti quanto lo sono contro gli dèi moderni di ogni specie, che prendono possesso dell’uomo e minacciano di renderlo schiavo. Anzi, l’ebraismo e poi anche il cristianesimo hanno rovesciato gli antichi dèi del pantheon già molto tempo prima dell’islam.

Agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani è comune la fede nel Dio che agisce storicamente: in quel Dio che è non solo, alla maniera dei greci, «Arché», il primo principio della natura, la causa prima di tutto, bensì che è attivo nella storia come creatore del mondo e dell’uomo: il Dio unico di Abramo, che parla attraverso i profeti e che si manifesta al suo popolo, sebbene il suo agire rimanga sempre nuovo e un segreto impenetrabile. Dio è certamente trascendente la storia, ma tuttavia anche immanente: all’uomo «più vicino che la vena grande del collo»,57 come afferma in modo così plastico il Corano.

Agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani è comune la fede nell’unico Dio, che per essi è qualcuno che sta di fronte in modo accessibile – che comprende e prevale su tutto sebbene sia invisibile: ci si rivolge a lui nella preghiera e nella meditazione, lo si loda con gioia e gratitudine, o lo si incolpa nel bisogno e nella disperazione. Un Dio di fronte al quale l’uomo può «cadere in ginocchio per timore», «pregare e sacrificare», «fare della musica e ballare», per usare qui una famosa massima, riferita al futuro, del filosofo Martin Heidegger.58

Agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani, infine, è comune anche la fede nel Dio clemente, misericordioso: in un Dio che si prende cura dell’uomo. Gli uomini sono chiamati nel Corano, come nella Bibbia, «servi di Dio», con il che non si vuole esprimere l’asservimento a un despota, bensì il fatto che l’uomo è un elementare essere creaturale di fronte all’unico Signore. L’arabo ar-raḥmān, il «misericordioso» è in rapporto, dal punto di vista etimologico, con l’ebraico rahamim, il quale – assieme a «hen» e «hesed» - costituisce il campo semantico per la «charis» del Nuovo Testamento e per la nostra parola «grazia». In base alle singole frasi della Bibbia o del Corano, Dio può sembrare un Dio arbitrario, ma secondo la testimonianza complessiva della Bibbia e del Corano esso è decisamente un Dio della grazia e della misericordia.

 

Dunque l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam rappresentano insieme la fede nell’unico Dio nel mondo, e fanno tutte insieme parte del grande movimento mondiale monoteista. Questa affinità nella fede nell’unico Dio non dovrebbe essere sottovalutata nemmeno a livello di politica mondiale, anzi, dovrebbe essere evidenziata con consapevolezza.

Ora siamo abbastanza preparati per poter comprendere meglio la seconda parte della professione di fede islamica: la professione relativa al fatto che Muḥammad è il Profeta, l’inviato dell’unico Dio. Chi era questo Profeta, che importanza riveste, insieme alla rivelazione che gli è stata fatta?

2. MUḤAMMAD, È IL SUO PROFETA

Tutte le tre religioni abramitiche sono religioni profetiche. In esse, infatti, risultano primarie alcune figure profetiche che annunciano la parola e la volontà di Dio. Tuttavia notiamo che:

– nell’ebraismo la centralità dei profeti è minore rispetto alla «Torah», la somma «istruzione», composta da cinque libri attribuiti allo stesso Mosè; l’ebraismo è essenzialmente una religione della Torah;

– nel cristianesimo, invece, Mosè e i profeti della Bibbia ebraica perdono d’importanza rispetto a colui che, pur essendo chiamato fin dal Nuovo Testamento anche con l’appellativo di «profeta», è tuttavia «più che un profeta»:59 Gesù, il «Cristo», l’Unto, il Messia; il cristianesimo è fin dalle sue origini una religione messianica;

– l’islam, infine, riconosce Mosè e Gesù quali profeti e si limita ad attribuire il puro valore di profeta perfino a Muḥammad, l’ultimo dei profeti, il «Sigillo dei Profeti»; in questo senso l’islam è e rimane una religione profetica per eccellenza. Nonostante queste diverse caratteristiche, è importante tener conto degli aspetti comuni alle tre religioni, in particolare degli aspetti comuni di tipo etico.

 

L’etica fondamentale comune alle tre religioni profetiche

In quanto religione tipicamente profetica l’islam, come del resto l’ebraismo e il cristianesimo, va distinto sia dalle religioni indiane-mistiche sia da quelle cinesi-sapienziali, quindi sia dall’induismo e il buddhismo sia dal confucianesimo e il taoismo.60 Infatti anche nell’islam l’evento decisivo della storia della salvezza è ad opera dell’unico Dio, con il quale l’uomo, grazie ai propri sforzi, diventa un tutto unico, sebbene in natura tale unione non esista. Nelle religioni profetiche l’uomo si trova ed agisce «davanti» a Dio, alla sua «presenza». A Dio può affidare se stesso, in forza della sua fede. Anche l’islam è, come abbiamo visto, una religione della fede.

Al fine di definire ancora più esattamente questo carattere profetico dell’islam (come dell’ebraismo e del cristianesimo), è opportuno sottolineare che, mentre in India è la mistica unificante il tutto e in Cina l’armonia universale a costituire la dimensione religiosa essenziale, nell’islam risulta invece centrale il rapporto tra Dio e l’uomo – metaforicamente posti l’uno di fronte all’altro. Dunque l’islam è, come le altre due religioni profetiche, una religione del confronto tra Dio e l’uomo, tra la sacra divinità e la sua creatura. Tuttavia, tramite la parola che Dio rivolge agli uomini e la fede che gli uomini nutrono nell’unico Dio l’islam si trasforma in una religione dello scambio, del dialogo.

Possiamo così individuare con maggior precisione gli aspetti che accomunano l’islam all’ebraismo e al cristianesimo:

• anche l’islam è una religione della rivelazione. Secondo l’islam Dio si è rivelato una volta per sempre – e per questo la rivelazione ha un carattere normativo – nelle parole del testo sacro, il Corano.

• Anche l’islam è una religione a carattere storico-escatologico. La storia non viene concepita come somma di cicli mitologici ma come sviluppo organico che ha avuto inizio con la creazione di Dio e avrà fine quando si compirà il tempo prescritto da Dio.

• Anche l’islam è una religione ad indirizzo etico. Nell’islam, come nell’ebraismo e nel cristianesimo, è possibile individuare un ethos fondamentale rivolto all’essere umano, un ethos essenziale fondato sulla parola e la volontà di Dio.

Se vogliamo realizzare la convivenza dei musulmani con gli ebrei e i cristiani è oggi particolarmente importante ricordare che anche nell’islam è Dio stesso il difensore dell’umanità, della dimensione umana autentica. Anche nel Corano non abbiamo a che fare con leggi impersonali ma con comandamenti formulati dallo stesso Dio: ogni appello è infatti preceduto dall’introduzione: «nel nome di Dio clemente e misericordioso». Costituiscono parte irrinunciabile dell’ethos dell’umanità quegli imperativi sulla condotta umana che sono stati trasmessi per la prima volta al popolo d’Israele nelle «Dieci parole» (decalogo). Anche il cristianesimo le ha poi adottate integralmente (con eccezione della legge rituale dello Shabbat). Ma anche il Corano, al termine del periodo meccano, offre una sintesi dei più importanti comandamenti etici che mostra evidenti e numerosi paralleli (anche qui con l’eccezione dello Shabbat) con le «Dieci parole» dell’ebraismo.

È dunque lecito individuare un’etica fondamentale comune nelle tre religioni – così come ho già indicato in precedenza, trattando dell’ ebraismo e del cristianesimo – in grado di apportare un contributo propriamente storico-universale a quell’etica universale in via di maturazione. Dobbiamo ora indagare con maggiore profondità gli aspetti specifici dell’islam.

 

Una religione profetica per eccellenza

Anche se l’ebraismo e il cristianesimo sono sempre state religioni profetiche, l’islam lo è davvero in modo del tutto particolare. Infatti solo nell’islam il Profeta stesso è parte della professione di fede: «Esiste un solo Dio, e Muḥammad è il suo Profeta». Il fatto che Muḥammad sia il Profeta di Dio ha però un doppio significato.

– Già nello stesso Corano Muḥammad viene presentato come profeta nel senso più ristretto del termine: egli non è semplicemente un nabī, un profeta in senso lato bensì un rasūl,un Messaggero di Dio, che consegna al suo popolo la Scrittura – come Mosè, Davide (i Salmi) e Gesù.

– Nondimeno, il Corano pone contemporaneamente l’accento su questo dato: Muḥammad non è assolutamente niente di più che un profeta, niente di più che un uomo. Come egli stesso dice espressamente: «Certo, io sono un uomo come voi, un uomo cui è stato rivelato che il vostro Dio è un Dio solo».61

Alcuni non musulmani sono tuttavia sorpresi quando nelle moschee vedono su grandi pannelli o cartelli due nomi trascritti a caratteri di uguale grandezza: Allāh e Muḥammad. Questo accostamento non offende forse la infinita superiorità di Dio? E tale accostamento non è forse alla base di quel processo di divinizzazione rinvenibile nella devozione religiosa islamica più tarda, laddove Muḥammad appare talvolta venerato quasi alla stregua di Cristo? Sulla base di quanto afferma lo stesso Corano, dobbiamo comunque tener sempre conto di due aspetti:

1. Dio e il Profeta sono uniti. Il rapporto formulato nella professione di fede viene sempre nuovamente espresso nel Corano: «Iddio e il Suo Messaggero eran nel vero».62 E quindi: «Crediamo in Dio e nel Suo Messaggero, e loro ubbidiamo».63 Tanto che non mancano minacce di dannazione eterna per coloro che si rifiutano di prestare obbedienza: «Quei che a Dio si ribelleranno e al Suo Messaggero, avran certo il fuoco della gehenna, dove resteranno in eterno sempre».64

2. Eppure la persona del Profeta è totalmente subordinata alla sua missione profetica: nel Corano non ritroviamo il benché minimo accenno all’eventualità che Muḥammad debba essere oggetto di adorazione o addirittura di preghiera. In uno dei soli quattro passaggi nei quali viene citato il nome del Profeta, Muḥammad, viene esplicitamente menzionata la sua mortalità – e quella di tutti i profeti che lo hanno preceduto: «Muḥammad non è che un Messaggero di Dio come quelli che lo han preceduto in antico».65

L’etica fondamentale comune

L’etica fondamentale comune

Ciò significa che anche se Muḥammad è, in quanto ultimo profeta, il «Sigillo dei Profeti» (butani an-nabīyīn), colui che ha confermato e portato a definitivo compimento le missioni dei profeti precedenti, egli non è tuttavia nient’altro che il portavoce di Dio, lo strumento di Dio. Cosa che nel caso di Muḥammad è un fatto ancor più straordinario se teniamo conto che egli era privo di qualsiasi conoscenza letteraria; anche solo per questo motivo è impossibile ritenere che il Corano sia stato composto attingendo da altre fonti scritte. Quando, successivamente, i suoi avversari lo vollero tendenziosamente paragonare ai poeti arabi o ai narratori di fiabe, gli studiosi islamici contestarono aspramente tale paragone e ribadirono che per il popolo illetterato Muḥammad era stato il profeta illetterato (an-nabī alummī), privo com’era di qualsiasi conoscenza dell’arte poetica e della retorica.

Per i credenti musulmani, però, ciò significa che il Corano non può essere attribuito allo stesso Profeta. E opera di Dio. Il Profeta non dà alcun valore all’originalità intellettuale: ciò che gli importa è l’autorità divina. Non vuole essere un genio ma solo trasmettere un messaggio. Il Corano non è la sua ingegnosa invenzione «letteraria» ma la benevola rivelazione di Dio. Come però, si chiedono alcuni, dobbiamo immaginarci lo svolgimento storico di tale rivelazione? Che cosa è successo al momento della chiamata del Profeta? Come si è potuta verificare questa rivelazione?

 

La chiamata del Profeta: Messaggero di Dio

Cosa conosciamo della vita del Profeta, secondo quello che ci racconta il Corano – senza alcun dubbio la fonte biografica più importante eppure per molti versi incompleta, data la mancanza di un ordine cronologico degli eventi e le scarse notizie biografiche riportate? Che cosa racconta la sua biografia classica (sīra) scritta da Muḥammad ibn Ishàq (ca. 704-768), autore della prima opera storica di ampio respiro del mondo islamico, suddivisa in quattro parti, dove nel secondo e terzo volume, sulla base di informazioni ricavate da numerose fonti antiche, la vita di Muḥammad viene presentata a circa 120 anni dalla sua morte in modo vivace e relativamente distaccato – un’opera successivamente pubblicata, in versione sintetica e commentata, da Ibn Hisàm (m. 833)?66 E che notizie ci dà invece la storia delle spedizioni (kitāb al-maġāzī), compilata da al-Wāqidī (m. 822)?67 Benché sussistano elementi storicamente controversi, alcuni dati biografici essenziali 68 sono assolutamente certi:69

Dati biografici di Muḥammad
ca. 570 Nasce alla Mecca
ca. 595 Si sposa con Ḫadīğa
ca. 610 Riceve la prima rivelazione
ca. 613 Dà inizio alla predicazione pubblica
ca. 619 Muoiono la moglie e lo zio Abù Ṭālib
622 Emigrazione (hiğra) a Medina: data di inizio della computazione islamica del tempo (16 luglio 622 = giorno 1 dell’anno 1)
settembre 622 Giunge a Medina
ca. febbraio 624 La direzione della preghiera (qibla) viene spostata da Gerusalemme alla Mecca (Ka’ba)
marzo 624 Vittoria nella battaglia di Badr
marzo 625 Sconfitta nella battaglia di Uhud
aprile 627 Assedio della città di Medina
marzo 628 Conclude una tregua ad al-Hudaibiya, presso La Mecca
gennaio 630 Fa il suo ingresso pacifico nella Mecca; sconfigge Ṭa’if presso Hunayn
ott.- dic. 630 Indice una campagna di guerra verso Tabuk
marzo 632 Compie il pellegrinaggio d’addio alla Mecca
8 giugno 632 Muore a Medina

Come nel caso di altri «fondatori di religioni» si tramandano molte leggende sulla nascita e la fanciullezza di Muḥammad: durante la gravidanza, sua madre aveva visto uscire una luce dal proprio ventre e questa aveva brillato fino alla Siria; un veggente ebreo aveva previsto che sarebbe sorta una stella al momento della nascita di Ahmad (Muḥammad); quando Muḥammad era bambino, due uomini vestiti di bianco lo avevano raggiunto nel deserto e lo avevano gettato a terra, estraendone il cuore dal petto; avevano lavato via con la neve un ammasso nero dal suo cuore, per rimetterlo poi nel corpo del bambino; un monaco cristiano della Siria chiamato Baḥīrā aveva scorto il «sigillo della profezia» tra le sue spalle...70

Alcune brevi biografie del profeta Muḥammad possono davvero sembrare ai lettori non musulmani delle banali storie a lieto fine. Se si leggono però i più antichi testi musulmani sulla sua vita e li si interpreta in senso storico-critico, ci si rende immediatamente conto che anche nel caso del profeta Muḥammad abbiamo a che fare con un autentico destino da profeta, cioè con una vita segnata da lunghe lotte e sconfitte, e quindi anche da dubbi e smarrimenti – proprio come è stato nel caso dei profeti di Israele.

In che contesto è dunque avvenuta la prima rivelazione? Muḥammad a quel tempo era un uomo adulto (essendo nato nel 570 ca.) che conduceva una vita dedita al lavoro e alla famiglia nella parte occidentale della penisola arabica (chiamata Ḥiğaz), nella città mercantile della Mecca. Era originario della tribù dei Quraiš – una tribù, ormai insediatasi in pianta stabile nella Mecca, composta più da commercianti che da guerrieri71 – e del clan degli Hāšim,72 che non figurava certamente tra i clan più ricchi e potenti di quel tempo. Quando Muḥammad nacque, il padre ’Abd Allàh era già morto e presto il bambino rimase orfano anche della madre Amina, così che venne allevato dal nonno ’Abd al-Muṭṭalib e poi dallo zio e capo clan Abū Ṭàlib. Fece prima il pastore, poi il commerciante, viaggiando fino in Palestina e in Siria, per divenire poi capo carovaniere, nonché, dopo 5 anni, marito di una ricca vedova di nome Ḫadīğa. Improvvisamente, all’età di 40 anni questo uomo d’affari dichiarò di aver ricevuto una rivelazione da Dio. Come è possibile «spiegare» ciò?

Ora, in realtà la rivelazione non accadde affatto «improvvisamente». Sono noti anche alcuni «antefatti».

– Muḥammad, già prima dei suoi 40 anni, amava ritirarsi nelle montagne vicine, in caverne o sulle colline per dedicarsi alla meditazione e alla preghiera (tale pratica non era così infrequente all’epoca), rifuggendo il trambusto della Mecca, meta di pellegrinaggi nella religione politeista del tempo.

– Nella Mecca e durante i suoi viaggi Muḥammad non aveva solo imparato a conoscere le religioni politeiste dei commercianti, dei pellegrini e dei poeti arabi, ma aveva anche avuto occasione di sentir parlare delle religioni ebraiche e cristiane, entrando anche in contatto diretto con alcuni loro esponenti.

– Evidentemente Muḥammad simpatizzava con quei «cercatori di Dio» (ḥanīf), che già conosciamo, i quali, come racconta il Corano, delusi dalle religioni politeiste tradizionali aspiravano a una fede più pura, alla fede nell’unico Dio di Abramo.

Muḥammad è dunque preparato alla rivelazione di Dio. Eppure, come si verifica questa rivelazione? La cronaca più antica di quell’evento risale al nipote di ’Ā’iša, la moglie preferita di Muḥammad, e racconta di una prima visione, apparsa al Profeta dopo un lungo periodo trascorso nella solitudine del deserto e nella preghiera, proprio mentre egli stava per fare ritorno alla sua famiglia; ne fu talmente spaventato che cercò rifugio da sua moglie. Come recita testualmente il brano:

Infine La Verità giunse a lui, in modo inaspettato e disse: O Muḥammad, tu sei il Messaggero di Dio.

Il Messaggero di Dio disse: Ero in piedi, eppure caddi in ginocchio; strisciai via, e le mie spalle tremavano; poi entrai nella stanza di Ḫadīğa e dissi: Avvolgetemi, avvolgetemi fino a quando la paura non mi abbia abbandonato. Allora egli mi si avvicinò e disse: O Muḥammad, tu sei il Messaggero di Dio.

Egli (Muḥammad) disse: Avevo pensato di gettarmi da una rupe ma mentre pensavo questo, egli mi apparve e disse: O Muḥammad, io sono Gabriele, e tu sei il Messaggero di Dio.

Quindi disse: Parla. Io dissi: Che cosa devo dire? Egli (Muḥammad) disse: Allora egli mi afferrò e mi strinse forte a sé per tre volte, fino a che non mi colse un senso di spossatezza; quindi disse: Parla nel nome del tuo Signore, che ti ha creato. E io parlai.

E andai da Ḫadīğa e dissi: Ho tanta paura per me stesso, e le raccontai la mia esperienza. Lei disse: Rallegrati! Se sei vicino a Dio, Dio non ti farà mai sprofondare nella vergogna; tu fai ciò che è buono per te, tu annunci la Verità; tu restituisci ciò che ti è stato affidato; tu sopporti la fatica; tu accogli l’ospite; tu aiuti coloro che servono la Verità.73

Non è più possibile stabilire se questa cronaca sia storicamente attendibile. E sorprendente tuttavia notare che anche nello stesso Corano, all’inizio della sura 74, si parla dell’atto di avvolgere, di coprire con un mantello, tanto che il brano biografico potrebbe apparire come un’esegesi posteriore del passaggio del Corano. La sostanza degli avvenimenti narrati in questa cronaca trova un’altra conferma nel Corano, laddove si racconta di due esperienze visionarie verificatesi all’inizio delle rivelazioni. Nella sura 53, la sura della Stella, la prima visione viene descritta come segue:

Il vostro compagno non erra, non s’inganna – e di suo impulso non parla. – No, ch’è rivelazione rivelata, – appresagli da un Potente di Forze – sagace, librantesi – alto sul sublime orizzonte! – Poi discese pendulo nell’aria – s’avvicinò a due archi e meno ancora – e rivelò al servo Suo quel che rivelò. – E non smentì la mente quel che vide. – Volete voi dunque discuter quel che vede?74

Oggi la maggior parte dei musulmani ritiene che si tratti di una visione dell’angelo Gabriele – e non di Dio! Alcuni antichi esegeti musulmani sostenevano con certezza che in questo brano veniva invece raffigurata una visione dello stesso Dio, come del resto lascia intendere la struttura del testo (uso del pronome personale). Tuttavia in un altro punto del Corano è scritto: «Non l’afferrano gli sguardi ed Egli tutti gli sguardi afferra».75 «Quello che dici mi fa rabbrividire», questa sarebbe stata, secondo un’antica tradizione,76 la risposta di ’Ā’iša, la futura vedova del Profeta, a chi le aveva chiesto se Muḥammad avesse davvero visto Dio. Comunque sia, il Corano presenta tre modalità della rivelazione; «A nessun uomo Dio può parlare altro che»:

– «per ispirazione (waḥy)»: quando non si manifesta visivamente, Dio trasmette raramente un messaggio verbale ma suggerisce semplicemente un modo di agire;

– «o dietro un velame (ḥiğāb)»: anche in questo caso non c’è una visione e ciò che si percepisce è la voce di Dio;

– «o invia un Messaggero il quale riveli a lui col Suo permesso quel che Egli vuole».77

Anche in un altro punto del Corano si parla di questo terzo tipo di rivelazione. Viene infatti detto che l’angelo Gabriele «depose il Corano nel tuo cuore, col permesso di Dio».78 In seguito, questa modalità della rivelazione venne considerata come quella abituale anche se i diversi «generi della rivelazione» erano oggetto di discussione nei trattati degli studiosi musulmani. Lo stesso Muḥammad, del resto, era convinto di poter distinguere con esattezza la rivelazione divina da quello che egli stesso pensava. Nel caso di queste rivelazioni si trattava solo eccezionalmente di visioni vere e proprie, bensì di «audizioni profetche», «di rivelazioni che Muḥammad riteneva di percepire sotto forma di parola e che si sentiva chiamato a trasmettere nella stessa identica forma al suo popolo e ai suoi seguaci» (R. Paret).79 Oggi come ieri non è possibile comunque stabilire con precisione quali sure gli siano state rivelate per prime.80

E chi è la prima persona, dopo la moglie Ḫadīğa, che incoraggia Muḥammad a intendere seriamente la sua personale esperienza di rivelazione poiché essa ricorda la rivelazione di cui fece esperienza Mosè? Si tratta, sorprendentemente, di un cristiano di nome Waraqa, un cugino della moglie di Muḥammad. Questo, già citato, «Waraqa ibn Naufal, che era diventato cristiano, leggeva le Sacre Scritture e conosceva le dottrine dei seguaci della Torah e del Vangelo»,81 è molto probabilmente un giudeo-cristiano dato che, evidentemente, leggeva la Bibbia in aramaico e non in greco – non vi era ancora, allora, una traduzione araba della Bibbia. Egli non confronta l’esperienza di Muḥammad con quella di Gesù ma con quella di Mosè e parla di un, o una, «namus» (l’equivalente del termine greco nomos = «legge» di Mosè) che Muḥammad aveva ricevuto in consegna...

 

La lotta per la giustizia: una minaccia per lo status quo

La chiamata a Messaggero di Dio cambia radicalmente la vita di Muḥammad. Tormentato da paure e da dubbi (cosa che sottolinea in modo commovente l’umanità del Profeta), Muḥammad si limita inizialmente ad annunciare il suo messaggio nell’ambito della cerchia familiare e fra gli amici. Solo con il trascorrere del tempo si rende conto che la sua missione profetica deve estendersi al resto del mondo. Infatti, Muḥammad riceveva continuamente delle nuove rivelazioni che «esponeva», «recitava» davanti al suo seguito (il verbo utilizzato, qara’a, dal quale deriva il sostantivo qur’ān = Corano, veniva probabilmente già usato fin dagli inizi per indicare le singole rivelazioni «discese dall’alto»). Trascorsi tre anni decide invece di renderle pubbliche. E solo allora deve aver definitivamente compreso di essere il «Messaggero di Dio», chiamato a intraprendere una predicazione pubblica: «Sorgi e predica!»82 – «Ammonisci dunque, ché utile sarà il Monito!».83

E che cosa «ammonisce» il Profeta? Muḥammad annuncia coraggiosamente agli abitanti della Mecca la potenza e la bontà di Dio e predica la gratitudine, la generosità e la solidarietà fra gli uomini, ricordando loro l’imminente Giorno del giudizio. Non sembra che il tema dell’unicità di Dio abbia avuto ampio risalto in questa fase della predicazione (almeno secondo Th. Nöldeke, R. Bell e W.M. Watt), anche se tale valutazione dipende, a ben vedere, dalla datazione delle singole sure nel Corano. Comunque sia, ciò che il «Messaggero di Dio» espone «con moniti e avvertimenti» è tutt’altro che un messaggio allettante. Al contrario: in quel periodo di grande prosperità, quando la ricca Mecca controllava i traffici delle carovane dallo Yemen fino a Gaza e a Damasco, l’invito di Muḥammad a cambiare stile di vita, a seguire la «via erta» non è per niente invitante. Ciò significherebbe, infatti, «liberare un collo prigione – o nutrire in un giorno di stenti – un parente orfano – o un povero che giace nella polvere; – e [appartenere a] quelli poi che credono e si invitano a gara alla pazienza e s’invitano a gara alla pietà».84 La minaccia dell’inferno viene poi continuamente ripetuta con estrema chiarezza: «Guai ad ogni diffamatore maligno! – Che ammucchia ricchezze e le prepara pel dopo. – Crede che le ricchezze lo faranno eterno!».85

Non dobbiamo dunque stupirci se fra i Quraiš, il messaggio di Muḥammad suscita una certa curiosità ma soprattutto una grande incredulità. Sono pochissimi coloro che prestano fede alle sue parole: i componenti della famiglia e del clan di Muḥammad, gli amici (un gruppo composto prevalentemente da giovani uomini, appartenenti anche a clan prestigiosi) e alcuni rappresentanti delle classi sociali più umili (schiavi, stranieri). Muḥammad accoglie tutti costoro nella sua comunità, indistintamente. Certamente, non si tratta affatto di attivisti socio-rivoluzionari ma di credenti convinti, insoddisfatti dell’instabile situazione sociale e morale nella Mecca (tra loro ci sono anche Abū Bakr e ’Alī, i futuri califfi della città). Si formano così le prime comunità islamiche, che non sono fondate sull’appartenenza a un determinato status sociale ma sulla fede comune, sul rituale liturgico, sulla devozione escatologica e su un ethos di giustizia. Anche questo mette in luce quanto fosse grande l’energia spirituale che animava il Profeta, il quale sa condurre una comunità posta ai margini della società lungo un cammino che a molti risulta incomprensibile. Dall’esterno non provengono che difficoltà, resistenze, opposizioni; all’interno si ripercuotono, di conseguenza, defezioni e lacerazioni. Perché?

Agli inizi Muḥammad non diventa affatto il profeta del suo popolo, come aveva sperato, ma viene invece esiliato ai margini della società: è temuto e minacciato al tempo stesso. I suoi avversari nella Mecca sono soprattutto i ricchi uomini di affari, bersaglio dei suoi ammonimenti, e i membri che governano i clan più potenti, come quelli dei Mahzum e degli Umayya (dai quali doveva poi svilupparsi la dinastia degli Omayyadi). Un profeta appartenente al poco illustre clan degli Hāšim? Inconcepibile! Ecco perché Muḥammad venne in un primo tempo ridotto alla figura di «veggente» (kāhin), di poeta (šā’ir), di mago (sàḥir) una figura, insomma, dotata di particolari poteri soprannaturali, ampiamente diffusa nella religione antico-araba. Dio avrebbe affidato una così importante missione al membro di una tribù? La Resurrezione dai morti e il Giorno del giudizio di cui predica Muḥammad sono squalificati come ridicole e bizzarre supposizioni e si esigono manifestazioni miracolose a riprova della verità delle sue affermazioni. L’establishment della Mecca capisce infatti che il messaggio del nuovo Profeta rappresenta una pericolosa minaccia per lo status quo, quindi per il potere economico-sociale-religioso:

  • L’appello di Muḥammad per un ethos della giustizia, di fronte all’imminente Giorno del giudizio; i suoi inviti, ora con toni aspri o minacciosi, ora con esortazioni gioiose, al cambiamento e alla solidarietà sociale minacciano di scardinare la mentalità egoistica e materialistica dei ricchi commercianti.

Eppure il fenomeno non può esaurirsi in questa opposizione sociale. La problematica sociale è strettamente connessa a quella religiosa. La vita economica e la struttura sociale da una parte e la religione e le concezioni morali dall’altra costituiscono un sistema di idee e istituzioni di per sé indistinguibile. L’unica risposta di Muḥammad alle pretese di un miracolo-prova è il messaggio stesso, è il Corano. Esso, nei suoi contenuti e nella bellezza della sua lingua, è un miracolo unico, il segno per eccellenza della rivelazione di Dio, la testimonianza del valore del suo Profeta.

 

La lotta per l’unicità di Dio: «I versetti satanici»

Ben presto nella città della Mecca sorsero anche delle contrapposizioni in merito a questo interrogativo: esiste un solo Dio o esistono tante divinità? È importante precisare che la tribù di Muḥammad, i Quraiš, era preposta alla custodia (tramite vari uffici) dell’antichissimo e più importante santuario della Mecca, la Ka’ba, che costituiva probabilmente il fulcro coesivo per l’esistenza e la convivenza pacifica dei diversi clan all’interno della tribù dei Qurais. La Ka’ba è un edificio cubico, squadrato (dieci metri per dodici) contenente la famosa Pietra nera (si tratta di una roccia di basalto o di lava, forse di un meteorite) che ancor oggi è coperta da un tappeto nero. I musulmani credono che le fondamenta della Ka’ba siano state gettate da Abramo e da suo figlio Ismaele (una leggenda tuttora circolante attribuisce la loro fondazione addirittura ad Adamo) e che lo stesso Abramo abbia fin da allora prescritto il pellegrinaggio a questo santuario. All’epoca di Muḥammad la Ka’ba era naturalmente ancora piena di immagini e di sculture di divinità.

Non sappiamo esattamente, se non in via del tutto ipotetica, come si sia svolto il processo d’affermazione delle tendenze rigidamente monoteiste nella Mecca. Secondo l’opinione di molti studiosi le prime sure meccane riflettono una concezione monoteista appena abbozzata, disponibile ad ammettere la presenza di altre divinità di rango inferiore. In questo contesto risultano molto importanti quei «versetti satanici» del Corano (che non sono quindi un’invenzione dello scrittore Salman Rushdie, autore dell’omonimo e famoso-famigerato romanzo!), secondo i quali Muḥammad, in un primo tempo, avrebbe tollerato che nella Ka’ba venissero venerate le tre «figlie di Allāh» (banāt Allāh), il cui rapporto con il «sommo Dio» Allàh è comunque di tipo astratto e non (come nella mitologia greca) di natura sessuale (non abbiamo inoltre dei «figli di Allàh»). In questo caso si sarebbe trattato di un possibile compromesso – un Dio solo e divinità subordinate – con i capi clan e i commercianti dei Qurais. Tale interpretazione è legittima? Costoro non erano affatto così intransigenti da richiedere simili sforzi conciliatori...

Non dimentichiamo che Satana è solito instillare nei profeti o messaggeri di Dio dei pensieri maligni, camuffandoli come rivelazioni, che è poi compito di Dio correggere. Infatti, come leggiamo nel Corano: «E nessun Messaggero o Profeta inviammo prima di Te, cui Satana non gettasse qualcosa nel desiderio, allorché concepì desiderio; ma Dio abrogherà il suggerimento di Satana, poi Dio confermerà i Suoi Segni, ché Dio è saggio sapiente».86 E quali sono questi «versetti satanici» nel caso di Muḥammad? Essi si trovano nella sura 53, la sura «della Stella» (quella che nella parte iniziale racconta la visione di Muḥammad!), a partire dal versetto 19 s.: «Che ne pensate voi di al-Lāt e di al- ‘Uzzā – e di Manāt, il terzo idolo?».87

Secondo gli Annali di at-Ṭābarī (m. 922) – sulla base delle dichiarazioni rese da ’Urwa ibn az-Zubayr al califfo ’Abd al-Malik (685-705) – e secondo altri commentatori questi due versetti sarebbero però seguiti da altri due o tre versetti. È, pur vero che il Corano non li riporta ma è assolutamente impossibile che siano stati inventati: «Questi sono i volatili nobili (garaniq, aironi, uccelli dall’alto volo, esseri simili ad angeli?). Si può ben sperare nella loro intercessione». Con la variante aggiuntiva: «La loro intercessione è cara (a Dio)».88 Secondo le cronache, Muḥammad aveva recitato questi fatali versetti di fronte ai commercianti (riuniti nella Ka’ba?) e si era persino prostrato al suolo in segno di timor di Dio, tanto che i commercianti presenti lo avevano subito imitato...

Qualche tempo dopo però (la sera stessa o più probabilmente alcuni giorni dopo) Muḥammad si era reso conto che questi versetti erano di ispirazione satanica e aveva ricevuto da Dio la loro correzione, come evidenzia Cor LIII,21-23: «Voi dunque avreste i maschi e Lui le femmine? – Divisione sarebbe iniqua! – Esse non sono che nomi dati da voi e da’padri vostri, pei quali Iddio non v’inviò autorità alcuna». 89 Ora è completamente chiaro: non viene solo negata la capacità d’intercessione di simili divinità, ma la loro stessa esistenza. Accanto a Dio, che Muḥammad venera come Signore (rabb), come Dio Creatore e Salvatore, Fonte di Vita e Giudice Supremo, non sono concepibili altre divinità, anche se inferiori, che possano fungere da intermediari. Esistono solo gli Angeli, i Servitori di Dio (‘abd, pl. ‘ibād), la sua corte celeste. I «versetti satanici» sono stati «abrogati», annullati da quelli successivi, dicono gli interpreti.

Da questo momento in poi, se non prima, la lotta di Muḥammad per affermare l’esistenza di un unico, solo Dio diventa dunque anche una lotta implacabile contro tutte quelle divinità minori che avrebbero dovuto intercedere presso il «Dio Supremo» Allàh. Le «leggende del profeta e della condanna» nelle sure del medio periodo meccano contengono un’aspra polemica contro il culto politeista. Il messaggio profetico risuona adesso inflessibile: «Di’: ’O Negatori! – Io non adoro quel che voi adorate, – né voi adorate quel che io adoro; – ed io non venero quel che voi venerate, – né voi venerate quel ch’io venero: – voi avete la vostra religione, io la mia"».90 La «associazione» di altre divinità diviene il più grande peccato, che Dio non perdona: «In verità Dio non sopporta che altri vengano associati a Lui: tutto il resto Egli perdona a chi vuole, ma chi associa altri a Dio forgia suprema colpa».91

Tuttavia tale inflessibilità ha il suo prezzo. Non è forse opportuno comprendere le ragioni dell’opposizione dei Quraiš al messaggio di Muḥammad?92 Non si tratta di fede o di incapacità di credere; si tratta di una «questione vitale», di una questione politica estremamente importante che investe l’intera tribù. Perché? Perché, mettendo a rischio la sacralità dei suoi santuari, dei suoi simboli, delle sue tradizioni, qui ne va dell’identità stessa della tribù. Il santuario della Mecca infatti è da sempre immagine di un tempo sacro, intangibile e di uno spazio sacro, intangibile. E ciò – insieme all’annuale «tempo del pellegrinaggio» («tempo di pace») verso i santuari nei dintorni della Mecca dedicati ad altre divinità – costituisce la premessa per lo svolgimento del grande mercato interregionale, dove tutte le tribù e i clan, siano sedentari, nomadi o seminomadi, si riuniscono pacificamente: esercitano il culto e il commercio, risolvono controversie e discutono questioni di vario genere...

E adesso arriva proprio un Quraiš. a mettere in discussione i fondamenti della sua stessa tribù! E inaudito, poiché col suo messaggio di «sottomissione» (islām) all’unico Allàh egli

– oltraggia il venerabile culto delle divinità degli antenati;

– rigetta tutte le tradizioni della tribù tramandate da tempo immemorabile: le sue leggende e consuetudini;

– anziché identificarsi totalmente con la sua tribù, come si è sempre fatto, egli, tramite le sue critiche, la rende ridicola anche agli occhi altrui;

– mette così in serio pericolo l’unità e la coesione dei clan e l’identità della tribù.

C’è di più: a ognuna delle tre divinità oggetto di culto (al-Lāt = dea, al- ’Uzzā = la forte, Manāt = la dispensatrice o la dea del destino) era dedicato un famoso santuario nelle vicinanze della Mecca, lungo la principale via di traffico che portava a Medina e in Iraq. La negazione dell’esistenza di queste divinità non avrebbe solo avuto come conseguenza un affievolimento del culto nella Ka’ba ma anche la chiusura di questi santuari (che più tardi, dopo la vittoria dei musulmani, vennero effettivamente distrutti).

Riassumendo, il messaggio profetico di Muḥammad assume una forte valenza politica: intende distruggere il culto politeista, infrangere i tabù del tempo, realizzare una riforma sociale, eliminare le disparità. Rappresenta dunque una minaccia radicale che incrina la solidarietà del clan, l’autorità dei capi clan, la sacralità della Ka’ba e degli altri santuari dell’Arabia occidentale. Si tratta, in poche parole, di una minaccia per la classe economica dominante nella Mecca e per il prestigio politico dei Quraiš nell’intera regione. In sintesi, dunque:

  • L’appello di Muḥammad, la sua fede in un solo e unico Dio minaccia l’intera sfera del culto e dei commerci intorno alla Ka’ba: rischia non solo di cancellare la venerazione degli dèi o delle dee di quei luoghi ma pregiudica anche le attività di pellegrinaggio, lo svolgimento del mercato e quindi il sistema economico e finanziario della Mecca, la politica commerciale e i rapporti della città con l’esterno, danneggia tutte le esistenti istituzioni religioso-socialipolitiche: la nobile tradizione, l’unità interna e il prestigio della tribù sono compromessi.

C’è insomma una forte contrapposizione tra un singolo e il suo piccolo gruppo, da una parte, e un’intera tribù, dall’altra. Come finirà? Si ricorre prima a vessazioni, poi a offerte in denaro ma il Profeta è inamovibile. Il conflitto religioso, sociale, politico si trascina per anni. Infine, s’impone una scelta: o l’intera tribù decide di convertirsi al Profeta e al suo messaggio – o il Profeta e i suoi seguaci dovranno lasciare la tribù. Sono passati dodici anni dalla chiamata profetica di Muḥammad ed è arrivato il tempo di una decisione e di una separazione...

 

L’emigrazione: un cambiamento epocale

Ciascuna tribù araba concepisce se stessa come una comunità di sangue e solidale, spesso anche (come nel caso della Ka’ba) come una comunità di culto. Il clan tuttavia è come una tribù nella tribù (corrisponde alla nozione tedesca di «Sippe»). Ciascun clan è animato da una profonda solidarietà, che spinge ogni membro a partecipare alla lotta contro i nemici e che appare ancora più forte rispetto alla solidarietà verso l’intera tribù. L’attacco mortale a un membro del clan, per esempio, viene ripagato con la vendetta di sangue – l’istituto giuridico tipico della società nomade. Fintanto che lo zio di Muḥammad, suo papà adottivo e capo del clan degli Hàsim, lo protegge, Muḥammad è al sicuro. Tuttavia la situazione si fa sempre più difficile, tanto che nel 615 il Profeta, in quanto capo della sua piccola comunità, raccomanda ad alcuni suoi seguaci di rifugiarsi per un certo periodo di tempo nell’Etiopia cristiana; si trattava probabilmente di un drappello di 89 uomini e 18 donne, che furono comunque accolti assai benevolmente dal negus. Nella Mecca invece le ostilità e le vessazioni degli altri clan contro il clan degli Hàsim culminarono nell’interdizione di matrimoni e rapporti commerciali con i suoi membri (616-618). Una forma di disprezzo che tuttavia, forse perché non molto efficace, venne presto a decadere.

Nel 619 però il conflitto entra in una fase critica:

– muore la moglie di Muḥammad, Ḫadīğa. Essa gli aveva procurato non solo ricchezza e prestigio ma era sempre stata per lui, in quanto prima donna musulmana della storia, motivo di impagabile incoraggiamento, soprattutto nei periodi di interruzione delle rivelazioni, che furono molto avvilenti per Muḥammad;

– poco dopo muore lo zio di Muḥammad, Abū Tàlib e il Profeta perde così il suo più potente protettore, colui che, pur non essendo musulmano, aveva saputo tener testa a tutte le pressioni dei Quraiš affinché Muḥammad venisse privato della protezione del clan;

– un altro zio, Abū Lahab, assume il comando del clan. Questi tuttavia, in occasione dell’atto di interdizione/proscrizione, si era messo dalla parte degli avversari di Muḥammad e aveva inoltre sposato una donna di un clan avverso al Profeta, gli Umaiya. Cede così alle pressioni di alcuni influenti Quraiš e abolisce l’obbligo di protezione del clan nei confronti di Muḥammad;

– il Profeta, che ora è un «fuorilegge», si mette alla ricerca di asilo, cercando rifugio in qualche luogo vicino alla Mecca non controllato dalla sua tribù (presso alcune tribù nomadi o nella città di Tā’if): tuttavia senza successo perché viene deriso e cacciato a forza. Forse quella gente avrebbe offerto rifugio a un semplice fuggiasco, ma non a colui che pretendeva di essere il «Messaggero di Dio» e disprezzava le loro divinità. Dopo il suo ritorno Muḥammad, che è senza dimora e tutela giuridica, riesce con grande fatica ad ottenere protezione da un non meglio precisato capo clan. È, privo ormai di appoggi politici e la sua comunità, che conta poco più di cento persone, non attrae più nuovi seguaci.

Eppure una svolta sembra profilarsi all’orizzonte: nel 620, durante il pellegrinaggio e la fiera annuale alla Mecca, un gruppo di sei uomini proveniente da una città posta 300 chilometri più a nord, Yaṯrib – forse chiamata già allora dai forestieri di passaggio con il nome «la città», «al-Madīna», Medina – rimangono profondamente colpiti dal racconto delle rivelazioni di Muḥammad e dalla sua coraggiosa e straordinaria personalità. L’anno successivo, ancora in occasione del pellegrinaggio, un gruppo composto da dodici funzionari di Yatrib/Medina si incontra segretamente con Muḥammad in una località fuori dalla Mecca, ad ’Aqaba. Viene raggiunto un accordo temporaneo. L’anno seguente, nel giugno 622, l’accordo viene siglato in modo definitivo (di nuovo ad ’Aqaba) – suggellato dal giuramento di 73 neo-convertiti all’islam, i quali promettono di: credere in un unico Dio; astenersi dal commettere furto, calunnia, adulterio e infanticidio; obbedire al Profeta e accordargli protezione. Muḥammad assume così fin da adesso funzioni religiose e politiche.

Di fronte alla situazione senza via d’uscita della Mecca, Yaṯrib/Medina rappresenta per Muḥammad un vero e proprio dono dal cielo. I musulmani iniziano dunque ad emigrare in piccoli gruppi: sono disposti ad abbandonare la propria tribù e i legami di sangue del proprio clan – e tutto questo per amore della fede! Infine, anche lo stesso Muḥammad lascia in gran segreto la città, insieme all’amico Abū Bakr, che divenne poi il primo califfo. Il 24 settembre 622 arrivano a Qubā’, nella zona meridionale dell’oasi medinese. Questo episodio viene detto Hiǧra (emigrazione, espatrio, non fuga!) del Profeta. Non si tratta però di un banale trasferimento ma di un punto di svolta critico. Quello che si compie è il cruciale passaggio in un altro mondo: scompare la comunità tribale e sorge la comunità dei credenti, scompare il politeismo e sorge l’islam. E poiché l’Hiǧra rappresenta una svolta fondamentale non solo nella vita del Profeta ma in quella dell’islam in generale, la tradizione islamica vede in quella data (16 luglio 622) l’inizio di una nuova era, l’anno 1 della cronologia islamica.

3. IL PROFETA COME FIGURA GUIDA

«Medina»: la «città del Profeta» (madīnat an-nabī), così venne chiamata più tardi Yaṯrib. Medina: non tanto una città di commerci, di pellegrinaggi e di traffici commerciali quanto un’oasi di palme e di cereali, dedita dunque a una fiorente agricoltura, di cui si occupavano soprattutto gli ebrei, presenti in gran numero. Medina: non una città governata da un’unica tribù araba, come nel caso della Mecca, ma da tante tribù e clan in rivalità tra loro (due di ceppo pagano e tre di ceppo ebraico; anche gli ebrei appartengono alla stirpe araba). Ne erano sorti conflitti decennali, disordinate lotte tra clan e spargimenti di sangue, che avevano come protagonisti soprattutto le tribù degli Aus e degli Hazrag, a causa del possesso dei terreni agricoli, e che rendevano insicure le attività agricole, col rischio che Medina venisse trascinata alla distruzione. Eppure nessuno riusciva ad appianare le discordie.93

 

Da profeta a uomo politico: nasce la comunità islamica

Chissà se un simile compito sarebbe riuscito a questo Profeta, che era stato chiamato a Medina dai rappresentanti delle due tribù rivali in qualità di giudice arbitrale (ḥakam) e conciliatore, secondo il costume arabo dell’epoca?94 Non gli manca certo la prudenza politica: dato che a Medina non vige un diritto comune e non esiste un governo centrale, Muḥammad richiede ai medinesi convenuti alla Mecca un giuramento d’obbedienza e stipula con loro un accordo. Subito dopo il suo arrivo, si assicura che l’accordo venga sottoscritto dalla popolazione locale e gli dà una forma scritta. Si è spesso parlato, esagerandone la portata, di una «costituzione», addirittura del «regolamento comunale di Medina». Invece, quello che lo storico Ibn Isḥāq descrive nella sua biografia su Muḥammad subito dopo l’Hiǧra non è il documento originale – anche solo per il fatto che non cita le tre grandi tribù ebraiche – ma un testo molto più tardo ed, evidentemente, frutto di giustapposizioni (date le numerose ripetizioni presenti).

In realtà si tratta semplicemente di uno di quei patti d’alleanza estremamente diffusi tra le tribù arabe, cioè: «un documento stipulato da Muḥammad, il Profeta di Dio, che regola i rapporti tra i fedeli musulmani della tribù dei Quraiš e quelli di Yaṯrib (Medina), tra tutti coloro che lo avevano seguito, si erano uniti a lui e combattevano con lui».95 Nel contratto viene sancita l’alleanza ai fini di protezione e difesa, si stabiliscono i criteri per il prezzo del riscatto o della taglia, la modalità dei rapporti con gli ebrei, le direttive di guerra e il divieto di pace unilaterale. Alcuni aspetti dell’accordo sono specificamente islamici:

– «Essi (i musulmani dei Quraiš e di Medina) sono una comunità (umma), distinta dagli altri uomini.»96 Il termine «umma» può essere tradotto con il termine comunità, associazione o confederazione;

– «Nel giorno della resurrezione l’ira di Dio» colpirà coloro che non rispettano questo accordo.97 Viene dunque costituito un sistema legittimabile e sanzionabile non solo dal punto di vista politico ma anche religioso;

– «Per qualsiasi questione sulla quale nutrite pareri discordi rivolgetevi a Dio e a Muḥammad.»98 Muḥammad non era stato chiamato a Medina in veste di pacificatore ma anche in quanto «Messaggero di Dio».

Il Profeta riesce effettivamente a portare la pace tra le due tribù medinesi nemiche e i suoi membri divengono ora i suoi più fedeli «sostenitori» (anṣār) e si dichiarano ben disposti ad accogliere gli «emigranti» (muhāǧirūn = gente dell’Egira) della Mecca. Molti abitanti di Medina si sono convertiti all’islam già prima dell’arrivo del Profeta e ben presto i musulmani divengono la maggioranza. Per la prima volta i due gruppi tribali medinesi, per lungo tempo così avversi l’uno all’altro, hanno una fede che li accomuna. E per la prima volta Muḥammad riesce a costituire una comunità islamica ben funzionante: la comunità o confederazione (umma) medinese, che diverrà il nucleo della successiva, grande comunità islamica (appunto detta umma). In origine Muḥammad considerava ovviamente parte dell’umma i suoi seguaci della Mecca e gli arabi in generale. Adesso, però, si va delineando un nuovo tipo di umma politico-religiosa: «In sostanza, è il fondamento religioso ciò che la caratterizza. L’umma degli arabi diventa l’umma dei credenti» (R. Paret).99

Inizia così il secondo periodo della sua attività profetica, che è molto diverso rispetto al precedente, tanto che per alcuni studiosi Muḥammad sembra adesso essersi trasformato completamente. Quel predicatore che prima annunciava la bontà, l’onnipotenza e la giustizia di Dio, che richiamava gli uomini al Giorno del giudizio, appare ora un potente uomo politico, ammirato e temuto; un vero e proprio condottiero, incline alla guerra e alla sensualità. Ma la sua personalità è davvero così cambiata, i suoi principi sono davvero così diversi?

Quando analizziamo la vita di Muḥammad non possiamo dimenticare la continuità della sua fede, così profondamente radicata, nell’unico Dio onnipotente e misericordioso e neppure il sopraggiunto cambiamento di condizioni di vita e ruolo sociale. Da esiliato ai margini della società, Muḥammad si vede improvvisamente posto al suo vertice, in qualità di capo di una comunità che, se nella Mecca costituiva una minoranza a malapena tollerata, a Medina è diventata una maggioranza assoluta. Tuttavia Muḥammad non si trasforma affatto in un despota assolutista a comando dei vari clan. Rimane infatti capo clan degli emigranti ed è quindi tenuto a tener conto delle indicazioni degli altri capi clan; la struttura della tribù non viene alterata. Eppure Muḥammad è, al tempo stesso, quel profeta straordinario che annuncia il messaggio di Dio ed è quindi il solo, in caso di discordie, ancora tutt’altro che infrequenti, a poter rivestire la funzione di sommo pacificatore per volontà di Dio. Il Profeta continua a ricevere nuove rivelazioni, che adesso si riferiscono sia alla formazione di una società dove regni la giustizia sia alla costituzione di una liturgia adeguata. Tutte queste rivelazioni confluiscono nel Corano e divengono così il nucleo di quella somma di elementi religiosi che, con la diffusione dell’islam, si estenderanno ovunque nel mondo.

Muḥammad viene così indotto ad esercitare nuove funzioni e il Profeta diviene dunque un «uomo di stato» – differenziandosi, solo per questo aspetto, dai profeti di Israele -, posto di fronte alle complesse esigenze di una confederazione ormai sempre più vasta. La sua missione profetica e gli impegni politici non si escludono a vicenda; i suoi alleati politici devono ora divenire dei musulmani credenti. Il compito che si prefigge il Profeta è immane. Deve organizzare la nuova comunità o confederazione:

internamente, grazie a un’opera di «fraternizzazione» della «gente dell’Hiǧra», degli «emigranti» con la popolazione locale e tramite la distribuzione di nuovi incarichi agli «emigranti» che non possono rimanere eternamente ospiti dei «sostenitori»; lo stesso Muḥammad compra un pezzo di terreno per costruire un’abitazione per sé e la sua famiglia, che diventa, contemporaneamente, il luogo d’incontro per i suoi seguaci, la prima moschea della storia;

esternamente, mediante il potenziamento militare della nuova comunità islamica: dare aspra battaglia ai Quraiš, compiere attacchi («razzie») contro le carovane della Mecca – sono questi, fin dall’inizio, i nuovi incarichi e la «fonte di sostentamento» degli «emigranti»; mediante la costruzione di strutture difensive per proteggersi dai possibili contrattacchi dei meccani; infine mediante la progettazione e l’attuazione di vere e proprie spedizioni militari, svolte proprio grazie all’aiuto degli «emigranti».

E chi sono gli avversari di Muḥammad a Medina? Possiamo individuare quattro schieramenti.

– L’opposizione politeista, esercitata soprattutto dai piccoli clan. Questi deplorano i medinesi che hanno voluto sottomettersi a uno straniero.

– L’opposizione islamica, che contesta il crescente potere che Muḥammad va acquisendo grazie ai suoi successi e disapprova la sua politica dichiaratamente anti-meccana: «dubbiosi», «ipocriti» (munafiqūn), così vengono chiamati questi semplici opportunisti, inaffidabili nel momento del bisogno e simpatizzanti con gli ebrei.

– L’opposizione beduina (a’rāb) diffusa nei dintorni di Medina e della Mecca, inquieta e disomogenea, sleale e corruttibile; in ogni caso, contraria a qualunque prescrizione religiosa come, per esempio, la preghiera e l’offerta verso i poveri, e proprio per questo invisa al Profeta, che ricorse a innumerevoli e brevi spedizioni militari per contrastarla.

– La potente opposizione ebraica: è proprio di questa che vogliamo parlare nel capitolo seguente.

 

La rottura con gli ebrei

Gli abitanti della Mecca sembravano quasi predestinati a essere degli «infedeli» poiché in dodici anni il Profeta non aveva ottenuto alcun risultato. A Medina invece le sue esperienze furono addirittura di segno opposto. Come ci si spiega tutto questo? Perché in quest’ultima città la popolazione è stata più disposta ad accogliere una fede radicalmente monoteista? Secondo l’opinione della maggioranza degli studiosi la questione si spiega grazie alla grande influenza di un gruppo religioso, organizzato in un proprio clan ma diffuso anche tra gli altri clan, che già da secoli praticava un rigido monoteismo e che da diverse generazioni si era stabilito proprio a Medina: gli ebrei. Muḥammad li considera, alla stregua dei cristiani – poiché sono tutti «detentori della Scrittura», «popoli del Libro» (ahl al-kitāb) – come suoi alleati naturali. Nell’accordo stipulato con la città di Medina le tribù ebraiche vengono citate in veste di alleati.100

Eppure proprio su questo versante Muḥammad doveva ricevere una terribile delusione: gli ebrei si convertirono all’islam solo in casi eccezionali. Dapprima Muḥammad aspettò. Sperava che prima o poi i seguaci di questa antichissima religione rivelata lo avrebbero appoggiato, sulla scorta di simili riflessioni: non c’è forse un unico Dio e dunque, fondamentalmente, un’unica rivelazione? Le diverse rivelazioni non sono forse destinate col tempo a confluire in una sola? La sua nuova rivelazione non confermava infatti la rivelazione anteriore, quella ebraica? Perché dunque proprio gli ebrei avrebbero dovuto rifiutare la sua rivelazione? Per tanti aspetti – rituali, escatologici (attesa del Giudizio finale), etici (ethos della giustizia) – la sua religione somigliava infatti fortemente all’ebraismo. Quante volte egli si era richiamato ai suoi «profeti» – da Adamo a Davide, da Abramo a Giuseppe! Gli ebrei non dovevano certo convertirsi in massa all’islam, ma dovevano riconoscere che Muḥammad era un vero profeta. Egli sarebbe stato così un profeta arabo anche per gli ebrei e i cristiani dell’Arabia.

Eppure come era accaduto alla Mecca, anche a Medina Muḥammad viene dapprima semplicemente ignorato dagli ebrei, poi però criticato – alle spalle –, attaccato e sbeffeggiato: Muḥammad non conosce bene la Bibbia ebraica, ha delle nozioni frammentarie e lacunose di quella Sacra Scrittura che gli ebrei conoscono con assoluta precisione. Comunque sia, essi pensano che la profezia è già da tempo scomparsa! Trascorso un anno, Muḥammad non può più chiudere gli occhi davanti a un dato di fatto inequivocabile: gli ebrei di Medina negano il valore delle sue profezie. Lo disconoscono come profeta! Ciò significa, in pratica: non si pone neanche la possibilità di una loro integrazione effettiva nella nuova umma islamica.

Questa presa di coscienza dà origine a un mutamento di atteggiamento da parte dello stesso Profeta che sarà gravido di conseguenze: la sua visione degli ebrei diventa negativa. Dal suo punto di vista, infatti, la colpa di tutto questo può essere solo degli ebrei poiché egli, in quanto Profeta, non ha fatto altro che annunciare la verità di Dio. Dal suo punto di vista sono stati gli ebrei stessi ad isolarsi, tanto che ora risultano alleati inaffidabili per le imprese militari della comunità islamica. Sì, la delusione e l’amarezza inducono ben presto il Profeta a prendere in esame le possibili conseguenze di tutto questo, fino a prevedere un’eventuale espulsione degli ebrei dalla città – la polemica anti-ebraica di alcuni influenti capi clan contribuiva, del resto, a peggiorare la situazione. Se in origine il Profeta aveva adottato molti usi religiosi ebraici (come le scansioni della preghiera rituale e la preghiera del venerdì), ora introduce due modifiche che accelerano il processo di formazione dell’islam in quanto religione distinta rispetto all’ebraismo e al cristianesimo:

  • invece del giorno di digiuno in occasione del giorno dell’espiazione, viene prescritto un periodo di digiuno obbligatorio da praticarsi durante un intero mese islamico, nel Ramaḍan;
  • la direzione della preghiera (qibla) non è più orientata verso Gerusalemme (come usava anche nel cristianesimo orientale) ma verso La Mecca, in direzione della Ka’ba.

Questo non significa che Muḥammad rifiuti in blocco la teologia ebraica. Nelle sure medinesi viene invece espressa una teologia prettamente islamica della storia, nella quale sia il cristianesimo che l’ebraismo rivestono una particolare importanza.

 

La teologia islamica della storia

Muḥammad si considera come il profeta arabo, discendente dei profeti dell’Antico e del Nuovo Testamento, che conduce il popolo arabo lungo la retta via, liberandolo dall’età dell’«ignoranza» (ǧāhilīya). Secondo la teoria islamica della storia della rivelazione, tale processo si è sviluppato attraverso tre fasi.101

- Dapprima Mosè porta agli uomini la Torah, la rivelazione dell’ebraismo: «In verità Noi abbiam rivelato la Torah, che contiene retta guida e luce, con la quale giudicavano i Profeti tutti dati a Dio fra i giudei, e i maestri e i dottori con il Libro di Dio, di cui era stata affidata loro la custodia, e di cui erano testimoni».102

– Poi Gesù porta agli uomini il Vangelo, la rivelazione del cristianesimo: «E facemmo seguir loro Gesù, figlio di Maria, a conferma della Torah rivelata prima di lui, e gli demmo il Vangelo pieno di retta guida e di luce, confermante la Torah prima di esso, retta guida e ammonimento ai timorati di Dio. – Giudichi dunque la gente del Vangelo secondo quel che Iddio ha ivi rivelato».103

- Infine Muḥammad porta agli uomini il Corano, la rivelazione dell’islam:

E a te abbiam rivelato il Libro secondo Verità, a conferma delle Scritture rivelate prima, e a loro protezione. Giudica dunque fra loro secondo quel che Dio ha rivelato e non seguire i loro desideri a preferenza di quella Verità che t’è giunta!104

Alla luce del Corano, che esprime la piena, purissima verità, gli altri profeti e i rispettivi testi sacri vengono fin dal principio – e innegabilmente – confinati in una zona di penombra. Infatti gli ebrei e i cristiani hanno colpevolmente falsificato le loro Scritture, come afferma lo stesso Corano e come, del resto, dimostra concretamente il fatto che queste non coincidono interamente con il suo messaggio; gli ebrei e i cristiani non sono dunque dei credenti a pieno titolo. Eppure il Corano afferma, in modo particolarmente esplicito, che ai cristiani sono state concesse altre vie di salvezza: «A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via».105 Anzi, la diversità delle religioni umane è espressamente fatta risalire alla volontà dello stesso Dio: «Se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone!».106

Oggi però la nuova teologia coranica della storia ritiene che esista una fase di sviluppo ancora precedente: gli albori dell’umanità. Secondo il Corano, infatti, tutte le tre religioni derivano dalla «religione di Ibrāhīm», dalla religione di Abramo, che il Corano, come sappiamo, designa come «ḥanīf», come colui «che cerca Dio» e «che si sottomette a Dio» in modo esemplare, quale modello originario dell’autentica fede islamica. È in questo contesto che viene affermata la priorità temporale (e fattuale) dell’islam rispetto alle altre due religioni rivelate; l’islam, seppure sia storicamente la più giovane tra le tre religioni, viene presentata come quella più antica e più vera poiché ristabilisce autenticamente la religione originaria dell’umanità.

C’è di più: se Muḥammad, come abbiamo già visto,107 durante il periodo meccano considera Abramo quale combattente della fede monoteista, senza dare grande importanza a suo figlio Ismaele, capostipite del popolo arabo, nella predicazione medinese il ruolo di Abramo e anche quello di Ismaele assumono invece un’importanza decisiva. Infatti Abramo – viene detto ora – avrebbe fondato insieme al figlio Ismaele le mura della Ka’ba, sradicando il culto degli idoli e facendone un luogo esclusivamente dedicato alla religione monoteista, un santuario. Abramo e Ismaele si trovano dunque alle origini del pellegrinaggio islamico alla Mecca e costituiscono le figure guida spirituali che sovrintendono all’intera sfera del pellegrinaggio. Naturalmente le affermazioni sull’origine abramica della Mecca e della Ka’ba non sono storicamente verificabili e sono oggetto di discussione tra gli studiosi, come abbiamo visto poco fa. La ricerca storica ha infatti evidenziato la mancanza di prove a sostegno di un soggiorno di Abramo (sepolto a Hebron!) in Arabia, aggiungendo che nel Corano Abramo viene già citato prima ancora del periodo medinese e della polemica verso gli ebrei.

Quale che sia il valore storico di questa nozione della teologia della storia islamica, che resta ancora tutto da verificare, è indubbio che la Bibbia e il Corano contengono formulazioni teologiche fondamentali pressoché identiche e che Abramo incarnava, prima ancora di Mosè, la pura fede in Dio (la «religione di Abramo»). E se «islam» (scritto con lettera iniziale minuscola) significa «sottomissione» (a Dio), «dono di sé» (a Dio), allora Abramo può ben essere considerato (come anche Mosè e addirittura Adamo) un «musulmano»: un rappresentante della fede in un solo Dio, di quella nuova religione che esisteva molto tempo prima di Muḥammad e dell’«Islam» (scritto con lettera iniziale maiuscola). A questo Abramo, in quanto modello originario della loro fede, si richiamano, come sappiamo, anche gli ebrei e i cristiani; tutte le loro religioni vogliono considerarsi abramitiche e nessuna può negare all’altra questa intenzione. Eppure fin dall’inizio vi sono stati violenti conflitti fra la nuova religione abramitica e le altre due religioni precedenti. È di questo che ci vogliamo ora occupare – delineando un quadro generale e complessivo del fenomeno.

 

Come il Profeta divenne capo militare: epurazioni e guerre

Non possiamo ignorare che oggi queste aggressioni verrebbero probabilmente interpretate come «pulizia etnica», anche se i primi musulmani non combattevano contro gli ebrei in quanto popolo o «razza» ma «solo» contro le tre grandi tribù ebraiche (banū = figli, tribù) di Medina, sulla base di motivazioni religioso-politiche. Anche qui, come capitava spesso, gli ebrei erano pionieri dell’agricoltura, parlavano probabilmente tutti l’arabo, condividevano ovviamente molte usanze con i musulmani e, inizialmente, si dichiaravano alleati di Muḥammad. Eppure adesso, dopo il disconoscimento della sua vocazione profetica, il Profeta li considera inaffidabili anche dal punto di vista politico e militare; gli ebrei non possono più, e non lo vogliono nemmeno essi stessi, essere membri della confederazione musulmana. Dunque Muḥammad non esita ormai più ad isolare le tribù ebraiche, cosa che gli riesce tanto più facile in quanto queste sono divise fra loro. Dopo la vittoria contro i nemici esterni, lo attende ora la battaglia contro i «nemici» interni! Gli insediamenti delle tribù ebraiche posti nel centro di Medina vengono attaccati, assediati e rasi al suolo. Si susseguono epurazioni e massacri:

– nel 624 i Qainuqā’ (dediti perlopiù alla fabbricazione di armi e all’oreficeria) sono costretti, in seguito alla sconfitta, ad abbandonare tutte le loro proprietà e ad emigrare;

– nel 625 anche i Naḍīr, di cui Muḥammad abbatte il palmeto – contravvenendo a una legge non scritta sugli espedienti ammessi nella guerra araba – devono lasciare Medina consegnando tutti i loro beni;

– nel 627, in un sol giorno, circa 600 uomini della tribù araba dei Quraiza, che pure si era mantenuta neutrale durante la precedente «guerra di trincea», vengono massacrati; le donne e i bambini vengono spartiti tra i musulmani. Muḥammad, che ha diritto a un quinto del bottino, manda alcune donne che gli spettano a Naǧd (nell’Arabia centrale) affinché vengano scambiate con cavalli e armi.

Non c’è dubbio: il Profeta, come testimoniano le fonti islamiche, è direttamente responsabile di questi fatti (nel terzo caso solo indirettamente) e ci si chiede come questo sia possibile. Buona parte dell’aggressiva politica di potere di Muḥammad risale a un’epoca, di cui anche la Bibbia ebraica ci dà testimonianza, nella quale la nozione di «diritti dell’uomo» è sconosciuta e la guerra è condotta brutalmente, senza alcuna pietà. Muḥammad è evidentemente convinto che le tribù ebraiche siano inaffidabili e che, al momento giusto, possano attaccare alle spalle il «Messaggero di Dio». Ma questo giustifica gli eccidi contro la popolazione maschile e la riduzione in schiavitù di donne e bambini? Secondo l’opinione dei musulmani del tempo non è comunque legittimo l’abbattimento del palmeto, la cui ricrescita avverrà solo dopo decenni. Il Profeta tuttavia – e questo lascia veramente perplesso l’osservatore neutrale – intende legittimare anche questo evento appellandosi a una rivelazione divina. In Cor LIX,5 è scritto: «Ogni palmizio che avete tagliato o che avete lasciato ritto sulle sue radici, fu col permesso di Dio»!?

La vera minaccia alla sicurezza nella città di Medina non proviene in realtà dagli ebrei ma dalla Mecca, la cui reazione è stata appositamente provocata. Infatti in tutti questi anni la strategia del quraisita Muḥammad è tesa ad ottenere il controllo della sua città e della sua tribù natale. Anche questo non avviene senza violenza, come testimonia lo stesso Corano. In un primo tempo, col consenso e la partecipazione di Muḥammad, vengono intraprese delle «razzie» (queste aggressioni a scopo di rapina erano un’antica usanza beduino-araba, una legge del deserto) a danno dei Quraiš, alle quali prendono parte proprio i membri della tribù appena emigrati, spinti anche da necessità economiche. Ma queste razzie, giustificate da motivazioni di ordine prevalentemente economico, si trasformano ben presto – dato che gli infedeli della Mecca ne sono l’obiettivo! – in una guerra della fede, condotta per volontà di Dio: in una «battaglia sul sentiero di Dio».

Nel Corano, che non vuole essere una cronaca di quegli avvenimenti, ritroviamo tutt’al più alcuni riferimenti a proposito di queste operazioni belliche che si presuppone siano già note (vi sono perlopiù indicazioni sulla suddivisione del bottino di guerra e sull’utilizzo della parte spettante al Profeta). Eppure queste imprese belliche non vengono combattute nell’interesse degli uomini, il Corano è infatti ben lontano da questa visione antropocentrica, ma per rendere gloria a Dio. La prospettiva teocentrica risulta anche qui preminente. Ne consegue evidentemente che la storia umana è al tempo stesso storia sacra, espressione della volontà di quel Dio che vuole salvare gli uomini: «Se Dio vi aiuta nessuno può vincervi e se Dio v’abbandona chi v’aiuterà allora? Confidino dunque in Dio, i credenti!».108

La vera e propria guerra con La Mecca durerà, tra varie interruzioni, sei anni (624-630) e in questa occasione Muḥammad dimostra di essere, oltre che uno straordinario uomo politico, anche un eccellente condottiero militare.

– Nel 624, presso l’oasi di Badr – dopo un attacco fallito contro una grande carovana proveniente dalla Siria e diretta alla Mecca (intrapreso durante il mese sacro di Raǧab!) – i musulmani, benché assai inferiori di numero, riescono a sconfiggere le truppe di rinforzo dell’esercito meccano. Si tratta di una vittoria di grande prestigio per Muḥammad dato che la vittoria contro la più potente tribù araba (un episodio che assumerà lo stesso significato miracoloso della fuga d’Israele dall’Egitto) veniva interpretata come testimonianza di «salvezza» (furqan) e come segno della missione profetica di Muḥammad. Subito dopo, tuttavia, si procederà all’espulsione della tribù ebraica dei Qainuqa’.

– Nel 625 però, nella battaglia del monte Uḥud, a nord di Medina, i meccani segnano una vittoria a loro favore, vendicando così la sconfitta subita a Badr, senza che questo riesca tuttavia a scalfire il prestigio di cui Muḥammad (ferito in battaglia) godeva a Medina. Subito dopo avviene l’espulsione della tribù ebraica dei Nadir.

– Nel 627 la «guerra di trincea» (questa volta 10.000 meccani sono appostati lungo la trincea di difesa medinese) termina con esiti incerti poiché le tribù beduine, dietro abili pressioni di Muḥammad, fuoriescono dal fronte dell’esercito meccano. Immediatamente dopo avviene il massacro della tribù ebraica dei Quraiza.

– Nel 628 Muḥammad (in seguito, si dice, ad una rivelazione avuta in sogno) decide di intraprendere insieme a 1500 seguaci un pellegrinaggio alla Mecca. Bloccato al confine della parte sacra della città, a Hudaibiya, riesce, grazie ad abili mosse diplomatiche, a siglare con i meccani una tregua armata di 10 anni nonché ad ottenere la concessione di un permesso di pellegrinaggio per i musulmani, da effettuarsi l’anno seguente per un periodo di tre giorni.

– Nel 629 avviene il pellegrinaggio alla Mecca (marzo) ma anche un fallito attacco in territorio bizantino-cristiano: sconfitta presso Mu’ta (a sud-est del Mar Morto, nell’attuale Giordania).

– Nel 630 la tregua armata viene sospesa e Muḥammad marcia con un imponente esercito, composto da 10.000 uomini, contro La Mecca: gli uomini posti a comando della città (tra i quali il suo antico e principale avversario Abū Sufyàn, comandante della carovana assaltata presso Badr e dell’esercito meccano durante la «guerra di trincea») decidono di permettere il suo trionfale e pacifico ingresso nella città natale (11 gennaio). Pur procedendo alla distruzione delle immagini degli idoli nella Ka’ba, viene indetta un’amnistia generale a favore dei Quraiš (abbiamo testimonianza solo di alcune isolate esecuzioni) e l’amministrazione della città è saldamente affidata a Muḥammad. Anzi: presso Ḥunayn, in quello stesso anno, Muḥammad sconfigge insieme ai Quraiš l’esercito della città di Ṭà’if e delle tribù sue alleate, grande due volte il proprio. Ciascun membro dell’esercito riceve, come parte del gigantesco bottino di guerra, quattro cammelli o il valore corrispondente mentre ai capi clan della Mecca vengono assegnati, a seconda del grado d’importanza, 50 o 100 cammelli. Avviene così una reale conciliazione tra Muḥammad e gli abitanti della Mecca, che ora si convertono rapidamente all’islam. Muḥammad tuttavia si ritira nuovamente a Medina – anche se i suoi sostenitori medinesi non hanno ricevuto alcun bene dalla spartizione del bottino. Per Muḥammad gli abitanti della Mecca sono adesso più importanti.

Quale obiettivo avrebbe potuto essere più prestigioso, nella sorprendente parabola del Profeta, se non il dominio sulla città dei suoi padri, sulla sua tribù d’origine? I Qurais, che in un primo tempo lo avevano osteggiato, lo hanno infine accettato. Anzi, Muḥammad ora non è solamente uno dei tanti principi arabi tribali; è il sovrano assoluto per volontà di Dio, contro il quale nessuno, nella penisola arabica meridionale e centrale, oserebbe schierare 20.000 uomini. Quel che è fondamentale è che i musulmani governano ora il più importante santuario religioso dell’intera Arabia, la Ka’ba! Con quali conseguenze? L’islamizzazione della Ka’ba e dell’Ḥaǧǧ è imminente:

  • il centro della fede islamica non sarà più posto, d’ora in poi, nella lontana Gerusalemme ma nel mezzo della penisola arabica: la Ka’ba, alla quale ben presto gli ebrei e i cristiani non potranno più avere accesso.
  • Il pellegrinaggio alla Mecca assume un significato essenziale nell’islam; il cerimoniale pre-islamico, ripulito dalla fede negli idoli, viene per così dire trasposto nell’islam, anche se l’Ḥaǧǧ è ora una festa puramente islamica, alla quale gli ebrei e i cristiani non possono partecipare.

L’eredità di Muḥammad

Dopo la conquista della Mecca, al Profeta resteranno ancora solo due anni da vivere. Ma egli sa sfruttarli al meglio, a diversi livelli.

1. Unificazione del popolo arabo. In questi anni Muḥammad si impegna per estendere il suo dominio su tutta la penisola arabica. Le tribù sconfitte presso Ḥunayn – nomadi, seminomadi, sedentarie – vengono comunque trattate con grande favore. Se le restanti tribù beduine non si inseriscono volontariamente nella comunità islamica, vi vengono costrette militarmente. Fino al Bahrein, all’Oman e allo Yemen giunge adesso notizia della predicazione e dei successi di Muḥammad e molte tribù fanno ora spontaneamente richiesta di adesione alla confederazione islamica, per motivi economico-politici o religiosi. «Anno delle delegazioni (wufūd)», così sarà successivamente chiamato l’anno 9 della nuova età islamica (aprile 630 – aprile 631), talmente tante sono le delegazioni che si recano al cospetto di Muḥammad per richiedere la loro affiliazione. Egli è adesso il capo dell’Arabia – sebbene le singole tribù mantengano una fisionomia autonoma – e la comunità islamica è il più potente fattore di coesione. In brevissimo tempo la penisola araba diviene così musulmana: l’integrazione delle tribù beduine è un dato di fatto, l’Arabia è la patria dell’islam.

2. Consolidamento della comunità islamica. Ciò che è costitutivo di questa comunità, dell’umma, è ormai chiaramente definito:

– chi vuole partecipare al grande pellegrinaggio (ḥaǧǧ), deve dichiarare la propria fede nel solo e unico Dio;

– è esclusivamente ammessa la professione di fede (šahāda) nell’unico Dio e nel profeta Muḥammad;

– la preghiera rituale (ṣalāt) è rigidamente richiesta a tutti i musulmani, anche a quei beduini renitenti all’imposizione di regole;

– è anche obbligatorio il versamento dell’annuale tassa sociale (zakāt), riscossa da emissari di Muḥammad (cosa che, dopo la morte di Muḥammad, costituirà la causa principale del distacco, ridda, delle tribù beduine dell’Arabia centrale);

– il mese del Ramaḍan coincide ora con un periodo di digiuno (ṣiyām). Questi cinque elementi strutturali fondamentali verranno poi chiamati i «cinque pilastri» dell’islam; li analizzeremo con maggiore attenzione nel capitolo successivo.

3. Dichiarazione di guerra agli ebrei e ai cristiani. Fin dai primi anni medinesi Muḥammad si era dimostrato ostile verso gli ebrei. Qual era invece il suo atteggiamento nei confronti dei cristiani? È pur vero che, durante i suoi viaggi d’affari verso la Siria, Muḥammad aveva probabilmente incontrato dei cristiani e, in particolare, dei monaci (tra cui il famoso monaco Baḥīrā); è pur vero che era stato un cristiano (Waraqa) a credere nella sua prima rivelazione; è pur vero che i suoi seguaci erano stati accolti nell’Etiopia cristiana con grande benevolenza, tanto che Muḥammad, in origine, mostrava un atteggiamento amichevole verso i cristiani (comunque presenti in scarso numero nell’Arabia occidentale e centrale): «Troverai che i più feroci nemici di coloro che credono sono i giudei e i pagani, mentre troverai che i più cordialmente vicini a coloro che credono sono quelli che dicono: "Siamo naṣārā (cristiani)!" Questo avviene perché fra di loro vi sono preti e monaci ed essi non sono superbi».109 Tuttavia il rapporto di Muḥammad con i cristiani era forse peggiorato quando egli, avendo intrapreso una politica espansionistica verso la Siria, era stato sconfitto nel 629 presso Mu’ta dai bizantini e dai loro alleati arabi. Inoltre, dobbiamo tener conto che il Corano condanna risolutamente la dogmatica cristiana (la Santa Trinità e l’origine divina di Gesù).

Così viene infine formulata un’esplicita dichiarazione di guerra non solo verso agli ebrei ma anche verso i cristiani: «Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e coloro, fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s’attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino il tributo uno per uno, umiliati. – I giudei han detto: "’Uzayr è il figlio di Dio!" e han detto i cristiani: "Il Cristo è il figlio di Dio!" Questo dicono con la loro bocca imitando il dire di coloro che prima di loro repugnarono alla Fede. Dio li maledica! In quale grave errore sono caduti! – Si son presi i loro dottori e i loro monaci e il Cristo figlio di Maria come "Signori" in luogo di Dio, mentre erano stati esortati a adorare un Dio solo: non c’è altro Dio che Lui, glorificato e esaltato oltre quel che a Lui associano!».110

4. Espansione della confederazione islamica. Gli esegeti del Corano 111 hanno sottoposto a varie analisi il brano sopracitato (ritenendolo frutto di giustapposizioni od oggetto di interpolazioni successive, evidenziandone la falsità di alcune affermazioni poiché Esdra non è mai stato divinizzato nell’ebraismo...). Ma tutto questo modifica poco il significato storico di queste frasi dato che i musulmani si sono successivamente ispirati a queste indicazioni del Profeta per giustificare le loro campagne di conquista – come già avvenne in occasione della spedizione verso Tabūk (630), allorquando molte comunità ebraiche e cristiane si videro obbligate al versamento di tributi. Lo scopo era: lotta contro cristiani ed ebrei fino a che essi non siano disposti a riconoscere la supremazia politica (non religiosa!) dell’islam! Ecco perché non ci furono mai conversioni forzate tra le popolazioni sottomesse («non c’è obbligo nella religione»); tutti i non musulmani erano comunque tenuti a versare una tassa pro capite (ǧizya) che costituiva un’importantissima fonte di reddito per i dominatori musulmani. Tale pratica fu applicata per la prima volta già ai tempi della conquista dell’oasi Ḫaibar (100 chilometri a nord di Medina), in precedenza di proprietà degli ebrei Nadir. Fu così possibile, almeno provvisoriamente, instaurare una convivenza tra musulmani ed ebrei, purché venissero rispettate le seguenti condizioni: agli ebrei era ancora consentito lavorare la terra ma, poiché erano fittavoli, dovevano versare un tributo ai musulmani (a Ḫaibar la metà del raccolto di datteri). Nello Ḥiǧāz il forte potere economico-politico della classe ebraica venne, in questo modo, praticamente distrutto mentre si costituiva un’egemonia arabo-islamica di tipo militare-economico-politico.

Quante spedizioni militari, grandi o piccole, vennero condotte contro le tribù beduine quando Muḥammad era ancora in vita, è difficile dirlo (il Corano non le menziona affatto). Lo storico al-Wāqidī (m. 823), autore di una storia delle sue imprese militari, ne conta 74.112 Quando Muḥammad era ancora vivente vennero intraprese importanti campagne militari nei territori di confine bizantini. Fin da allora le mire espansionistiche islamiche puntavano sull’area siriano-palestinese, che, pur essendo governata da Bisanzio, era abitata da popolazioni arabe. E lo stesso Muḥammad a preparare quell’impressionante operazione militare che vede penetrare un invincibile esercito di 3000 uomini fino al golfo di Aqaba.

Dalla politica interna del Profeta, di stampo monarchico, e da quella estera, di tipo espansionistico, deriva anche quanto segue:

  • il dominio politico-religioso di Muḥammad servirà in seguito a legittimare il centralismo assolutista dell’impero arabo-islamico;
  • nell’impero arabo-islamico gli ebrei e i cristiani sono sì tollerati, ma solo in quanto «minoranza protetta» (ḏimmī), i cui diritti sono fortemente limitati.

Nell’anno 632 Muḥammad vuole assolutamente prendere parte al pellegrinaggio alla Mecca. Questo sarà, benché egli non lo possa sapere, il suo «pellegrinaggio dell’addio», durante il quale ancora una volta presiederà al grande cerimoniale. Dopo il suo ritorno, le condizioni di salute di Muḥammad si fanno molto preoccupanti; i dolori alla testa e le febbri lo tormentano. È talmente debole da non poter più guidare personalmente nemmeno le preghiere giornaliere, compito che affiderà al fedele compagno Abū Bakr. Non trascorrerà più le notti, come d’abitudine, nelle stanze delle diverse mogli. Secondo quanto narra la tradizione, egli chiede loro il permesso di poter restare vicino alla sua preferita, ’Ā’iša, la figlia di Abū Bakr. Con la testa reclinata nel suo grembo, la morte coglie inaspettatamente il Profeta all’età di presumibilmente 60 anni o poco più, nel decimo anno dell’Hiǧra, l’8 giugno 632. Non ha nominato successori o sostituti.

 

Meriti e virtù del Profeta

Se si ripercorre la vita del «Messaggero di Dio», risulta comprensibile il giudizio che ne danno i musulmani: Muḥammad, come pochissimi altri prima e dopo di lui, ha compiuto e realizzato imprese straordinarie, addirittura epocali, cosa che anche la teologia e le chiese cristiane dovrebbero finalmente riconoscergli senza riserve:

  • il Profeta ha riunificato l’Arabia delle tribù e dei clan, che, prima del suo arrivo, era sia politicamente lacerata da continue ostilità e ritorsioni, sia frammentata dal punto di vista religioso, a causa del culto di diverse divinità tribali;
  • il Profeta ha così innalzato – considerando il primitivo politeismo delle religioni tribali arabe antiche – il livello religioso del popolo arabo, rendendolo paragonabile a quello dei grandi imperi confinanti; l’islam è una religione monoteista, eticamente evoluta;
  • tramite il Corano il Profeta ha infinitamente donato a innumerevoli uomini del suo secolo e dei secoli a venire l’ispirazione, il coraggio e la forza per un nuovo cammino religioso: un cammino verso una verità più grande e una conoscenza più profonda, che sa far rivivere e rinnovare la religione degli antenati. L’islam come punto di riferimento esistenziale.

Gli uomini dell’Arabia del VII secolo non erano forse nel giusto quando prestavano ascolto alla voce profetica di Muḥammad? Non erano forse nel giusto quando prendevano il Profeta a modello morale della loro condotta di vita? Muḥammad è ritenuto un grande riformatore religioso, legislatore e leader politico, il Profeta dei profeti: la tradizione islamica vede incarnate nella sua figura tutte quelle virtù dalle quali dipende il valore dell’uomo dinanzi a Dio.

Citiamo, solo per fare un esempio, la lunga lista di virtù nelle quali il Profeta eccelle, compilata dal musulmano pakistano Muḥammad ’Alī nella sua biografia su Muḥammad: la sincerità di cuore, la semplicità nello stile di vita e nell’abbigliamento, l’amore verso gli amici, la clemenza verso i nemici, la giustizia nei confronti di ciascun uomo, l’umiltà, la solidarietà con i poveri e i derelitti, l’ospitalità, il sentimento d’amicizia, la forza della fede, la disponibilità al perdono, la modestia, la generosità, il rispetto verso il prossimo e il coraggio. Il catalogo delle virtù redatto da ’alī termina infine con la descrizione della perseveranza del Profeta (e chi potrebbe mai confutarla?): «Le biografie dedicate al Profeta, scritte sia da suoi sostenitori che da suoi nemici, esprimono tutte la stessa ammirazione per il suo indomabile coraggio e la sua incrollabile perseveranza, di cui dava prova anche nelle circostanze più difficili. La disperazione e l’avvilimento erano sentimenti sconosciuti al Profeta. Pur se rinchiuso in un vicolo cieco, come effettivamente era, a causa degli esiti sfavorevoli della sua missione, la sua fede nel trionfo finale della verità non lo abbandonò mai, neppure per un istante. Benché colpito dalle più violente tempeste, nessun pericolo, nessuna privazione, nessuna persecuzione riuscì a farlo minimamente recedere dalle sue intenzioni. Egli utilizzava quanto meglio poteva gli strumenti che Dio gli concedeva, fin dove questo era possibile, e, per il resto, si affidava alla grazia di Dio. Gli imprevedibili rovesci del destino non riuscirono mai a scalfire o a indebolire il suo coraggio di vivere. Perfino dopo il terribile disastro della sconfitta di Uhud, era già subito pronto ad affrontare nuovamente il nemico. In poche parole: persino nei giorni più tragici e cupi, il suo cuore era sempre ricolmo della ferma certezza che la verità, alla fine, avrebbe trionfato».113 Davvero? Era tutto così semplice, così lineare?

Il teologo cristiano che voglia comprendere il significato epocale della figura del Profeta non solo per i musulmani bensì all’interno della storia universale delle religioni, deve poter certamente analizzare, senza per questo incorrere nel biasimo dei musulmani stessi, gli aspetti critici della persona e dell’operato di Muḥammad. Portare alla luce questi aspetti, operando secondo uno spirito di verità, significa promuovere un dialogo autentico tra cristiani e musulmani. Questa ricerca non è espressione di mancanza di rispetto verso il Profeta e l’islam bensì del desiderio di garantirne la credibilità. Poiché se, giustamente, vengono esaltate le virtù di Muḥammad, allo stesso modo non è possibile liquidare su due piedi i dubbi inerenti la sua condotta morale. Si tratta di critiche che riguardano la veridicità del Profeta, il suo ricorso alla violenza e il suo rapporto con le donne.

 

Immorale? Le critiche tradizionali

Questi giudizi critici sono di vecchia data e hanno da sempre avuto un ruolo significativo nella polemica cristiano-musulmana. Ma vanno necessariamente e solo per questo motivo ritenuti infondati? È nostra intenzione prendere in esame, almeno brevemente, queste critiche tradizionali all’islam in modo da poter dare una risposta il più possibile differenziata alla questione.114

1. Mancanza di veridicità? Muḥammad era, senza alcun dubbio, fermamente e assolutamente consapevole della sua missione e a tale consapevolezza si aggiungevano un’indole vagamente sognatrice, un ingegno acuto e un’intelligenza politica.

Eppure, per tutti questi secoli la critica cristiana (come quella del primo periodo meccano) ha formulato la questione della mancanza di veridicità: Muḥammad avrebbe attinto la sua saggezza da altre fonti, di origine assolutamente straniera, da ebrei e cristiani, limitandosi a trasporle in lingua araba. Era un truffatore che mentiva consapevolmente poiché annunciava come rivelazioni di Dio quelle che erano le sue personali convinzioni...

Da quanto abbiamo esposto finora si evince però che Muḥammad era indubbiamente convinto di annunciare la parola di Dio, e non la sua parola di uomo, e di saper ben distinguere l’una dall’altra. È perciò ingiustificato mettere in dubbio sin dal principio l’autenticità delle rivelazioni di Muḥammad. Bisogna invece oggettivamente porsi alcune domande.

– Un ricco commerciante come lui non avrebbe potuto avere una vita molto più comoda, se non si fosse dichiarato un solitario «cercatore di Dio» e poi un «Messaggero di Dio»?

– Se il suo messaggio fosse stato una finzione, avrebbe comunque affrontato per tanti anni una vita così piena di sacrifici e pericoli?

– Se si confuta l’autenticità della rivelazione di Muḥammad, non bisognerebbe allora confutare anche l’autenticità delle rivelazioni dei profeti d’Israele nonché di molti dei pronunciamenti religiosi di Gesù di Nazaret?

No, l’onestà soggettiva del Profeta non può essere messa in dubbio. Certo: si può sostanzialmente accogliere o negare il contenuto delle sue rivelazioni. Ma non si possono rigettare comodamente queste rivelazioni diffamando la persona di Muḥammad. È vero che i musulmani avrebbero potuto ribattere forse meglio alla critica morale sulla veridicità di Muḥammad se essi, per primi, avessero messo in luce aspetti utili alla discussione: Muḥammad è vissuto su questa terra senza essere né cieco né sordo. Da uomo fondamentalmente religioso qual era, non avrà certamente solo parlato di merci e di prezzi, di esperienze personali o avvenimenti politici durante i suoi viaggi e i suoi incontri con gli altri, ma avrà anche discusso tematiche religiose. Perché allora negare l’eventualità che parte di quello di cui aveva sentito e fatto conoscenza altrove possa essere confluito nelle sue rivelazioni? O che ognuna di queste possa essere preceduta da alcune riflessioni personali, mentre solo la formula conclusiva delle sure avrebbe l’autorità di «Parola di Dio»? Non ha forse ammesso lo stesso Profeta che gli autoinganni illusori (come nel caso dei versetti satanici) sono in via di principio sempre possibili e che in particolari circostanze si sono rese necessarie correzioni e revisioni di sure precedenti mediante rivelazioni successive? Tutto questo costituisce un primo problema fondamentale, che approfondiremo in seguito: nel caso di Muḥammad, qual è il rapporto esatto tra parola umana e parola divina?

2. Ricorso alla violenza? Muḥammad ha esercitato la sua missione dimostrando senza alcun dubbio una forza di volontà straordinaria, per quanto riguarda sia la lotta contro i propri nemici che la realizzazione positiva di una nuova comunità – nonostante tutte le avversità. In quanto leader dotato di eccezionali qualità politiche e diplomatiche, riuscì a sbarazzarsi dei nemici sia interni che esterni e fu inoltre capace, durante la fase di realizzazione dell’umma islamica, di mettere in atto soluzioni positive.

Eppure per tutti questi secoli la critica cristiana ha accusato Muḥammad di aver fatto ricorso alla violenza: egli si sarebbe comportato, perlomeno durante il suo secondo periodo medinese, come un uomo di potere senza scrupoli, capace di rompere giuramenti solenni e di agire in modo sleale e ingannevole, addirittura responsabile di assassini politici, ruberie, stermini di intere tribù nonché di una serie infinita di guerre.

Tuttavia da quanto abbiamo potuto verificare si evince che la vita e il messaggio di Muḥammad non possono essere assolutamente spiegati con la «sete di potere» o con una politica priva di scrupoli. Se vogliamo dargli giustizia dobbiamo riconoscere che la molla fondamentale della sua esistenza era l’annuncio di un messaggio religioso, la certezza di essere stato chiamato e inviato da Dio. Certo: questo Profeta non era il rappresentante di un individualismo religioso intimista, non voleva rimanere, come gli ḥanīfe, un solitario cercatore di Dio, unicamente preoccupato del bene della sua anima. Voleva invece plasmare la vita dei singoli e della comunità sulla scorta di motivazioni religiose, ricorrendo a tal scopo anche a metodi violenti, come usava in quell’epoca. Era un politico estremamente realista, che dobbiamo giudicare – e ciò vale per qualunque uomo – alla luce della cultura di quel tempo e di quel popolo, anche se noi oggi, giustamente, disapproviamo il ricorso alla violenza come mezzo giustificato dal fine, tantomeno se il fine è di natura religiosa. Egli aspirava sicuramente a qualcosa di diverso rispetto ai monaci cristiani, elogiati nel Corano, che si ritiravano nel deserto siriano, esercitando con la loro umile devozione una grande forza d’attrattiva sui nomadi cristiani dei dintorni: non voleva solo affidarsi alla forza della fede e non intendeva rinunciare all’uso della violenza, così diffusa a quel tempo. Ma questo non è una ragione valida per negare la sua credibilità religiosa di «Messaggero di Dio». Dobbiamo invece riflettere su alcuni aspetti.

– Muḥammad non volle mai attribuire a se stesso i suoi grandi successi politici e militari ma sempre a Dio; la sua fede incrollabile costituiva il fondamento di tutte le sue imprese.

– Per lui la religione e la politica erano un tutt’uno; infatti anche la sfera mondana doveva essere strutturata secondo principi religiosi fondamentali.

– Ne consegue che la dimensione collettiva veniva maggiormente privilegiata rispetto alla dimensione individuale, com’è tipico della cultura araba; egli desiderava innovare profondamente la società.

– La situazione di minoranza, il «piccolo gregge» non rappresentava per lui una condizione ideale, ma, nel migliore dei casi, solo una condizione iniziale.

– La sua umma equivaleva a un gruppo di combattenti che dovevano lottare con gli stessi mezzi utilizzati dalle altre tribù e dagli altri gruppi politici, se non volevano essere sopraffatti.

– A quel tempo le scorrerie erano ampiamente tollerate poiché erano un modo per procurarsi l’indispensabile sostentamento necessario; erano spesso l’unica possibilità di sopravvivenza.

– Muḥammad non avrebbe mai potuto conseguire così tanti successi politici se non avesse fatto ricorso alla violenza.

– Anche se non gli mancarono forza ed energia combattiva, il Profeta dimostrò comunque anche molta abilità nelle trattative, capacità di mediazione, intelligenza e logica strategica (proprio sul piano delle iniziative politiche personali).

– Dopo il suo trionfale ingresso nella Mecca, Muḥammad, il temuto capo supremo della città, scelse inaspettatamente la via della riconciliazione.

Ciò nonostante i musulmani avrebbero forse fatto meglio a dichiarare, senza ambiguità, che perfino il Profeta non era un uomo perfetto, che forse egli volle aderire eccessivamente alle leggi non scritte della società araba antica; che annullò gli accordi conclusi sia con ebrei sia con i meccani solo perché spinto dal sospetto; che, almeno in due casi, non rispettò le regole di guerra del tempo (divieto di aggressione durante i periodi sacri, divieto di abbattimento dei palmeti); che arrivò persino ad adottare l’omicidio politico (verso gli ebrei!), spargendo il terrore intorno a sé. Molti musulmani hanno ormai compreso che la guerra per motivi religiosi è un tragico errore. E anche se ǧihād, dal punto di vista meramente linguistico, non significa affatto «guerra santa» (si tratta di un’invenzione cristiana; il concetto di «guerra santa» non appare mai nel Corano) bensì sta a indicare innanzitutto la «lotta», lo «sforzo», la «tensione» verso Dio, cioè la battaglia morale di perfezionamento di se stessi che ci avvicina a Dio, fa tuttavia riflettere il fatto che in più punti del Corano venga dichiarata legittima, anzi venga propriamente invocata da Dio anche la violenta «lotta sul cammino di Dio» (al-ǧihād fī sabīlī llāh). Da ciò derivò una giustificazione delle azioni guerriere in quanto tali, addirittura una teoria islamica della guerra, che giustificò, in particolare, la lotta contro ebrei e cristiani. Qui si delinea, comunque, un secondo problema fondamentale, che andremo a discutere più tardi: il problema del rapporto tra religione e potere, tra religione e violenza.

3. Dissolutezza? Muḥammad, uomo profondamente religioso, era senza alcun dubbio anche un uomo molto vitale e vigoroso. Era capace di prestazioni fisiche eccezionali, come dimostrano prima i suoi lunghi viaggi e poi gli scontri in battaglia. Fino al momento della sua malattia fatale, era un uomo dotato di grande energia.

Eppure durante tutti questi secoli la critica cristiana più insistente e costante è stata quella della dissolutezza sessuale del Profeta. Le argomentazioni erano evidenti: a Medina Muḥammad aveva dapprima quattro mogli, il numero massimo consentito a un uomo anche secondo il Corano – oltre alle schiave.115 Eppure nell’anno 626 Muḥammad sposa un’altra donna (che però muore presto e per questo non viene conteggiata), nel 627 la sua quinta e sesta moglie, nel 628 la sua settima e ottava e nel 629 la sua nona moglie – nel corso degli anni sposerà in tutto 13 mogli, per non parlare dei numerosi concubinati con le sue schiave. Come se non bastasse, Muḥammad, senza farsi troppi scrupoli, aveva sposato la moglie di suo figlio adottivo liberto Zaid ibn Hàrita, dopo averla vista all’interno della casa di costui, vestita con una semplice sottoveste. Si tratta di un’evenienza che la letteratura islamica cerca spesso di minimizzare con toni apologetici (questa donna, Zainab, sarebbe andata in sposa a Zaid contro la sua volontà; Muḥammad avrebbe dapprima respinto la proposta di Zaid e l’avrebbe poi presa in moglie solo quando il matrimonio tra i due era ormai stato sciolto, anzi, in questo modo le avrebbe evitato la posizione sociale inferiore di donna divorziata...). Il Profeta, insomma, godeva già di un vero e proprio harem, che proprio per questo è stato preso a modello nei potentati islamici.

Ma anche questi aspetti biografici vanno giudicati correttamente. Deve necessariamente infastidirci il fatto che Muḥammad non abbia voluto ispirarsi a quell’ascetismo, dalle radici perlopiù pagane, che ha fatto così tanti danni nella storia del cristianesimo (giustificando il successivo obbligo di celibato per i rappresentanti della Chiesa)? Egli infatti lo condannò esplicitamente, come dimostra il caso di ’Uṯmān ibn Maẓ‘ūn, il capo di quel piccolo gruppo di emigranti musulmani diretti in Etiopia che voleva conferire all’islam tratti fortemente ascetici (forse rifacendosi al monachesimo cristiano). E, viceversa, bisogna tener conto che Muḥammad rimase monogamo durante tutti gli anni trascorsi alla Mecca, dove aveva contratto matrimonio con una donna di più alta estrazione socio-economica, Ḫadīğa, su proposta di quest’ultima.

Tuttavia non gli possiamo rimproverare di essersi adeguato, dopo la morte della sua prima moglie, al sistema poligamico della società araba del tempo; così come non sono riprovevoli quei patriarchi di Israele come Abramo, Isacco e Giacobbe, i quali, tutti quanti, avevano più mogli – per la società del tempo era anche una questione di prestigio. No, non ha senso paragonare la poligamia di quel tempo con la nostra monogamia cristiana contemporanea (posto che questa, nella pratica, esista davvero!). Muḥammad ha contratto alcuni di questi matrimoni anche per motivi politici, altri per offrire un sostentamento alle vedove (i cui mariti erano caduti nelle battaglie di Badr e Uhud). Che Muḥammad fosse molto sensibile al fascino femminile, è innegabile; d’altronde, egli stesso dichiarava che le donne e i profumi dell’Arabia erano per lui i doni terreni più preziosi, mentre il denaro e le ricchezze gli sembravano indifferenti. Questo aspetto può scalfire la verità del suo messaggio? La «benedizione della prole», nel senso vero e proprio del termine fu concessa al Profeta solo parzialmente: il suo unico figlio maschio morì in tenera età e tra le sue figlie solo Fàtima, dopo il suo matrimonio con ‘Alī, ebbe dei figli; anche se Fàtima era nata dal primo matrimonio con Ḫadīğa.

Anche da questo punto di vista sarebbe stato sicuramente meglio se i musulmani, senza toni apologetici, avessero ammesso l’umana fallibilità di Muḥammad. Essa, d’altronde, viene evidenziata nello stesso Corano, quando Dio rimprovera a Muḥammad di aver malamente negato a un povero cieco alcune spiegazioni di fede, perché troppo indaffarato a procurarsi i favori dei potenti della Mecca.116 Naturalmente, anche per quel che riguarda il caso della bella Zainab – l’episodio non viene affatto citato da Ibn Ishàq mentre Ibn Hisàm lo riporta solo marginalmente – è legittimo invocare qualche attenuante. Ma perlomeno i non musulmani sono perplessi quando apprendono che questo matrimonio viene reso legittimo da una rivelazione divina del Corano solo affinché i credenti possano in futuro tranquillamente sposare, secondo il modello del Profeta, le mogli dei «cosiddetti figli» (figli adottivi) – al contrario di quel che accade per il matrimonio con le mogli dei figli naturali, che resta strettamente vietato: 117 «E quando Zayd ebbe regolato con lei ogni cosa, te la facemmo sposare, affinché non sia peccato per i credenti sposar le mogli divorziate dei figli adottivi allorché questi abbiano regolato ogni cosa con loro: l’ordine di Dio è assoluto.»118 Il Profeta aveva segretamente sperato che Zaid volesse separarsi da Zainab per poterla così sposare, evitando però di rendere pubblico questo suo desiderio per paura delle reazioni altrui, come viene detto chiaramente nel versetto precedente: «Rammenta quando dicevi a colui che Iddio favorì e che tu favoristi: "Trattieni presso di te la tua donna e temi Dio", nascondendo in cuore un desiderio che Dio stava per far manifesto, perché temevi gli uomini, mentre più merita d’esser temuto Iddio!».119 Secondo l’opinione del devoto Ḥasan al-Baṣrī (m. 728) questo è il peggiore versetto che sia mai stato rivelato al Profeta, benché questi non abbia mai voluto ometterlo.120

Lo scetticismo non può che aumentare quando apprendiamo dell’esistenza di un’ulteriore rivelazione nella quale al Profeta viene addirittura concesso formalmente il permesso di sposare quante donne egli desideri: non solo egli può legalmente possedere tutte le sue mogli nonché le cugine emigrate con lui e tutte le sue schiave, ma persino: «ogni donna credente che si conceda al Profeta, se il Profeta voglia sposarla, privilegio a te concesso ad esclusione degli altri credentri». 121 Appare ben poco credibile il commento sull’argomento della moglie di Muḥammad ‘Ā’iša: «Dio è sollecito nel compiere ciò che è tuo volere».122 E quando infine il Profeta annuncia le limitazioni poste alle gioie del matrimonio tramite una nuova rivelazione, le dubbiose perplessità del non musulmano vengono solo debolmente smorzate: «Non t’è lecito ora prendere ancora altre spose, né di cambiare quelle che hai con altre, anche se ti piacesse la loro bellezza, eccettuate le schiave».123 Qui si pone un terzo problema fondamentale: il rapporto tra religione e sessualità, tra uomo e donna, che come nei due precedenti casi, sarà un problema da discutere nel contesto delle tre religioni abramitiche.

 

Come i profeti di Israele

Ci sono, come si sa, molte religioni che non hanno dei profeti nel senso più specifico del termine: gli indù hanno i loro guru e i loro sadhu, i cinesi i loro saggi, i buddhisti i loro maestri; nessuna di queste religioni ha dei profeti, come è invece nel caso degli ebrei, dei cristiani e appunto anche dei musulmani. È subito chiaro però a chi ci si riferisca, nell’ambito della storia universale delle religioni, quando sentiamo nominare «il Profeta», colui che diceva di essere questo e niente più – si tratta di Muḥammad. Anche il credente cristiano (o ebreo) dovrebbe riflettere sui seguenti paralleli.

  • Come i profeti di Israele anche Muḥammad non agiva secondo l’autorità conferitagli da una comunità (o dai suoi rappresentanti) bensì in forza del suo particolare rapporto con Dio.
  • Come i profeti di Israele anche Muḥammad aveva una fortissima personalità, che appariva completamente pervasa dalla chiamata divina, totalmente impegnata in quella missione che egli riteneva essergli stata assegnata in via del tutto esclusiva.
  • Come i profeti di Israele anche Muḥammad sovvertì l’ordine religioso-sociale esistente: la sua fede appassionata e il suo messaggio rivoluzionario si trovavano in opposizione al ricco ceto dominante e alla tradizione che questi gelosamente custodiva.
  • Come i profeti di Israele anche Muḥammad, che spesso diceva di essere un «ammonitore», voleva solo essere il portavoce di Dio e voleva annunciare solo la parola di Dio, non la propria.
  • Come i profeti di Israele anche Muḥammad proclamava instancabilmente l’esistenza di un unico Dio, creatore buono e giudice misericordioso, a fianco del quale nessun’altra divinità era ammessa.
  • Come i profeti di Israele anche Muḥammad invita gli uomini a tributare assoluta obbedienza, dedizione, «sottomissione» («islam») all’unico Dio: a compiere tutto quello che esprime gratitudine verso Dio e generosità verso gli altri uomini.
  • Come i profeti di Israele anche Muḥammad congiunge monoteismo e umanesimo, fede nell’unico Dio e nel suo giudizio e ricerca di giustizia sociale: coloro che non praticano la giustizia verranno condannati all’inferno mentre i giusti verranno raccolti nel paradiso di Dio.

Chi legga la Bibbia e il Corano insieme, e voglia attuare un confronto tra i due testi, è indotto a chiedersi: le tre religioni rivelate, di origine semitica – ebraismo, cristianesimo e islam -, e in particolare la Bibbia ebraica e il Corano non hanno forse la stessa base? Non vi parla forse lo stesso e unico Dio? L’espressione «così dice il Signore» contenuta nella Bibbia ebraica non equivale a quel «di’ (qul)» che nel Corano ricorre ben 332 volte; l’espressione biblica «Va’ e annuncia» non è identica a quella coranica: «Sorgi e predica!»? D’altronde anche i milioni di cristiani che parlano arabo traducono il termine «Dio» con una sola parola – «Allāh»!

Non si tratta allora di un mero pregiudizio dogmatico quello che spinge i cristiani a riconoscere Amos e Osea, Isaia e Geremia e pure Elia, dalla condotta estremamente violenta, come loro profeti, ma non Muḥammad?

 

Controdomanda III: Muḥammadun Profeta anche per i cristiani?

Si è molto discusso ai giorni nostri se siano i singoli a fare la storia – o viceversa. Ebbene, la storiografia è ora più che mai storia sociale, non essendo più prevalentemente orientata allo studio di «individualità storico-universali» (Hegel) ma allo studio delle condizioni strutturali e dei cambiamenti sociali. Ovviamente anche nel caso di Muḥammad e della sua rapida ascesa al potere, dobbiamo ritenere che fossero presenti le condizioni strutturali – sia interne che esterne – favorevoli a un cambiamento così epocale. Per questo, in ogni estesa concezione della storia, è bene tener conto delle problematiche sociologiche, socio-antropologiche e geografiche, un compito che abbiamo svolto nella parte iniziale del presente volume (A II). Ma proprio nel caso di Muḥammad è evidente che la descrizione dei fattori sociali più determinanti non può ignorare l’apporto degli uomini che agiscono all’interno delle strutture determinate da questi fattori. In altre parole: la storia, nel suo sviluppo concreto, è sempre il risultato di una dialettica tra strutture e persone! E la «cronaca degli eventi», dei singoli avvenimenti contingenti o delle gesta individuali non va assolutamente posta ai margini ma al centro del processo storico visto come «storia della società».

Infatti: nel caso di Muḥammad abbiamo davanti a noi l’esempio di un uomo che ha veramente fatto la storia, quando la storia era pronta ad accoglierlo. Prendendo a prestito la terminologia di Arnold Toynbee: alla grande «sfida» storica (challenge) di quel tempo, una persona, Muḥammad, è risultata corrispondere alla «risposta» storica adeguata (response). Ci chiediamo davvero che cosa sarebbe stata l’Arabia senza Muḥammad, quest’uomo chiamato a una speciale vocazione, quest’uomo carismatico, visionario, coraggioso.

Proprio così, Muḥammad è stato ed è, per gli uomini del mondo arabo ma non solo, il riformatore religioso, il legislatore e il condottiero: il Profeta per eccellenza. Sì, in realtà Muḥammad, che ha sempre e solo voluto essere un uomo, è per coloro che lo seguono più di un profeta nel senso ebraico o cristiano del termine: è un modello di vita per quello stile di vita che vuole essere l’islam. E se la chiesa cattolica, secondo la dichiarazione sulle religioni non-cristiane del concilio Vaticano II (1964) – mi si permetta in questo contesto di andare oltre la solita citazione di rito – «considera con grande rispetto i musulmani, che pregano l’unico e solo Dio [...] che ha parlato agli uomini», allora, secondo la mia opinione, questa stessa chiesa – come anche tutte le chiese cristiane – dovrebbe «considerare con grande rispetto» quell’uomo il cui nome viene taciuto in quella dichiarazione per motivi di imbarazzo, benché proprio egli ed egli solo abbia condotto i musulmani ad amare quest’unico Dio e benché proprio tramite lui questo Dio abbia «parlato agli uomini»: Muḥammad, il Profeta!

Il credente ebreo che intenda pregiudizialmente negare le qualità di profeta a Muḥammad rifletta su questo: già nella Bibbia ebraica ci sono diversi profeti; e forse non tutti furono grandi modelli d’umanità. E il credente cristiano che intenda pregiudizialmente negare la possibilità della venuta di un profeta dopo Cristo rifletta su questo: secondo il Nuovo Testamento anche dopo Cristo verranno autentici profeti, uomini che confermeranno le sue parole e le riprenderanno per incarnarle in un’altra situazione storica.124 Ecco perché i profeti occupavano il secondo posto dopo gli apostoli, com’era, per esempio, all’interno delle comunità paoline (ce ne dà testimonianza la prima Lettera ai Corinti).125 Eppure la profezia – un fenomeno di origine soprattutto giudaico-cristiana – scompare precocemente, subito dopo la fine della missione paolina e con la graduale scomparsa della componente giudaico-cristiana della maggior parte delle comunità cristiane; dopo la crisi legata al montanismo del II e III secolo (l’insegnamento cristiano-originario e apocalittico di Montano intendeva qualificarsi come la «nuova profezia») i profeti e soprattutto le profetesse caddero in discredito.

Ma secondo il Nuovo Testamento non bisogna condannare in modo dogmatico il fatto che Muḥammad abbia voluto essere un Profeta autentico, secondo il modello di Gesù, col quale riteneva di essere in fondamentale corrispondenza. Certamente il rapporto tra Gesù, il Cristo, e Muḥammad, il Profeta, non è ancora del tutto chiaro. Tuttavia, crediamo che basterebbe riconoscere Muḥammad come Profeta per avere effetti positivi nel dialogo tra cristiani e musulmani e soprattutto per restituire pieno valore al suo messaggio, che egli ha annunciato nel Corano.

III. Gli elementi strutturali centrali

Una delle grandi forze dell’islam è la sua chiara strutturazione teorica e pratica. Alla sua base sta la professione di fede (šahāda), semplice, comprensibile e inequivocabile, nell’unico Dio, l’onnipotente e il misericordioso, creatore e giudice, e nel suo inviato Muḥammad. Tale professione di fede, pubblicamente pronunciata, rappresenta anche il primo dei cinque pilastri (arkān), o elementi essenziali dell’islam, come presto si definirono all’interno della comunità musulmana sulla base del Corano. Secondo l’ideologia degli arabi del VII secolo, la fede in Dio comprende però anche la fede in numerose entità spirituali sovraumane:

– gli angeli (malā’ika): messaggeri di Dio (soprattutto Gabriele, il portatore della rivelazione);1

– il diavolo, oppure i demoni (šayāṭīn): l’istigatore al male (soprattutto «il maligno»; aš-šaiṭān cioè Satana, chiamato anche iblīs, = diavolo, dal greco diábolos);2

– i geni (ǧinn): innumerevoli forze naturali, entità intermedie tra uomini e angeli, nate dal fuoco, per le quali è altrettanto valido il messaggio di Muḥammad.3

Diventare musulmano significa (come abbiamo già osservato) dichiarare in primo luogo la professione di fede a Dio e al suo inviato e poi compiere i quattro doveri principali: la preghiera obbligatoria, l’elemosina rituale, il digiuno, il pellegrinaggio. Questi sono gli altri quattro pilastri principali dell’islam, su cui è costruita la dimora dell’islam: i suoi elementi strutturali, che ora dovranno essere esaminati con precisione. L’islam deve abbracciare l’intera vita dell’essere umano e, partendo dai fondamenti, la vita del musulmano viene determinata, regolata, fissata, e limitata nei rapporti con i non musulmani.

1. LA PREGHIERA OBBLIGATORIA

In tutte e tre le religioni profetiche, la preghiera, sia quella personale che quella ritualizzata, riveste un ruolo centrale. È caratteristico dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam che l’uomo, per trovare Dio, non si limiti a meditare «interiormente», come generalmente avviene nelle religioni provenienti dall’India, ma che si collochi «davanti a Dio», davanti alla sua «presenza» ed è caratteristico che egli parli al suo Dio e lo ascolti. La cosa più importante non sono le esternazioni, bensì la disposizione del cuore. Cosa c’è di specifico nella preghiera islamica?

 

La preghiera rituale giornaliera – simbolo essenziale dell’islam

L’ebreo devoto si confida col proprio Dio in silenzio totale, quando si corica e quando si alza. A parte lo Shabbat e le altre feste importanti, si dà grande importanza alla preghiera personale o a quella nell’ambito familiare. Anche il fedele cristiano pratica, tranne che nel caso della messa in chiesa, soprattutto la preghiera personale e quella familiare; il Padre nostro può anche essere recitato nel silenzio della propria camera, e al riguardo non esistono prescrizioni specifiche.

Il musulmano invece ha l’obbligo (farḍ) di eseguire, tutti i giorni a ore prestabilite, la preghiera rituale, che viene annunciata pubblicamente. Dopo la professione di fede, questa rappresenta il secondo grande dovere del musulmano. Sulle città e sui paesi musulmani, ancora oggi, risuona alto il richiamo alla preghiera nelle ore del giorno più importanti. La preghiera obbligatoria cinque volte al giorno, o ṣalāt – da tradursi con «preghiera» o anche con «servizio divino» – è senza dubbio l’attività rituale più importante e più caratteristica dell’islam. Nel cristianesimo la prassi legata alla «preghiera delle ore» è propria solo dei conventi e delle comunità religiose, mentre nell’islam essa coinvolge tutti i fedeli. Tuttavia, anche i musulmani non sono legati a un luogo preciso per le preghiere obbligatorie giornaliere, che possono essere recitate a casa, nella moschea o anche per strada.

Facendo riferimento al Corano, ci volle del tempo perché, all’epoca di Muḥammad, la preghiera obbligatoria si definisse chiaramente come fondamentale elemento rituale della comunità islamica.4 Sembra che la preghiera obbligatoria nelle sezioni più antiche del Corano non venga ancora menzionata e che compaia invece nelle sure mediomeccane. Soprattutto dopo il massacro presso Badr deve aver assunto un grande significato, per diventare poi, a metà del periodo medinese, una salda istituzione e un obbligo per tutti i musulmani. Muḥammad stesso, secondo il Corano, in origine pregava solo tre volte al giorno, due volte di giorno e una volta di notte.5 Più tardi venne introdotta una terza preghiera a metà giornata, mentre la veglia notturna mantenne un carattere facoltativo.6

«Quando, perché e come il numero delle ṣalāt prescritte aumentò dalle tre chiaramente menzionate nel Corano, alle cinque prescritte dal diritto islamico, non è ancora chiarito in modo soddisfacente» (A.T. Welch).7 Comunque le più importanti scuole di diritto musulmane si trovano d’accordo: ci sono cinque momenti obbligatori di ṣalāt, fissati con esattezza: alba, mezzogiorno, pomeriggio, tramonto, sera.

Il presupposto, la «chiave», per la preghiera è però la purificazione (ţahūr) da ogni forma di impurità rituale (bisogno corporale, rapporto sessuale, mestruazioni e anche sonno). Non si tratta però di una prescrizione igienica, bensì di una purificazione simbolica dell’uomo che si presenta al cospetto di Dio. Questa si ottiene attraverso l’abluzione rituale (wuḍū): abluzione del viso, delle mani, delle ascelle e dei piedi (se l’acqua non è disponibile, è sufficiente la sabbia).8 Questo rito di purificazione è stato a volte paragonato al battesimo cristiano, ma in modo ingiustificato, poiché nel cristianesimo non è possibile né officiare da sé il proprio battesimo, né ripeterlo. Al contrario, l’islam non conosce alcun sacramento con trasmissione di grazia divina, né alcun sacramento in genere. Il lavaggio del corpo non è dunque altro che un simbolo della purificazione dell’anima dai peccati, necessaria secondo la concezione islamica a ogni uomo, senza che occorra un sacramento particolare – un battesimo o una confessione. Purificato dall’abluzione, il musulmano può presentarsi a Dio e recitare le sue preghiere, senza drammatizzare la sua colpa attraverso un’esplicita confessione del peccato. Tuttavia da questa abluzione rituale nasce nella tradizione più tarda un sistema molto complicato, di cui si parlerà.

 

Caratteristiche della preghiera rituale islamica: nessun sacerdozio

Colui che, come ebreo o cristiano, fosse interessato in particolare a tutto ciò che nell’islam può essere riconducibile all’ebraismo e al cristianesimo, dovrà ricredersi in merito alla preghiera ritualistica islamica: niente potrebbe essere più diverso! A tal proposito, certamente in tutte le religioni profetiche esiste una preghiera pubblica, così come le genuflessioni, il rivolgersi a Dio, le lodi, i ringraziamenti e le suppliche... Tuttavia a causa del suo teocentrismo e anche del suo carattere egalitario, l’ufficio divino islamico presenta dei segni distintivi che lo allontanano dall’ebraismo e soprattutto dal cristianesimo. Per la devozione musulmana complessiva tali segni hanno molta importanza. Nell’islam non esistono:

– alcun sacerdozio, alcuna ordinazione sacerdotale e alcun altare: esiste solo un uomo che comincia a pregare o imam, il quale può essere un laico rispettato;

– alcuna veste speciale per i dignitari religiosi, alcun luogo nella moschea atto a una casta clericale: esistono solo una piattaforma per gli imam, un pulpito e un luogo riservato al sovrano;

– alcuna differenza nell’ufficio religioso tra «celebranti» e «partecipanti», tra attivi e passivi;

– alcuna musica di festa, né canto, né candele, né processioni, né alcun dramma sacro.

Durante la preghiera comunitaria sono tutti attivi nella stessa misura, con le loro labbra e con i loro interi corpi, pregando esattamente con gli stessi gesti e le stesse parole. Tutti sono – donne da una parte, uomini da un’altra – disposti in file ben accessibili costituite dalla comunità orante: ogni individuo è coinvolto nel potente ritmo di questo rito, magnificamente semplice e diretto, proprio della venerazione personale e comunitaria di Dio. Come caratteristiche della preghiera rituale quotidiana spiccano dunque le seguenti.

– La preghiera è disciplinata: non solo l’abluzione rituale e l’abbigliamento (per le donne deve essere coperto tutto il corpo, eccetto il viso e le mani, e per gli uomini almeno la parte tra l’ombelico e le ginocchia) sono dettagliatamente regolamentati, ma anche le singole parti e i singoli movimenti (ognuno dei quali possiede una propria denominazione). Grazie ai mass media anche i non musulmani, oggi, conoscono l’immagine degli oranti disposti in file ordinate: inizialmente in piedi, poi piegati in avanti con le palme delle mani sulle ginocchia, di nuovo in posizione eretta, per un insieme di diciassette inchini, più due prosternazioni durante le quali l’orante tocca il suolo con la fronte, con le ginocchia, con entrambe le palme delle mani e con la punta delle dita.

– La preghiera è concentrata: all’inizio avviene sempre la dichiarazione di intenti (nīya), preghiera che riguarda solo Dio, così come l’espressione Allāhu akbar, Dio è il più grande. Poi viene recitata la sura iniziale del Corano, che abbiamo già visto: «Te noi adoriamo, Te invochiamo in aiuto».9 Seguono lode e gloria, spesso usando le parole del Corano. È evidente una concezione di Dio completamente teocentrica, basata sulla sovranità di Dio, sulla sua grandezza e unità, la quale non viene offuscata da associazioni, divagazioni o distrazioni. Il mangiare, il muoversi o il parlare invalidano la preghiera. Solo quando le posture prescritte vengono rispettate con esattezza, la preghiera è giusta (şaḥīḥ), altrimenti è nulla (bāṭil) e quindi va corretta.

– La preghiera è universale: ovunque essa viene compiuta esattamente nello stesso modo, e cioè in arabo – che lo si comprenda o no – e viene imparata a memoria (come una volta le preghiere latine nella chiesa cattolica) unendo così i musulmani di tutto il mondo. Da qualsiasi luogo si provenga, ci si può sentire a casa durante questa preghiera.

Una consapevolezza comunitaria in senso orizzontale, che è fondata nella consapevolezza di Dio in senso verticale. La singola supplica, che viene recitata durante la preghiera obbligatoria, è una richiesta di «rettitudine»: «guidaci per la retta via!».10 Si tratta della grande «comunità» (umma) dei musulmani di tutto il mondo, i quali percorrono la «retta via»: «la via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro coi quali non sei adirato, la via di quelli che non vagolano nell’errore!».11

- La preghiera è autenticamente umana: se compiuta correttamente, essa può esprimere adeguatamente la «condizione umana». Attraverso un’intera serie di posizioni di devozione, alternate alla posizione eretta, l’orante esprime la totale gratitudine dell’uomo verso Dio durante la propria esistenza, la costante dipendenza del suo destino da una potenza più elevata, ma esprime anche la propria responsabilità davanti a Dio. E in quale miglior modo il musulmano potrebbe esprimere il suo islām, la sua «sottomissione», la sua devozione e «abnegazione» verso Dio, se non con questa preghiera? Dunque la preghiera obbligatoria esprime nel modo più evidente l’intima essenza dell’islam: abnegazione di fronte alla volontà di Dio! La si può perciò definire il simbolo essenziale dell’islam.

Ṣalāt obbligatoria per ogni musulmano maschio adulto è la preghiera settimanale del venerdì (identica alla preghiera obbligatoria di mezzogiorno). Fu introdotta per la prima volta a Medina dal Profeta, che spesso la diresse in qualità di imam, ma che non la intese né come imitazione del Sabbat ebraico né come polemica con esso. Con il venerdì, il «giorno dell’assemblea», in origine non si intendeva l’assemblea per la funzione religiosa, bensì quella per il mercato settimanale. 12 E per il Profeta non c’era giorno della settimana più indicato per unire la gente in preghiera e per istruirla (predica), che il giorno durante il quale tutti venivano nell’oasi per il mercato.

Da ciò si capisce il motivo per cui:

1. la funzione religiosa fu stabilita a mezzogiorno (il mercato era finito e i visitatori potevano ritornare a casa prima del buio);

2. durante il momento della funzione il lavoro doveva essere sospeso (prima e dopo questa riflessione di mezzogiorno ci si poteva di nuovo dedicare agli affari);

3. la preghiera del venerdì doveva aver luogo solo nella città e qui in un’unica moschea (nella grande moschea o moschea del venerdì) e non nei villaggi, gli abitanti dei quali dovevano invece recarsi in città.13

Perciò il venerdì in origine non era un giorno di festa musulmano, anche se oggi in alcuni paesi influenzati dall’Occidente, è diventato un giorno di riposo ufficiale con scuole, negozi e uffici chiusi. Tuttavia, questa funzione religiosa del venerdì rappresenta certamente una tipica caratteristica della vita islamica; in realtà è l’unica funzione religiosa musulmana, durante la quale si pronuncia una «predica di esortazione» seguita da una «predica di descrizione» di lode, le quali pur essendo fortemente ritualizzate, possono assumere un significato politico esplosivo in qualsiasi momento: le moschee diventano facilmente un luogo di agitazione proprio il venerdì.

Alla ṣalāt non appartengono infine solo le cinque preghiere obbligatorie giornaliere più la preghiera del venerdì settimanale, bensì anche quelle che non sono obbligatorie (farḍ) ma solo consuete (sunna) o facoltative (nafl): come la preghiera del giorno festivo, il rituale di sepoltura oppure anche la supplica per la pioggia, la preghiera durante l’eclissi solare e lunare, o in occasione della partenza e del ritorno di qualcuno. Accanto a queste c’è anche la preghiera formulata liberamente (du’ā’ = «appello», «chiamata») per tutte le occasioni possibili, nelle varie circostanze quando i musulmani si rivolgono a Dio, sempre secondo i loro bisogni, per glorificarlo, per ringraziarlo e soprattutto per supplicarlo di perdonare loro i peccati e di esaudire i loro desideri (persino maledizioni). La preghiera dunque come espressione spontanea di lode, di gratitudine, di supplica. Esistono anche nell’islam libri di preghiera ma le preghiere in essi contenute non sono obbligatorie.

 

Effetti: moscheemuezzinminareti

La preghiera obbligatoria deve essere, se possibile, eseguita subito dopo il richiamo alla preghiera e ciò può verificarsi ovunque, non solo nella moschea. In altre parole, sempre, dove il musulmano si prostra e prega (a casa, al lavoro, a scuola o all’aperto), là è per lui come essere in una moschea, là egli entra in un tempo e in uno spazio sacri. L’intero mondo, come si dice abbia dichiarato il Profeta, sarebbe stato dato a lui per farne una moschea. Il posto deve essere solamente pulito, a tal proposito può essere utile un piccolo tappeto che l’orante porta con sé. Il fedele musulmano non ha bisogno, in realtà, di una dimora sacra per mettersi nella condizione di pregare. La naturalezza di questo modo rituale di pregare ha contribuito certamente molto alla diffusione dell’islam nella vita quotidiana.

Perché allora c’è bisogno di una moschea come casa islamica di Dio? La parola tedesca Moschee come quella inglese mosque sono prestiti dal francese mosquée che rimanda attraverso l’italiano «moschea» e lo spagnolo mezquita all’arabo masǧid.14 Questa parola che compare quasi trenta volte nel Corano e precisamente nelle sure medinesi, significa in quel contesto semplicemente «luogo consacrato al culto» e si riferisce perciò a svariati luoghi santi. Se la parola non deriva, come anche l’etiopico mešgād («chiesa», «tempio»), dall’aramaico, si fa derivare tuttavia dall’arabo saǧada, cioè «prostrarsi» e indica di conseguenza il «luogo del prostrarsi», dunque il «luogo della preghiera».15 Alla Mecca, dove prima della emigrazione la preghiera rituale non era chiaramente definita come dovere, i musulmani non possedevano ancora alcun singolo spazio cultuale.

Qual è allora il modello originale di tutte le moschee? È quello della casa che Muḥammad stesso fece erigere a Medina: una corte quadrata, circondata da muri d’argilla, all’interno una sala (più tardi due) con tettoie fatte di fronde di palma; dopo la morte del Profeta nel luogo di preghiera usato da lui stesso fu posto un segno indicante la direzione della Mecca (miḥrāb) e un semplice pulpito; adiacenti alla parete orientale si trovavano capanne di rami di palma per il Profeta e le sue mogli.

Già da qui si vede il carattere multifunzionale della moschea – molto diverso da una chiesa cristiana – il quale con poche modifiche si è conservato fino a oggi. Una moschea, che in linea di principio è un luogo e non un edificio, serve contemporaneamente:

– come luogo per la funzione religiosa,

– come luogo per assemblee politiche, per i dibattiti e per il tribunale,

– come luogo della preghiera personale,

– infine come luogo per le lezioni teologiche e lo studio.

Dopo la morte del Profeta, questa casa divenne la sede della sua stessa sepoltura, luogo del passaggio di poteri del califfo, sede del governo e punto di incontro sociale, finché queste funzioni non furono svolte in spazi specifici. Sul modello della moschea di Muḥammad, furono presto costruite in tutte le grandi e piccole città altre moschee, che svolgevano funzioni sia religiose che amministrative e la cui architettura poteva essere molto differente da regione a regione. Almeno le più grandi tra loro erano costituite da una corte e da una o più sale coperte, con una parete rivolta verso La Mecca. Come arredamento di una moschea sono previsti:

– la nicchia di preghiera (miḥrāb, probabilmente adottata dall’architettura ecclesiastica), che indica la direzione (qibla) della Mecca;

- il pulpito (minbar), in origine un seggio più alto sul quale si sedeva Muḥammad durante i suoi discorsi, usato in seguito da colui che guida la funzione del venerdì;

- un leggìo per il Corano, lampadari e lampade, infine tappeti poiché il pavimento deve restare ritualmente pulito per la preghiera (perciò vengono tolte le scarpe);

– come decorazione solo calligrafie (versetti del Corano, dediche) e ornamenti senza figure;

– nella corte o davanti alla moschea si trova in ogni caso una fontana per l’abluzione rituale, dal momento che moschea e acqua si appartengono a vicenda.

A ogni moschea appartengono uno o più muezzin (mu’aḍḍin). Costui è l’«annunciatore» o «colui che chiama», il quale proclama la pubblica «chiamata» (aḏān) alla preghiera obbligatoria. Il muezzin è anche l’orante (le donne non sono ammesse) e Muḥammad stesso deve aver preferito un simile richiamo a strumenti come trombe, gong o campane. Probabilmente all’epoca del Profeta l’orante passava semplicemente per le strade, secondo gli usi arabi antichi, oppure lanciava un richiamo dal tetto di casa e ricordava ai fedeli il loro dovere con un breve «venite a pregare». Oggi si usano almeno sette formule brevi che in questa occasione vengono annunciate il più forte e lontano possibile:

Dio è il più grande (Allāhu akbar).
Io testimonio che non c’è altro Dio, al di fuori di Dio.
Io testimonio che Muḥammad è l’inviato di Dio.
Alla preghiera!
Alla salvezza!
Dio è il più grande.
Non c’è altro Dio al di fuori di Dio.16

Oggi l’annuncio avviene molto spesso attraverso nastro magnetico e altoparlante, e le numerose moschee sono talvolta in rumorosa concorrenza tra loro. Fa riflettere in questo senso l’indicazione per la preghiera presente nel Corano stesso: «comunque lo invochiate, a Lui appartengono i nomi più belli. E nella tua preghiera non parlar troppo alto e troppo basso: ma cerca un giusto mezzo fra i due!».17

All’inizio la moschea non aveva una torre; solo dall’epoca omayyade (nelle zone per lo più appartenute prima ai cristiani) essa divenne elemento essenziale della moschea. Il termine minareto proviene dal francese minaret, che a sua volta, attraverso il turco minare(t), deriva dall’arabo manāra (faro).18 Per significare «il luogo dove c’è fuoco (luce)» fu chiaramente preso a modello il faro, come il famoso faro di Alessandria. Il minareto è la torre (quadrata, rotonda o poligonale) della moschea, dalla quale il muezzin richiama alla preghiera; ciò avviene da una galleria riccamente ornata e molto importante per la forma e la proporzione del minareto.19 Come il campanile, il minareto ha più carattere simbolico che scopo pratico: con esso viene segnalata, tra l’altro, la presenza dell’islam.

2. CONTRIBUTO SOCIALE, DIGIUNO, PELLEGRINAGGIO

La preghiera che esprime la professione di fede è sicuramente, e totalmente, al centro della pratica musulmana, ma non deve essere considerata isolatamente. Il problema della congiunzione tra preghiera e azione pratica rimanda alla necessità dell’elemosina rituale islamica. Allo stesso modo, il rapporto tra preghiera e disciplina del corpo rimanda all’obbligo del digiuno nel mese di Ramadan. Momento centrale della vita di ogni musulmano è – almeno una volta nella vita – il grande pellegrinaggio alla Mecca. Con una breve trattazione di questi altri tre pilastri, elementi fondamentali dell’islam, vogliamo concludere la nostra descrizione della natura dell’islam.20

 

Il contributo sociale annuale per i poveri

Tutte e tre le religioni profetiche non si adoperano solo per un nuovo rapporto con un Dio, ma anche per un nuovo atteggiamento verso gli uomini: la responsabilità di fronte a Dio e la responsabilità nei confronti del prossimo sono affini. La «giustizia», come abbiamo già visto, ricopre un ruolo ugualmente importante nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam. E in tutte e tre le religioni si è consapevoli che a tal proposito molto dipende dall’impegno volontario del singolo, e cioè dalla beneficenza volontaria, che a lungo è stata chiamata «elemosina», una parola che attraverso il latino ecclesiastico elemósyna, deriva dal greco eleemosyne = «compassione» e che significa il «dono al bisognoso».

Più dell’ebraismo e del cristianesimo, l’islam ha stabilito come un dovere la donazione di elemosina, sotto forma di una tassa sociale stabilita legalmente.21 Nel Corano stesso non si trova tuttavia nessuna differenza concettuale tra carità volontaria ed elemosina obbligatoria; ṣadaqa e zakāt vengono spesso usati come sinonimi. Però per entrambi i concetti si registra un mutamento di significato da una donazione volontaria a una tassa obbligatoria. Così la parola ṣadaqa viene usata per la donazione volontaria, mentre zakāt (usato nel Corano circa trenta volte e soprattutto nelle sure medinesi) diventa il termine classico per designare una tassa che i musulmani devono versare a favore dei bisognosi.22 Così viene inteso il doppio versetto del Corano: «che compissero la Preghiera (ṣalāt) e pagassero la Decima (zakāt)».23

Strano a dirsi ma (diversamente da ciò che accade per l’eredità e il divorzio) il Corano non contiene ancora regolamentazioni concrete circa quale proprietà deve essere tassata e quanto. In una sura si trova solo una lista dei riceventi:24 l’imposta deve tornare utile soprattutto ai poveri e ai bisognosi, ai debitori che si sono trovati in difficoltà non per colpa loro, agli schiavi che si vogliono riscattare, ai guerrieri religiosi volontari e ai viaggiatori senza mezzi. A tale riguardo la zakāt non è solo una tassa per i poveri; con essa si intende un’imposta sociale comune.

La motivazione per questa tassa è chiara.

– I musulmani devono mostrarsi grati per i beni che il creatore ha loro donato, perciò la zakāt è un’espressione visibile della serietà della fede nei confronti di Dio, il termine significa in origine «affinazione» (dal verbo zakkā = «purificare», «depurare»).25

– Devono esprimere, attraverso il contributo sociale, pentimento per le omissioni e supplica per il perdono divino; tutti i musulmani sono fratelli e sorelle.

– Devono promuovere, mediante la loro generosità, reciproca attenzione e solidarietà tra i musulmani; la umma islamica è una comunità solidale.

– Devono aiutare a ridurre i contrasti sociali perseguendo un equilibrio tra benestanti e bisognosi. Se tutto ciò che si trova in natura è, in ultimo, proprietà del creatore, da ciò consegue facilmente che l’essere umano, in qualità di «sostituto» di Dio, deve preoccuparsi che i beni siano distribuiti più equamente.

Appare senz’altro chiaro che predisporre nei fatti un tale contributo sociale sollevava parecchie domande di natura giuridica e organizzativa. Ciò che non regolamentava il Corano restava riservato alla sunna. Durante l’elaborazione del diritto islamico (šarī’a, sharia) si giungerà perciò a determinate regolamentazioni ben complicate per l’individuo (quote esenti da imposta, professioni e stipendi differenti ...), delle quali non poco viene messo in bocca al Profeta o a Abū Bakr più tardi. Ora viene stabilito che la tassa sociale vale per i prodotti agricoli, la frutta, il bestiame (circa un decimo), ma anche per metalli nobili e per le merci dei commercianti (da questi il 2,5 per cento del valore, qualora li si conservi più di un anno in casa). All’epoca di Muḥammad le disposizioni non erano però così precise tanto che, dopo la sua morte, le tribù beduine si rifiutarono di pagare il contributo sociale. Non lo riconoscevano come un dovere religioso comune, ma lo interpretavano come un particolare elemento del contratto con Muḥammad, che non doveva dunque più valere dopo la sua morte. Tuttavia il contributo di solidarietà era ora un dovere immutabile dei musulmani, così come il testatico (ne abbiamo già parlato) divenne un obbligo per i non musulmani. Queste istituzioni costituirono la forma primitiva del sistema tributario islamico e il nascente stato islamico ne avrebbe tratto notevole profitto.

Accanto al contributo sociale obbligatorio, ricoprirà un ruolo sociopolitico sempre più significativo anche un’altra istituzione che non fa parte dei cinque fondamenti ma si basa sulla spontaneità: la fondazione pia (waqf; pl. awqāf = «interruzione», ciò che non può essere mosso, dunque venduto, ereditato, ceduto), una donazione permanente e non espropriabile di beni immobili destinati al benessere della comunità. Istituzioni analoghe erano già presenti presso gli egiziani, i greci e i romani. Secondo il diritto musulmano anche il sacro edificio della Ka’ba è in sé una fondazione religiosa, con riferimento alla sura III, 96: «In verità il primo Tempio che è stato fondato per gli uomini è, certo, quello che è in Bakka (= Mecca, N.d.R.), benedetto, e Guida per tutto il Creato». Nella storia dell’islam la prima moschea a Medina è anche la prima fondazione. Accanto a quelle religiose ci sono anche fondazioni caritatevoli e infine soprattutto quelle di famiglia. Come categoria giuridica essa si sviluppa a partire dai secoli VII e VIII grazie alla tradizione del Profeta (ḥadīṯ).26

Più avanti (cap. E IV, 1-2) approfondiremo con più precisione questi elementi particolari della vita economica islamica, zakāt e waqf.

 

Il periodo annuale del digiuno

Tutte e tre le religioni profetiche, ma anche molte altre, conoscono il digiuno, e nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam sono prescritti per esso periodi determinati. Secondo la legge ebraica, il digiuno ha luogo durante il giorno dell’espiazione,27 più tardi anche nel giorno di lutto nazionale, in nessun caso durante il Sabbat o nei giorni di festa. Anche la comunità cristiana conosce sin dall’inizio il digiuno purché, come indica chiaramente il Discorso della Montagna, la gente «non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto».28 Nonostante ciò, la chiesa stabilisce quasi subito un digiuno totale «pubblico» soprattutto il venerdì santo e il sabato santo: una rinuncia totale al cibo e alle bevande.

Presto il digiuno venne esteso all’intera settimana santa, un particolare momento di digiuno, e ad altri giorni di festa, ma non più nella forma di un digiuno totale. Si richiedono il consumo di non più di un pasto e l’astinenza da carne e vino (più tardi anche da altre vivande). Già dal medioevo però, e ancor di più dopo la Riforma e in epoca moderna, il digiuno nella cristianità venne sempre più ridotto. I giorni di digiuno e astinenza oggi nel protestantesimo non esistono più, nella chiesa cattolica sono prescritti dal concilio Vaticano II solo per il mercoledì delle ceneri e per il venerdì santo, mentre le chiese ortodosse praticano ancora periodi di digiuno più lunghi e più rigidi. Tuttavia nella nostra epoca, nella società consumistica occidentale, il periodo tradizionale del digiuno pre-pasquale (la quaresima) viene proposto, addirittura anche dalle chiese evangeliche, come un momento di rinuncia volontaria al consumo.

Anche l’islam conosce il digiuno volontario; anche qui, come nel cattolicesimo tradizionale, si tratta di un’opera meritoria o di penitenza. Il Profeta stesso, già durante il suo primo anno presso Medina, aveva introdotto e regolamentato per tutti i musulmani il dovere del digiuno (ṣiyām) come comandamento divino.29 Abbiamo già visto che Muḥammad aveva sostituito il digiuno del giorno dell’espiazione ebraico (Yom Kippur) con il digiuno nel mese di Ramadan, a causa del suo conflitto con gli ebrei. Questo mese aveva ricevuto una particolare consacrazione, grazie alla vittoria di Muḥammad presso Badr, il 17 di Ramadan dell’anno 2, secondo l’Egira; non a caso infatti si dice anche che il Corano sarebbe stato inviato sulla terra nel mese di Ramaḍan.30

Le motivazioni per il digiuno sono simili a quelle dell’ebraismo e del cristianesimo:

– digiunare è espressione di penitenza e di cancellazione dei peccati,

– digiunare serve al dominio dello spirito sul corpo e sui suoi istinti,

– digiunare favorisce la devozione e la disposizione al perdono reciproco.

Cosa c’è di peculiare nel digiuno musulmano? Tre caratteristiche sono particolarmente evidenti.

– Non si tratta solo, come nel cristianesimo, di una riduzione del cibo o di una rinuncia a determinate vivande, bensì di un digiuno completo, la totale astinenza dal cibo e dalle bevande e anche dal rapporto sessuale.

– Non si tratta solo di non mangiare alle ore dei pasti, l’astinenza infatti deve essere praticata per tutto il giorno, dall’alba (quando si può riconoscere un filo bianco da uno nero) fino al tramonto; non è permesso neppure risciacquarsi la bocca con acqua e fumare.

– Questo digiuno deve essere praticato non solo in determinati giorni, ma per un mese intero, appunto il mese Ramadan (30-28 giorni). Il digiuno è reso ancora più arduo dal fatto che il Ramadan, il nono mese del calendario lunare islamico, può cadere in momenti diversi del ciclo annuale, anche in piena estate, quando l’acqua è una necessità vitale, e l’astensione dal bere comporta notevoli difficoltà. Poiché il calendario lunare, introdotto grazie a una rivelazione31 appena prima della morte di Muḥammad, essendo basato sull’anno lunare più breve retrocede di undici giorni ogni anno solare, il Ramadan inizia ogni anno circa undici giorni prima dell’anno precedente e quindi il mese del digiuno può cadere in ogni stagione.