C.

STORIA

SOTTO CERTI ASPETTI, più nettamente e più concretamente che per l’ebraismo e per il cristianesimo, per l’islam risulta chiaro cosa ne costituisce il centro, il fondamento e la stabile sostanza religiosa: la parola di Dio è diventata libro e il messaggio di tale libro recita: non c’è dio al di fuori di Dio e Muḥammad è il suo Profeta! La fede islamica è semplicemente impressionante nella sua compattezza, la società islamica è straordinariamente capace di integrazione e di resistenza, la storia della formazione della religione islamica è però – a confronto col cristianesimo e più che mai con l’ebraismo – eccezionalmente breve e rapida. Allora ci si può domandare: questa singolare storia di inarrestabile espansione fino al XIX secolo, una storia dei vincitori e delle vittorie, non è il segno di uno sviluppo rettilineo senza profonde spaccature e contraddizioni – senza cambiamento di paradigmi?

I. Il paradigma della comunità islamica originaria

Anche il cattolicesimo romano ha reso a lungo omaggio a una concezione organico-idealistica della storia. Se si continuasse ad aggiungere, per ogni secolo, sempre un «anello» per ogni anno nell’albero della chiesa, non ci sarebbero né rotture, né discontinuità, né capovolgimenti. Una tale concezione della storia, oggi seriamente poco considerata nel cristianesimo, deve cedere di fronte alla realtà storica. E non è lo stesso, per lo stesso motivo, anche nell’islam? Non si verificano, sebbene spesso ignorate, anche nell’islam crisi epocali e capovolgimenti, che spieghino anche la stagnazione del mondo islamico nel XIX e nel XX secolo?

1. SOSTANZA RELIGIOSA STABILE – PARADIGMI MUTEVOLI

Sebbene l’islam continui a portare l’eredità storico-mondiale dell’ebraismo e del cristianesimo – la fede nell’unico Dio – avvia però una nuova sfida, che costituisce un problema per l’ebraismo e il cristianesimo: Muḥammad è il Profeta definitivo dell’unico Dio. Questo nucleo, questo fondamento, questa sostanza religiosa – nella nostra rappresentazione schematica indicato in ogni paradigma con un cerchio tratteggiato – non è mai stato dato, peraltro, in modo astratto e isolato, ma continuamente realizzato nella pratica e sempre nuovamente interpretato nelle mutevoli esigenze del tempo. E inoltre in questa nuova sezione principale intitolata «Storia», la rappresentazione teologico-sistematica e quella storico-cronologica – senza la prima non si può argomentare in maniera convincente – vanno assolutamente combinate, come nella rappresentazione dell’ebraismo e del cristianesimo, e bisogna continuamente intercalare riflessioni attuali.

 

Mutamento di paradigmi anche nell’islam?

Così come l’ebraismo e il cristianesimo non sono entità monolitiche, non lo è nemmeno l’islam. Così come si dovette giungere a una combinazione di circostanze del tutto nuova, quando gli israeliti divennero stanziali o quando la semplice fede della comunità primitiva giudeo-cristiana in Gesù, il messia (Cristo), venne trasportata all’interno del mondo ellenistico proprio dell’impero romano, così anche fede e vita della comunità islamica primitiva hanno subito un grande capovolgimento dopo la morte pacifica del Profeta, quando il movimento islamico ha definitivamente oltrepassato i confini dell’Arabia. Certamente, alla luce dell’unico e medesimo centro dell’annunciazione di fede e della riflessione religiosa, continuano a dover essere interpretate e realizzate nuove costellazioni di circostanze di volta in volta realizzate nel tempo, quelle che incidono su una comunità religiosa.

Ecco cosa intendiamo, seguendo Thomas S. Kuhn, con paradigma: «una intera combinazione di circostanze costituita da convinzioni, valori, tecniche ecc., condivisi dai membri di una determinata comunità». 1 In precedenti pubblicazioni2 ho motivato punto per punto la convinzione che sia possibile, e inoltre importante e urgente, trasporre la teoria dei paradigmi (nel senso di un «macro-paradigma») dall’ambito delle scienze naturali a quello della religione e della teologia, e già i volumi precedenti Ebraismo e Cristianesimo dimostrano chiaramente il senso dell’operazione. Non meno drammatica, lo vedremo, sarà la storia dell’islam, nella quale una comunità religiosa inizialmente piccola, ma in rapida e straordinaria crescita, subirà un’intera serie di profondi cambiamenti religiosi in risposta alle sempre nuove sfide storiche.

La mia analisi relativa alla storia dell’ebraismo, lunga più di 3000 anni, ha prodotto le seguenti costellazioni epocali (macro-paradigmi), che hanno effetti ancora oggi:

– il paradigma tribale del periodo prestatuale,

– il paradigma regale del periodo monarchico,

– il paradigma teocratico del giudaismo postesilico,

– il paradigma rabbinico-sinagogale del medioevo,

– il paradigma auto-definito di un’epoca postmoderna.

Sebbene la storia del cristianesimo sia lunga meno di due terzi di quella ebraica, gli esiti storici hanno condotto la mia analisi dei paradigmi a produrre ben sei costellazioni epocali:

– il paradigma giudeo-apocalittico del cristianesimo primitivo,

– il paradigma ecumenico-ellenistico dell’antichità cristiana,

– il paradigma romano-cattolico del medioevo,

– il paradigma evangelico-protestante della Riforma,

– il paradigma razionale e progressivo della modernità,

– il paradigma autodefinito di un’epoca postmoderna.

 

Nuove costellazioni epocali

La storia dell’islam, pur essendo a sua volta lunga meno di due terzi di quella del cristianesimo, non è per questo meno complessa della storia dell’ebraismo e di quella del cristianesimo. Ma anche in essa, l’esito storico mostra macro-paradigmi simili o intere costellazioni epocali affini a quelli riscontrati nell’ebraismo e nel cristianesimo. L’analisi dei paradigmi permette anche qui un profondo esame delle grandi strutture storiche e delle trasformazioni, concentrandosi allo stesso tempo da un lato sulle costanti di fondo, e dall’altro sulle variabili decisive. In questo modo non si rischia di lasciarsi sfuggire quelle rotture storico-mondiali dalle quali sono risultati i modelli base epocali dell’islam, che determinano ancora oggi la posizione dell’islam.

Cominciamo dall’analisi, nella sua interezza, di una prima combinazione di circostanze: il paradigma della comunità islamica originaria (= P I). A tale proposito, anche per l’islam avrebbe poco senso costruire a priori qualsiasi modello o paradigma.

 

Di nuovo, risulta indispensabile un rigoroso orientamento empirico, ovvero occorre raggiungere una conoscenza adeguata, e quanto più possibile ampia, mettendo a sistema nell’analisi dei paradigmi tutti i risultati elaborati nel corso di ogni decennio, con notevoli fatiche, dalla scienza storica.

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In questa difficile impresa mi sono basato soprattutto – a prescindere dai lavori specifici citati nelle competenti sezioni, relativi a singole epoche, a determinati aspetti o problemi – sulle più recenti panoramiche dedicate alla storia dell’islam.3 È ancora fondamentale la Cambridge History of Islam,4 curata da P.M. Holt, Ann K.S. Lambton e Bernard Lewis, un manuale in due volumi redatto da autori di fama internazionale. Più recente e maggiormente tematica è invece la Oxford History of Islam, curata da J.L. Esposito.5 Sempre utile è ancora la lettura della storia dell’islam scritta dall’islamista Claude Cahen, dal titolo Der Islam, che all’epoca integrò in modo innovativo anche gli aspetti non politici.6 Una immensa storia generale, che tiene particolarmente conto degli aspetti religiosi, letterari ed esistenziali, è offerta da Marshall G.S. Hodgsons (Università di Chicago) nell’opera in tre volumi The Venture of Islam.7 Per la storia politica, economica e sociale dell’islam arabo è disponibile l’opera miscellanea di autori di lingua tedesca, curata da Ulrich Haarmann (Università di Freiburg), dal titolo Geschichte der arabischen Welt («Storia del mondo arabo»).8 Per la storia sociale dell’intero islam, che analizza i sistemi istituzionali sulla base della citata Cambridge History in modo altrettanto vasto e preciso, attingo all’importante lavoro di Ira M. Lapidus (Università di Berkeley/California), intitolata A History of Islamic Societies («Storia delle società islamiche»).9 Per il nostro problema risulta particolarmente importante la presentazione compatta di Tilman Nagel (Università di Göttingen) Geschichte der islamischen Theologie.10 In aggiunta, è indispensabile l’opera monumentale di Josef van Ess (Università di Tübingen), dal titolo Theologie und Gesellschaft um 2. und 3. Jahrhundert Hidschra («Teologia e società nel II e III secolo dell’Egira»), 11 la quale descrive il periodo classico della storia islamica in sei volumi di analisi e di testo, ricchi di materiale. Per tutti i nomi, i concetti, i fenomeni e i fatti, la seconda edizione della Encyclopédie de l’Islam,12 curata da una lunga serie di orientalisti di spicco, rappresenta una fonte inesauribile e illimitata. In aggiunta ci sono nuove importanti enciclopedie (si veda la lista delle abbreviazioni) e piccole opere di consultazione (si veda la nota circa la rappresentazione completa dell’islam nel cap. B I).

2. UNA VISIONE RELIGIOSA REALIZZATA

Molti profeti ebbero delle visioni – di un evento, di una persona, di una evoluzione, di una nuova era – ma solo pochi hanno vissuto la realizzazione delle proprie visioni. Muḥammad appartiene a questi. Non solo ha avuto il compito di trasmettere la propria visione agli uomini della sua epoca, ma è stato anche in grado di realizzarla. Sulla base delle rivelazioni del Corano, egli esortò alla realizzazione di una comunità islamica, riuscì a renderla possibile e a darle forma. Come conseguenza si ebbe una trasformazione della struttura sociale araba. Ciò che noi già conosciamo della natura e del nucleo dell’islam deve ora essere analizzato più da vicino per quanto riguarda la primissima epoca della storia islamica, alla luce dell’impresa compiuta dal Profeta. Cosa significa questa visione per la comunità e cosa rappresenta per i singoli?

 

La nuova comunità islamica

Qui s’incontra una differenza importante rispetto al cristianesimo:

– mentre il paradigma protocristiano (P I del cristianesimo) 13 si formò solo dopo la morte di Gesù, il paradigma protoislamico (P I dell’islam) venne fondato quando Muḥammad era ancora vivo;

– mentre nel paradigma protocristiano ci si può richiamare solo allo spirito di Gesù Cristo defunto, ma vivo grazie alla potenza di Dio, nel paradigma protoislamico la persona del Profeta è concretamente presente ancora per un intero decennio;

– mentre il paradigma protocristiano fu un paradigma nel segno del Cristo, innalzato a Dio, presto di ritorno sulla terra (l’apocalittica), il paradigma protoislamico nella fase fondamentale è un paradigma dell’immediata «retta guida» da parte del profeta Muḥammad, il quale personalmente, qui e ora, realizza continuamente la sua visione religiosa.

Questa guida della comunità, del tutto terrena, ha tuttavia un potere ben più grande di quello del capo, dello sceicco (šayḫ) di una tribù, il quale lo esercita soprattutto in qualità di arbitro e può agire solo d’accordo con il suo consiglio. Il Profeta infatti rispetta, come abbiamo visto, principalmente lo stile di vita e il diritto consuetudinario dei clan e delle tribù che possono regolare da sé le loro faccende interne, per questo non è un signore assoluto. Tuttavia per questioni relative alla tribù, ma anche per alcune piccole dispute, egli è in assoluto l’istanza suprema, quella definitiva, in grado di prendere decisioni incontestabili. Perciò in quanto ricevente, annunciatore e interprete delle rivelazioni divine, egli parla nel nome di Dio ed esercita sempre in modo immediato le funzioni di legislatore e contemporaneamente di comandante e giudice. Nessuna ripartizione del potere, nessuno spazio per un’autorità puramente «mondana» accanto al Profeta! Grazie a sempre nuove rivelazioni egli possiede inoltre una legittimazione che si rinnova costantemente.

Muḥammad lascia dunque assolutamente intatta l’antica struttura parentale araba fatta di famiglie, clan e tribù, ponendola come base della nuova comunità. Certamente questa consanguineità viene relativizzata, o per meglio dire a essa viene sovrapposta la sovrastruttura di un nuovo tipo di parentela. L’emigrazione (ḥiğra) dal vincolo di stirpe, introducendo una nuova era, ha reso evidente una volta per tutte che esiste, in ultima analisi, un altro tipo di parentela più importante di quella di sangue: la parentela nella fede. Sappiamo già bene ciò che questa implica:14

– una comunità di fede nell’unico Dio e nel suo inviato,

– una comunità della preghiera rituale quotidiana,

– una comunità della cura per i poveri e i bisognosi,

– una comunità del digiuno disciplinante,

– una comunità della purificazione interiore attraverso il pellegrinaggio verso il centro dell’islam.

Tutto ciò va a comporre la sostanza dell’islam e diviene naturalmente il fondamento della umma, la nuova comunità dei musulmani. Questa doveva essere attuata in relazione alle condizioni di una ben determinata costellazione storica della società araba del VII secolo, 15 la quale, vivendo ai confini del mondo altamente civilizzato, era culturalmente e religiosamente meno organizzata. A prescindere dalle aree di transito per l’impero bizantino o persiano-sasanide, la società araba non era unificata né da una religione, né da un impero – i due fattori d’ordine più diffusi nelle società di allora. La società araba preislamica mostrava perciò una scarsa coesione socio-politica. Essa era sconvolta e si trovava in pericolo:

– a causa del frazionamento politico in famiglie, clan e tribù (con confederazioni, monarchie e regni solo nelle zone di confine con i grandi imperi) in concorrenza tra loro, i quali spesso migravano tutti insieme con centinaia di tende, e operavano in maniera autonoma senza riconoscere un’autorità esterna;

– a causa della tensione tra questi bellicosi nomadi o seminomadi del deserto, per lo più pastori o allevatori di cammelli, e gli stanziali delle oasi, i quali lavoravano come contadini, mercanti o artigiani;

– a causa dei continui e sempre nuovi indebolimenti, e dei sussulti della società beduina per inimicizie di lunga data, conflitti bellicosi, azioni di saccheggio e infinite vendette.

 

Una religione della legge?

Alla nuova comunità islamica era riservato il compito di accerchiare questa società scissa e «frammentata», fatta di famiglie e clan, di città e di gruppi beduini; essa doveva aprire il loro orizzonte spirituale e integrarli in modo religioso e culturale in una nuova fratellanza. Lo scopo: un ordine migliore e un’armonia più profonda all’interno della società – sulla base della fede nell’unico Dio. Al Corano interessa innanzi tutto il rapporto dell’uomo con il suo creatore e poi il rapporto dell’uomo con il prossimo.

Muḥammad, che era stato chiamato a Medina come giudice arbitrale (ḥakam), viene presto promosso di fatto a legislatore grazie alla sua forza politica e militare. Tuttavia egli non esercita il proprio potere all’interno del sistema giuridico esistente; di tale sistema non si serve affatto. La sua autorità non è di tipo giuridico, ma di tipo religioso per i fedeli, e politico per gli scettici. In questo modo Muḥammad modifica e integra il sistema arabo dell’arbitrarietà e il diritto consuetudinario arabo antico. Certamente il legislatore-Profeta non voleva, con il Corano, fornire alcun sistema legislativo completo ed esaustivo per regolamentare ogni aspetto della vita, non voleva offrire alcuna «casistica»: il Corano tace riguardo a molte questioni giuridiche e si affida in realtà al diritto consuetudinario arabo. «In generale, Muḥammad aveva pochi motivi per modificare il diritto consuetudinario esistente» afferma a tal proposito anche Josef Schacht, autore della fondamentale storia del diritto islamico, «il suo scopo come Profeta non era quello di creare un nuovo sistema giuridico; si trattava di molto più, cioè di insegnare agli uomini come agire, cosa dover fare e cosa invece dover tralasciare, per superare nel Giorno del giudizio la resa dei conti e per entrare in paradiso».16

L’islam è dunque una religione della legge? No, non lo è; per natura essa è invece una religione della morale. In generale, nel Corano si trovano imperativi etici applicabili alla convivenza tra gli uomini, tutti imperativi per niente nuovi, ma che favorivano la formazione della nuova base religiosa introducendo una maggior giustizia, maggiori correttezza, riservatezza, moderazione, mediazione, compassione e perdono, tutti aspetti che una struttura giuridica fatta di diritti e di doveri non basta a realizzare. «Se tutti questi standard religiosi ed etici fossero ampiamente applicati a ogni aspetto del comportamento umano e se nella prassi venissero seguiti di conseguenza» afferma di nuovo Schacht, «non ci sarebbe né lo spazio né la necessità per un sistema giuridico inteso in senso stretto. Evidentemente fu questo l’ideale originale di Muḥammad; ve ne sono tracce nel Corano. Per esempio si insiste ripetutamente sul fatto che occorre guadagnarsi il perdono, nel senso più ampio del termine, e di conseguenza nel diritto islamico è trattata nel dettaglio l’abolizione di diritti. Ma il Profeta dovette alla fine rassegnarsi all’applicazione dei principi religiosi ed etici agli ordinamenti giuridici, come li trovò.»17

D’altra parte la cosa è evidente: solo circa seicento dei 6666 versetti del Corano si occupano di questioni giuridiche, e la maggior parte di essi tratta di doveri e di pratiche religiose (preghiera rituale, digiuno, pellegrinaggio), mentre solo circa ottanta versetti si occupano direttamente di materia giuridica!18 Si potrebbe dire, con un evidente paradosso, che anche dove il Corano ha a che fare con la materia giuridica non mostra un atteggiamento giuridico, ma etico. Persino riguardo al diritto di famiglia, che nel Corano è trattato in modo abbastanza esauriente, si tratta principalmente il modo in cui uomini e donne si comportano reciprocamente e il modo in cui ci si deve comportare con i bambini, gli anziani, i parenti, i dipendenti e gli schiavi – senza che, a tal proposito, si parli tecnicamente delle conseguenze legali. Lo stesso vale per il diritto penale e per le dichiarazioni coraniche riguardanti tre ambiti particolarmente problematici: contrasti violenti, rapporti professionali e sostanze inebrianti. In tutti questi casi infatti, più che fissare precise regole giuridiche con conseguenti sanzioni penali vengono avanzate richieste di tipo morale e offerte disposizioni comportamentali di natura etica.

 

Banco di prova: vendetta di sangue, divieto di usura, divieto di bere alcolici

La vita interna della comunità islamica doveva prendere forma in modo evidente e controllabile grazie a regole comportamentali ben determinate sebbene meno fondamentali dei «cinque pilastri» dell’islam. Esse divennero al contempo segni distintivi, che dovevano distinguere i musulmani dagli «infedeli» e comunicare loro un sentimento di comunione e di elezione.

1. Il costume arabo primitivo della vendetta di sangue, che consisteva nell’uccidere i colpevoli per vendetta (qisas),19 non era allora un’espressione di feroce avidità ma un antico strumento giuridico per garantire il valore minimo della sicurezza per il corpo e per la vita. I singoli dovevano essere protetti già preventivamente dalla solidarietà propria della famiglia, del clan e della tribù; in seguito, occorreva raggiungere un equilibrio attraverso il diritto a indennità equivalenti. In fondo, non si trattava tanto di giustizia quanto di quell’«onore» (prestigio, fama) proprio della tribù o del clan.20

Questo tipo di vendetta conduceva però facilmente a massacri feroci e a faide senza fine: l’oggetto della vendetta di sangue non doveva infatti essere necessariamente il colpevole stesso, ma poteva anche essere un membro qualsiasi della sua comunità.

E il Corano? Esso non abolisce la vendetta di sangue, conosciuta anche dagli ebrei:21 «La legge del taglione è garanzia di vita».22 Ma il Corano la limita in duplice maniera: solo il colpevole stesso deve essere ucciso; solo il parente prossimo dell’ucciso (difensore del sangue: walī ad-dam) è autorizzato in linea di massima alla vendetta di sangue. 23 Innanzi tutto il Corano non fa valere la vendetta cruenta come unico mezzo giuridico, nel caso di spargimento di sangue. Queste sono le richieste coraniche per la nuova comunità:

– la punizione non deve essere più pesante dell’azione da punire;24

– la «ritorsione» può essere esercitata purché, invece del sangue, venga accettato se possibile del denaro (denaro di sangue o di castigo: diya);25

– qualora la punizione abbia luogo, la controversia deve essere considerata risolta.26

 

2. La rivelazione donata al commerciante Muḥammad faceva particolare riferimento alla morale commerciale. Transazioni a termine con pagamento degli interessi erano consuete, all’epoca di Muḥammad, anche alla Mecca. Inizialmente anche il Corano contrappone l’usura (ribā)27 all’elemosina rituale, senza vietarla direttamente: «Quel che voi prestate ad usura perché aumenti sui beni degli altri, non aumenterà, presso Dio. Ma quello che date in elemosina, bramosi del volto di Dio, quello vi sarà raddoppiato!».28 Probabilmente il primo luogo in cui l’usura viene espicitamente vietata è Medina: «O voi che credete! Non praticate l’usura, doppiando e raddoppiando, e temete Dio sì che possiate essere felici».29

In linea di principio, si valorizza dunque l’attività commerciale, mentre l’usura viene vietata: «Coloro che praticano l’usura, il dì della Resurrezione sorgeranno dai sepolcri come chi è reso epilettico al contatto di Satana. [...] Dio ha permesso la compravendita e ha proibito l’usura».30 Ciò significò però un considerevole cambiamento nei confronti della pratica consueta esercitata allora alla Mecca, la quale prevedeva il raddoppiamento della somma di denaro (o beni naturali) dovuta, più gli interessi, qualora non si fosse potuto pagare entro la scadenza. Non è dato di capire, se il contrasto con gli ebrei di Medina influì sulla formulazione del divieto d’usura; in ogni caso gli ebrei vengono fortemente biasimati perché «hanno praticato l’usura che pur era stata loro proibita».31 Tuttavia non meno importanti sono le seguenti disposizioni per la vita commerciale:

– i contratti pattuiti davanti a testimoni o messi per iscritto vanno tassativamente rispettati;32

– le misure e i pesi devono essere precisi e corretti: «E fate piena la misura quando misurate, e pesate con bilancia giusta»;33

– solo durante la preghiera del venerdì a metà giornata il lavoro può essere sospeso.34

Si discuterà dettagliatamente della relazione tra l’usura e l’economia islamica in generale nel capitolo E IV, 1.

 

3. Il divieto di bere vino, espresso nel Corano, risaliva chiaramente a determinati abusi. Nel periodo pre-islamico il vino era senz’altro una bevanda amata e diffusa e veniva prodotto quasi ovunque in Arabia.35 Il vino d’uva (ḫamr), importato dalla Siria e dal Libano, era una costosa bevanda di lusso. Tuttavia come nello Yemen si beveva il vino di miele, così a Medina si consumava quello di dattero (nabīḏ) e non solo c’erano osterie ai margini delle città, bensì esistevano anche ambulanti, soprattutto ebrei e cristiani, che con tende di mescita trasportabili e vino in brocche e otri, vendevano la bevanda ai beduini e nelle città. Non erano rare feste con cantanti, dove spesso si praticava anche il gioco d’azzardo (maysir). Anche i compagni di Muḥammad tenevano festeggiamenti durante i quali si consumava vino.

Il divieto di bere vino non nasce dunque nella primissima epoca dell’islam, ma viene introdotto gradualmente dal Profeta. Dapprima (e in piena epoca meccana) il vino viene indicato come un dono di Dio.36 In seguito viene espresso un divieto inizialmente condizionato: «[...] C’è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambe le cose (nel vino e nel gioco d’azzardo, N.d.R): ma il peccato è più grande del vantaggio».37 In seguito si stabilisce il divieto di recarsi «alla preghiera in stato di ebbrezza».38 Poiché la gente non cambiava le proprie abitudini, si giunse infine a un divieto diretto: «O voi che credete! In verità il vino, il maysir, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono sozzure, opere di Satana; evitatele (...)».39

Il gioco d’azzardo (maysir),40 spesso associato al consumo di vino e accostato a pratiche pre-islamiche, viene dunque anch’esso vietato. A tal proposito bisogna pensare che molto spesso, come conseguenza del gioco d’azzardo, si uccideva e si spartiva un intero cammello (la vera ricchezza dei beduini), tirando a sorte quale porzione riceveva chi vinceva e chi doveva invece pagare il cammello.

Agli ebrei e ai cristiani, presso i quali il vino veniva usato anche nel rituale, era espressamente concesso il consumo di tale bevanda. Ma poiché nel Corano viene menzionata la parola ḫamr (= vino d’uva), mentre la lingua araba conosce circa cento termini per indicare il vino, questo divieto si aggirava facilmente. Non pochi esperti islamici hanno contestato il fatto che tale divieto coranico sia esteso a tutte le bevande alcoliche. Questo è solo un segnale di quanto per secoli i musulmani siano stati disturbati da tale prescrizione. Al contrario, i cibi vietati dall’islam, relativamente pochi se paragonati alle numerose prescrizioni ebraiche, non crearono molte difficoltà all’interno della comunità musulmana, anche perché il loro divieto era una questione d’igiene. Inoltre le leggi islamiche relative ai cibi permettono comunque l’ingestione delle «cose buone» donate da Dio agli uomini. È vietato solo il consumo di carne di animali morti o macellati non in modo rituale, oppure di quella di animali sacrificati agli idoli, il consumo di sangue e di carne di maiale.41 Nel caso della carne di maiale, il divieto non risulta pesante ai musulmani, poiché questa provoca loro una ripugnanza simile a quella provata dalla maggior parte degli europei per la carne di cane. Il maiale che si rotola nella sporcizia è ritenuto, come presso gli ebrei, un animale sporco e perciò nei paesi islamici l’allevamento di questo animale è pressoché sconosciuto. Tuttavia l’islam, come il cristianesimo e diversamente dall’ebraismo, non conosce molte leggi complicate relative al consumo dei cibi.

 

La nuova responsabilità dell’individuo

Attraverso il Corano veniva chiesto direttamente al singolo musulmano di cambiare la propria vita. Questo risultava nuovo. Nella società tribale araba si era fedeli innanzitutto al legame familiare, in secondo luogo al clan. Di contro, l’individuo valeva relativamente poco; nel deserto il singolo era comunque perduto, senza la protezione della famiglia o del clan non era nulla. Il singolo doveva far di tutto per tutelare la propria famiglia e il proprio clan nei confronti della solidarietà di gruppo (àṣabīya) e per difenderli senza compromessi. Perciò i beduini non conoscono neppure il concetto di individualità né di personalità. Il concetto di «viso» (wağh) venne usato per la prima volta per il capo del clan, lo sceicco, ma anche in questo caso non indicava una persona individuale, bensì un rappresentante del clan, votato dagli anziani delle famiglie più stimate e più ricche, che guidava il clan sempre congiuntamente al suo consiglio. Anche ai livelli dirigenziali dunque non dominava un individuo importante (monocrazia), ma un gruppo di individui, esclusivamente uomini (collegialità).

Il conseguente monoteismo allora, quello annunciato da Muḥammad, non allude solo a una nuova comunità ma anche a una nuova responsabilità dell’individuo. I musulmani devono realizzarsi al meglio delle loro possibilità: se c’è un solo Dio e questo unico Dio è il creatore, il sostenitore e il giudice dell’uomo, allora il singolo individuo ottiene una dignità particolare e non è più una palla che passa nelle mani di diverse divinità rivali tra loro, ma neppure solo un oggetto all’interno di un sistema di clan e di tribù che stabiliscono tutto; egli è invece una creatura di questo unico Dio, è il suo «successore» (sostituto),42 ed è responsabile di fronte a lui.

Essere direttamente responsabili dinnanzi a Dio! L’islam primitivo non conosce intermediari, che si tratti di sacerdoti oppure di santi; lo stesso Profeta non è un mediatore, poiché Dio necessita solo dell’islām dell’uomo, della sua dedizione. Al suo cospetto egli si prostra durante la preghiera quotidiana, il grande pellegrinaggio della vita ha valore per Lui; davanti a Lui l’uomo si mortifica durante il digiuno; per Suo ordine egli versa il contributo sociale, simbolo di rinuncia all’avidità di guadagno e di responsabilità nei confronti degli altri membri della comunità religiosa. Più di tutte le altre, queste pratiche rendono evidente che una persona è musulmana, che si inquadra nella comunità dei fedeli e che si trova sulla retta via.

Ogni uomo si trova dunque in un rapporto del tutto personale con Dio, il quale lo ha creato, lo sostiene e lo giudicherà, registra sempre le buone e le cattive azioni dell’uomo, e alla fine durante il giudizio gli presenterà il conto. Ogni uomo è responsabile della propria salvezza, ma anche il compimento di certi riti, anche la preghiera quotidiana, non sono sufficienti a stabilire un rapporto corretto con Dio. Il riconoscimento da parte dell’uomo di essere stato creato dall’unico Dio esige un rovesciamento del pensiero e un cambiamento dello stile di vita: mai più presunzione e arroganza, mai più il vanto del possesso e della parentela potente, mai più la discriminazione dei più deboli e l’appropriazione indebita di beni altrui, mai più menzogne, tradimenti e irrefrenabile violenza. Piuttosto la solida fede in Dio e l’ubbidienza anche contro la propria volontà conducono alla vera saggezza e all’acquisizione di preziose virtù: «Egli dà la saggezza a chi vuole e colui cui è stata data la saggezza ha avuto un bene abbondante».43

 

Virtù arabe e musulmane

Il Corano dunque sostituisce la glorificazione di clan e gruppi tribali, l’orgoglio guerriero e a volte anche l’edonismo dei beduini con un ideale di moderazione e di riservatezza. Con ciò non si intende una morale della debolezza, dell’arrendevolezza e della vigliaccheria; le antiche virtù arabe non vengono rinnegate. Esse vengono approfondite e si giunge così a un vasto cambiamento del concetto tradizionale di valore, il quale sembra legittimato da Dio stesso:

– il coraggio dei beduini, provati dalle battaglie, durante la lotta o durante la difesa del proprio clan viene risvegliato: nell’impegno per la nuova fede e nella disponibilità a sacrificarsi per la comunità religiosa;

– la pazienza nei confronti di tutte le avversità della vita faticosa, propria del deserto, viene nuovamente resa fertile: per l’imperturbabile fede in Dio in vista di tutte le contestazioni e le tentazioni;

– la magnanimità della donazione spontanea viene regolamentata: attraverso una donazione circoscritta, e dunque regolare, per i poveri e per i deboli.

Tuttavia la dipendenza dell’uomo in quanto creatura produce anche nuove virtù islamiche specifiche:

– se l’uomo è creatura di Dio, allora non è opportuna la presunzione ma la devozione: Dio non ama «chi è superbo e vanesio».44 Dio «non ama gli orgogliosi»;45

– se l’uomo è creatura di Dio, allora il suo atteggiamento fondamentale deve essere riconoscenza: non ci si deve rivolgere a Dio solo in caso di necessità per poi dimenticarsene, quando il pericolo è passato, 46 «mentre Dio compenserà chi Gli è grato»;47

– se Dio è il creatore di tutti gli uomini, allora devono diffondersi tra gli uomini la bontà e la fratellanza («sorellanza» sarebbe una formulazione anacronistica). Attraverso la fede, Dio ha reso amici e fratelli quelli che erano avversari.48 I fedeli, uomini e donne, sono tra loro amici;49 tra loro devono dominare generosità e amicizia.

E la legge della vendetta? Non è in alcun modo tipica dell’islam, poiché il Corano senz’altro conosce anche il perdono! Certo si può contraccambiare il male con il male, ma il perdono è meglio.50 Colui che è disposto a perdonare verrà perdonato anche da Dio.51 Anche ai musulmani viene addirittura consigliato di contraccambiare il male con il bene: «Ché non son cosa eguale il bene e il male, ma tu respingi il male con un bene più grande e vedrai allora che colui che era a te nemico, ti sarà caldo amico. E tal grado non potranno raggiungere se non i costanti pazienti, tal grado non raggiungeranno altri che i favoriti del favore supremo».52 E se questa nuova morale del singolo non si ripercuote anche nella società?

3. LA TRASFORMAZIONE SOCIO-RELIGIOSA

La nuova visione della comunità e dell’individuo ebbe come conseguenza una trasformazione della società. Le nuove convinzioni religiose comuni, i nuovi riti e le norme etiche unirono in una nuova società araba le famiglie, i clan e le tribù, che finora erano articolate in maniera segmentata e spesso si trovavano in forte antagonismo. Tuttavia le tradizionali strutture tribali arabe, come abbiamo visto, non vennero soppiantate ma solo reinterpretate. Muḥammad non volle affatto eliminare la struttura sociale esistente; in questo egli non fu un rivoluzionario. Egli volle però modificarla e migliorarla in modo decisivo, da riformatore radicale e da innovatore. Muḥammad mise in moto allora un movimento che, in questa fase fondamentale della storia islamica, non conduceva in primo luogo a un’espansione e a una missione verso l’esterno, ma portava a un rinnovamento e a un consolidamento verso l’interno. In questa nuova società le istituzioni economiche, responsabili della produzione e della ripartizione dei beni materiali, mutarono appena; vennero invece modificate – a causa di finalità culturali e religiose mutate e di valori, di norme e di istituzioni modificati – le istituzioni familiari (famiglia allargata, clan, tribù) e quelle politiche, alle quali spettano l’organizzazione della sovranità, la soluzione dei conflitti e la difesa (fondazione di uno stato). Tutto ciò ebbe come conseguenza l’inizio di una nuova civiltà araba.

 

Stabilizzazione del vincolo matrimoniale e della famiglia

Circa l’ambito matrimoniale e familiare nell’Arabia pre-islamica, sulla base della ricerca più recente,53 si può senza dubbio concordare sul fatto che all’epoca esisteva a malapena un sistema definito. Nell’epoca immediatamente prima di Muḥammad, pare che avesse predominato una sistema di parentela di tipo patrilineare, ma esisteva senza dubbio anche un sistema matrilineare, dove contava solo la stirpe della donna e il matrimonio poliandrico era consueto: una donna aveva quindi più uomini in periodi diversi e con differenti gradi di dovere nei confronti della discendenza. Erano anche possibili i matrimoni a tempo (mut‘a), e ciò rendeva labili i confini con la prostituzione ed era facilmente possibile cadere nella promiscuità.

Nel Corano invece l’istituzione del matrimonio e della famiglia viene affermata con decisione. La famiglia tra tutte le varie cose donate da Dio agli uomini viene messa particolarmente in risalto: «Iddio v’ha dato delle spose, donne nate fra voi, e dalle vostre spose v’ha dato figli e nipoti».54 Visto nell’insieme, il Corano apportò una considerevole stabilizzazione della famiglia, e ciò attraverso le seguenti prescrizioni:

– rigide regole contro l’incesto, che non sono importanti solo per l’eredità biologica, ma anche per la creazione dei vincoli coniugali tra le varie famiglie;

– condanna dei matrimoni poliandrici, perché essi scalzano la stabilità familiare (la questione analoga nei confronti del matrimonio poligamo non viene posta);

– la paternità naturale deve venire riconosciuta, perciò si stabiliscono periodi di attesa in caso di divorzio.

Ma qual è lo scopo del matrimonio? Un primo scopo è la procreazione di una discendenza, che corrisponde a una ben radicata tendenza dell’uomo e che è di vitale importanza per i clan e le tribù, all’epoca minacciati innanzi tutto dall’estinzione piuttosto che dalla sovrappopolazione. La procreazione dei bambini corrisponde al volere di Dio, colui che è il vero creatore di tutti i bambini che nascono.55

Un altro scopo principale del matrimonio è anche la vita in comune tra uomo e donna, tra genitori e figli. Il legame tra uomo e donna è un segno di Dio all’interno della sua creazione: «E uno dei Suoi Segni è che Egli v’ha creato da voi stessi delle spose, acciocché riposiate con loro, e ha posto fra di voi compassione ed amore».56

Un terzo fine principale del matrimonio, alla luce dalla promiscuità ampiamente diffusa, è il soddisfacimento, l’istituzionalizzazione e la regolamentazione del rapporto sessuale. Celibi e nubili «si mantengano casti».57 Il rapporto sessuale extra-matrimoniale non è ammesso.58 Tuttavia agli uomini continuava a essere permesso un numero illimitato di concubine provenienti dalle file delle loro schiave – e anche più mogli. Questo porta a un punto difficilmente comprensibile per i non musulmani.

Elemento tipicamente islamico era l’ammissione della poligamia, sebbene essa fosse ben diffusa nell’antico Oriente, come mostra la Bibbia ebraica (Abramo!). Essa, in questa società guerriera, aveva certo anche lo scopo di provvedere alle vedove di guerra e di venire a patti con l’elevata eccedenza di donne che le guerre generalmente causano. Nel Corano circa la poligamia si dice: «Se temete di non essere equi con gli orfani, sposate allora di fra le donne che vi piacciono, due o tre o quattro».59 Tuttavia, al contempo viene stabilito che l’uomo deve mantenere tutte le sue mogli allo stesso livello e equamente, altrimenti deve sposare solo una donna: «e se temete di non essere giusti con loro, una sola, o le ancelle in vostro possesso; questo sarà più atto a non farvi deviare».60

Come giustificazione, spesso è stato sostenuto che il Corano avrebbe in questo modo limitato la poligamia (matrimonio con più donne), prima consueta in Arabia; tuttavia in primo luogo, si conosce veramente poco di una poligamia usuale nell’Arabia preislamica (al contrario della poliandria, il matrimonio con più uomini). In secondo luogo, attraverso quel passo del Corano non viene imposta una limitazione, poiché la traduzione letterale dice: «sposate quella tra le donne che vi piace, due, tre e quattro».61 Il fatto che il musulmano potesse dunque avere solo quattro mogli legali (si tace del tutto sul concubinato legale con numero illimitato di schiave), sarebbe perciò una decisione più tarda dei giuristi islamici. Qual è allora il ruolo della donna secondo lo stesso Corano?

 

La donna – rivalutata o discriminata?

Una novità espressa dal Corano e segno positivo per la donna fu che non si dovevano stabilire in una stessa casa molte donne (in genere con i loro fratelli carnali), alle quali i mariti allora avrebbero fatto una visita lunga o breve. Piuttosto, più donne (alcuni mariti delle quali certamente erano morti nei numerosi conflitti) dovevano abitare nella casa di un uomo, occupando spazi propri («poligamia circoscritta»), per trovare così anche un sostentamento e una protezione adeguati.62

Nel Corano l’uomo e la donna sono essenzialmente uguali davanti a Dio, in quanto entrambi creati da Lui:63 «Chi opera il bene, sia egli maschio o femmina, purché credente, lo vivificheremo a vita dolce e li premieremo del premio loro, per le cose buone che avranno operato». 64 Nel Corano però non si può parlare di una parità di diritti tra uomo e donna. I privilegi dell’uomo, all’interno di una grande famiglia dominata in modo patriarcale, costituita dal padre, dai suoi figli e dalle loro famiglie, rimangono intoccabili. L’uomo possiede il diritto d’iniziativa nell’avviare o nello sciogliere un matrimonio e ha voce in capitolo nelle questioni finanziarie e nelle altre faccende.

Ma la posizione giuridica dell’uomo, ampiamente privilegiata, non deve far perdere di vista il fatto che nel Corano vengono richiesti un grande rispetto e una grande sensibilità reciproci; qui viene dato valore anche a una relativa indipendenza dell’individuo all’interno del vincolo familiare. In modo particolare, alle donne vengono assicurati diritti che in epoca preislamica non avevano:

– la donna può possedere beni a lei intestati e non deve per questo contribuire al sostentamento della famiglia;

– la donna ha diritto di ereditare fino a un quarto del patrimonio del marito;

– durante un divorzio imminente o volontario, è richiesta una proroga, una riconciliazione e una mediazione da parte delle famiglie;

– in caso di divorzio la donna mantiene la sua dote.

Da ciò si può comprendere che molte musulmane di idee riformiste esigano oggi un ritorno al Corano, dal momento che qualche limitazione giuridica, oggi consueta per le donne, non deriva in realtà dal Corano, ma dalla norma giuridica fissata successivamente da uomini. Così ad esempio, nel Corano non si parla mai di quell’uso considerato oggi, dai musulmani e dai non musulmani, come tipicamente islamico: il velo, oppure il fazzoletto da testa per la donna. Tutti questi problemi dovranno essere accuratamente affrontati, in relazione alla contemporaneità, nella parte D.

 

La natura dello stato islamico – uno stato di Dio

Anche se Muḥammad lo avesse voluto, sarebbe stato illusorio sostituire la società tribale dell’Arabia, al cospetto di ogni tendenza anarchica e separatista, attraverso una società del tutto nuova. Il Profeta, da vero realista, non aspira perciò a una sostituzione, ma a una federazione dei clan e delle tribù arabe. Da questo si sviluppa già ai tempi del Profeta stesso uno stato islamico sotto forma di una confederazione. Il suo nucleo è la comunità di Medina. Così, ancora durante la sua vita, Muḥammad riesce ad allargarlo non solo alla città della Mecca, ma anche in tutta l’Arabia occidentale e centrale, grazie all’associazione più o meno volontaria delle varie tribù beduine. Capo di questo nuovo stato è naturalmente il Profeta stesso, in qualità di «inviato di Dio». Così, in breve tempo, egli era diventato, da capo di una minoranza perseguitata, organizzatore di una comunità regolata in modo relativamente rigido.

Naturalmente questa comunità islamica non presenta ancora i tratti giuridici e amministrativi propri di uno stato moderno. Tuttavia si può già parlare a giusta ragione di stato, di una «attiva compagine di dominio istituzionalizzato su un vasto territorio».65 A tal riguardo si tratta di una comunità parzialmente chiusa e sovrana:

– indipendente dal controllo esterno, e contemporaneamente tende al controllo dei territori limitrofi;

– che non è più una società frammentata di tribù e clan, rivali e in guerra tra loro, bensì una costruzione politica relativamente unita e centralizzata.66

Gli agenti di Muḥammad, con la riscossione del contributo sociale (in genere pagato in cammelli), all’inizio di una integrazione politica, vengono reclutati presso le tribù beduine, orgogliose stirpi «aristocratiche» di guerrieri. Più tardi questa integrazione viene proseguita attraverso il reclutamento di contingenti di truppe (grazie ad agenti del califfo) per l’esercito di conquista e grazie alla retribuzione, alla ricompensa, nonché attraverso la spartizione di parti di bottino o di porzioni di terra. Ma anche qui, accanto alle questioni più profane, si deve sempre considerare che senza l’islam come base ideologica, questa integrazione politica non sarebbe stata affatto pensabile: «Lo stato islamico disponeva dunque di risorse sia dal punto di vista ideologico che organizzativo, in base alle quali esso riusciva a collocarsi al di sopra dei rapporti di lealtà tribale, che rappresentavano nell’Arabia prestatuale in modo tradizionale il grande ostacolo sulla via verso il successo dell’integrazione politica» (F.M. Donner).67 Al contrario, naturalmente l’islam ha modellato profondamente lo stato che si stava creando. Le sue caratteristiche sono dall’inizio: esclusività, teocrazia, militanza.

 

1. Esclusività: sulla base del contratto di alleanza di Medina, anche genti originariamente non musulmane erano divenute membri della comunità di Muḥammad, particolarmente gli ebrei, fortemente rappresentati a Medina. Dopo la successiva eliminazione delle genti ebraiche però, questa comunità divenne esclusivamente musulmana. Dapprima in Arabia, gli ebrei ma anche i cristiani, erano ancora tollerati, fino a quando vennero scacciati sotto il secondo califfo ’Umar. Il suo disegno era un’Arabia puramente musulmana. Affrontiamo qui un punto decisivo per la comprensione dell’islam: sebbene la convinzione religiosa del seguito religioso e politico del Profeta fosse inizialmente molto differenziata e sebbene accanto ai veri «fedeli» si trovassero, secondo le affermazioni del Corano, anche alcuni «ipocriti» (incerti), l’islam non venne però mai contestato da nessuno: sia tutta la vita religiosa dello stato che tutta quella politica sono sottoposte a leggi non provenienti dagli uomini, bensì da Dio. Da ciò consegue una seconda caratteristica.

2. Teocrazia: la differenza rispetto al cristianesimo è chiara. La comunità cristiana o chiesa stava al di fuori dello stato (sia ebraico che romano), si trovava del tutto in contrasto con esso e talvolta da esso veniva perseguitata (P I cristiano). Certamente, essa restò assolutamente diversa dallo stato, anche all’interno del modello bizantino che prevedeva una «sinfonia» tra trono e altare (P II). Nel modello romano-cattolico (P III) si giunge, sotto l’influenza di Agostino e dei papi, addirittura a un antagonismo dichiarato tra chiesa («stato di Dio») e stato («stato temporale»). Sin all’inizio invece, la comunità islamica appare del tutto diversa (P I islamico). Essa costituisce proprio il nucleo attorno al quale lo stato islamico prende forma. Le istituzioni religiose e quelle statali qui sono pressoché identiche. La comunità islamica è contemporaneamente entrambe: comunità religiosa e collettività politica, uno «stato di Dio»; poiché non c’è una separazione tra stato e religione, esse sono fuse in un’unità inscindibile. Questo stato islamico è teocrazia, dominio di Dio, nel vero senso del termine. Tuttavia si deve osservare che anche nel cristianesimo continuarono a esistere sempre modelli di integrazione della comunità politica e di quella religiosa: stato della chiesa/ stato vaticano, la Münster degli anabattisti, Ginevra all’epoca di Calvino ...

In queste circostanze non era sorprendente che l’elemosina per i poveri e i bisognosi, inizialmente del tutto a discrezione del singolo e solo in seguito a Medina obbligatoria, nell’islam si sviluppasse in realtà in una sorta di tassa statale, la quale tuttavia prima rappresentava una somma modesta, al cospetto dell’immenso bottino risultante dalle conquiste e in considerazione delle ricche entrate tributarie correnti, pagate da coloro che venivano sottomessi. Già lo stesso Muḥammad, sappiamo, inviò agenti alle tribù nomadi per riscuotere l’imposta, ma essi tentarono di revocarla dopo la morte del Profeta. Gli esperti di diritto islamico non mancheranno di redigere norme precisissime proprio in merito a questa tassa statale, motivata dalla religione.

 

3. Militanza: un’ulteriore differenza nei confronti della comunità cristiana o della chiesa. Quest’ultima è obbligata alla non violenza attraverso il messaggio, il comportamento e la sorte del suo fondatore – mentre i violenti sovrani «cristiani» (imperatori, re, vescovi, papi) hanno tradito l’ideale cristiano originale, appena il cristianesimo divenne una religione di stato. Del tutto diversa è la comunità islamica, nella quale, come già detto, vige il principio che stato e religione sono una cosa sola: essa viene interpretata da Muḥammad e da lui in poi, come una comunità guerriera, alla quale è permessa la lotta con la spada. Certo, la guerra come mezzo della politica non viene soltanto essenzialmente approvata, bensì, qualora necessario, praticata senza grandi scrupoli. Così l’islam sin dall’inizio presenta un carattere militante, belligerante in nome di Dio – sotto questa luce è più vicino all’ebraismo primitivo e al suo «combattere in nome di Jahvè», piuttosto che al cristianesimo.

Però per demolire certi luoghi comuni ampiamente diffusi si deve aggiungere che alla disposizione alla guerra si affianca un’immensa predisposizione alla pace. Già lo stesso Muḥammad aveva concluso la pace con gli abitanti della Mecca, grazie al patto di Ḥudaibiya. Questo rappresenta l’esempio che nell’islam i contrasti militari possono essere evitati e messi da parte. E i trattati di pace, che il Profeta concluse con le comunità cristiane di Nagran nel sud e di Dūmat al-Ǧandal nel nord, nonché con i restanti ebrei di Medina e di Ḫaibar, formano quasi la base per il comportamento dei conquistatori musulmani e quella per un diritto islamico delle popolazioni, che stava nascendo. Agli ebrei e ai cristiani (poi anche agli zoroastriani), in quanto «gente del Libro», coloro che hanno altrettanto ricevuto una rivelazione di Dio, viene espressamente assicurata la tolleranza (non la parità di diritti!), mentre il politeismo, contro cui il Profeta si era schierato solo una volta, viene combattuto senza compromessi.

Tuttavia, alla luce della storia concreta del Profeta e della sua comunità, ancora senza tutta la teologia, si pone qui una domanda storica fondamentale:

 

Cosa è islamico e cosa è arabo-beduino?

Durante la mia descrizione del fondamento del paradigma proprio della comunità protoislamica (P I) si è visto che anche nella primissima realizzazione, natura e forma storica dell’islam non devono mai essere paragonate. Piuttosto, devono venire differenziate la sostanza religiosa islamica (= natura) e la costellazione storica delle convinzioni, dei valori, delle tecniche (= paradigma) allora correnti. Poiché qualcosa di tutto ciò che fu riservato, durante questa prima fase della storia islamica, nella realizzazione dell’islam, evidentemente non dipese semplicemente dalla natura dell’islam, basata sulla rivelazione coranica, ma fu la conseguenza della combinazione storica di circostanze, a quella data epoca.

Fin dall’inizio ci fu, come ha rilevato l’islamista di Amburgo Albrecht Noth, «una contemporanea presenza – che si poteva manifestare come simbiosi, gioco di scambio o anche di opposizione – di nuove regole islamiche e di vecchie norme comportamentali tribali»: il «campo di tensione tra islam e struttura tribale» è «un carattere essenziale, se non il carattere essenziale per eccellenza dei decorsi storici propri del periodo islamico primitivo».68

In altre parole: il primo paradigma dell’islam, da un lato, è il frutto di radicali impulsi religiosi, di valori e di richieste propri del Corano e, dall’altro lato, è il risultato della condizione sovrapposta e diffusa in cui si trova la cultura tribale preislamica arabo-beduina. Ira M. Lapidus lo ha dimostrato con le sue ricerche, solide e ad ampio raggio: durante la creazione di una comunità musulmana alla Mecca e a Medina è in gioco «la formazione di una comunità religiosamente definita che si espande come una forza integrante all’interno di una società di discendenza (società di lignaggio)».69 Nel complesso sistema di valori ora nascente, secondo Lapidus, si riescono a distinguere due livelli:

– «in linea di principio» il Corano introduce «il concetto di realtà trascendente che contraddiceva i valori della cultura tribale»;

– «in realtà» invece «le strutture familiari e gentilezze dei popoli arabi» divennero «parte della società islamica».70

A partire da questa doppia prospettiva, già in questo stadio iniziale è difficile evitare di porre al primo paradigma dell’islam domande, che forse risulteranno sgradite ai tradizionalisti. Queste domande in prospettiva storica sono invadenti anche per i musulmani, ma molti le pongono in questo modo – non per processare il passato o un intero paradigma, ma per guadagnare un nuovo orizzonte per il futuro.

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Questioni sulla tensione tra islam e struttura beduina

  • Nell’islam cosa è introdotto dal Corano stesso e cosa invece deriva dalla società araba di allora?
  • Cosa c’è dunque di principalmente ed essenzialmente islamico in questa concreta realizzazione storica dell’islam (P I), e cosa c’è, in linea di principio e di fatto, di arabo-beduino?
  • Le strutture, i valori e le norme che provengono chiaramente dalla cultura araba tribale devono pretendere per ogni epoca la medesima cosiderazione che si riserva alle verità e ai principi direttamente provenienti dalla rivelazione coranica?

Il Profeta alla fine della sua vita poté rivolgere lo sguardo verso una visione che si andava adempiendo e verso un’opera sorprendente. Ma tuttavia: il primo paradigma dell’islam, così solidamente fondato da lui stesso, doveva ancora superare la sua prova. Essa giunse con la morte del Profeta nel 632!

4. DAL PROFETA AL SOSTITUTO DEL PROFETA

«La grande sventura»? La morte del Profeta? Così si legge non di rado sulle epigrafi tombali musulmane .71 Sembrava difficile che la comunità islamica ancora giovane potesse sopportare la morte del Profeta. Sebbene il Profeta fosse stato assai lungimirante sotto molti aspetti, aveva trascurato di disporre tempestivamente la propria successione. Forse pensava di non poter trovare nessun successore a causa della unicità della sua chiamata e della diretta legittimazione divina della sua funzione? Per le «esigenze» secolari come le finanze, il diritto e la guerra non sarebbe servito nessuno; avrebbero potuto occuparsene i suoi più stretti confidenti, i «compagni del Profeta» (aṣḥāb)? Se la comunità musulmana – calcolando dalla emigrazione in poi – vecchia di soli dieci anni, organizzata solo nei tratti fondamentali,voleva sopravvivere, aveva bisogno di una guida.

 

Chi deve comandare?

In realtà: appena Muḥammad fu sepolto nella sua casa a Medina (nel luogo dove oggi viene mostrata la sua tomba, nella «moschea del Profeta»), iniziano subito le contese per la sua successione. Da un lato ci sono gli «aiutanti» di Medina, che si sentono comunque svantaggiati nei confronti degli abitanti della Mecca, i quali erano stati favoriti da Muḥammad durante la ripartizione del bottino. Non possono semplicemente nominare la loro propria guida per le previste azioni di guerra? Dall’altra parte ci sono molte tribù di beduini; essi hanno personalmente promesso al Profeta un seguito, ma l’aspirazione all’egemonia da parte della sua tribù, quella di Quraiš, viene disapprovata. Dopo la morte di Muḥammad, i beduini devono continuare a sentirsi vincolati alla loro promessa di fedeltà? Perché pagare costantemente delle imposte e addossarsi obblighi religiosi forse a lungo andare fastidiosi? Un movimento di rinnegamento (ridda: «apostasia» dell’islam), forse motivato innanzitutto come movimento politico o religioso, inizia ora a estendersi rapidamente. E la comunità, composta da molti elementi, rischia di cadere a pezzi.

Come può essere risolta questa crisi di dirigenza? Grazie a un nuovo profeta? Ma un uomo con queste caratteristiche non lo si scorge né a Medina né alla Mecca e non si può aspettarlo. Muḥammad è secondo il Corano, «il Sigillo dei Profeti», e sulle prime viene considerato non una «conclusione», ma semplicemente una «conferma».72 Tuttavia, ora è assolutamente necessaria una guida efficiente nei vari ambiti, perché la comunità deve sopravvivere.

Se andiamo ad analizzare la storia in base ai quattro califfi di Medina, 73 non è perché sopravvalutiamo i sovrani e trascuriamo lo sviluppo delle strutture,74 ma perché la storia concreta può venire presentata in maniera completa solo attraverso la dialettica delle strutture e delle persone. Lo abbiamo già sottolineato: la «storia dei fatti», propria delle persone agenti o dei singoli avvenimenti contingenti non è solo collocata sulla superficie, ma è inserita nei processi storici della «storia della società».75

Anche la questione della «successio prophetica», della successione del Profeta, è una domanda relativa alle strutture e alle persone. Il pericolo di scissione è ben presente ai compagni del Profeta, una sorta di suoi «apostoli»: dopo la morte di Muḥammad, le tribù beduine compiono apostasia, rinnegano la fede, ma anche le feroci rivalità tribali antiche minacciano di rinfocolarsi – e questo proprio a Medina. Se ora le singole tribù eleggessero nuovamente la propria guida, ne sarebbero svantaggiate le tribù minori e gli emigrati dalla Mecca. Le conseguenze sarebbero disastrose. E allora si giunge a una rapida soluzione.

 

Scelta di un successore: Abū Bakr, il primo califfo

Il dibattito durò un’intera notte, poi si stabilì che per Muḥammad doveva essere scelto un «successore», un «sostituto», un califfo (halifa). 76 Fu scelto infine un uomo che era stato fra i primi alla Mecca ad aver creduto all’invio del Profeta: Abū Bakr.77 Costui, suocero di Muḥammad attraverso sua figlia ‘Ā’iša, è al contempo un membro della tribù dei Quraiš e un emigrante. Rimane per tutta la vita amico di Muḥammad e appartiene ai suoi più stretti consiglieri amministrativi e militari. Per la scelta però è decisivo il fatto che il Profeta stesso lo abbia voluto come guida del suo ultimo pellegrinaggio e che durante la sua malattia lo abbia designato come guida (imam).

Abū Bakr dunque deve succedere a Muḥammad anche nella direzione della comunità. La sua elezione, decisa da un ampio gruppo senza particolare autorità, viene ratificata il giorno dopo dall’intera comunità. Abū Bakr dal canto suo, nella moschea di Medina, spiega molto semplicemente che egli desidera seguire la sunna (consuetudine) del Profeta, e fino a che vi ubbidirà, avrà il diritto di essere ubbidito. Il suo soprannome è «il veritiero» (as-siddiq). È considerato da tutti un uomo davvero modesto e per niente presuntuoso, capace però anche di azioni energiche. Ora però si deve occupare non solo della preghiera rituale quotidiana o della preghiera del venerdì, ma anche e soprattutto delle faccende secolari politiche, di diritto, finanze e strategia di guerra. Questo segnerà l’intera storia dell’islam sin dall’inizio: già nella comunità primitiva e adesso anche sotto i califfi, non c’è posto per una autorità puramente secolare! L’introduzione del califfato (ḫilāfa) significa:

• all’immediata guida di diritto da parte del Profeta in qualità di ricevente, annunciatore ed esecutore della rivelazione divina, succede la direzione di diritto attraverso il sostituto (ḫilāfa) del Profeta;

• una legittimazione che si rinnova grazie a una nuova rivelazione divina non esiste più. Ora esiste solo l’autorità umana derivata, una guida senza qualità profetiche: non più un «portavoce» di Dio, bensì nel migliore dei casi un «interlocutore» di Dio;

• al posto della personalità di guida carismatica subentra l’istituzione del califfato, al posto del carisma l’ufficio, al posto della profezia la tradizione. Ciò vuol dire che il dominio carismatico diventa tradizionale, legale e quotidiano.78

 

Il sostituto del Profeta non è egli stesso un profeta e non è neppure in primo luogo un religioso, ma un’autorità politica e giuridica, simile a un alto sceicco di tribù, che deve guidare l’intera comunità musulmana, mediare durante le dispute, prendere decisioni e assumere l’alta direzione dell’esercito. I compiti di un califfo erano così nuovi da non essere descritti in alcun testo. Anche nel Corano non esiste nulla in merito. La parola «califfo» compare più volte nel testo, ma in nessun passo è chiaramente usata per indicare un successore del Profeta nella guida della comunità, il quale abbia funzioni politiche e religiose. Può quindi stupire il fatto che, tra i musulmani si cominciasse presto a discutere circa la qualità, l’autorità e il modo di insediare il califfo?

I musulmani diventano sempre più consapevoli di una cosa (consapevolezza che in seguito verrà riferita addirittura ad Abū Bakr):79 anche se il Profeta non è più tra i viventi, il Corano invece resterà, e rimarrà vivo e indistruttibile, come eterna parola di Dio. In queste nuove circostanze, al posto della fedeltà alla persona del Profeta, subentra la fedeltà al suo messaggio (kerygma). E, sebbene ciò che nell’islam è religioso possieda dall’inizio una dimensione politica e, inversamente, ciò che è politico presenti presupposti religiosi, due aspetti della successione devono tuttavia venire fondamentalmente diversificati.

  • Nella successione politica, al posto dell’uomo di stato Muḥammad all’interno della comunità islamica primitiva, subentra il califfo, in qualità di successore permanente dell’inviato di Dio. Il califfato risulterà essere in realtà una istituzione (principalmente politica) a termine.
  • Nella successione religiosa, al posto del profeta Muḥammad subentra, senza alcun magistero supremo, il Corano (solo nell’epoca successiva raccolto in un libro) in quanto parola di Dio e subentra l’esempio del Suo inviato, la sunna. Il Corano (appartenente all’essenza dell’islam) diventa col tempo l’autorità religiosa (indirettamente anche politica) per eccellenza.
  • Il Profeta, colui che aveva provocato la svolta fondamentale dal periodo pagano della «ignoranza» (gahiliya), rimane dunque la guida spirituale, il modello per un comportamento perfetto, rituale e morale. Nella sfera politica però sono più i califfi, con le loro conquiste e le dispute interne (scismi), a tracciare le linee guida per il futuro: le idee escatologiche e l’ideale della libertà beduina retrocedono a favore di un governo strutturato, a favore quindi di uno «stato».80

Ad Abū Bakr vennero concessi solo due anni di governo, ma proprio durante questi due anni avvenne qualcosa di decisivo, che era già stato preparato dal Profeta stesso: il passaggio dal deserto alle culture civilizzate.

 

Dal deserto al confronto con le culture civilizzate

Se si accetta semplicemente la retrospettiva degli storici musulmani, in seguito criticata, secondo i quali Abū Bakr avrebbe articolato la conquista attraverso l’invio di quattro emiri, allora è obbligatorio porsi la domanda: come si poté giungere alle successive campagne di conquista, straordinariamente vittoriose? Come fu possibile che un popolo proveniente dal deserto, alla periferia delle culture civilizzate, potesse occupare in una sola volta vastissimi territori appartenenti ai due grandi imperi di allora, Bisanzio e la Persia?

Ricerche più recenti hanno mostrato che gli sviluppi politici interni sono responsabili degli attacchi politici esterni. Il compito del califfo è inizialmente quello inerente alla politica interna e Abū Bakr pare l’abbia svolto con energia, intelligenza e coerenza: il movimento di apostasia (ridda) doveva essere fermato, il dominio della comunità islamica andava nuovamente rafforzato e la vera religione dell’Arabia doveva venire stabilita ovunque.81 Evidentemente la forza del messaggio coranico non era bastata per conservare le tribù già guadagnate dal Profeta; era necessaria una forza militare, e anche in futuro saranno spesso i successi militari ad aprire una breccia al messaggio religioso.82

Con un paio di colpi mirati, Abū Bakr sottomette le tribù beduine, impone il pagamento dell’imposta sociale e stabilisce l’islam anche oltre i territori già dominati da Muḥammad. Successivamente si vedrà ancor più chiaramente: senza un controllo politico totale sulle tribù arabe, soprattutto su quelle beduine, da parte dell’élite musulmana di Medina e della Mecca ora al governo non si verificherà alcuna integrazione politica, né si formerà alcuno stato. Queste imprese sono affidate al califfo per le sue qualità di guida, per le conoscenze militari e per i rapporti molto tesi anche con quelle élite meccane, che fino a poco prima erano antagoniste dei musulmani e particolarmente degli «aiutanti» di Medina. Ma durante queste azioni di conquista si è uniti da interessi comuni. Così uniti, i musulmani possono sconfiggere un’intera federazione nemica di tribù, nella battaglia di al-’Aqrabā’ (Arabia centrale) nel 633.

In conseguenza di queste vittorie, le tribù sottomesse continuarono a far pressione sulle stirpi vicine e tentarono di rifarsi dei danni subiti. Se ne osservano gli effetti a est fino nel Bahrein e in Oman, così come a sud nello Yemen e nel Hadramaut. Sempre più tribù si associano con la potente confederazione islamica, che ora sconfigge anche un raggruppamento concorrente di tribù, che avevano «profeti» propri (tra i quali persino una «profetessa»), così che presto l’intera Arabia risulta islamizzata. La umma islamica si è imposta definitivamente come la nuova forza d’ordine araba.

Già Abū Bakr sostiene le velleità di razzia attraverso assalti e attacchi a sorpresa anche al di fuori dell’Arabia e cioè in Siria, in Iraq e in Iran. In questo modo, dopo le lotte arabe interne contro l’apostasia (guerre di ridda), le forze beduine stanziate liberamente in Arabia vengono deviate verso l’esterno e soprattutto verso nord. Ma quella che era iniziata come «razzia» (ġazwa) contro singole tribù diventa presto una guerra contro la superpotenza Bisanzio, la quale naturalmente non può tollerare queste violazioni costanti, e perciò manda un esercito nella Palestina del sud. Dal canto suo Abū Bakr invia il suo comandante dell’esercito più capace, Ḫālid ibn al-Walīd, la «spada di Dio», dall’Iraq alla Palestina, affinché assuma l’alto comando contro i bizantini. Per la prima volta gli arabi agiscono ora non solo come audaci truppe separate, ma anche come un vero esercito formato da piccole unità, che infine – una sorpresa per entrambe le fazioni – nella battaglia di Aǧnādain nel 634 riesce a sconfiggere l’esercito bizantino.

Con questa vittoria aumentano enormemente l’entusiasmo per la guerra e la certezza di vincere degli arabi. Da ora in poi non si accontentano più di campagne di razzia; ora possono occupare i territori finora controllati dalle grandi potenze. E proprio questo probabilmente conduce a un primo grande confronto islamico-cristiano, senza che entrambe le parti in verità si conoscano.

5. LA COMUNITÀ PRIMITIVA SI ESPANDE

All’epoca del profeta Muḥammad – come sappiamo – il ceto dirigente quraišita era stato prima minacciato con la forza delle armi da parte della città natale di Muḥammad, poi però con intelligente diplomazia era stato rinsaldato e infine era stato ricompensato con il ricco bottino di guerra. Per i compagni di battaglia del Profeta però, i quali avevano già aspramente denunciato la loro posizione di svantaggio nella spartizione del bottino, ora è veramente importante che il messaggio dell’islam, dopo la morte del Profeta, non venga totalmente svenduto all’aristocrazia quraisita dei mercanti e dei guerrieri. Il loro interesse principale era, già da molto prima di Muḥammad, il dominio economico e politico sulla parte più vasta dell’Arabia. Ma dopo le azioni di sottomissione congiunte dei meccani e degli abitanti di Medina, sotto la guida del primo califfo, è particolarmente urgente dare nuovo risalto all’aspetto religioso della politica araba. Viene richiesta una specifica politica islamica.

 

Politica islamica: ’Umar, il secondo califfo

Dalla crisi causata dalla morte del Profeta si imparò una lezione, e il primo califfo Abū Bakr scelse il suo successore ancor prima della sua morte nel 634. Sebbene meccano, costui, diversamente dagli aristocratici della Mecca, pare garantire il proseguimento della politica religiosamente orientata del Profeta. Il suo nome è ’Umar ibn al-Hattab.

Anche ’Umar era stato uno dei più anziani compagni di battaglia meccani del Profeta, aveva partecipato anche all’Egira. Anche lui era stato suocero (attraverso sua figlia Ḥafṣa) e consigliere fisso di Muḥammad. Anch’egli, dal canto suo, aveva sostenuto l’elezione di Abū Bakr e aveva operato in costante accordo con il primo califfo. Ora si rivela una straordinaria guida, come un buon organizzatore e, sotto tutti gli aspetti, veramente adatto alla successione. Rappresentazioni storiche popolari di origine occidentale hanno tentato volentieri di dipingere la storia dei primi califfi solo come una storia di intrighi, di violenze e di assassini. Ma non è così. ’Umar assume la successione del Profeta con un pacifico consenso, come già prima aveva fatto Abū Bakr e realizza poi le aspettative riposte in lui, dal punto di vista religioso, politico e militare.

Inizialmente il secondo califfo limita bruscamente l’influenza dei capi politici quraisiti.

– A Medina, come alla Mecca, favorisce gli stimati «compagni del Profeta» (ashab) e gli «aiutanti» medinesi (anṣār). Conferisce loro soprattutto cariche di governatore, comandi militari e impieghi amministrativi, ma anche altissimi donativi (prima avviene la conversione all’islam, migliore è il premio!) permettendo loro di amministrare in modo indipendente i beni conquistati, ormai appartenenti alla comunità. Contemporaneamente tenta di limitare il più possibile la partecipazione dell’élite quraišita alle nuove campagne di conquista.

– In modo programmatico non si fa chiamare solo «successore dell’inviato di Dio» (ḫalīfat rasūl Allāh, oppure ḫalīfat Allāh: «sostituto di Dio»), come Abū Bakr, ma anche «comandante dei fedeli» (amīr al-mu’minīn). Egli unisce dunque, in qualità di califfo, l’autorità tradizionale del capo tribù eletto con la nuova autorità del capo supremo della comunità.

– Infine introduce il computo del tempo specificamente islamico «secondo l’Egira». Lo scopo è quello di legare in modo permanente le zone conquistate con la comunità primitiva, e ancor di più esiliare l’antica storia quraišita all’interno dell’epoca oscura dell’idolatria, un atto che certo deve aver aumentato l’irritazione dei dirigenti della Mecca nei confronti del corso politico del secondo califfo. Essi tentano perciò a proprio modo di guadagnare influenza sui territori appena conquistati. A lungo andare, non occorre guardarsi dai meccani dal momento che le zone conquistate sono immense.

Inizia a delinearsi un trasferimento del peso politico dal deserto alle zone civilizzate.

  • Il centro di gravitazione politico della comunità islamica primitiva continua a essere costituito dalle città del deserto di Medina e della Mecca. Le ambizioni e le operazioni politiche e militari dei compagni del Profeta si concentrano inizialmente ancora sulla penisola araba. L’unificazione interna e il rinnovamento della società araba sono in primo piano.
  • Più i musulmani vengono a contatto e a confronto con le terre civilizzate, proprie dei grandi regni, più l’attuale direzione della comunità primitiva è costretta a concentrare i propri sforzi sulle province appena conquistate, sulla Siria, sull’Iraq e sull’Egitto. L’espansione oltre i confini determina sempre più anche lo sviluppo del dominio islamico antico.

Emerge ora una questione che è stata molto dibattuta e che per noi è particolarmente importante, la quale ha ricevuto a ragione risposte differenti: quali sono i motivi che hanno favorito questa straordinaria espansione degli arabi dal deserto ai paesi civilizzati?

 

Come fu possibile l’espansione arabo-islamica?

Una prima risposta si trova sui confini. Bisanzio e la Persia, le grandi potenze della regione, sono gravemente indebolite a causa di una politica di vendetta lunga di secoli, e si presentano anche poco stabili nell’ambito politico interno. Nel 614 i persiani avevano colpito duramente i bizantini, da riuscire a occupare la Siria e l’Egitto e da poter penetrare fino al Mediterraneo, il mare nostrum dei romani (a ovest l’ambiziosa Francia iniziò a colmare quel vuoto di potere dell’impero romano d’Occidente). Solo quindici anni dopo l’imperatore bizantino Eraclio riuscì, con l’utilizzo di tutte le forze, a riconquistare i territori occidentali. Nel 630 la croce di Cristo era stata trionfalmente riportata a Gerusalemme. La città rimane cristiana? Non per molto.

I bizantini avevano festeggiato per così dire una falsa vittoria, poiché avevano esaurito le loro forze contro l’avversario sbagliato. Probabilmente è leggenda il fatto che il profeta Muḥammad, ancora in vita, avesse inviato all’imperatore bizantino (e anche al re dei re persiano), una lettera con la quale esigeva la loro sottomissione e la loro conversione all’islam, poiché nel 630 Muḥammad doveva accontentarsi di potere entrare soltanto nella sua Mecca. Tuttavia è certo che ora, a metà degli anni Trenta, nel deserto arabo si forma una potenza, la cui pericolosità viene sottovalutata nelle splendide capitali dell’impero bizantino e di quello persiano. E il nuovo califfo ’Umar, dopo la vittoria di Agnàdayn del 634, sa usare il momento a vantaggio della causa musulmana.

La debolezza dell’avversario spiega però anche l’impeto di questa improvvisa espansione militare violenta? Questa non deve essere scambiata con la lenta infiltrazione e migrazione araba precedente (menzionata in connessione con l’epoca pre-islamica) verso le terre civilizzate settentrionali, come spesso fanno gli studi occidentali più recenti. A tal riguardo, questa ricerca scettica (comunque non sempre libera da risentimenti antireligiosi e anti-islamici) ha tentato di minimizzare il più possibile il fattore religioso presente nella conquista e in primo luogo ha raccolto qua e là tutti i possibili fattori non religiosi. Ma già Fred McGraw Donner (Chicago) riporta nell’introduzione al suo eccellente libro sulle «Prime conquiste islamiche» tutti i precedenti tentativi di spiegare la conquista, poi affronta in maniera scrupolosa le cause dell’espansione araba, per affermare: né la fame, né l’eccesso di popolazione, né la desertificazione delle zone arabe di pascolo (tutto non verificato), né la crisi del commercio di beni di lusso (che riguarda nel migliore dei casi determinate cerchie), né l’aspirazione dei beduini (che notoriamente disdegnano la vita agreste e i contadini!) alla vita stanziale, spiegano in maniera soddisfacente l’espansione militare degli arabi.

Al contrario la seguente opinione pare essere ben fondata: dietro all’espansione c’è una politica mirata di conquista e di insediamento, propria delle élite islamiche dominanti a Medina e alla Mecca, degli «aiutanti» e dei Quraiš, la quale aspira principalmente a tenere sotto controllo le tribù beduine. Molti membri delle tribù devono venire reclutati nell’esercito attraverso tutti gli incentivi possibili (entrate regolari, vita interessante, bottino) e devono essere insediati nelle nuove città di guarnigione. In questo modo la notevole energia guerriera dei beduini può essere utilizzata per scopi politici ed economici più alti.

La concentrazione organizzativa necessaria a tale scopo e l’inaudita forza di penetrazione non sarebbero però state raggiunte senza la capacità d’integrazione del nuovo stato islamico e senza la potenza spirituale della nuova religione. La conclusione di Fred Donner si è imposta nella ricerca: «I musulmani perciò ebbero successo, in primo luogo perché erano capaci di organizzare un movimento di conquista efficiente e, in questo contesto, la nuova religione dell’islam fornì il puntello ideologico per aprire questa straordinaria breccia nell’organizzazione sociale. In questo senso, le conquiste furono veramente un movimento islamico. Poiché fu l’islam – una serie di convinzioni religiose predicate da Muḥammad, con le sue ripercussioni politiche e sociali – a determinare infine l’intero processo di integrazione e a essere perciò la causa ultima del successo avuto nelle conquiste».83 Dunque l’indagine occidentale oggi non può più escludere quello che è sempre stato il tradizionale punto di vista islamico: «la possibilità che lo stesso messaggio islamico sia stato bene accolto dai membri delle élite dominanti e che abbia così contribuito a estendere ampiamente il dominio musulmano; in altri termini, l’élite sarebbe riuscita a organizzare il movimento islamico di conquista perché lo considera come la missione ordinatale da Dio». Dunque come fu possibile l’espansione araba? Anche là, dove hanno concorso fattori occidentali, è comunque «l’islam, che ha fornito la sanzione ideologica per una tale forza di persuasione».84

Ciò premesso, possiamo ora capire meglio il motivo per cui gli arabi islamici sono un avversario così pericoloso per le superpotenze di allora. Concretamente ci sono soprattutto tre motivazioni.85

Motivazione di guerra religiosa: si tratta della lotta (ğihād) contro gli «infedeli» per la «causa di Dio»: una lotta altamente meritoria, che il Corano proclama (o minaccia) intensamente in numerosi passi, e che promette al guerriero – a prescindere dalla paga e da un bottino allettante – una ricompensa celeste e, in caso di morte, addirittura l’immediato ingresso in paradiso.

Associazioni volontarie: un servizio militare generalizzato non esiste. Gli eserciti sono formati in genere da gruppi di musulmani maggiorenni, liberi e molto coraggiosi votati alla guerra sulla base di incentivi convincenti. Sorprendentemente un piccolo esercito (nessuna migrazione di massa di intere tribù, ma anche nessuna orda selvaggia), che poteva ricevere permanentemente dalla sua terra natale rifornimenti e rinforzi personali.

– Tattica convincente: essi operano nello stesso spazio su veloci cammelli e (all’inizio meno) su cavalli, battaglieri ed esperti, in numerose piccole unità autonome e ben formate. Ciò spiega l’inconsueta mobilità, l’elevata flessibilità e la rapida capacità di adattamento. Come forza militare complessiva, in questo modo sono difficili da sconfiggere, soprattutto per i lenti eserciti strutturati in modo tradizionale.86

 

Prima ondata di conquista e grande confronto con la cristianità

La cristiana Costantinopoli e la persiana Ctesifonte iniziano presto a percepire la superiorità musulmana. Poi accade il fatto sorprendente: gli arabi, dopo la prima vittoria sui bizantini del 634, appaiono capaci di avanzare quasi contemporaneamente in tre direzioni diverse! Tutto ciò nonostante, a quanto pare, essi non dispongono né di uno stato maggiore, né di un piano, né di una tattica militare ben concertata! Lo stesso califfo tuttavia, diversamente dal Profeta, non prende parte alle azioni di guerra. Il califfo ’Umar però si distingue almeno come grande stratega, in quanto lascia ai suoi comandanti sufficiente libertà d’azione militare e politica, per le loro conquiste (futūḥ). Quanto lontano arrivasse in realtà l’influsso del califfo non si riesce a definire con precisione a causa delle informazioni molto frammentarie, sia in merito ai movimenti delle truppe che alla diffusione delle notizie tra Medina e il «fronte»: da Medina alla Siria o all’Iraq sono pur sempre circa mille chilometri, allora percorribili in circa venti giorni.87 Tutto accade tuttavia in nome del costante presupposto che riconosce l’autorità del califfo, l’autorità del «comandante dei fedeli». Egli si trova al vertice di una coalizione, alla quale si associano ora alcune tribù arabe (inizialmente non ancora islamizzate) e i clan delle zone marginali.

La prima offensiva viene lanciata contro la provincia cristiano-bizantina della Siria: già nel 635 cade la capitale Damasco, subito dopo Baalbek e altre città siriache, mentre alcune, ben fortificate, oppongono una lunga resistenza. Ma il colpo decisivo viene inferto già nel 636 lungo il fiume Yarmūk che, a sud del lago Genezaret, sfocia nel Giordano. Dalla parte musulmana devono aver partecipato 20.000-40.000 guerrieri = muqātila (indicazione numerica da considerare però sempre con prudenza). Nel 638 viene conquistata anche Gerusalemme e questa città, santa per gli ebrei e per i cristiani, era destinata a rimanere musulmana, fino alla nostra epoca (un’interruzione si avrà solo nel secolo delle crociate). Chiamata al-Quds («il luogo santo»), Gerusalemme è «sacra» anche per i musulmani; dopo La Mecca e Medina è infatti la terza città santa dell’islam: luogo in cui si trova quella rupe su cui Abramo avrebbe quasi sacrificato suo figlio e luogo dal quale sarebbe partito Muḥammad, per intraprendere il suo viaggio celeste. Non si dimentichi a tal proposito che gli ebrei, i quali dopo la distruzione totale di Gerusalemme da parte dei romani, dal 135 non potevano più entrare in città (il divieto venne mantenuto dall’imperatore cristiano), proprio grazie ai musulmani ottengono di nuovo il permesso di entrare. Nessuna meraviglia dunque, se i pochi ebrei rimasti in Palestina percepiscono la conquista musulmana di questa terra come una liberazione. Due anni dopo Gerusalemme, cade anche la città portuale di Cesarea sul Mediterraneo, centro di alta formazione cristiana e di teologia, città che è legata alla prima scuola di teologia come scienza, all’alessandrino Origene, e ai nomi degli storici della chiesa Eusebio e Procopio, al dottore della chiesa Basilio il Grande. La biblioteca ecclesiastica di questo luogo, considerata la più ricca dell’antichità, viene annientata. Con la presa delle città siriane occidentali-nord mesopotamiche di Harran (legata ai racconti biblici dei patriarchi) e di Edessa, la conquista della Siria è terminata.

La seconda offensiva è rappresentata dalla conquista del regno sasanide (prima della Mesopotamia, poi della Persia), offensiva che comporta molte meno difficoltà. La battaglia decisiva tra arabi (con solo 6000-12000 uomini) e persiani avviene presso al-Qādisīya in Iraq, a sud-ovest di Hira, alla fine del 637, e da ciò consegue la conquista della capitale Ctesifonte. Nel 644 non solo Isfahan e altre città persiane, ma persino l’Azerbaijan, sono già stati conquistati. Con ciò l’impero persiano è distrutto, sebbene alcuni principati isolati oppongano resistenza agli arabi ancora a lungo e l’islamizzazione delle strutture amministrative duri in ogni caso alcuni secoli.88 L’ultimo re dei re persiano Yazdegerd III viene assassinato dalla sua stessa gente durante la fuga. Un accenno marginale: il fatto che l’ex shah persiano Reza Pahlawi, figlio di un comandante cosacco e golpista, nel XX secolo abbia inscenato a Persepoli un’ampollosa festa in occasione del giubileo della salita al trono di Ciro il Grande, per stabilizzare il proprio dominio e che, nel 1976, abbia voluto sostituire il calendario islamico («secondo l’Egira») con uno nuovo (2535 «dopo l’ascesa al trono di Ciro»), per riallacciarsi alle tradizioni dei grandi re persiani, consapevolmente richiamandosi a prima dell’islam, senza dubbio ha accelerato la sua caduta, che avviene tre anni più tardi per opera dell’ayatollah Khomeini, la guida sciita. Come se si potessero facilmente annullare più di 1300 anni di dominio islamico e annientare un modello sociale...

Nel 641 avviene la conquista dell’Egitto – una terza offensiva.89 E questo addirittura all’insaputa del califfo – solo per iniziativa del generale arabo ’Amr ibn al-’Āṣ. Si tratta di un esempio particolarmente chiaro di autonomia d’azione che verrà seguito in futuro da alcune truppe e dai loro comandanti, per ciò che riguarda sia la strategia di guerra, sia la stipulazione di contratti. L’Egitto, in quanto provincia bizantina, dopo la conquista della Siria viene separata da Bisanzio, e costituisce una facile preda per gli arabi; questo granaio di Bisanzio è infatti veramente poco urbanizzato e politicamente del tutto centralizzato. Per gli arabi, questo paese non è però solo importante per la sua vicinanza alla Mecca e a Medina, ma anche per i suoi cantieri navali e per la sua posizione strategica nei confronti dell’intero Nordafrica. Nel 643 capitola Alessandria, fondata da Alessandro Magno, capitale culturale del mondo di allora e centro dell’ellenismo ebraico e cristiano, luogo dove avevano operato filosofi e teologi come Filone, Clemente e Origene. La conquista della città viene salutata dai copti monofisiti come una liberazione dal giogo bizantino-ortodosso, analogamente a come era stata vista dagli ebrei la conquista di Gerusalemme.

Dopo la perdita della Siria e dell’Egitto, la cristiana Bisanzio è ridotta nella sua metà orientale all’Anatolia, la zona corrispondente circa all’odierna Turchia. L’Anatolia e i Balcani però costituiscono da sempre le due zone più ricche e più colonizzate dell’impero, così che si tenterà infine di riconquistare le province perdute, che erano state per sei secoli sotto il dominio romano, e per altri tre sotto quello romano-orientale cristiano. Gli arabi, dal canto loro, mirano tuttavia subito all’impero bizantino centrale: già nel 660 dinnanzi a Costantinopoli compare una flotta araba, la quale però deve ritirarsi con un nulla di fatto; nel 672 e altre due spedizioni nel 715-718 non portano a nulla. Nonostante ciò la situazione di Bisanzio è totalmente cambiata: l’antico confine tra l’Imperium Romanorum e l’impero persiano, l’Eufrate, è eliminato, ma se ne crea uno nuovo: tra l’Anatolia e la Siria che prima appartenevano allo stesso stato. Entrambi i cambiamenti di confine hanno come conseguenza la deviazione delle correnti commerciali e il trasferimento del baricentro economico.

Dopo tutte queste conquiste sorge una seconda domanda fondamentale: questo popolo del deserto, costituito dai compagni del Profeta, da mercanti e guerrieri meccani e da beduini poco disciplinati, come ha fatto a conquistare un regno così immenso, e anche a dominare così a lungo? La risposta si trova nella politica del califfo ’Umar e della élite musulmana.

 

Né assimilazione dei musulmani, né conversione dei cristiani

Alla caricatura dell’islam fatta dai cristiani, ancora oggi in circolazione, appartiene notoriamente l’idea che esso si sia diffuso solo attraverso «fuoco e spada». Al contrario, bisogna notare che la potenza araba, come sappiamo, si è diffusa su vasti territori, i quali prima furono cristiani (oppure zoroastriani), ma si tratta davvero di islamizzazione? A quell’epoca interi paesi e intere città, regioni e province forse si sono convertiti forzatamente all’islam? La storiografia musulmana non ne sa nulla e non avrebbe avuto alcun motivo per tacere. Ma anche la scienza storica occidentale non ha prove a sostegno. In realtà, tutto avvenne in maniera totalmente diversa – quantomeno in questo primo paradigma dell’islam: la dilatazione territoriale dello stato islamico non significa anche la diffusione delle idee proprie della religione islamica.

Fuori dai loro territori, i califfi non sono dei legislatori. Essi devono solo sorvegliare che vengano osservate le norme date dal Corano, dalle disposizioni, e dalla condotta del Profeta derivate. Tuttavia già nel 637 – la Siria era stata conquistata – il califfo ’Umar aveva fissato dei princìpi politici su consiglio dei membri più autorevoli della comunità medinese primitiva, princìpi che dovevano valere per i territori conquistati:

– si deve evitare che i beduini causino danni alla società agricola stanziale;

– i conquistatori arabi devono collaborare insieme ai capi, ai notabili e ai funzionari dei paesi conquistati;

– la penisola araba però deve essere abitata esclusivamente da musulmani. Gli ebrei e i cristiani che vivono qui, se non vogliono diventare musulmani, devono lasciare il paese.

Non si può determinare esattamente fino a che punto il solo califfo ’Umar sia il grande organizzatore. In ogni caso, sotto il suo dominio si riesce a rendere militarmente sicuri i territori conquistati, a renderli stabili sia finanziariamente che fiscalmente, e si riesce anche a portare avanti il loro sviluppo giuridico. L’introduzione del giudice, il qāḍī, e qualche integrazione delle dottrine obbligatorie e del diritto penale, saranno attribuite però a ’Umar solo più tardi, con l’intento di legittimarlo. Proprio in merito al rapporto tra musulmani e non musulmani al di fuori dell’Arabia, le regolamentazioni di allora hanno un doppio significato.

1. I musulmani nei territori conquistati non si devono assimilare agli abitanti, ma devono rimanere una casta militare elitaria. Gli arabi secondo l’idea di ’Umar devono essere una «nazione in armi» ed effettivamente essi esercitano un dominio militare nei territori conquistati. Il secondo califfo ottiene la loro protezione grazie all’allestimento di un grande accampamento militare (misr, pl. amsar) negli importanti snodi obbligati di traffico, dove i beduini (prima in tende poi in capanne) vengono per così dire «resi stanziali». Questo viene facilitato da un lato attraverso la fondazione di tre città di guarnigione del tutto nuove, collocate nelle posizioni strategicamente più importanti: Bassora nel Golfo Persico, Kufa sull’Eufrate e Fustat sul Nilo (antenata dell’odierna Il Cairo); dall’altro lato lo stanziamento di piccole o grandi città di guarnigione ai margini delle attuali città, nei luoghi antistanti o nei paesi.

’Umar agisce in modo che i suoi arabi, forse troppo impressionati dalle culture straniere, non siano corrotti nella loro essenza e allontanati dalla loro fede. In questi campi militari, più tardi città di guarnigione, l’esercito infatti doveva restare isolato: spartire il bottino, raccogliere le pubbliche imposte e, secondo certe regole, ripartire gli stipendi tra guerrieri e amministratori. Tutto ciò avveniva secondo un modello medinese: coloro che sono autorizzati a ricevere pagamenti, vengono registrati per nome in una lista di leva o di stipendio (dīwān), propria dell’esercito; dīwān più tardi diventa la denominazione per «autorità» e, in senso lato, anche per gli organi superiori dell’amministrazione. Le grandi proprietà terriere conquistate dovevano per principio appartenere del tutto ai musulmani. I conquistatori dovevano godere di una parte (spesso una metà) del raccolto delle regioni sottomesse. Questo sistema era inoltre legittimato dalla religione islamica. In tali condizioni la conversione dei non musulmani sottomessi poteva essere allora tra gli interessi dei conquistatori? Assolutamente no.

2. I non musulmani, infatti, non devono convertirsi all’islam, ma in primo luogo devono pagare le tasse (ğizya)90 ai conquistatori. L’islam veniva percepito come una religione araba, una religione per gli arabi e così doveva rimanere. Il prelievo economico, invece, è qualcos’altro. In questo caso i musulmani hanno pochi scrupoli, ma procedono in maniera intelligente. Dallo stesso Profeta hanno imparato che si deve trattare al momento giusto. E così, quando ci si sottomette politicamente a loro, mostrano una straordinaria prontezza contrattuale ed esperienza, che peraltro permettono spesso ai conquistati (fortemente appesantiti dalle imposte inflitte proprio da Bisanzio) di vivere meglio di prima. I musulmani avevano compreso che una stabilità economico-finanziaria del nuovo impero poteva essere raggiunta solo se l’ordine sociale e amministrativo precedente rimaneva il più possibile intatto, continuando a funzionare fino al livello del sistema tributario – ora però a favore del nuovo sovrano. Così si poterono raggiungere varie intese con gli assoggettati a seconda del paese e della situazione, si poterono pattuire contratti favorevoli anche per gli sconfitti, e le vecchie élite bizantine (o sasanidi) poterono essere integrate nel nuovo sistema. Senza queste ultime non sarebbe stato possibile mantenere un’amministrazione ordinata e una regolare riscossione tributaria. Finché i governatori nominati dal califfato, incaricati di guidare sia la preghiera rituale che la guerra, terranno tutto sotto controllo, come figure chiave insieme ai loro amministratori, tutto va bene.

E il fervore missionario-religioso della conversione? Un tal sentimento gli arabi non lo sviluppano. Da nessuna parte troviamo racconti di conversione di intere città, paesi o regioni, assolutamente nessuna indicazione di conversioni forzate. Si hanno invece resoconti secondo i quali agli arabi, che esigono solo modeste imposte, viene dato il benvenuto come liberatori in molti luoghi; al contrario i cristiani ortodossi bizantini sono eccezionalmente malvoluti dalle popolazioni di confessione monofisita o nestoriana in Egitto, in Siria e nella Mesopotamia.

Ovunque in questa prima fase della conquista, gli arabi mantengono una certa segregazione. Le conversioni non sono gradite; i bambini cristiani non possono leggere il Corano. Le conversioni significano la perdita dell’imposta; esse conducono per giunta a inutili problemi di status all’interno dell’élite musulmana e portano alla pretesa da parte dei neo-convertiti degli stessi privilegi fiscali. Inizialmente si accetta ancora la conversione di alcune tribù beduine arabo-cristiane delle zone marginali (altre restano cristiane), oppure la conversione di singoli personaggi importanti, ad esempio di funzionari, di scrittori, di soldati al servizio del nuovo signore. Questo numero fortemente in crescita dei neomusulmani di origine non araba (mawālī), benché non conduca a ottenere gli stessi diritti, contribuisce essenzialmente alla lenta islamizzazione delle istituzioni tradizionali. D’altro canto però, le conversioni dall’islam a un’altra religione sono severamente vietate e più tardi punite con la pena di morte.

In questo modo, il nuovo regime poteva mostrare tolleranza proprio al di fuori dell’Arabia. Gli «infedeli» in senso stretto, dunque i politeisti, dovevano essere convertiti, mentre non era richiesta la stessa cosa ai «possessori della Scrittura», coloro che possedevano una rivelazione. Lo stesso Profeta aveva dato l’esempio, quando aveva affidato alla «gente del Libro» – tra i quali ora erano annoverati anche gli zoroastriani in Iran – la coltivazione dei campi e da loro aveva preteso solo le imposte. Così, anche il regime del califfato decideva di non toccare i non musulmani dei paesi conquistati – in pratica tutti i cristiani, zoroastriani ed ebrei. Certamente questo aiutò a riorganizzare molte chiese cristiane locali – ad esempio quella nestoriana dell’Iraq e quella copta in Egitto.

Questa tolleranza viene esercitata tuttavia sulla base di una stretta subordinazione:

  • i musulmani governano i non musulmani e li «proteggono» attraverso la concessione dell’autonomia religiosa e politica per i singoli paesi. I non musulmani hanno lo status di «minoranza protetta»; essi godono di autonomia interna; corpo, vita e proprietà dei «protetti» (ḏimmī) sono difesi;
  • i non musulmani sono e rimangono però cittadini di seconda classe, in genere esclusi dagli alti ranghi del governo anche quando costituiscono la grande maggioranza della popolazione. In qualità di contadini, mercanti, operai essi pagano le imposte (tassa pro capite, locazione del terreno, altre imposte), mentre i musulmani le distribuiscono (come agenti, amministratori, amministratori di terre, soldati). Però i non musulmani sono esentati anche dal servizio militare e dal contributo sociale (zakāt).

In Egitto l’intera amministrazione fiscale fino al XIII-XIV secolo fu però nelle mani di funzionari cristiano-copti, come anche in Siria (qui c’erano anche molti ebrei), così che questi dovettero sopportare anche le numerose lamentele dei sudditi musulmani sugli oneri fiscali. Tutto sommato, questa tolleranza con subordinazione è una forma di compromesso tra conquistatori e conquistati, come si usava sempre nelle conquiste di zone stanziali da parte di popolazioni nomadi. Tale separazione, voluta da ’Umar, poteva essere mantenuta? Questo secondo califfo, famoso per la sua devozione, la sua moderazione e il suo senso di giustizia, il califfo che ancora oggi rappresenta il modello ideale di sovrano musulmano, dopo solo dieci anni moriva improvvisamente: ’Umar fu assassinato nel novembre 644, assassinato, si dice, da uno schiavo insoddisfatto. Il «successore dell’inviato di Dio» nonché «comandante dei fedeli» – ucciso da uno schiavo! Per i musulmani è un avvenimento scioccante. Questo non sarebbe rimasto l’unico assassinio politico di un califfo...

6. ALBORI DELLA TEOLOGIA ISLAMICA E DEL DIRITTO MUSULMANO

Cosa sarebbe avvenuto se i compagni e gli «aiutanti» del Profeta avessero potuto mantenere a Medina la politica araba su una rotta strettamente islamica? Inizialmente sembra che accada proprio questo, poiché ’Umar, immediatamente prima della sua uccisione, deve aver provveduto alla sua successione introducendo un collegio di sei consiglieri (šūrā). A questo collegio appartenevano anche i due principali aspiranti alla sua successione: da un lato ’Alī ibn abi Tālib, cugino e genero di Muḥammad; dall’altro ’Utmān ibn ’Affān, già presente all’emigrazione in Etiopia e poi a Medina, anch’egli un genero del Profeta. Costui, un ricco commerciante, proviene però dalla potente famiglia meccana degli Umayya, considerata a lungo nemica.

 

Al posto della politica islamica, una politica meccana:Uṯmān, il terzo califfo

’Uṯmān ibn ’Affān (644-656), in sé un candidato ideale per la conciliazione delle due tendenze – «meccana» o «islamica» – all’interno della comunità musulmana, viene eletto nel 644, e rimane a tutt’oggi una figura controversa. Questo ha poco a che fare con il fatto che la grande ondata di conquista, sotto questo terzo califfo, per la prima volta si indebolisca. La Siria, la Palestina, il Basso Egitto, l’Iraq e la Persia occidentale appartengono già al regno arabo, e ’Uṯmān, dopo che anche le zone più remote dell’impero persiano (soprattutto l’Armenia) sono state conquistate e dopo che le prime offensive nel Nordafrica, attraverso Tripoli (conquistata ancora sotto ’Umar nel 643) lungo le coste del Mediterraneo, hanno avuto buon esito, non nutre evidentemente altre ambizioni di politica estera. È chiaro che ’Uṯmān non desidera passare alla storia come un grande conquistatore, diversamente dal suo predecessore.

Il terzo califfo è perciò maggiormente contestato, perché a lui viene rinfacciato di aver interrotto la direzione politica interna di ’Umar e di avere, almeno nella seconda parte della sua gestione durata dodici anni, dato priorità agli interessi della sua famiglia, gli Omayyadi e a quelli di altre ricche famiglie meccane. Egli avrebbe tradito così i compagni del Profeta e i medinesi. In effetti ciò è incontestabile: ’Uṯmān, nelle fonti indicato come sovrano devoto, indulgente e flessibile, fa rotta verso una direzione accentratrice, che concretamente significa che i membri di un clan in passato dirigente, i Quraiš innanzitutto, furono promossi a governatori; tra essi non pochi si dimostrarono incapaci e furono coinvolti in scandali. Le entrate delle province furono suddivise a favore del grande clan, da poco insediatosi. Al contempo, sulle entrate fu aumentato il controllo finanziario centrale del califfato e fu richiesto un resoconto delle proprietà terriere statali (ṣawāfī) conquistate.

A discolpa di ’Uṯmān si può dire che con l’andare del tempo egli riesce a malapena a circoscrivere alla Mecca le élite quraisite e a malapena è in grado di tenerle lontane dalle cariche di potere nelle province. Però più diminuisce l’autorità di questo califfo poco efficiente, maggiormente egli ricorre alle antiche consuetudini tribali arabe e si affida ai membri della propria grande famiglia. Egli fa poco per opporsi al loro lusso, al loro edonismo e alle loro deviazioni. C’è accordo sul fatto che ’Uṯmān non rappresenti l’energica guida politica di cui si sentiva il bisogno. In ogni caso, egli dimostra di non essere all’altezza di provvedere a una ripartizione equa e corretta del gigantesco bottino di guerra. Permette alla coalizione pre-islamica tra aristocratici tribali meccani e arabi, di rialzare la testa a scapito degli elementi specificamente islamici, ed esige per il califfato una maggiore autorità negli affari finanziari e sociali, senza poterne usufruire in modo adeguato.

All’accusa di nepotismo però si aggiunge un ulteriore elemento: l’accentramento dell’amministrazione e delle finanze è accompagnato da una – talvolta non benvenuta – standardizzazione del Corano.

 

Dall’oralità alla codificazione: il Corano come libro

Come è già stato mostrato (cfr. cap. B I, 2), il Corano fu inizialmente annunciato e recitato in singole sure (probabilmente già le singole rivelazioni venivano chiamate «Corano»). Solo più tardi, le singole parti furono raccolte e pubblicate in un libro, che ora si chiama «il Corano». Proprio questa raccolta e questa edizione avviene per ordine del califfo ’Uṯmān, attraverso una commissione di redazione – eludendo palesemente i recitanti e i lettori del Corano (qurra’), figure finora stabili. Ciò che dapprima sembra un atto puramente religioso, attuato per non dimenticare il testo esatto e per eliminare le differenze tra le varie letture, possiede senza dubbio anche un significato politico, dal momento che in questo modo il califfo esautorò quei lettori del Corano, quei «custodi» del Libro sacro, che erano riconosciuti come autorità religiose e indirettamente anche politiche, perché essi recitavano oralmente il Corano e in questo modo lo potevano mantenere vivo.

Ma a quale scopo venne fatta una redazione del Corano? I critici di ’Uṯmān la interpretarono come un ulteriore elemento a favore di una strategia accentratrice completa.

  • La struttura politica fondata da Muḥammad era una confederazione e, per atto politico unitario, doveva fare riferimento all’articolazione in tribù. Lo stato su cui punta il terzo califfo ’Uṯmān invece doveva essere molto più accentratore, per permettere al califfato di realizzare i necessari cambiamenti economici, sociali e religiosi.
  • Il Corano inizialmente veniva recitato da molti e il Profeta non aveva dato alcuna direttiva circa la diffusione di un libro, anche se avrebbe potuto prevedere tale possibilità. Invece l’edizione del libro del Corano da parte di ’Uṯmān ora serve in ogni caso per la standardizzazione della religione e per l’accentramento della guida politica.

Non si giunge però a un’organizzazione clericale né a una sorta di chiesa. In questo primo paradigma, si può parlare solo in modo limitato di una teologia e di un sistema legislativo.

 

Una teologia islamica?

All’epoca del Profeta, il Corano non esisteva ancora come libro, ma solo, come gli studiosi moderni – poco devoti – sono soliti dire, come «materiale coranico»; detto in modo più adeguato: esistevano singole «rivelazioni coraniche». In queste rivelazioni però le argomentazioni procedono in modo del tutto dialettico, partendo da una situazione di dialogo per contrapposizioni: «Di’: colui che...; essi dicono:...; allora di’:...».91 Questo stile dialettico di pensiero non si trova solo nell’«ambiente» della prima comunità musulmana, ma anche nella pratica della disputa dell’antica retorica e da qui presso i cristiani, gli ebrei e i manichei; lo si ritrova nel Corano stesso. Per questo i musulmani erano del tutto preparati alle dispute e da qui a una matura teologia controversistica.92

Ma il principale studioso di teologia islamica classica, Josef van Ess, afferma che né all’epoca in cui la comunità islamica primitiva va costituendosi, né nel momento in cui essa va espandendosi, si trova una teologia controversistica: «chiari segnali della preparazione di dispute e dell’uso mirato di gente istruita a sostenerle, li abbiamo solo dall’epoca dei disordini, poco prima della caduta degli Omayyadi».93 E anche questo vale ancora per la prima epoca dell’islam: accanto alla «Scrittura», non si fa stabilire ancora nessuna «tradizione»; oltre alla letteratura biografica (cfr. B II, 2), non c’è ancora nessuna raccolta di detti o episodi del Profeta. La letteratura cosiddetta degli ḥadīṯ appare solo più tardi.

Un confronto con il Nuovo Testamento potrebbe essere d’aiuto, dal momento che in esso è già presente la teologia. Tuttavia il «Libro sacro» dei cristiani ha fondamentalmente un altro carattere, rispetto al Libro sacro dei musulmani. Il Nuovo Testamento, secondo la propria concezione di sé, contiene infatti le testimonianze umane della parola e dell’azione di Dio, comunicate attraverso Gesù Cristo e, in quanto umane, queste testimonianze contengono anche già determinate spiegazioni dell’unica e della stessa storia di salvezza. Già i tre Vangeli sinottici (notoriamente codificati solo tra il IV e il V secolo dopo la morte di Gesù) e spesso anche la tradizione della prima comunità (in parte risalente a Gesù) in essi raccolta e assimilata, sono permeati di determinate concezioni teologiche. Certo ciò vale anche per il quarto Vangelo di Giovanni, il quale interpreta la vita, le parole e la morte di Gesù in maniera profondamente originale, ma che viene scritto più di sessant’anni dopo la morte di Gesù.94 Già due decine di anni buoni dopo la resurrezione, appaiono le lettere dell’apostolo Paolo, il quale ora spiega il percorso e l’opera di Gesù nel linguaggio delle grandi concezioni teologiche, comprensibile al suo pubblico ellenistico, con tutte le conseguenze per le comunità e per i singoli che ciò comporta. Egli anticipa così il passaggio dal paradigma giudeocristiano (P I cristiano) a quello pagano-cristiano-ellenistico (P II) cristiano.

Nel Corano invece non si trova alcuna interpretazione umana del messaggio trasmesso al profeta Muḥammad da Dio. Secondo la concezione religiosa musulmana, il Corano è dall’inizio alla fine direttamente il messaggio divino, dal primo fino all’ultimo versetto è la Parola di Dio. In questo sta la grande difficoltà: le varie rivelazioni coraniche ora, sotto ’Uṯmān, vengono accolte nel libro del Corano, senza alcun ordine di contenuto, solo secondo la lunghezza puramente esteriore della sura. Così per i musulmani riflessivi si impone fin dall’inizio il provocatorio compito di presentare il messaggio coranico come internamente armonioso e di mostrarlo agli uomini in una sintesi generalmente comprensibile. Ma cosa determina nel Corano ciò che è decisivo e ciò che non lo è? E soprattutto: come devono essere risolte le apparenti contraddizioni per la ragione umana? Oppure esse non devono affatto essere risolte?

Una cosa è sicura: nel Corano stesso non si tratta, come forse avverrà nella tarda teologia, di un sofisticato questionare, bensì si tratta semplicemente di Dio e degli uomini, più precisamente: di Dio, il Signore e della responsabilità dell’uomo. Questa è una questione centrale tanto per la vita quotidiana del musulmano quanto per l’alta politica: come si rapportano, dal momento che il Corano (menzionato qui nel cap. B II,1) sottolinea entrambe, l’onnipotenza del creatore e la libertà dell’uomo? È veramente tutto predeterminato da Dio – oppure è tutto riposto nella responsabilità dell’uomo? Come osserva Tilman Nagel nella sua Storia della teologia islamica, questo è il problema centrale: «Essi lottavano per risolvere il problema centrale per antonomasia, il quale era stato assegnato dal Corano ai musulmani – di pensare alla causalità interna al mondo, e con essa alla responsabilità dell’agire, in connessione con la sempre presente onnipotenza dell’unico creatore.»95

 

Germi di teologia locale

Anche durante la prima fase di espansione dell’islam, dopo la morte del Profeta, si trova a stento ciò che tradizionalmente viene chiamata teologia. E alla luce della concentrazione dell’intera nazione araba rivolta alla conquista, ciò non sorprende. La base di una teologia islamica viene posta solo con l’edizione del libro del Corano. Tale fatto crea i presupposti per una esegesi (tafsīr) costituita da metodi e regole – e dunque per un rapporto riflessivo con la rivelazione. Josef van Ess nota che evidentemente la stessa parola qurrā’non venne inizialmente usata solo per coloro che recitano il Corano, ma soprattutto per i musulmani che ricevono una formazione religiosa.96 Lo stesso concetto riferito all’esperto di religione (’ālim, pl. ’ulamā’ = «avere il sapere»), non esiste ancora come concetto generale. Si potrà dire solo che in questo paradigma si prepara, nei migliori dei casi gradualmente, la differenziazione della formazione religiosa:

esegeti (mufassirūn), competenti per la spiegazione del Corano;

giuristi (fuqahā’), competenti per l’utilizzo delle norme giuridiche presenti nel Corano, spesso in contraddizione con il diritto consuetudinario;

esperti della tradizione (muḥaddiṯūn), autorizzati alla raccolta e alla spiegazione della tradizione (sunna = «racconto, tradizione»), che si va lentamente formando accanto al Corano.

Con la sunna, o tradizione, in questa epoca non si intende ancora, come avverrà più tardi, i detti più significativi e gli atti dello stesso Profeta; la «sunna del Profeta» (sunnat an-nabī), come corpus contenente esempi specifici, allora non c’era ancora.97 Con sunna si intende in modo del tutto generico l’uso locale: l’antica usanza di una città o di una regione (la sunna di Medina, di Kufa, di Bassora ...). Già il secondo califfo ’Umar però deve aver ammonito contro una crescita incontrollata della tradizione orale, come si trova nella Mishnah ebraica con tutte le opinioni dei rabbini. Dal punto di vista del califfo è comprensibile che egli stesso voglia mantenere il controllo della spiegazione e non desideri farsi vincolare da una tradizione con troppa autorità. 98 D’altra parte, probabilmente già in concomitanza con la successione di ’Umar e con i contrasti che ora si aprono, si pone per ’Uṯmān la domanda, se e in che senso le disposizioni dei primi califfi corrispondano alla «sunna del Profeta» e se siano di conseguenza vincolanti oppure no.

Le fazioni partitiche, che ora si formano in opposizione al califfo reggente, hanno fondamentalmente due possibilità per motivare teologicamente la loro opposizione: esse si possono richiamare direttamente al Corano (scritturismo fondamentale), come fecero i califfi, per il rifiuto di certe tradizioni locali accettate (forse la pena della lapidazione); oppure possono condurre in campo ben determinati detti ed episodi del Profeta come autorità. La domanda si pone subito: tutte queste tradizioni del Profeta ora sempre più diffuse sono vere? Un metodo per distinguerle in questa epoca non c’è ancora. Ḥadīṯ, il termine usato per questa tradizione del Profeta viene utilizzato solo nel paradigma seguente. Ciò nonostante, la ricerca occidentale critica non deve escludere dall’inizio che anche in questa epoca venissero trasmessi ḥadīṯ autentici che in quella successiva continuarono a essere tramandati.

Dalla prospettiva attuale, durante l’indagine degli albori della teologia islamica, deve essere assolutamente evitato un errore clamoroso: di assumere come immagine conduttrice, consciamente o inconsciamente, una teologia «ortodossa», pretendendo che sia obbligatoria per tutti. Una tale teologia non può esistere in questa epoca. Poiché la comunità primitiva, a causa delle conquiste, in seguito si era dispersa nei territori conquistati, si era giunti volontariamente a una «diaspora» (dispersione) nel senso letterale del termine; i suoi membri ora operano nei nuovi centri tra loro giustamente diversi. Josef van Ess lo ha mostrato in dettaglio nella sua grande opera sulla teologia islamica classica, attraverso il suo «metodo prosopografico» (che presuppone la dialettica tra persone e strutture). Durante i conflitti per la successione del Profeta, alla fine di questa «epoca d’oro» dell’islam, naturalmente non si è formata nessuna teologia unitaria, bensì si formano movimenti religiosi basati su teologie ideate in modo germinale, i quali dal punto di vista delle fonti islamiche successive sembreranno movimenti settari.

Tuttavia, in ciascuno dei luoghi nei quali si formano, queste correnti religiose e le loro teologie vengono in genere considerate del tutto «ortodosse». Ciò significa: l’ortodossia esiste dapprima in modo locale e basta a se stessa. Chi avrebbe potuto ottenere già un consenso vincolante tra questi centri e gruppi, diversi e lontani tra loro? Un «magistero» islamico universale non esiste, né c’è un «concilio ecumenico», come presso i cristiani. Ma questo è per forza uno svantaggio?

Come per la teologia cristiana, anche per quella islamica va considerato che la sua «storia dei dogmi» è stata scritta dai vincitori! I vinti non hanno mai ragione. Ma è sempre vero? Solo quando, nella storia della teologia islamica – come anche in quella della teologia cristiana – non si guarda subito tutto attraverso le lenti dell’ortodossia più tarda, si è in grado ancora di scorgere il vero significato della teologia più primitiva. E ancora alla fine di questa epoca esiste comunque solo ciò che può essere chiamata una «teologia implicita» (van Ess). Ma, e questa è un’altra domanda, a che punto è il diritto islamico? Il suo sviluppo non è continuato?

 

Manca ancora un sistema giuridico specificamente islamico

Accanto alla sunna come uso locale, ora senza dubbio si forma lentamente anche una sunna grazie a scelte giuridiche di base fatte dai califfi nella pienezza dei propri poteri. Il diritto consuetudinario pre-islamico con la sua giurisdizione arbitrale, quale era stato accolto in abbondanza già dal Profeta stesso, viene naturalmente di nuovo modificato e concretizzato. Tuttavia i califfi, in qualità di guida politica della comunità islamica, esercitano sempre meno la funzione di giudice arbitrale, e sempre più – poiché amministrazione e legislazione si uniscono – quella di legislatore. Ma si noti bene: la loro attività legislativa forse non si rivolge generalmente verso il diritto consuetudinario arabo, ma innanzitutto verso l’organizzazione dei territori conquistati, e dunque a favore degli arabi. Nel diritto penale vengono introdotti alcuni isolati irrigidimenti: forse è usata la frusta per gli autori di poesie satiriche contro altre tribù, nonché la lapidazione, in ogni caso non prescritta nel Corano (probabilmente introdotta sotto l’influsso della Torah ebraica) per i rapporti sessuali non permessi – una novità dirompente con effetti fatali visibili ancora ai giorni nostri.

Se certamente i primi califfi non avevano ancora insediato i propri giudici musulmani, i qāḍī, è tuttavia dimostrato che la presunta istruzione di ’Umar, per i qāḍī, avviene un secolo più tardi. Sotto i primi califfi non è stato ancora fondato uno specifico sistema islamico di leggi, così che anche qui vale ciò che dice il principale studioso dello sviluppo del diritto islamico, Joseph Schacht: «Durante la maggior parte del primo secolo (islamico) non esisteva ancora il diritto islamico nel significato tecnico del termine. Come già all’epoca del Profeta, il diritto rappresentava qualcosa al di fuori della sfera della religione, e nella misura in cui non fosse sollevata nessuna obiezione religiosa o morale contro certe occupazioni o comportamenti, i musulmani restavano indifferenti agli aspetti tecnici del diritto».99

Il Corano è poco più che un preambolo, una premessa a un testo legislativo islamico. Naturalmente ci si domanda come si poteva allora rinunciare a regolamentazioni specifiche islamiche. Per un semplice motivo: come è già stato mostrato, gli arabi adottavano, le istituzioni e le pratiche giuridiche e amministrative proprie delle zone conquistate, le quali erano culturalmente ben sviluppate, di quei territori romano-bizantini e persiano-sasanidi. Come avvenne prima tra i romani e i greci, i conquistatori arabi, superiori militarmente, impararono dai conquistati bizantini o persiani, superiori culturalmente: in merito al sistema fiscale, al trattamento dei seguaci di altre religioni, all’allestimento di fondazioni (waqf), e riguardo a molto altro.

I musulmani non hanno adottato solo istituzioni e pratiche giuridiche, ma anche determinati concetti giuridici e principi, metodi d’argomentazione e idee base; forse anche l’idea giuridica romana della «opinio prudentium», dell’opinione del conoscitore, come modello per il concetto di «consenso degli esperti», che più tardi divenne veramente importante. Perciò, una scienza giuridica specificamente musulmana non serve. Come intermediari naturali, durante questo primo processo non pianificato, operano i neomusulmani, non arabi istruiti. Essi portano, insieme all’educazione ellenistica (la «retorica»!) ovunque diffusa nei paesi della Mezzaluna fertile, anche una struttura giuridica per lo meno elementare, che – spesso nelle importanti posizioni amministrative di comando – torna utile al nuovo ordine. Così nel diritto islamico nascente, si possono osservare concetti e principi propri del diritto romano-bizantino, di quello rabbinico-talmudico e infine persino del diritto persiano-sasanide.100 Ora però lasciamo da parte la teologia e il diritto, e affrontiamo la storia politica.

7. LA GRANDE CRISI DELLA COMUNITÀ PRIMITIVA: SCISSIONE IN FAZIONI

«Setta» (firqa) in arabo indica semplicemente un gruppo religioso o ideologico chiuso in se stesso, mentre in tedesco [come anche in italiano] tale termine possiede un’accezione negativa e di sapore ereticale. Tuttavia non sono le controversie per la «retta fede» la causa della scissione in due; o meglio in tre «fazioni», avvenuta nella umma musulmana. Il motivo è piuttosto un dissidio in merito all’eredità del ruolo dirigente del Profeta, motivo che condurrà a una fatale guerra civile, la prima dell’intera storia dell’islam. Fondamentalmente si trattò della questione relativa alla successione profetica: chi è il vero successore del Profeta nella funzione di guida dei credenti?

 

Alī, il quarto califfo – controverso

L’accentramento spesso distrugge l’unità che vorrebbe favorire. Anche qui, è proprio questo il caso. A causa della politica accentratrice del califfo ’Uṯmān, cresce il malcontento, dapprima a Kufa, poi in Egitto; nel 656 vi sono riunioni di scontenti persino a Medina, e nella sola Fustat protestano circa duecento persone. Il conflitto si inasprisce: ci si muove in massa verso la dimora del califfo e lo si accusa ad alta voce di nepotismo e di sperperare il denaro pubblico. Seguono lunghe negoziazioni, ma infine è il gruppo proveniente dall’Egitto a risolvere brutalmente la questione: prende d’assalto la casa e uccide il califfo ’Uṯmān.

È facile immaginare lo shock: per la seconda volta il «sostituto dell’inviato di Dio» è stato assassinato, e in questa occasione non da uno schiavo frustrato o esaltato, come nel caso di ’Umar, bensì dagli stessi compagni di fede del califfo! Questo fatto passerà alla storia islamica come il «il grande scisma» (al-fitna al-kubrā) dei fedeli. Esso mette radicalmente in dubbio l’unità della comunità musulmana: la umma rimarrà scissa sino ai giorni nostri. Come si giunge a tanto?

A molti, in quel momento, appare intollerabile il fatto che ’Alī ibn abī Ṭālib101 (656-661) venga eletto come successore di ’Uṯmān. Durante l’elezione del primo e del secondo califfo egli non era stato seriamente preso in considerazione, perché ancora troppo giovane. Durante l’elezione del terzo, aveva contribuito come elettore all’affermazione di ’Uṯmān (tuttavia con i suoi quarantacinque anni era ancora troppo giovane, in confronto ad un quasi settantenne).102 Adesso però, come cugino e genero del Profeta e come uno dei primi meccani ad essersi convertito, viene eletto califfo: non a causa di una designazione o di un diritto ereditario, ma per volontà di quelle forze medinesi che volevano riportare al potere l’originaria élite aristocratica contro gli aristocratici meccani, divenuti già troppo potenti. Così ’Alī diventa califfo nonostante alcune controversie e dimostra di essere un uomo assolutamente capace ed energico: destituisce diversi governatori incapaci, saliti al potere per volontà di ’Uṯmān – con grande disappunto della famiglia omayyade. Interviene anche contro ’Uṯmān, in merito al controllo accentrato sulla persona del califfo per le entrate provenienti dalle province, e si adopera per una spartizione equa delle entrate tributarie e del bottino di guerra.

Ma l’elezione di ’Alī a califfo contiene un peccato originale e rappresenta un errore fatale. Agli occhi di qualcuno egli è già screditato perché – invece di arrestare e di punire gli assassini di ’Uṯmān – è stato eletto proprio grazie al loro sostegno. Questo fa sorgere in molti un sentimento di vendetta, il sentimento arabo della vendetta di sangue. Colui che più di tutti cova tale desiderio di vendetta è il cugino di ’Uṯmān, l’omayyade Mu’āwiya ibn abī Sufyān, il potente governatore musulmano della Siria con sede a Damasco. Il suo esercito era arrivato troppo tardi in sostegno di ’Uṯmān, ma dopo l’elezione di ’Alī rifiuta di rendergli omaggio e si solleva contro di lui, sostenuto in questo da Siria ed Egitto. Solo una minoranza avrebbe votato e i notabili delle province non sarebbero stati consultati (evidentemente i membri del clan degli Omayyadi erano fuggiti da Medina dopo l’uccisione di ’Uṯmān); l’arresto degli assassini del califfo e la loro dura punizione sarebbero stati indispensabili.

Come potrebbe ’Alī arrestare coloro che lo avevano eletto? Egli si trova in una situazione intricata. Però non è isolato; all’inizio deve certamente avere avuto con sé la maggior parte degli arabi, non solo quei guerrieri tribali stanziati a Kufa (e in Egitto), ma anche quei medinesi e i loro discendenti che a causa di ’Uṯmān si sono visti estromessi dalla politica meccana di potere. Tuttavia, più passa il tempo, più cresce il disaccordo a Medina tra ’Alī e i compagni del Profeta, e tra lui e i loro discendenti. E poiché ’Alī trova i primissimi sostenitori nella città di guarnigione sull’Eufrate, contro ogni tradizione precedente sposta la residenza del califfo a Kufa, un luogo al di fuori dell’Arabia. Una decisione carica di conseguenze e un sintomo della profonda crisi del paradigma della comunità islamica primitiva (P I), che procurerà inevitabilmente un cambiamento di paradigma.

  • Naturalmente La Mecca rimane il centro religioso dell’islam e la Ka’ba il suo santuario centrale. Il centro politico però, il governo dello stato islamico, si trova per la prima volta (e rimarrà per sempre) al di fuori dell’Arabia, la quale diventa periferia.
  • Per la prima volta eserciti musulmani si trovano gli uni di fronte agli altri (cosa che all’epoca del Profeta sarebbe stato impensabile). Una guerra tra fedeli è in contraddizione con il Corano.

Prima guerra civile

L’intero califfato di ’Alī è accompagnato dalla guerra civile (fitna103 = confusione, secessione, prova), un’incomparabile tragedia: così verrà percepita dal suo «partito» (šī’a). In maniera un po’ schematica si potrebbe dire dunque che ’Alī trionfa nel primo atto di questo dramma, nel secondo ottiene soltanto un pareggio e nel terzo subisce una sconfitta definitiva.

Primo atto nel 656: contro ’Alī e contro il suo corso politico si pone la vedova del Profeta e figlia di Abū Bakr, ’Ā’iša, donna molto influente alla Mecca; più tardi si aggiungono due aristocratici meccani e importanti compagni del Profeta: Ṭalḥa e Zubayr, parenti della prima moglie di Muḥammad, Ḫadīğa. Insieme a sostenitori armati, si dirigono verso l’Iraq del sud, per sobillare le città di Kufa e di Bassora contro ’Alī. Il califfo deve dunque dirigersi verso l’Iraq e nella famosa «battaglia del cammello» presso Bassora, egli batte i suoi avversari. Ṭalḥa e Zubayr cadono, la vedova del Profeta, viene fatta prigioniera e rimandata a Medina; rimarrà a lungo l’ultima musulmana che ha potuto avere un influsso di tale portata nelle questioni pubbliche.

Secondo atto nel 657: l’omayyade Mu’āwiya, avversario molto pericoloso, raggiunge con il suo esercito le truppe di ’Alī nell’alto Eufrate, a est di Aleppo, presso Ṣiffīn. Nonostante settimane di scontri, la disputa termina alla pari. Si riunisce una commissione per chiarire se l’assassinio di ’Uṯmān fosse giustificato oppure no.

Terzo atto nel 659: l’arbitrato (le notizie in merito sono confuse), dopo lunghe negoziazioni e violente dispute, decide a favore di Mu’āwiya e, dunque, per una nuova votazione del califfo. Proprio per questo alcuni dei membri del partito di ’Alī, in particolare tutti quei vecchi combattenti che hanno speso la propria vita per l’islam, si sentono profondamente delusi da lui: egli si sottometterebbe a un giudizio degli uomini invece che al solo giudizio divino.

Gli oppositori indignati abbandonano le città di Bassora e Kufa. Questi «secessionisti» o ḫariğīti (ḫawãriğ, da ḫarağa = uscire, allontanarsi) si raccolgono sul canale di Nahrawan sul Tigri. Qui vengono assaliti e decimati dal califfo. Da questo momento i ḫariğīti, originariamente i fedelissimi seguaci di ’Alī, diverranno i suoi avversari più accaniti. Proprio uno di loro attua allora, infine, la vendetta di sangue nei confronti dello sfortunato quarto califfo: nel 661 ’Alī viene pugnalato con una lama avvelenata presso la porta di una moschea a Kufa, e muore tra le sofferenze pochi giorni dopo. Dalla metà dell’VIII secolo, la tomba di ’Alī viene mostrata al pubblico presso Najaf, a sud di Baghdad, pochi chilometri a ovest di Kufa, da allora luogo centrale di pellegrinaggio degli sciiti. L’ayatollah Khomeini, esiliato dall’Iran, dal 1965 al 1978 insegnerà all’Università di teologia di Najaf e qui preparerà la rivoluzione islamica.104 Questo sarà anche il centro della resistenza sciita contro l’occupazione americana dell’Iraq nel 2003-2004.

 

La scissione tra sunniti, ḫariğīti e sciiti

I musulmani si dividono proprio su ’Alī. È al suo nome che fa riferimento la più importante fazione finora esistente: «partito di ’Alī» (šī’at ’Alī), oggi abbreviato con shia. Questi «sciiti» sono del parere che ’Alī sarebbe stato designato già dal Profeta stesso, durante il ritorno dal «pellegrinaggio d’addio» presso lo stagno di Humm il 16 marzo 632 (adottato più tardi come giorno di festa sciita annuale), come «patrono» e capo supremo (imām) della umma. Invece secondo l’interpretazione sunnita delle stesse parole del Profeta, Muḥammad voleva solo proteggere ’Alī poiché, essendo troppo severo, era poco amato; anche in questo caso molto rimane oscuro a causa della scarsità delle fonti storiche.105

Una cosa è certa: Mu’āwiya risulta il vincitore e con lui gli Omayyadi. Secondo la decisione della commissione, il governatore della Siria si fa eleggere califfo nel 660 nella città santa di Gerusalemme e prega in questa occasione sul Golgota, nel giardino di Getsemani e sulla tomba di Maria. Dopo l’uccisione di ’Alī, il suo califfato viene riconosciuto quasi ovunque, e diventerà il primo califfato di un altro paradigma dell’islam (P II).

In ogni caso si conclude la disputa relativa alla successione del Profeta, alla direzione della umma e alla questione della legittimazione. Cosa doveva essere determinante in futuro per la successione? I primi meriti ottenuti a favore dell’islam (sābiqa) oppure la vicinanza genealogica al Profeta (nasab) e alla sua famiglia? Questa è la domanda principale. A causa di tre diverse teorie sul califfato e diverse concezioni sul dominio, l’unità della umma si rompe106 e si delineano tre fazioni (pl. firaq) contrastanti:

  • quella sunnita, che rappresenta ancora oggi la maggioranza (circa 90 per cento) dei musulmani e che si mantiene fedele alla «sunna», alla «tradizione»: per i sunniti la successione del Profeta è rimessa alla votazione della comunità islamica e per questa via ai suoi rappresentanti competenti. Perciò i sunniti riconoscono tutti e quattro i califfi di Medina. Li definiranno, molto più avanti, i «califfi ben guidati»: l’incarnazione della sovranità ideale;
  • quella sciita, la minoranza (oggi rappresenta circa il 10 per cento della popolazione musulmana mondiale, concentrato soprattutto in Iran, Iraq e in Libano): per questa fazione la successione del Profeta dipende dall’ordine divino e dall’annunciazione da parte dello stesso Muḥammad. Perciò gli sciiti riconoscono solo ’Alī come legittimo successore prescelto da Dio e designato, secondo ciò che si dice, dallo stesso Profeta. Dopo di lui riconoscono i membri della sua discendenza, i quali adempiono alle esigenze pratiche, gli imam;
  • la fazione dei ḫariğīti, che a causa della sua linea puritana per lungo tempo scatenerà dure lotte contro i califfi sunniti. Oggi, divenuti pacifici, i ḫariğīti sono diffusi tra i berberi, a Zanzibar e soprattutto in Oman: il califfo non deve semplicemente discendere dai Quraiš (così la sunna), né semplicemente essere un discendente di Muḥammad o di ’Alī (così la shia), bensì il successore, indipendentemente da qualsiasi appartenenza tribale o familiare, deve essere il migliore musulmano.

Alla luce di questa così prematura scissione della grande comunità musulmana, scissione che anche oggi continua ad avere così tanti effetti negativi, e alla luce dell’idealismo più tardo proprio della «epoca d’oro», il quale ostacola il superamento della scissione, sorgono alcune domande.

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Domande inerenti la scissione dell’islam

  • Tre dei quattro califfi «ben guidati" sono stati assassinati e innumerevoli sono le lotte tribali arabe, nelle quali l’onore e la vendetta venivano collocati al di sopra di ogni cosa, e scorrevano dunque fiumi di sangue. In ogni caso la vendetta di sangue non appartiene alla sostanza dell’islam, ma è un portato arabo-beduino, dunque non può essere un mezzo legale in un ordine giuridico moderno. La vendetta di sangue, proveniente dall’epoca pre-islamica e dalla società dell’epoca precedente l’islam, non è una sanzione penale che a quel tempo ha provocato gravi conflitti, piuttosto che evitarli?
  • Diritti e doveri del califfo, il modo e la maniera della successione e l’intera struttura di potere – tutto ciò non era ancora ben stabilito nella parte politica finale di questo primo paradigma musulmano. Ci si chiede: il Corano non ha escluso una scissione della comunità e una tale separazionei l’ha vista all’opera solo presso gli «infedeli», soprattutto presso i cristiani? L’idea politica originale dell’islam non era l’unità e la solidarietà della comunità di Muḥammad? Allora la contesa circa la successione del Profeta deve dividere la umma per sempre, dal momento che il califfato da molto tempo comunque non esiste più?
  • Il principio genealogico-tribale (sunniti: il califfo è un membro dei Quraiš!), il principio genealogico-personale (sciiti: un discendente di ’Alī!) e il principio carismatico ḫariğīti: il più degno!) dovranno eternamente gareggiare l’uno contro l’altro? La scissione deve essere perpetuata all’infinito?

Ricordo dell’epoca d’oro

Dalla crisi fondamentale dell’islam nascerà un nuovo paradigma. Tuttavia né gli sciiti, né i ḫariğīti saranno in grado di dar forma alle strutture dominanti per la umma dell’epoca seguente, né saranno loro a determinare con decisione il paradigma nascente. Queste due correnti restano importanti come movimenti di opposizione, piene di vitalità all’interno dell’unico paradigma islamico. Per molto tempo ancora, proprio gli sciiti vivranno in stretto contatto con la schiacciante maggioranza sunnita e solo molto più tardi si costituiranno come società separata e chiusa in se stessa. Gli insegnamenti positivi del diritto islamico nascente – prescindendo dal diritto ereditario (differenziato per motivi ideologici) della cosiddetta «shia dei dodici», che tratteremo – vengono sostenuti anche dagli sciiti e dai ḫariğīti. E anche nella teologia ci sono innumerevoli collegamenti trasversali. Infatti, entrambi i gruppi di opposizione sono molto più distanti l’uno dall’altro di quanto non siano distanti dalla maggioranza sunnita.

Come vedremo, per la maggior parte dei musulmani il paradigma della comunità islamica primitiva rimarrà nella memoria come l’epoca d’oro dell’islam: allora il mondo dell’islam era ancora in ordine, allora la comunità era ancora unita, guidata nello spirito dell’islam, prima dal Profeta stesso e poi dai califfi «ben guidati». Nonostante ciò, si volle dare per la deplorevole scissione una spiegazione, che costituì la condizione di partenza per la storiografia islamica. I cronisti musulmani raccontano in genere con una certa disinvoltura i conflitti e le violenze di questa epoca; ci si domandava in che modo dei buoni musulmani avrebbero potuto far meglio: questo era il punto di partenza per la teoria politica islamica. Nonostante tutti gli elementi negativi, la comunità primitiva rimase un modello; ci si pose allora la domanda circa i criteri religiosi, circa la volontà di Dio e la responsabilità dell’uomo. Proprio questa domanda costituirà il problema di fondo della teologia islamica.107 Così la comunità primitiva rimase l’istanza a cui appellarsi, per le diverse tradizioni, e in modo del tutto particolare, per i movimenti islamici di rinnovamento.

L’epoca d’oro era però definitivamente conclusa. Alla crisi sarebbe seguito un cambiamento di paradigma.

II. Il paradigma del regno arabo

Chi avrebbe potuto immaginare, mezzo secolo dopo l’Egira, che l’Arabia, il paese d’origine dell’islam, si riducesse a semplice periferia, tornando a essere un paese di secondo piano, lontano dagli avvenimenti politici importanti? La Mecca, grande luogo di pellegrinaggio, era ora esclusa dalle importanti rotte del traffico. Medina era diventata il rifugio dei conservatori devoti, i quali non volevano partecipare al nuovo sviluppo, preferendo restare nel paradigma islamico primitivo (P I). Ma anche nell’islam non si può fermare il tempo.

1. DA MEDINA A DAMASCO: IL NUOVO CENTRO DEL POTERE

A un cristiano viene in mente, a questo punto, il giudeo-cristianesimo (P I del cristianesimo). Dopo la distruzione di Gerusalemme questo movimento aveva perso il suo centro e si era disperso nelle vastità del deserto siriaco, in Mesopotamia e forse anche nella penisola araba – smembrato dai sovvertimenti rivoluzionari che, in seguito, il cristianesimo ellenistico-bizantino (P II cristiano) avrebbe portato con sé. Ora, nell’islam ci troviamo dinanzi a un sovvertimento non meno profondo. Certo, per i devoti conservatori quella che ha ora luogo in Arabia è una trasformazione dell’intera costellazione, che non sentono propria e che perciò rifiutano, accelerata e influenzata dall’incontro con la cultura ellenistico-bizantina: un passaggio dal paradigma della comunità islamica originaria (P I) al paradigma del regno arabo (P II). Lo studioso Donald P. Little (Montréal) rileva che «durante il dominio del primo califfo, a Medina l’uso della tradizione tribale e della prassi di Muḥammad, come risorse per governare un gigantesco impero, erano diventate evidentemente inadeguate». La soluzione consisteva nella «imitazione dei processi amministrativi, sviluppati durante i secoli di dominio romano e bizantino».1

 

Gli Omayyadi salgono al potere: Mu’āwiya

Un chiaro indizio di questo cambiamento di paradigma è senz’altro lo spostamento del centro di potere politico e religioso. Esso prese forme diverse e godette di stabilità per quasi un secolo. A Medina, la città del deserto, non subentra una città qualsiasi – dopo l’episodio di Kufa come residenza di ’Alī – bensì un’antichissima città di cultura, circondata dai rilievi dell’Antilibano, una città che ha una storia lunga quattro millenni: Damasco (Dimašq).2

Menzionata per la prima volta nel 1470 a.C. come conquista del faraone Thutmosis III, questa città-oasi è stata sottomessa per breve tempo dal re David e, all’epoca del re Salomone, è divenuta la capitale del grande regno armeno. Ha subito il dominio siriaco, persiano, ellenistico-seleucide e arabo-nabateo, ma anche quello dei romani e dei bizantini. Come capitale della provincia bizantina di Siria e come luogo strategico a oriente dell’impero, Damasco aveva già dal IV secolo una sede episcopale cristiana; nel 634 cade tuttavia nelle mani degli arabi e diventa la residenza del governatore musulmano di Siria.

Damasco è ora il centro di una nuova dinastia araba che dominerà sull’immenso impero degli arabi esattamente per ottantanove anni (661-750) e di cui faranno parte ben quattordici califfi. Gli avvenimenti rivoluzionari sono già stati raccontati: Mu’āwiya3 del clan degli Omayyadi (Banū Umayya), in qualità di governatore della Siria, aveva rifiutato di essere vassallo del quarto califfo ’Alī, aveva reclamato per se stesso il titolo di califfo, aveva combattuto per esso, aveva vinto e infine si era fatto proclamare califfo. Veniva così introdotto un cambiamento di paradigma:

  • Invece dei compagni del Profeta e della élite musulmana antica, ora domina per quasi un secolo la dinastia degli Omayyadi. Questi però avevano aderito all’islam per opportunismo, solo dopo la conquista della Mecca.
  • Invece che sulla religione e sulla teologia dell’islam, gli interessi dei califfi omayyadi si concentrano sulla guida politica e sull’amministrazione organizzata del nuovo regno.
  • Invece dell’Arabia, ora è la Siria ad avere la supremazia dal punto di vista politico e religioso. Qui si trova la santa Gerusalemme, qui operarono i profeti ebrei e cristiani, e qui ora hanno la loro sede i califfi.
  • Invece di Medina, la città del deserto, è la siriaca Damasco, la città della cultura, il centro politico dell’impero arabo-islamico e contemporaneamente è la capitale dell’islam: vittoria dello stato urbano sulla struttura beduina.
  • Invece delle tradizioni sasanidi, con le quali si vedono confrontati gli arabi dell’Iraq, in tutto l’impero operano le tradizioni bizantine, le quali vengono accolte dagli arabi siriaci.

Mu’āwiya è il figlio del più significativo avversario meccano di Muḥammad, Abū Sufyān, proveniente dal clan degli ’Abd Šams, nemico del Profeta. Proprio in segno di conciliazione egli era stato assunto come scriba del Profeta, aveva comandato poi l’avanguardia dell’esercito di conquista di suo fratello Yazīd verso la Siria e, dopo la morte prematura di suo fratello, era diventato dal 640 governatore della Siria. Egli viene infine riconosciuto come califfo dalla grande maggioranza dei musulmani, non perché omayyade, ma perché nei momenti difficili aveva dimostrato di essere l’uomo giusto al posto giusto; inoltre, in quanto governatore della Siria, era da tempo l’uomo più potente della umma.

In Siria Mu’āwiya aveva trovato uno stato di cose bizantino relativamente ordinato, lasciandolo intatto. Qui egli dispone di un grande potere interno e di forze militari disciplinate, stanziate a seconda delle tribù di appartenenza nelle varie piccole città di guarnigione. Così Mu’āwiya riesce in pochi anni a costituire un esercito tanto potente quanto leale, formato da soldati tribali, e in più una flotta guerriera, la quale non solo respinge tutte le offensive bizantine, ma è anche in grado di conquistare Cipro (672) e Rodi (674) e di bloccare a Costantinopoli per sette anni l’accesso marittimo.

Sotto la sua guida, il dominio arabo riesce a estendersi notevolmente: da un lato nel Nordafrica fino all’odierna Tunisia, dove la nuova città di guarnigione, Kairouan (al-Qairawan) diventerà presto il punto di partenza per le campagne di conquista. Dall’altro lato verso est, dove il confine dell’islam viene spostato fino all’Oxus, e il Khorasan iranico nord-orientale diventa una provincia omayyade. Ma anche laddove non ci sono molte possibilità di conquista, ad esempio in Anatolia, dove la catena montuosa del Tauro costituisce per Bisanzio un muro di protezione naturale, Mu’āwiya provvede a mantenere combattive le truppe mediante razzie e piccole campagne militari.

Forse nessun altro califfo più di Mu’āwiya ha messo in pratica in modo così energico e persistente le esortazioni del Profeta al ǧihād contro gli infedeli, un ǧihād che non interpreta solo come uno sforzo morale o come una guerra di difesa, come pure sarebbe possibile, ma come una battaglia di fede, considerata in Siria non solo una buona azione – come fu nello Ḥiǧāz – ma anche un dovere di ogni singolo musulmano. Persino nella scienza giuridica, le questioni relative alla guerra sono in primo piano. Tutte le città sul Mediterraneo come Askalon, Tiro, Beirut, Byblos e Tripoli sono città di guarnigione ed esse stesse si considerano una sentinella alla frontiera, di fronte alla superiore flotta bizantina. Anche il servizio divino e l’ascetismo sono in stretto legame con la battaglia di fede, la quale, come dice un ḥadīṯ, è «il monachesimo dell’islam».4

 

Si sviluppa una monarchia accentratrice

Le basi del potere di Mu’āwiya sono e restano le tribù arabe, in particolare la confederazione tribale dei Quḍā’a, la quale viene guidata dalla tribù bellicosa dei Kalb; questa era diventata cristiana ma era indipendente da Bisanzio e di confessione monofisita. Mu’āwiya non perde tempo e sposa la figlia del principe tribale, la quale partorisce poi il suo successore al trono Yazīd. All’epoca esisteva in Siria ancora una popolazione cristiana numericamente forte; solo il ceto ecclesiastico superiore (i «melchiti», «monarchici») se n’erano andati a Bisanzio. Risoluto, Mu’āwiya sollecita l’ampliamento della forza militare e amministrativa dello stato, ma lo fa con grande talento e intelligente moderazione, non nelle vesti del principe assoluto, bensì, per così dire, come un sommo patriarca tribale degli arabi. Egli coltiva uno stile di governo che, attraverso le tradizionali virtù arabe della trattativa e della negoziazione, è ispirato alla magnanimità e al rispetto per le forme della tradizione tribale. Sembra che egli abbia perciò direttamente adottato per il suo governo due istituzioni tribali:

– il consiglio dei notabili (šūrā) convocato dal califfo per la consultazione;

– le delegazioni (wufūd) delle tribù, che regolarmente orientano il califfo verso le loro richieste.

In questo modo Mu’āwiya assorbe i capi tribù (ašrāf) nel processo di consultazione, facendo mostra di un grande talento nella negoziazione: la capacità di rispettare la dignità altrui, rendendo però impossibile sin dall’inizio un’opposizione. È famoso il suo ḥilm: la sua clemenza, la sua tranquillità, la sua calma e il suo autocontrollo, con cui disarma gli oppositori.

Ma Mu’āwiya è consapevole dei pericoli del particolarismo tribale beduino e dell’anarchia araba. Pur nel massimo rispetto delle strutture tribali, procede perciò ad accelerare la strutturazione dell’impero adottando modelli di amministrazione romani e bizantini, e inizia a servirsi dell’apparato amministrativo bizantino per l’accentramento delle strutture tribali esistenti. Lui e il suo successore «adottano l’amministrazione disponibile e praticano il dominio indiretto delle loro stesse tribù».5 Anche se tutto si mantiene ancora nell’usuale cornice siriaca, a Damasco viene dato il via alla burocratizzazione dello stato islamico, soprattutto per facilitare la comunicazione con le province imperiali molto lontane. Questo avviene attraverso:

– l’allestimento di una cancelleria (dīwān al-hatam);

– l’allestimento di un servizio postale (barīd).

 

L’affermazione del principio dinastico

Così, in un periodo di reggenza lungo quasi venti anni (661-680), il califfo riesce a unire, praticando una «collegialità», interessi tribali fortemente particolaristici con le esigenze di uno stato governato in modo sempre più centralizzato. Egli esercita direttamente il suo dominio in Siria, mentre in Iraq lascia agire i suoi fedeli governatori in modo autonomo, pur non perdendo il controllo su queste zone. Qui la situazione è diventata agitata e difficile a causa dei fanatici ḫāriǧiti in Iraq, da sempre rivoltosi; essi operano spesso in piccole bande territoriali (in gruppi, tra i trenta e i cento uomini) e conducono una guerra santa contro il califfo, che considerano «illegittimo». Contemporaneamente devono essere tenuti a freno gli sciiti, che iniziano a formare un’opposizione da prendere sul serio, della quale dovremo parlare ancora.

Non dimentichiamo inoltre che molte posizioni chiave all’interno della burocrazia, che si stava sviluppando (che in ogni caso era siriaca e non imperiale), sono occupate tradizionalmente da cristiani, ed esistono cristiani che, nell’insieme, apprezzano molto la politica interna del califfo, equa e pacifica, che permetterà all’impero due secoli di tranquillo sviluppo. Così testimonia il monaco nestoriano Giovanni da Phenek, un contemporaneo di Mu’āwiya, proveniente dalla Mesopotamia settentrionale: «Durante la sua epoca fiorisce la giustizia, e regna una grande pace nelle regioni sotto il suo controllo. [...] Appena salì al trono Mu’āwiya, in tutto il mondo ci fu una tale pace come noi non abbiamo mai visto o sentito, né dai nostri genitori, né dai nostri nonni, e che non aveva alcun precedente conosciuto».6

Come testimonia per la prima volta il suo antico predecessore, l’omayyade ’Uṯmān, Mu’āwiya porta non solo il titolo di «sostituto del profeta», ma anche quello di «sostituto di Dio» (ḥalīfat Allāh) sulla terra, e assume così, come ha evidenziato la ricerca,7 non solo l’autorità politica ma anche quella religiosa. Tuttavia i diritti e doveri del califfo, la sua legittimità e la sua struttura di dominio sono ancora poco stabili in questo momento. Mu’āwiya è però abbastanza intelligente per non mettere in gioco la sua legittimazione divina e la sua stessa autorità: preferisce una politica efficiente a una teatralità sacrale. Certamente, anche il suo califfato rimane una teocrazia che, attraverso l’adozione delle forme e delle strutture bizantine e persiane, viene rafforzata e adattata alla nuova situazione. Ma proprio per questo motivo il califfato assume, contemporaneamente, una sfumatura «regale» più secolare. Storici musulmani più recenti, che in epoca abbaside dipingono comunque volentieri i precedenti Omayyadi come non islamici, preferiscono chiamare Mu’āwiya con il termine puramente laico di «re» (malik), piuttosto che con quello religioso di «califfo».

Il carattere senza dubbio più secolare del califfato di Mu’āwiya, ma anche le sue straordinarie qualità di comando, si esprimono chiaramente nella regolamentazione della sua successione. Sebbene gli arabi non abbiano alcuna tradizione monarchica egli riesce ancora in vita a far riconoscere come suo successore, mediante «vassallaggio», il figlio Yazīd; senza dubbio non è estraneo a questo successo il fatto che la madre di Yazīd provenga dal clan dei Kalb, che governano la confederazione tribale. E sebbene i concittadini non ritengano affatto che il suo califfato debba per forza determinare una successione omayyade, egli stabilisce che così sia. Nei successivi settant’anni gli succederanno ben tredici califfi omayyadi, sia che si tratti dei rispettivi figli (in cinque casi), sia di un cugino o di altri parenti. Infatti i diritti collettivi della famiglia regnante hanno la precedenza sul diritto individuale di un parente: l’ignoranza della successione può causare dispute per l’eredità.8

La ricerca islamica e quella occidentale si trovano d’accordo sul fatto che, dopo l’epoca di Muḥammad e dei quattro califfi «ben guidati» (P I), l’intera costellazione era profondamente cambiata: «Mu’āwiya ha trasformato il califfato in una istituzione monarchica di tipo persiano o bizantino, dunque proprio in quella istituzione che i musulmani erano stati mandati a distruggere».9

In altre parole: attraverso i cambiamenti della struttura politica attuati da Mu’āwiya è stato fondato un nuovo paradigma dell’islam (P II).

  • Al posto di una confederazione di tribù, si costituisce un regno sotto forma di una monarchia accentratrice.
  • Invece che per acclamazione, come avveniva prima, adesso la successione del Profeta viene regolata basandosi sul principio dinastico, finora sconosciuto nell’islam. Vale la successione (anche se con una certa libertà d’azione nel determinare il successore) – indipendentemente dalle qualità personali (contro la concezione harigita) o dall’appartenenza alla famiglia o alla tribù (contro la concezione sciita).
  • Il principio dinastico però solleva la questione della legittimità di un successore del Profeta scelto in questo modo. Così gli Omayyadi appaiono a molti devoti non come legittimi successori, ma come «usurpatori» del potere; non come califfi, ma appunto solo come «sovrani».
  • Il califfato in questa nuova costellazione, sebbene «supplenza di Dio», mostra un carattere più secolare che religioso.

Mu’āwiya, questo sovrano dalla straordinaria superiorità spirituale, dalla inconsueta energia e intelligenza, ha unificato il regno arabo e così ha creato il presupposto per il consolidamento politico e militare dei territori conquistati due decenni prima. Grazie al legame tra l’ideale religioso islamico e il potere del governo omayyade egli crea la cornice per una nuova società arabo-musulmana. Al contempo, la lunga durata del suo regno riesce a celare i problemi intrinseci dell’impero, ma non a risolverli: troppo grande è il risentimento dei medinesi contro il potere degli Umayya venuti dalla Mecca, troppo grandi le molteplici tensioni tra i diversi gruppi tribali, ma soprattutto troppo grande l’aspirazione degli sciiti a occupare il califfato. L’opposizione sciita si fa sentire sin dall’inizio, in modo particolare in Iraq.

2. L’OPPOSIZIONE SCIITA

Nessun principio dinastico e nessuna autorità centrale sono in grado di dissuadere il «partito di ’Alῑ» dall’idea che il califfato non appartenga legittimamente agli Omayyadi, ma che sia di ’Alῑ e adesso – poiché’Alῑ è morto troppo presto – del suo primogenito Ḥasan. Questo nipote del Profeta e figlio di ’Alῑ rinuncia al califfato, e al suo posto subentra il figlio più giovane di ’Alῑ, Ḥusayn, il quale viene ucciso altrettanto tragicamente nella lotta per il califfato. Dobbiamo ora raccontare la sua storia in modo coinciso perché essa, per milioni di musulmani, in particolare quelli sciiti, anche oggi appartiene al «passato onnipresente».10 Parliamo prima di tutto del primogenito.

 

Ḥusayn – prototipo di tutti i martiri

Quando Mu’āwiya entra a Kufa, al-Ḥasan ibn ’Alῑ11 viene a rendergli omaggio, e nella moschea rinuncia pubblicamente al califfato. Il figlio di ’Alῑ, ora trentaseienne, abbandona perciò l’Iraq e fino alla morte (avvenuta a Medina nel 670 o 678) condurrà, secondo le successive narrazioni sunnite, una vita lussuriosa e allegra – grazie ai suoi innumerevoli matrimoni (si parla da 60 a 90 mogli e da 300 a 400 concubine) e grazie alla numerosa discendenza verrà chiamato «detentore del record di divorzi» (al-mitlaq). Tuttavia secondo la versione sciita, Ḥasan – indicato già da suo padre ’Alῑ come successore – non avrebbe rinunciato al califfato, ma sarebbe stato avvelenato da Mu’āwiya. Nei successivi testi sciiti la storia di Hasan verrà descritta in modo sempre più altisonante, come un fatto prodigioso.

La famiglia del Profeta

La famiglia del Profeta

Con l’«anno della riunificazione della comunità islamica», nel 661 inizia nelle debite forme il califfato di Mu’āwiya; tuttavia rimane viva la resistenza sciita contro gli Omayyadi. Nel 671 il governatore di Kufa fa arrestare alcuni esponenti e li porta a Damasco, dove vengono giustiziati. Però la rivolta pubblica scoppia solo quando Mu’āwiya, poco prima della sua morte nel 680, come abbiamo visto, riconosce come successore suo figlio Yazῑd, il quale porterà avanti in qualità di califfo (680-683) l’efficiente politica del padre.12 Gli sciiti di Kufa sono ora decisi all’azione. Le loro speranze risiedono nel figlio più giovane di ’Alī, al-Ḥusayn ibn ’Alī (626-680), che nel frattempo ha compiuto cinquantaquattro anni.13 Vengono presi con lui contatti segreti e viene invitato a Kufa, per essere proclamato califfo; nonostante tutti gli avvertimenti, Ḥusayn si avvia. L’impresa appare ricca di avventure, poiché Ḥusayn si sposta dalla Mecca verso l’Iraq con l’intera famiglia, ma con pochi fedeli – sulla strada del pellegrinaggio attraverso l’Arabia.

Appena giunto in Iraq, la schiera formata da forse cinquanta persone viene localizzata delle truppe di governo, seguita e infine circondata. Il governatore di Kufa esige che Ḥusayn renda omaggio a Yazīd in quanto califfo. Egli si rifiuta e, insieme alla sua piccola schiera di persone, rafforzata solo da alcuni abitanti di Kufa, è costretto a fronteggiare uno scontro armato nelle vicinanze di Kerbala (Karbala’),14 80 chilometri a sud di Baghdad. Una catastrofe: Ḥusayn, suo figlio maggiore e tutti gli uomini che li accompagnano vengono massacrati e scompare così già nel 680 la maggior parte dei diretti discendenti maschi di Muḥammad. Vengono sepolti a Kerbala, ma le loro teste mozzate vengono portate a Kufa insieme alle donne e ai bambini che erano al seguito. Ma non è tutto: la testa di Ḥusayn, prima di essere restituita ai seguaci, viene mandata a Damasco, dove subisce atti di scherno da parte dei sostenitori di Yazīd. Dove si trovi ora, nessuno lo sa con certezza: se è a Kerbala, dove è sepolto il suo corpo, oppure a Damasco, o a Askalon, o al Cairo, oppure in un altro luogo. In ogni caso la sua testa viene ancora oggi venerata anche a Medina, a Najaf e a Marw, e il riconoscimento di Ḥusayn diventa centrale per il «partito di ’Alī».

 

Una vera «confessione»: la shia (šī’a)

Se non si fosse trattato di Ḥusayn e della sua famiglia, questa morte non sarebbe stata considerata troppo importante. Ma qui si sta parlando dell’unico figlio rimasto dell’unica figlia ancora in vita del Profeta! E così, d’ora in poi, la morte di Ḥusayn non solo verrà fantasiosamente abbellita ed esaltata come un «martirio», ma anche la sua nascita e la sua infanzia diventeranno leggenda. Certo, per il partito di ’Alī, gli sciiti, il nipote del Profeta diventa nell’islam oggetto di un singolare culto dei martiri, paragonabile a tutte le venerazioni dei martiri del medioevo cristiano e che ricorda persino, espressamente, la venerazione del crocefisso. Ha senso usare qui, in proposito, il concetto di «confessione», altrimenti consueto solo nel cristianesimo. Questi fedeli vedono ora in Ḥusayn il simbolo di tutti i sofferenti: il «principe dei martiri» (sayyid aš-šuhadā’), il quale come Cristo ha percorso consapevolmente la via verso la propria morte, per mostrare agli uomini la vera strada. Alcuni versi del Corano vengono interpretati ora richiamandosi a Ḥusayn e al suo destino.

Per contro, il profeta Muḥammad, al quale si richiamano anche i sunniti, passa in seconda linea. Certamente anche ’Alī viene venerato dagli sciiti. Sebbene sia descritto come un uomo corpulento e miope, dalla «testa pelata», anche dai testi sciiti, incarna però, come «leone» e «padre della polvere» tutte le virtù dei giovani; egli non è solo il modello del valore, ma anche dell’eloquenza. Ma il nipote del Profeta, Ḥusayn, agli sciiti sta molto più a cuore del padre, che non discendeva dal Profeta e non subì una morte così degna di pietà. Non deve perciò stupire il fatto che la tomba di Ḥusayn a Kerbala, con la sua imponente moschea, diventi il luogo di pellegrinaggio preferito dagli sciiti. Non deve neppure stupire che il giorno della morte di Ḥusayn, il decimo del mese di muharram dell’anno 61 dall’Egira (il 10 ottobre 680 d.C.), diventi più tardi l’annuale anniversario pubblico del giorno di lutto (‘āšūrā’). Per «Ḥusayn, figlio di Fāṭima, il martire» non valgono solo le preghiere, gli inni e i canti, ma anche alcune rappresentazioni della passione (ta’ziya) che spesso sono associate a processioni e all’autoflagellazione dei partecipanti.

Ma dove sono le radici spirituali della shia? Precedentemente, alcuni ricercatori occidentali sostenevano che la shia, oggi notoriamente diffusa soprattutto in Iran e nell’Iraq del sud, fosse il prodotto di una spiritualità iranica, una vendetta dell’iranicità ariana nei confronti degli arabi e dell’islam. Si è invece imposta l’interpretazione di Ignaz Goldziher secondo la quale lo sciismo, nato nell’ambiente arabo di Kufa, «nelle sue radici (è) tanto arabo, quanto l’islam stesso».15 La shia non è perciò un movimento al di fuori del paradigma proprio dell’impero arabo. Essa, che certamente tende molto fortemente al califfato senza mai conquistarlo, è piuttosto, come già sostiene Julius Wellhausen nella sua analisi che inaugura la ricerca scientifica relativa alla shia, un «partito politico-religioso di opposizione all’interno dell’antico islam».16

  • La spaccatura della umma, nata già dalla lotta con ’Alī, venne aggravata; con la morte violenta di Ḥusayn, il figlio di Fāṭima, venerato in tutte le epoche come martire, pare che la scissione diventi eterna.
  • La shia ora si è definitivamente stabilita come «confessione» propria, con la propria professione e il proprio culto: ’Alī proclamato solo vero califfo e imam della shia, e Ḥusayn come suo primo testimone.
  • Il principio dinastico viene battuto dall’opposizione sciita attraverso il diretto richiamo alla famiglia del Profeta: al posto della dinastia ereditaria dei califfi omayyadi, la successione degli imam (capi spirituali).
  • La shia, perciò, può essere considerata come un movimento di opposizione all’interno del paradigma del regno arabo (P II).

Con la morte di Ḥusayn, il sogno sciita di regnare sulla umma viene inizialmente infranto, ma la battaglia continua, poiché gli sciiti rimangono delle proprie convinzioni: come successore legittimo del Profeta, come «imam», possono essere riconosciute solo queste quattro persone (lo specialista in fatto di shia, Heinz Halm parla di shia dei «quattro»): ’Alī, Ḥasan, Ḥusayn e Muḥammad, di cui si parlerà in seguito.

 

Il nuovo apportatore di speranza dell’opposizione: il mahdi: seconda guerra civile

Ḥusayn, il rivale, è morto: adesso però per il califfo Yazīd risulta ancora più pericolosa l’opposizione di ’Abdallah ibn az-Zubayr, rappresentante del primato della Mecca e dell’aristocrazia quraisita. Questi, che aveva combattuto accanto a suo padre già nella «battaglia del cammello» contro ’Alī, è in grado, fuori dalla città santa della Mecca, dove era fuggito dopo il rifiuto del vassallaggio, di radunare in segreto un esercito, di presentarsi come un anti-califfo e di trascinare con sé una gran parte del mondo islamico (almeno nominalmente). Si giunge alla seconda guerra civile che dovrà durare dodici anni (680-692). Le truppe di Yazīd però riescono a sconfiggere i sostenitori di ’Abdallah a Medina, poi ad assediare La Mecca e persino a incendiare la Ka’ba, cosa che riesce soltanto a rafforzare l’idea, ampiamente diffusa, che gli Omayyadi siano fondamentalmente atei. A conferma di questo vale anche l’inaspettata morte di Yazīd (fine del 683), dopo la quale le truppe d’assedio si ritirano, ma ancor più vale la morte improvvisa del suo giovanissimo figlio e successore, Mu’āwiya II (684). Ibn az-Zubayr deve solo ringraziare i successivi disaccordi all’interno della dinastia omayyade e le tensioni tra le tribù yemenite e qaisite in Siria, che fanno cessare provvisoriamente gli attacchi e gli permettono di restare al potere pur sempre per dodici anni.

Gli sciiti di Kufa però muovono comunque contro gli Omayyadi, sono quei «penitenti» (tauwābūn), che vogliono espiare la morte di Ḥusayn con la spada e al grido di «vendetta per al-Ḥusayn». La marcia di circa 400 arabi sciiti da tutto l’Iraq verso la Siria, benché avessero trascorso un giorno e una notte presso la tomba di Ḥusayn piangendo e implorando, termina però nuovamente con una catastrofe: all’inizio del 685 vengono annientati a Kerbala dalle truppe governative.

Un analogo destino toccherà in sorte due anni più tardi al nuovo rappresentante dei «penitenti» rimasto a Kufa, al-Muḫtār,17un rivoltoso originario di Ṭa’if, favorevole ad ’Alī, quando si scaglia contro il governatore di Kufa. Più precisamente, egli riesce a dominare per un anno sia la città che la cittadella mantenendo una dittatura fondata sulla violenza e, dopo una «controrivoluzione», riesce a ordinare l’esecuzione capitale per tutti coloro che erano stati ritenuti colpevoli del massacro di Kerbala. Nel 687 viene però sconfitto da una legione del governatore di Bassora; Muḫtār e molti guerrieri tribali arabi cadono. Pagano col sangue anche numerose persone non arabe, convertite all’islam, come clienti (mawālī), operai, artigiani, che avevano sostenuto Muḫtār solo per il miglioramento del proprio stato giuridico e finanziario.

Ciò che importa è il retroterra ideologico di questo movimento. Muḫtār e i suoi seguaci fanno riferimento, per ottenere aiuto, a un personaggio: Muḥammad, il terzo figlio di ’Alī,18 che viveva nella lontana Medina. In lui essi scorgono il quarto imam, il legittimo successore del Profeta, dopo ’Alī, Ḥasan e Ḥusayn. Tuttavia Muḫtār probabilmente sottovaluta il fatto che Muḥammad non è un vero discendente del Profeta, dal momento che egli è il frutto del matrimonio di ’Alī con una donna hanafita (perciò: Muḥammad ibn al-Ḥanafīya) e per questo la sua autorità è indebolita. Proprio per questo Muḥammad stesso non si lascia prendere in giochi di potere; non vuole aver nulla a che fare con la rivolta di Kufa e resta a Medina, sebbene a Kufa sia già pronto un trono per lui. Ma Muḫtār sostiene fermamente che Muḥammad, a differenza dei due califfi «mal guidati» (l’omayyade a Damasco e l’anti-califfo Ibn az-Zubayr alla Mecca), è il «ben guidato», arabo: al-Mahdī (da hadā = condurre, guidare).19 Questa è l’origine del titolo di mahdi, storicamente ricco di conseguenze.

Questo non ha però più nulla a che fare con Muḥammad ibn al-Ḥanafīya, che condanna espressamente la rivolta di Kufa dopo il suo fallimento e, alla fine del controcaliffato nel 692, si reca dalla Mecca a Damasco per rendere omaggio al califfo appena salito in carica, il quale sarebbe anch’egli diventato un grande, ’Abd al-Malik. Nel 700 Muḥammad muore a Medina. L’idea del mahdi però continua a sopravvivere tra gli sciiti e qui subisce una trasformazione straordinaria.

Inizialmente questo titolo non aveva alcun significato escatologico, e indicava semplicemente il califfo legittimo o imam. Ma dopo la morte di Muḥammad ibn al-Ḥanafīya, tra gli sciiti di Kufa (che erano ridotti in clandestinità in vista del rigido regime dei governatori omayyadi) si radica sempre più la convinzione che il mahdi annunciato da Muḫtàr non sia morto, ma si sia soltanto allontanato dal mondo. Egli vive nascosto in una voragine della montagna Raḍwā, presso Medina, sorvegliato e nutrito da animali selvaggi. Da là ritornerà presto per stabilire il suo dominio e con esso il vero islam! «Allontanamento», «assenza», «ritorno» del vero imam: nella shia questa idea in realtà si è sviluppata sempre più a partire dall’VIII secolo. Infatti, anche se era presente sin dall’inizio anche presso i sunniti,20 adesso esprime un carattere messianico: l’avvento di un sovrano terrestre che ristabilirà la giustizia della prima epoca. Molti musulmani aspettano ancora oggi il ritorno del mahdi...

Fino a che punto questo processo risenta di influssi ebraici, cristiani, gnostici e iranici è difficile da stabilire ma – alla luce della presenza di numerosi mawālῑ non arabi – essi non vanno esclusi. Certo è solo che gli sciiti dei «quattro» si restringono infine in piccoli gruppi, mentre la maggior parte degli sciiti si rivolge ad altri imam.

– Gli sciiti dei «cinque» detti zaiditi si sono già separati con Zaid ibn ’Alī considerato il quinto imam.

– Gli sciiti dei «sette» o ismailiti riconoscono anche un settimo imam nella persona di Isma’īl (morto nel 765), figlio di Ğa‘far asṢādiq; grazie ai Karmati e ai Fatimidi essi raggiungono una grande diffusione nel X-XI secolo, ma vengono repressi dagli Ayyubidi e dai Selgiuchidi; ne restano oggi solo alcuni manipoli, come i Drusi del Vicino Oriente e i Nizari dell’India, i quali riconoscono l’Aga Khan come capo supremo. L’odierno Aga Khan, Karim al-Ḥusayn Schah, è conosciuto soprattutto grazie alla sua attività umanitaria.21

– Gli sciiti dei «dodici» detti imamiti – soprattutto in Iran – sono per ampiezza il gruppo più grande: essi riconoscono una serie di dodici imam (senza peccato e infallibili!), di cui il dodicesimo vivrebbe nascosto dall’873, fino a quando ritornerà come mahdi alla fine del tempo. Fino ad allora lo rappresentano i sommi esperti di religione della gerarchia «clericale» sciita: gli ayatollah (arabo: muǧtahid), autorizzati a prendere decisioni nelle controversie politico-religiose (attraverso iǧtihād). Nel XVI secolo, sotto i Safavidi in Persia, essi diventano una potenza politico-religiosa determinante. Nel XX secolo l’ayatollah Khomeini, come esponente di questa gerarchia sciita, condurrà una rivoluzione contro lo shah occidentalizzato.22

Così gli sciiti appaiono sul palcoscenico della politica mondiale; uno sviluppo che si può osservare anche dopo la guerra del 2003 in Iraq, dove gli sciiti rappresentano il 60 per cento della popolazione.

Per la nostra analisi del paradigma dominante, vogliamo però rivolgerci di nuovo alle vigenti convinzioni, ai valori e ai procedimenti della grande maggioranza, cioè dei sunniti. L’islam sunnita e la dinastia degli Omayyadi, dopo alcuni disordini, raggiungono l’apice sotto il loro quinto califfo, paragonabile per molti aspetti al primo.

3. POLITICA RELIGIOSA IMPERIALE NEL SEGNO DELL’ISLAM

Sono trascorsi solo sessant’anni da quando il profeta Muḥammad ha compiuto il grande passaggio dalla Mecca a Medina, ma quanto è cambiato in poche generazioni il mondo per gli arabi! Immensi territori dal Nordafrica alla Persia orientale sono caduti sotto il loro dominio, senza essere tuttavia arabizzati nella lingua, nell’amministrazione e nella cultura. Le nuove generazioni conoscono il profeta Muḥammad solo dai racconti orali. Mentre Mu’āwiya era stato per poco tempo almeno lo scriba del Profeta, il quinto califfo della dinastia omayyade, ’Abd al-Malik, è nato a Medina solo una dozzina di anni dopo la morte del Profeta.

 

Un autocrate devoto: ’Abd al-Malik

Per porre fine ai disordini relativi al califfato e alla seconda guerra civile, il capo del regime omayyade aveva proclamato a Damasco un nuovo califfo già nel 684. Si trattava del vecchio governatore di Medina, Marwān, proveniente da un’altra linea della dinastia omayyade: al posto dei Sufynidi, i Marwanidi. Quando Marwān già l’anno dopo muore, gli succede senza alcuna difficoltà suo figlio ’Abd al-Malik (685-705).23 E questo califfo omayyade si dimostra un uomo politico, un amministratore e un generale così capace da venire addirittura additato come il secondo fondatore dell’impero omayyade.

’Abd al-Malik è stato spesso paragonato a Mu’āwiya e in effetti questi due sono, con un intervallo, i califfi più significativi della dinastia omayyade. Se Mu’āwiya aveva riunificato il regno arabo dopo la prima guerra civile, ’Abd al-Malik ristabilisce l’unità imperiale dopo i disordini di corte avvenuti per la successione di Yazīd, e dopo la seconda guerra civile. E se il primo, insieme al figlio Yazīd, pone le basi per una monarchia accentratrice attraverso provvedimenti politici e militari, il secondo introduce insieme a suo figlio Walīd un’epoca di riforma significativa, che rappresenta veramente l’apogeo della storia omayyade.

Entrambi i califfi hanno governato per due decenni e hanno potuto sviluppare una serie di iniziative. Entrambi non hanno regnato solo attraverso il consenso, ma spesso anche affidandosi all’aiuto delle armi per fermare il controcaliffo – ’Alī nel primo caso, Ibn az-Zubayr nel secondo. Entrambi non hanno intrapreso costanti campagne piccole o grandi solo contro Bisanzio, in nome del ǧihād o per allenare le proprie truppe, ma hanno anche dovuto intraprendere guerre nei loro stessi territori, Mu’āwiya in Iraq, ’Abd al-Malik in Siria e in Arabia.

Pare comunque che Mu’āwiya, molto più di ’Abd al-Malik, abbia saputo por fine a scontri violenti grazie alla negoziazione (con ’Alī), oppure evitarli del tutto (con Hasan). E mentre il primo seduceva con l’amabilità e dominava la sua commissione consultiva grazie alla sua superiorità intellettuale, in una condizione di libero scambio d’idee, il secondo si mantiene altezzoso e distaccato anche nei confronti dei capi tribali e riserva per sé solo le decisioni più importanti. Certamente il califfato sotto ’Abd al-Malik diviene considerevolmente più autocratico, gerarchico e burocratico.

Nel contempo, però, ’Abd al-Malik appare più religioso di Mu’āwiya. Questi aveva infatti deciso di aderire all’islam solo quando Muḥammad era riuscito a conquistare La Mecca; al contrario, ’Abd al-Malik aveva trascorso metà della sua vita con il padre nella città completamente musulmana di Medina, e là aveva ricevuto un’educazione fortemente religiosa. Era un conoscitore del Corano, amava intrattenere rapporti amichevoli con uomini devoti ed esperti del testo sacro, e pertanto la sua vita privata corrisponde quasi esattamente anche agli ideali musulmani.

Questo spiega il fatto che ’Abd al-Malik, rispetto ai suoi predecessori, abbia maggior riguardo nei confronti dei sentimenti religiosi dei suoi sudditi, e si adoperi affinché essi possano veramente conoscere il Corano. Egli avrebbe trasferito molto volentieri il centro di culto meccano – da troppo tempo nelle mani del contraccaliffo – in Siria, ma deve rinunciare a questo progetto, come anche a quello di portare in Siria la cattedra del Profeta per rivalutare religiosamente la città di Damasco, perché questo gesto solleverebbe a Medina un’indignazione troppo grande. Deve quindi accontentarsi di incrementare i pellegrinaggi nella vicina Gerusalemme, l’unica città al mondo che può concorrere in sacralità con La Mecca. L’edificio, la cupola poi divenuta famosa, che il califfo fa costruire è l’espressione di questa stima e contemporaneamente rappresenta un segnale politico-religioso!

’Abd al-Malik non è solo un acuto conoscitore del genere umano, ma anche un grande politico di potere, il quale sa mettere d’accordo le tribù settentrionali, e perciò quando diventa califfo sa essere anche un uomo crudele e senza scrupoli. Così non esita ad assassinare personalmente suo cugino, quando questo osa ambire al suo potere, e tuttavia favorisce la sua parentela molto più di quanto abbiano fatto tutti i suoi predecessori e l’intera famiglia degli Omayyadi vive ora a Damasco. Egli conferisce ai suoi familiari cariche di governatori, ma esercita una rigida sorveglianza, e destituisce senza clemenza coloro che si macchiano di inefficienza. Conscio di dover consolare Ḫālid, il figlio del califfo Yazīd, escluso dalla successione al califfato, abilmente gli dà in moglie la propria figlia. Egli stesso sposa ‘Atika, una figlia di Yazīd, la quale diventa la sua sposa preferita.

Il principale scopo della politica interna di ’Abd al-Malik è quello di ristabilire l’unità del regno e del califfato. Questo significa innanzitutto terminare la seconda guerra civile contro il controcaliffo meccano Ibn az-Zubayr, e ristabilire poi l’autorità del califfato nell’insubordinato Iraq. Il comandante del califfo più leale e più qualificato per entrambe le operazioni è il generale e governatore al-Hağğağ ibn Yūsuf,24 che diventerà altrettanto famoso, impavido e temuto (ma non crudele). Questi assedia e conquista La Mecca nel 692, uccidendo l’ormai anziano anti-califfo, nascosto nella Ka’ba. Poi è la volta dell’Iraq: il califfo nomina al-Hağğağ governatore di Bassora per ottenere nuovamente il controllo sulla provincia irachena, rivale della Siria, e sul suo esercito e per sottomettere gli ḫāriǧiti. Riuscito nell’impresa al-Hağğağ, un eccellente organizzatore, diventa meritatamente viceré, con il comando di tutte le province orientali. Da Wàsit, la nuova città di guarnigione, governa l’Iraq come se fosse in pratica un territorio nemico, appoggiato dall’esercito siriaco; in un secondo tempo però porterà avanti la costruzione del sistema di canali e favorirà l’agricoltura. Come vedremo, al-Hağğağ continuerà a espandere il suo dominio verso Oriente.

Al contempo anche la conquista del Nordafrica fa progressi: i governatori di ’Abd al-Malik riescono a portare i berberi dalla loro parte contrapponendoli ai bizantini, e nel 697 conquistano Cartagine, la capitale della provincia bizantina. Già all’epoca di ’Abd al-Malik però appare evidente che il cambiamento di paradigma introdotto dal califfo Mu’āwiya non si riferisce solo al mutamento delle strutture politiche, ma si ripercuote sull’intera struttura religiosa e sociale della umma.

 

’Abd al-Malik, come nessun altro prima di lui, ha accelerato l’arabizzazione dei territori, per rendere il suo regno sempre più indipendente da influssi stranieri, e ovviamente, per sottolineare il proprio valore, pari a quello dei regni più antichi (se non addirittura superiore). Senza dubbio, questa arabizzazione possiede una dimensione religiosa: mira all’islamizzazione in modo del tutto consapevole.25 Il califfo, fortemente impressionato dalle dure esperienze della seconda guerra civile, ne è conscio: gli uomini delle province, tra loro così differenti e così lontani, devono rendersi conto dell’unità e della peculiarità dello stato islamico, cresciuto così velocemente. Solo la religione può produrre un simile risultato. ’Abd al-Malik usa perciò un metodo simile a quello che ’Umar applicò due generazioni prima introducendo il nuovo computo del tempo: «Non lo fece con manifesti, ma con simboli»26 (J. van Ess) venendo incontro così agli interessi politici e religiosi degli arabi. Tre dei suoi provvedimenti ebbero numerose conseguenze per i suoi contemporanei: quelli sulla valuta, sulla lingua ufficiale e sull’arte.27

 

Introduzione di una valuta musulmana

La riforma monetaria (probabilmente legata al nuovo conflitto con Bisanzio) mira all’arabizzazione e all’islamizzazione: l’introduzione di una propria valuta musulmana al posto dell’oro greco e dell’argento persiano. All’inizio, nell’ambiente di influenza persiana, sulle monete sasanidi tradizionali venne semplicemente aggiunta a margine la scritta bismi’llāh («nel nome di Dio»), a cui in seguito viene aggiunto rabbi («mio Signore»),28 e sulle effigi delle monete bizantine, adottate in precedenza, ben presto la croce viene resa irriconoscibile.29 Anche sulle banconote introdotte a Bisanzio dall’Egitto – dove si trovavano le uniche officine speciali – prima si trovavano iscrizioni cristiane e come filigrana si utilizzavano la croce o una formula trinitaria. Adesso, per ordine del califfo, questi segni vengono sostituiti dal versetto coranico: «Di’, egli è il solo Dio!».

Bisanzio però non accetta il nuovo conio e minaccia di incidere offese rivolte al Profeta sulle monete d’oro che giungevano in Arabia da Bisanzio. Allora ’Abd al-Malik realizza ciò che, a quanto pare, Mu’āwiya aveva già progettato: fa coniare monete d’oro arabe nel nome di Allāh, con versetti coranici relativi all’autorità del Profeta (allo stesso modo al-Hağğağ a Kufa fa coniare monete d’argento), senza però trovare ovunque un pronto consenso; queste monete hanno infatti lo stesso peso di quelle bizantine già consumate (!) e non riescono in nessun modo a sostituire subito la valuta precedente. Tuttavia con il tempo il dinaro arabo si impone nel traffico internazionale, come valuta dominante.

Non c’è dubbio: la sostituzione della croce o di una formula trinitaria con un versetto coranico, inteso in modo anticristiano, contiene una grande forza simbolica. Lo evidenzia anche l’analogo trattamento riservato alle stoffe di lusso egiziane (ṭirāz) o alla ceramica. ’Abd al-Malik fa persino arabizzare e islamizzare le pietre miliari e i segnavia, tanto che, ancora oggi, in Arabia Saudita si ha cura che l’illuminazione stradale o i segnali del traffico non abbiano per caso la forma della croce.

 

L’arabo diventa la lingua ufficiale

Anche la riforma amministrativa mira all’arabizzazione e all’islamizzazione: l’introduzione dell’arabo come lingua ufficiale nell’amministrazione al posto del greco e del persiano – l’arabo era considerato dai non musulmani come una lingua incolta, incomprensibile e impronunciabile, una lingua dei beduini – rappresenta un cambiamento altamente simbolico! Adesso anche le persone istruite di cultura greca o persiana devono intrattenere con le cancellerie rapporti solo in arabo. Finora, in ambito finanziario, a Damasco veniva usato il greco e a Kufa il persiano. Ora l’intera contabilità viene riorganizzata con la traduzione in arabo dei registri d’imposta; riassunti, copie e notizie ora sono in arabo.

Rimangono dunque in carica, temporaneamente, i funzionari di governo greci e persiani, che ovviamente parlano anche l’arabo: per poter tradurre i documenti in arabo, era infatti necessario conoscere anche il greco e il persiano. In questo modo, i funzionari cristiani esercitano ancora per molto tempo una certa influenza all’interno della struttura finanziaria arabo-musulmana e per questo spesso sono molto odiati. Alla lunga però questi funzionari, che parlano greco e persiano e che erano stati assunti dai vecchi imperi, vengono tutti sostituiti da una nuova generazione che si esprime in arabo. Aumenta così la consapevolezza culturale e religiosa degli arabi: finalmente anche nella lingua ufficiale, obbligatoria per tutti, appare chiaro che ha vinto la vera religione, quella migliore, quella araba appunto.

D’altra parte, tuttavia, anche l’arabo stesso si modifica, proprio a causa del crescente influsso greco e persiano, nel suo vocabolario, in certe regole grammaticali, nella sintassi e nello stile – ci si allontana dal Corano!30 È indicativo che già Walῑd, figlio e successore di ’Abd al-Malik, con grande dispiacere di suo padre non parli più l’antico arabo letterario del Corano. Qui si profila un problema che ancora oggi causa all’islam delle difficoltà: l’arabo classico viene parlato solo durante le occasioni solenni, altrimenti il suo uso è circoscritto alla letteratura. Il Corano deve essere annunciato come un testo di rivelazione, ma esso viene spesso compreso in modo vago dal popolo a causa della sua lingua arcaica – come accade per il latino nella chiesa medievale d’Italia e Spagna. Nelle corti dei principi arabi però si coltiva l’eredità araba nella forma della poesia beduina, nel romantico ricordo dei tempi antichi. Ai vecchi temi si aggiungono ora le lodi del principe, battaglie, vita cittadina e anche poesia d’amore.

 

L’arte viene islamizzata

Gli inizi dell’arte islamica si trovano già nel precedente paradigma (P I); noi però li conosciamo solo grazie alla letteratura e ad alcune iscrizioni e monete. Nell’attuale paradigma (P II) si sviluppa l’arte omayyade, soprattutto in Siria, in Palestina, in Transgiordania e in Iraq: un gran numero di moschee famose a Damasco, Gerusalemme, Medina, Kufa e Wasit e oltre a numerosi palazzi e ville, anche il particolare monumento della Cupola della roccia a Gerusalemme.31

Ma l’arte islamica esprime davvero qualcosa di nuovo? Questa è una questione molto dibattuta. Talvolta è stato sostenuto che l’arte islamica in pratica avesse adottato tutte le forme e le tecniche della precedente tradizione artistica tipica del Vicino Oriente e dell’area mediterranea: si potevano rintracciare in quest’ultima i prototipi di ogni motivo decorativo, unità di progettazione, dettaglio costruttivo. Questo però è solo un lato della verità storica. Con l’islam nasce una nuova arte ceramica e una nuova forma grafica ornamentale araba particolare, le quali – insieme alla tecnica di stuccatura – si diffondono nel regno islamico e diventano ovunque segno tipico dell’arte islamica. Al contrario, certi altri simboli (cristiani o persiani) spariscono; viene volutamente evitata soprattutto la raffigurazione degli uomini e degli animali. Singoli elementi dell’architettura possono dunque essere presi in prestito, ma l’edificio nel suo insieme appare completamente diverso da tutti gli esempi precedenti.

Sull’originalità e la particolarità dell’arte islamica, quindi, non si discute. Come ha affermato in modo convincente Oleg Grabar, di Harvard, essa si basa su due attività parallele e che, presenti all’interno dello stesso processo, si integrano a vicenda: da un lato, le tradizioni ellenistiche o iraniche incontrate vengono adattate, conservandone o rigettandone determinati elementi, dall’altro vengono sviluppate e integrate forme e tecniche nuove, richieste e ispirate dal nuovo ambiente sociale e religioso. «La nascita di un’arte islamica non era il risultato di una dottrina artistica o estetica, ispirata dalla nuova religione o dalle conseguenze sociali o di altro tipo provenienti dal messaggio profetico. Essa consisteva nella trasformazione di passate tradizioni in accordo con l’identità già formata della comunità musulmana, finora però ancora debole, e talvolta nel tentativo di rispondere ai propri bisogni oppure di proclamare la propria presenza (così nei minareti o nelle stoffe di lusso/ṭirāz).»32 Come una torre diventa un minareto, così tutto in questa architettura acquista ora un nuovo significato, appunto islamico.

A cosa mira però la forzata politica edile omayyade?33 L’allestimento di costruzioni monumentali è volutamente una dimostrazione di potere «bizantina» contro Bisanzio! Il carattere quasi imperiale del califfato e la sovranità dello stato islamico devono essere rimarcati proprio in Gerusalemme, alla presenza di ebrei e cristiani. Scoperte recenti dimostrano che la Cupola della roccia di Gerusalemme (Qubbat as-sahra), spesso indicata come la moschea di ‘Umar, innanzitutto non venne costruita da ’Umar (che peraltro non aveva conquistato Gerusalemme), ma da ’Abd al-Malik solo nel 692, quando la situazione finanziaria del regno si era un po’ ripresa dopo la seconda guerra civile, e secondariamente che la Cupola della roccia non venne costruita per essere una moschea (in questo edificio circolare con la rupe che si erge nel mezzo, il rigido ordine di preghiera consueto ai musulmani non sarebbe in alcun modo possibile), ma come grande edificio di rappresentanza.34

Perché? Per mostrare chiaramente a tutto il mondo, nel luogo più sacro, sulla nuda rupe del monte Moria, dove secondo la tradizione sarebbe dovuto avvenire il sacrificio del figlio di Abramo ordinato da Dio, che l’islam si trova in diretto legame con il capostipite degli ebrei e dei cristiani. Ovviamente l’islam ha il primato, perché ha rinnovato l’originale religione di Abramo, eliminando le falsificazioni ebraiche e cristiane. Con un’intenzione propagandistica e trionfale, la Cupola della roccia viene perciò dotata di una iscrizione che proclama l’unità e l’unicità di Dio, come sulle monete – contro la dottrina cristiana di Dio (trinità). In perfetta linea con il Corano Gesù viene nominato non come figlio di Dio, ma come servo di Dio.

Ovunque si assumono specialisti greci, architetti e artisti; per le moschee vengono presi in prestito forme e motivi greci. A Bisanzio, dove da sempre si sapeva predicare con fasto decorativo, si crede di poter diffondere la cultura cristiano-bizantina in questo modo. Ma si rimane delusi, perché avviene l’opposto: l’arte bizantina viene islamizzata. A tutti gli elementi architettonici e stilistici, usati ora anche per gli innumerevoli palazzi e per altri edifici, vengono attribuite funzioni diverse, dopodiché li si mette al servizio della fede islamica – così come i cristiani avevano fatto, in precedenza, con l’arte greco-romana e come più tardi faranno in Spagna con le costruzioni islamiche!

Va da sé che qui come altrove si supera la soglia del fanatismo religioso. Lo stesso ’Abd al-Malik vieta l’immagine della croce in tutto il suo regno. Suo fratello, come governatore dell’Egitto, fa incidere iscrizioni islamiche nelle chiese cristiane e si dice, ma a quanto pare non è solo una diceria, che un anno prima della morte di Abd al-Malik vengano uccisi tutti i maiali...

Il figlio del califfo, al-Walīd (705-715) ora può godere della pace, che suo padre ’Abd al-Malik aveva costruito con la forza armata. E al-Walīd è un sovrano che per la prima volta deve aver dimostrato la sua maestà attraverso il fasto. Non esita, da appassionato costruttore, a sottrarre la cupola di metallo dorato di una chiesa cristiana a Baalbek, per collocarla nella moschea al-Aqṣà a Gerusalemme. Non solo ricostruisce la moschea di Medina dalle fondamenta, ma sottrae ai cristiani, come certo avrebbe fatto ben volentieri suo padre, la chiesa di Giovanni a Damasco, per ampliare il più possibile la confinante moschea principale secondo la tradizione basilicale siriaca e per restaurarla splendidamente. In linea con le idee islamiche, sui mosaici non compaiono immagini antropomorfe. Le case e i paesaggi idilliaci bizantini posti sul fondo improvvisamente vengono portati in primo piano – immagini del paradiso?

Rappresentazioni a due o tre dimensioni – sebbene nell’epoca antica sporadicamente tollerate – sono ora proibite. Le immagini di angeli, uomini e animali vengono sostituite da forme geometriche e floreali. La calligrafia fa la sua apparizione in modo trionfale. Nella moschea omayyade di Damasco si trova così per la prima volta in una iscrizione la classica professione di fede islamica, qui tuttavia in tre parti: «Il nostro signore è il solo Dio, la nostra religione è l’islam e il nostro Profeta è Muḥammad».35

Ovunque – anche nella nuova moschea di Medina – ciò che era stato ritenuto dai bizantini espressione di superiorità culturale e politica di fatto diventa una dimostrazione del trionfo dell’islam su Bisanzio. Al contempo, all’interno del califfato, la moschea diventa una testimonianza compatta per l’unità del potere politico e religioso. Il califfato infatti conferisce all’islam uno splendore politico, e da parte sua l’islam conferisce al califfato un’autorità religiosa. Non sorprenderà il fatto che, alla luce di questo sviluppo, l’islamizzazione ora si estenda anche alla sfera del diritto.

4. LE ORIGINI DEL DIRITTO ISLAMICO

Abbiamo già chiarito come né nel Corano, né all’epoca dei primi califfi (P I) si possa parlare di un diritto specificatamente islamico in senso stretto. Sotto i califfi omayyadi le cose cambiano anche da questo punto di vista. Il cambio di paradigma (P II) influenza anche la sfera del diritto, come tenterò di spiegare sulla base degli studi pionieristici di storia del diritto condotti da Joseph Schacht,36 integrati criticamente con i lavori di N.J. Coulson.37 La posizione di Schacht è stata ampiamente ripresa anche da studiosi musulmani come F. Rahman 38 e A.A.A. Fyzee,39 ma alcuni suoi passi sono stati messi in seria discussione, ad esempio da M.M. al-Azami.40

 

Giudici di stato: i qāḍī

«Nel corso della storia poche società sottoposte a cambiamenti così rapidi furono tanto mal attrezzate a far fronte agli stessi cambiamenti quanto gli arabi musulmani», osserva lo storico del diritto britannico Noel Coulson, ma il suo è un complimento: «La sintesi delle diverse influenze presenti nell’impero islamico realizzata dal diritto omayyade, fu una vera e propria impresa».41 I califfi avevano grande interesse a mantenere il più possibile le strutture amministrative già esistenti nelle province e non indugiarono nel riprendere istituzioni e concetti giuridici stranieri.

Nella foga di dare, energicamente, una conduzione politica e un’organizzazione amministrativa al nuovo impero, gli Omayyadi non riuscirono a evitare di trasformare totalmente anche il diritto. Il loro immenso impero, certo, è spiritualmente tenuto insieme dall’islam. Sotto la loro dominazione si giunge:

– alla nascita di un diritto islamico comune, la sharia (šari’a «la via per l’abbeveratoio», la legge sacra), che però avrà una lunga evoluzione;

– all’impiego di giudici statali (qudāt, sing. qāḍī) e alla formazione di studiosi di diritto islamico (fuqahā’, sing. faqīh), seppure a livello assolutamente privato;

– alla creazione di una scienza giuridica islamica (fiqh: «conoscenza», giurisprudenza), fino ad allora inesistente.

Il fatto che sia la scienza giuridica, e non la teologia, a fregiarsi del titolo di «conoscenza» sarebbe quantomeno sorprendente per un cristiano. Ma nel P II si delinea già ciò che diverrà sempre più evidente nei paradigmi successivi: il punto centrale dell’islam non è la teologia, ma il diritto, che comunque viene spesso esercitato da teologi. Per questo motivo, si può affermare, non facendo riferimento all’essenza dell’islam, né ai suoi antichi paradigmi, bensì ai più recenti, che l’islam, in origine religione dell’ethos, ora diviene religione della legge.

Gli Omayyadi istituiscono tutta una serie di nuove cariche (come ad esempio quella di ispettore del mercato, un’ex istituzione bizantina). Ma tipiche del periodo omayyade sono le prime nomine di giudici di stato, i qāḍī.42 In primo luogo essi, nella nuova società, hanno il compito di integrare o addirittura sostituire il vecchio giudice (ḥakam),43 una figura presente già nella società araba preislamica. Ciò che li differenzia maggiormente dagli hakam indipendenti, che esercitano le loro funzioni ad hoc, ancora presenti nelle tribù, sta nel fatto che il qāḍī è un delegato del governatore. Soltanto questi può avvalersi dell’opera dei qāḍī, in virtù delle facoltà concessegli dai califfi, seppure con l’appoggio delle tribù: in questo modo vengono quindi nominati soltanto arabi. Ciò rappresenta per il governatore un vantaggio decisivo: egli può, in ogni momento, sbarazzarsi dei qāḍī, qualora questi non assecondino la sua politica.

I qāḍī sono quindi i giuristi delegati dal governatore; all’inizio agiscono in posizioni subordinate, ricoprendo incarichi secondari; tuttavia, verso la fine del periodo degli Omayyadi assumono un ruolo abbastanza indipendente e importante all’interno dell’apparato governativo. Le loro decisioni gettano le basi di quello che più tardi diverrà il diritto islamico. Da questo punto di vista le loro sentenze non costituiscono precedenti giuridici che, come in altri sistemi giuridici, permettano a sentenze precedenti di orientare le successive. La giurisdizione è ancora in pieno sviluppo. Una figura esemplare tra i primi giudici è Iyās ibn Mu’āwiya (morto nel 740 a 76 anni),44 le cui decisioni non si fondano né sul Corano né sulla tradizione profetica; egli, invece, fa affidamento sulla sua sana ragione di uomo, sulla conoscenza della natura umana e sul suo acume intuitivo. Diversamente da quella che sarà la pratica giuridica posteriore, non ha un’alta opinione delle testimonianze oculari (spesso abusate) e rifiuta qualsiasi tipo di conclusione per analogia (il qiyās, che trascura le differenze).

In questo modo si giunge però a una notevole differenziazione nell’amministrazione della giustizia. Da una parte, infatti, nelle diverse località vige un differente diritto consuetudinario, dall’altra parte ogni giudice decide in base alla propria opinione personale (ra’y). Tuttavia non c’è nessuna corte al di sopra dei giudici e il governo centrale non aspira in alcun modo all’uniformazione del diritto. Di fronte alle sempre più complesse circostanze dettate dalle nuove epoche, i qāḍī si vedono sempre più costretti a specializzarsi, e già negli ultimi decenni di dominio degli Omayyadi vengono nominati giudici soltanto gli specialisti. Ma da dove vengono questi specialisti?

 

L’islamizzazione del diritto: i pii specialisti

Con l’espressione «pii specialisti»45 si intendono esperti formati non con il metodo sistematico e scientifico, ma professionisti di stato. Essi erano interessati più alla religione che al diritto, e inizialmente più alle pratiche rituali che non alle determinazioni giuridiche. Si tratta di «laici», impegnati dal punto di vista religioso, che nel tempo libero discutono e riflettono privatamente sul Corano, per lo più riuniti in gruppi di amici che condividono le stesse concezioni; essi comunque forniscono anche informazioni giuridiche e redigono pareri (fatwā, pl. fatāwā), analogamente alle «risposte» che da lungo tempo i Gaon ebrei (capiscuola) offrono su richiesta dei loro compagni di fede. Per l’interpretazione del Corano non c’è nessuna «autorità religiosa» competente, ma soltanto il singolo, che proprio nella fede può sviluppare una conoscenza non indifferente. Tra gli specialisti religiosi e i loro gruppi ci sono in particolare molti neomusulmani ai quali, in un primo momento, l’accesso alla carica di giudice resta precluso. Su cosa si basa l’interesse degli specialisti?

L’interesse primario dei pii esperti di diritto e dei consulenti giuridici non è la pratica giuridica delle corti, bensì una sorta di «way of life» islamica aperta a tutti. Essi hanno l’impressione che la gran quantità di regolamenti amministrativi e di prescrizioni giuridiche straniere possa sovrapporsi agli originari impulsi islamici. Le sentenze dei qāḍī sono spesso arbitrarie e il governo fa troppo poco per garantire l’applicazione delle norme islamiche originarie; ovunque si avverte la mancanza dello spirito e dei contenuti islamici. In quanto idealisti religiosi essi esaminano, sobriamente e attentamente, se e fino a che punto il vigente diritto consuetudinario si adatti alle norme del Corano, o più generalmente dell’islam. A loro parere qualsiasi accertamento del diritto non può fondarsi sul buonsenso o sulla sottigliezza, ma solo sul Corano e, con il passare del tempo, anche sulla «Sunna del Profeta». Vogliono decidere, da un punto di vista religioso, e più precisamente etico-rituale, se e fino a che punto mantenere o respingere determinate consuetudini (tra cui i tributi, le consuetudini in materia di eredità, l’acquisto di schiavi). In un primo momento essi, non partecipando come consulenti alle sedute del tribunale, hanno scarsa influenza sull’amministrazione della giustizia da parte dei qāḍī, che segue categorie diverse. Tuttavia creano lentamente i presupposti per un processo di islamizzazione del vigente diritto consuetudinario.

Anche in questo proposito è interessante seguire gli studi di Joseph Schacht: «Essi impregnarono la sfera giuridica di idee religiose ed etiche, sottomisero il diritto stesso alle norme islamiche, lo integrarono nel corpus di doveri imposti a ogni musulmano. Così facendo, realizzarono su scala molto più grande e in modo molto più dettagliato ciò che il Profeta aveva tentato di fare nel Corano per l’antica comunità islamica di Medina. Una delle conseguenze fu che la pratica giuridica popolare e amministrativa del tardo periodo omayyade divenne il diritto religioso dell’islam. La teoria ideale risultante doveva essere ancora messa in pratica; questo compito andava al di là del potere dei pii specialisti e doveva essere affidato all’interesse e allo zelo dei califfi, dei governatori, dei qāḍī o dei singoli interessati. Le circostanze in cui il diritto religioso dell’islam ebbe origine costrinsero a procedere al suo sviluppo, ma non in stretto collegamento con la pratica, bensì come espressione di un ideale religioso, in contrasto con la pratica stessa».46

Tale processo di islamizzazione comincia all’inizio in modo molto discreto, grazie all’opera di singoli esperti come Ibrāhīm an-Naḫa‘ī (morto nel 715),47 la prima figura documentabile di giurista a Kufa (oltre a aš-Ša‘bī), e di altri giuristi che a Medina forniscono informazioni giuridiche alla gente alle prese con conflitti di coscienza: il problema del matrimonio e della separazione, dei tributi statali e del digiuno, tutte problematiche morali più che riguardanti la tecnica giuridica. Questi esperti e consiglieri religiosi, stimatissimi dal popolo (e spesso anche dai potenti) per il loro pio impegno e per la loro attività di consiglio e di guida, spesso criticano le decisioni del governo e le consuetudini del popolo. Essi, tuttavia, non si schierano nettamente contro il governo e lo stato degli Omayyadi. In più, cosa importante per il futuro, guadagnano la fiducia del popolo.

 

Il consolidamento teorico del diritto

Negli ultimi decenni del periodo omayyade, con l’aumentare del numero degli studiosi di diritto, si costituiscono le cosiddette antiche scuole giuridiche. Esse operano nelle zone più disparate: in Iraq, soprattutto a Kufa, a Medina, alla Mecca e in Siria. Queste scuole di diritto non hanno uno status ufficiale, né un’organizzazione rigida, né un disegno unitario di insegnamento; continuano volutamente a operare a livello privato, supportate però dall’ammirazione e dal sostegno del popolo. Le differenze tra le scuole si definiscono soltanto in base alle grandi differenze tra le province culturali, ma non seguendo determinati principi o metodi giuridici. Al contrario, già in questa prima fase della giurisprudenza islamica esiste «un notevole corpus di dottrina comune, che soltanto in seguito verrà ridimensionato dalle sempre più numerose differenziazioni tra le scuole».48

In tutti modi, quel che è certo è che le norme del Corano non sono mai state considerate tanto da trarne così ampie deduzioni, applicabili ai più svariati ambiti della vita sociale: dal diritto familiare ed ereditario al digiuno, fino alla preghiera rituale. Ogni scuola rappresenta la propria tradizione viva, la propria dottrina consolidata, definita come «sunna» o con concetti simili, tuttavia si riesce a stabilire localmente un consenso (iğmā‘) tra gli studiosi che va ben oltre il comune e generale consenso tra musulmani. Infatti, mentre il consenso tra i musulmani si riferisce solo ai tratti essenziali della fede e viene considerato in generale, il consenso tra gli studiosi, nonostante differenziazioni locali o regionali, è molto concreto e preciso. In questo consenso le varie scuole, che in taluni frangenti hanno opinioni diverse, non vengono escluse dalla definizione dei contenuti, ma concorrono alla ricerca di una corrispondenza comune a tutte, il che sembra, fino a un certo punto, mettere al riparo da errori.

Tuttavia non basta aver dato dei fondamenti teorici al diritto religioso islamico grazie al consenso tra gli studiosi. Esso deve essere saldamente fondato anche da un punto di vista storico. E visto che, nell’antichità, vi era il costume diffusissimo di porre la propria opera sotto il nome di un grande maestro (proprio come nel Nuovo Testamento le cosiddette lettere pastorali a Tito e Timoteo vengono attribuite all’apostolo Paolo), gli studiosi musulmani non trovano nulla di male nel dare un nome a ciò che originariamente non lo aveva. Ecco che ora, nelle antiche scuole giuridiche islamiche avviene una graduale proiezione inversa. Cioè: il consenso attuale di non ben identificati studiosi di diritto viene regolarmente attribuito a una famosa figura del passato, al fine di sottolineare la continuità e l’autorità della tradizione. La maggior parte delle informazioni in nostro possesso riguarda Kufa: l’intera dottrina scolastica è attribuita al già citato Ibrāhīm an-Naḫa‘ī, che a suo tempo aveva impartito nozioni giuridiche, semplicemente da cittadino comune. Un altro esempio è Medina, in cui ci si richiama ai «sette giuristi» dell’epoca precedente, sulla cui dottrina, tuttavia, non sappiamo quasi nulla. I primi giuristi, sulle cui teorie possiamo disporre di dati autentici, vissero soltanto negli ultimi decenni dell’epoca omayyade, quindi nella prima metà dell’ottavo secolo, più di cento anni dopo la morte del Profeta.

Il processo di proiezione inversa va addirittura oltre: la fondazione del diritto islamico (sempre a Kufa, per esempio) viene ricollegato alla diffusione iniziale dell’islam in questa città, e a un amico del Profeta di nome Ibn Mas‘ūd. Lo stesso succede alla Mecca con l’amico del Profeta Ibn ‘Abbās e a Medina con l’amico e califfo ’Umar. Naturalmente non si può escludere che la verità non sia stata tenuta al di fuori della pratica giuridica e della tradizione orale del periodo islamico antico (P I), ma almeno nell’opinione di alcuni storici occidentali «la grande massa di dottrina attribuita agli antichi ha avuto un’attribuzione anacronistica» (N.J. Coulson).49 L’ultimo passo nella proiezione a ritroso è quindi il legame con il Profeta stesso. A Medina, la patria del Profeta, e più marcatamente, all’inizio, nel lontano Iraq e poi in Siria, la dottrina dei giuristi e la pratica giuridica (all’inizio vista ancora come fase ideale) della comunità locale vengono identificate con la «Sunna del Profeta». Questa «tradizione» ora non è intesa più come un elemento primariamente teologico e politico, bensì come fatto giuridico. Comunque tutto ciò avviene inizialmente in modo molto generico, senza richiamarsi a precise parole o azioni del Profeta.

Tale tendenza si impone solo nell’epoca successiva: ora possiamo quindi dedicarci nuovamente allo sviluppo, o meglio al groviglio politico nel regno dei califfi omayyadi.

5. DA MOLTI POPOLI UNA NUOVA SOCIETÀ

Proprio al culmine della dominazione degli Omayyadi si comprende che più intensa sarà l’arabizzazione dell’impero e più un problema si farà pressante: quale posizione prendere con i non arabi e i non musulmani, primi tra tutti i cristiani? Urge una decisione e siamo già in grado di affermare certamente: riguardo al rapporto tra arabi e non arabi, tra musulmani e cristiani, in questo paradigma si delinea una svolta. Infatti la politica di segregazione dei califfi ben guidati (P I) non è sostenibile, alla lunga, alle condizioni dettate dalle esigenze di un impero (P II). Uno dei presupposti è la trasformazione del regime patriarcale in un governo imperiale.

 

Dal regime patriarcale al governo imperiale

La fedeltà politica e religiosa nei confronti del regime islamico ha preso il posto della fedeltà personale al califfo. Tutto ciò non solo porta a un’accelerazione nel processo di centralizzazione dello stato, ma serve a formare una «nuova politica ideologica».50 A differenza dell’epoca di Mu‘āwiya, ora Damasco non è più la residenza di un illustre principe appartenente a una tribù araba, circondato dagli altri capotribù. Ora, a regnare e a risiedere in un palazzo riccamente ornato e ben sorvegliato c’è una sorta di «imperatore»: il «califfo o rappresentante di Dio» in senso politico-religioso, chiamato anche «il fiduciario di Dio» (amān Allāh), «pastore di Dio» (rā‘ī Allāh), «autorità di Dio» (sulṭān Allāh) o «luogotenente di Dio» (nā’ib Allāh).51 Talvolta egli viene addirittura presentato come «Pantocratore» (un parallelo, ma allo stesso tempo anche una figura antagonista alle rappresentazioni bizantine di Cristo come re dell’universo).

Così il califfo concede solenni udienze, in abiti regali, con la corona sul capo, circondato dai più alti funzionari di corte, scrivani e guardie. Il suo lavoro giornaliero consiste in consulenze, ricevimenti e momenti di preghiera. A essi si aggiungono intrattenimenti di ogni tipo: caccia, lettura di poesie, spettacoli musicali, vino e danzatrici... Ormai si viene ricevuti dal califfo solo seguendo un iter complicato e un protocollo prestabilito. Al grande regnante si deve parlare con tono umile, egli inoltre deve essere lodato dagli inni dei poeti. I capotribù hanno pur sempre incarichi importanti, ma il governo dell’impero ora è quasi del tutto in mano ai funzionari professionisti, che sono obbligati soltanto nei riguardi del califfo. Uno dei giuramenti di fedeltà verso il califfo recita: questa è la corte dell’obbedienza e della disciplina.

In breve, il regime patriarcale di un tempo (P I) si è trasformato in un governo imperiale (P II): «Mentre il califfato di un tempo consisteva in una serie di poteri individuali, strettamente dipendenti dalle qualità personali, religiose o patriarcali dei califfi, il nuovo califfato era un’istituzione indipendente dai singoli detentori delle cariche. Gli omayyadi erano riusciti a tramutare il califfato in un regime di stato, ma allo stesso tempo l’hanno poi mantenuto vivo incorporando nel simbolismo dell’impero la sua specifica eredità islamica».52 Tutto ciò ha notevoli conseguenze per la società intera.

 

Crollano le barriere divisorie

In questa sede non possiamo elencare i drammatici effetti della conquista araba sull’agricoltura e sullo sviluppo economico nelle varie regioni: mentre in Iran ci sono progressi, in Mesopotamia, in Siria e in Egitto le cose peggiorano, e in Iraq l’intero processo di sviluppo si trasforma... Per la nostra analisi dei paradigmi sono più importanti i generali sconvolgimenti sociali provocati dalla pressione prodotta dalle guerre, dalle migrazioni e dalle trasformazioni economiche. Esse possono essere brevemente descritte.53

– Le élite militari arabe danno vita a una nuova classe: tra i componenti delle tribù e i capotribù ci sono enormi differenze di classe; i capotribù possono permettersi palazzi privati, latifondi, e una vita lussuosa e dispendiosa; l’aristocrazia dei ricchi consolida la propria posizione grazie a matrimoni con esponenti dello stesso ceto sociale.

– La cultura tribale araba già presente in epoca pre-islamica si dissolve: necessità militari e amministrative (trasferimenti, nuovi reggimenti) portano alla formazione di nuove unità sociali: i grandi clan vengono divisi in migliaia di piccoli gruppi, mentre i più piccoli vengono accorpati tra loro.

– Le città-presidio e le città governative, ormai non più costituite da tende o capanne ma da edifici in muratura, perdono, grazie al processo di immigrazione, il loro carattere specificatamente arabo e divengono centri amministrativi, commerciali e produttivi multietnici e multireligiosi. Numerosi funzionari, artigiani e soldati non arabi (tra cui interi reggimenti iraniani) vi cercano rifugio e occupazione.

– I beduini e i soldati arabi costituiscono un ceto lavoratore differenziato dal punto di vista economico e composto da negozianti, commercianti, artigiani, operai e contadini. La nuova religione crea opportunità di ascesa per un nuovo strato intellettuale composto da teologi, insegnanti, giuristi, le cui funzioni non sono ancora distinte le une dalle altre.

Tutto questo dimostra la fine delle segregazioni tra conquistatori e conquistati iniziate sotto il secondo califfo ben guidato ’Umar, e i continui progressi nell’assimilazione degli arabi con i non arabi.

 

Arabi e non arabi si mescolano

Alla fine del VII secolo la grandissima parte dell’esercito arabo si dedica a professioni civili, maldisposta ad assumere obblighi militari, non desiderando isolarsi dal resto della popolazione. Ad esempio nella città di Marw, dove nel 670 erano state insediate circa 50.000 famiglie, nel 730 soltanto 15.000 uomini prestano servizio militare. E quanto più grande è l’adeguamento alla professione, tanto più veloce si giunge a un’integrazione sociale. Essa non procede certo come nella raffinatissima Persia, dove i figli dei «figli del deserto» ormai parlano prevalentemente persiano, vestono persiano, partecipano alle feste persiane, bevono vino persiano e sposano donne persiane.

Una compenetrazione reciproca tra elemento arabo e non arabo è avvertibile ovunque. E con il procedere delle conquiste l’impero arabo accoglie un numero sempre maggiore di gruppi etnici: non più soltanto aramei, iraniani ed ebrei, ma, seppure in numero minore, anche africani, turchi, zingari e indiani. Ma qual è la posizione di questi nuovi gruppi nei confronti degli arabi? Quale status giuridico devono assumere?

Per molto tempo il sistema del mawālī, cioè del cliente, inteso come associato, o affiliato (mawlā, pl. mawālī), appare come una soluzione. Ad esempio, gli ex schiavi erano sempre stati accolti da una tribù, ma non come membri a pieno titolo, con gli stessi diritti degli altri, bensì come associati «vincolati». Secondo tale concezione, essi rimanevano in posizione chiaramente subordinata: non potevano unirsi in matrimonio con i componenti delle tribù e anche i loro figli restavano in uno stato di subordinazione. Tale pratica si basava su un modello ben preciso. Questo stato di inferiorità giuridico e sociale era lo stesso dei convertiti e dei neomusulmani: questi vengono introdotti in un rapporto clientelare (walā’) e ora appartengono quasi tutti alla clientela di un illustre protettore, il cui prestigio personale aumenta con il numero dei protetti.

Questi mawālī, delle più svariate etnie, che fossero prigionieri di guerra o indigeni, divennero sempre più numerosi per via dell’aumento delle conversioni. Spesso sono interi gruppi a convertirsi, e ciò fa sì che, di fatto, le tribù arabe col passare del tempo siano composte sempre meno da parenti di sangue. Molti dei neomusulmani fanno fortuna importando le conoscenze delle proprie culture, una competenza finora ignota agli arabi e nuove esperienze dal punto di vista tecnico-organizzativo. In questo modo la popolazione musulmana diviene sempre più stratificata e diversificata. I clan aristocratici accolgono i mawālī benestanti (ad esempio la cavalleria persiana) come associati, mentre i clan di estrazione meno elevata devono accontentarsi dei lavoratori più umili e dei tessitori.

Il problema, tuttavia, non migliora con il tempo: perché semplici associati? Perché dover entrare nella società come uomini di rango inferiore? Proprio laddove i mawālī costituiscono la maggior parte della popolazione, essi sviluppano una propria coscienza di classe, affermando con sempre maggiore chiarezza i propri postulati filosofici: una società così spaccata in due classi dovrebbe essere quella umma fraterna originariamente auspicata dal Corano e dal Profeta? E una società di musulmani divisa in classi non è anti-islamica? E di fronte all’esclusività araba come si pone la solidarietà islamica? Il Corano, seppur rivelato agli arabi in lingua araba, non si rivolge forse alla totalità degli uomini?

Questo non è altro che un chiaro attacco all’egemonia araba in nome dell’islam! Nessuno, in questa situazione, ha più interesse a riflettere metodicamente sulla propria religione degli insoddisfatti mawālī, che hanno perduto il legame con la vecchia società e possiedono una nuova identità solo grazie all’islam. E alcuni di essi, ora, appartenenti alla seconda o alla terza generazione, dispongono di denaro sufficiente a sedere nella moschea e discutere di teologia e scienza del diritto. Le varie minacce latenti dal punto di vista della politica interna si vanno accumulando l’una sull’altra, e in questo frangente i mawālī giocano un ruolo non indifferente.54 In un primo momento, però, l’impero arabo preferisce continuare a espandersi militarmente.

6. LA NASCITA DI UN IMPERO MONDIALE

’Abd al-Malik viene definito il Padre dei re, dal momento che (come si può ben vedere dall’albero genealogico degli Omayyadi) quattro dei suoi figli ottengono il califfato. Soltanto due dei successivi califfi omayyadi non discendono direttamente da lui. Ad ’Abd al-Malik succede il figlio maggiore al-Walīd (705-715), che può sfruttare, per il momento, il consolidamento ottenuto dal padre in politica interna per una forte espansione in politica estera.55

 

Nuovi paradigmi nella politica estera e militare

Già durante il ventennale regno di Mu‘āwiya (661-680), gli arabi (come già descritto) si erano spinti a est fino al Khorasan, nell’Iran settentrionale e fino al fiume Oxus, e a ovest fino al Nordafrica, nel territorio dell’odierna Tunisia, comprese le isole mediterranee di Cipro e Rodi; il blocco marittimo di Costantinopoli, durato sette anni, non portò a nessun risultato.

Già da tempo non si tratta più, come in seguito alla prima ondata di conquiste da parte dei califfi ben guidati, dello spostamento di tribù arabe e dell’annuale reinsediamento di armate dalle città presidio alle terre vicine. Ora si tratta di guerre vere e proprie, motivate dalle ambizioni imperiali degli Omayyadi, conflitti pianificati su scala mondiale. Dato che essi vengono combattuti sempre più lontano dalle zone centrali di insediamento arabo, le guerre interessano soltanto una parte della popolazione, e soprattutto gli abitanti delle zone di confine. In generale, però, si rafforza l’opposizione sia contro ulteriori conquiste arabe, sia contro il dispendio di risorse dovuto agli assedi, mentre i bottini di guerra e l’entusiasmo diminuiscono.

Non va trascurato il cambio di paradigmi proprio in campo di politica estera e militare.

Le conquiste dei precedenti califfi (P I) derivavano da guerre espansionistiche delle tribù arabe condotte con guerrieri provenienti dalle tribù e coordinate da condottieri combattenti originari della penisola araba; il soldo è una pratica minoritaria, per questo i bottini di guerra sono sostanziosi.

Le conquiste dei califfi omayyadi (P II) consistono in guerre imperialistiche pianificate strategicamente dal governo di Damasco che, mirando a obiettivi lontani, sono condotte con l’aiuto di truppe e condottieri non arabi (neomusulmani oppure mawālī); le spese necessarie ad assoldare i mercenari sono elevate, come è elevato il peso dei tributi sui cittadini.

I 14 califfi Omayyadi

I 14 califfi Omayyadi

Ora, sotto il califfo al-Walīd, gli obiettivi militari sono ancora più distanti che sotto Mu‘āwiya, le vie di collegamento e di rifornimento sono quindi più lunghe e il ritmo delle conquiste diviene, di conseguenza, più lento. Ciononostante anche ora si assiste a un’ulteriore, sorprendente espansione del dominio musulmano, tanto a oriente che a occidente.

 

La seconda ondata di conquiste: un impero dall’India alla Spagna

Volgiamo innanzitutto lo sguardo a est, dove il viceré al-Hağğāğ, uomo di fiducia di al-Walīd, continua a condurre la strategia di espansione:

– Dalla Persia nordorientale gli arabi, sotto il governatore Qutaiba ibn Muslim, si spingono nella regione oltre l’Oxus, nella regione dell’Asia centrale denominata Transoxiana (Turkestan, l’odierno Uzbekistan). Soltanto dopo lunghi combattimenti conquistano Bukhara (Buhārā) e Samarcanda (712). Anche in quest’occasione gli arabi sfruttano la debolezza di una grande potenza, in questo caso la Cina, dove la dinastia buddhista di Tang si avvia sul viale del tramonto e non riesce a mantenere la sua sovranità sulle estreme regioni del Turkestan. Da un punto di vista storico tale conquista decreta la diffusione dell’islam in Asia centrale, dove permane ancora oggi, e l’islamizzazione delle popolazioni turche.

– Dalla Persia meridionale gli arabi (seguendo, per così dire, le rotte di Alessandro Magno) avanzano verso il Beluchistan, la regione orientale dell’altopiano iraniano, esse infine raggiungono la regione dell’Indo. Al-Hağğāğ aveva pagato una somma di denaro straordinariamente grande per avere truppe ottimamente equipaggiate, a quanto pare la spedizione era costata appena il doppio! Nell’odierno Punjab pakistano, nel 712, gli arabi istituiscono l’emirato di Multàn, che per molto tempo resta l’estremo avamposto orientale dell’islam. Dal punto di vista storico questa conquista determina lo stabilirsi di una cellula islamica in India, dalla quale, 700 anni più tardi, nascerà un grande impero musulmano: l’impero dei Mogul. Da allora l’islam, (al contrario del cristianesimo) occupa una posizione forte nel subcontinente indiano (per il momento solo dal punto di vista militare).

Ma volgiamo il nostro sguardo a ovest, in Africa del nord e in Europa.

– Già nel 697 gli arabi avevano conquistato Cartagine, la capitale dell’isolata provincia bizantina d’Africa (chiamata ora dagli arabi Ifrīqiyā), nonostante l’opposizione e le controffensive dei berberi, che solo in parte si convertono all’islam. Ora avanzano dalla base operativa di Kairouan (= «accampamento»), situata al centro della Tunisia e quindi al riparo dagli attacchi navali dei bizantini, attraversando l’intera regione del Magreb, fino alle coste atlantiche.

– Dall’Africa berbera Ṭāriq ibn Ziyād, lui stesso berbero, e agli ordini del governatore di Ifrīqiyā Mūsā ibn Nusair, attraversa lo stretto e approda in Spagna sotto quella montagna che da allora prende il nome di «monte di Ṭāriq» (Ğabal Ṭāriq), da cui il nome Gibilterra. Le truppe prevalentemente berbere di Ṭāriq, il 19 luglio 711 (più o meno nello stesso anno in cui le avanzate orientali verso l’Asia centrale e l’Indo raggiungono il loro scopo), nella storica battaglia di Jerez de la Frontera, sconfiggono Roderico, ultimo re del regno cristiano dei goti d’occidente, sconvolto da tensioni interne. Dopo le rapide avanzate, entro breve tempo cade anche la capitale Toledo. Con la caduta del re e della capitale, per Mūsā, che giunge accompagnato da un grande esercito arabo, nei due anni successivi, è facile sottomettere quasi tutta la penisola a sud dei Pirenei (più grazie ai trattati che agli scontri militari). Dal punto di vista storico ciò determina la profonda islamizzazione della Spagna, destinata a durare più di sette secoli, esattamente quanto l’occupazione musulmana della penisola iberica. La «pérdida de España», la perdita della Spagna, rappresenta un trauma per l’occidente cristiano, che in parte si avverte ancora oggi (il pericolo di un’«ondata verde dall’Africa all’Europa»?).

Uno sviluppo stupefacente: neanche cento anni dopo la morte del Profeta l’impero arabo si estende letteralmente dall’India alla Spagna, dall’Himalaya a est fino ai Pirenei a ovest. Alla fine, nel 712 Carlo Martello, il fondatore della dinastia carolingia, ha arrestato le continue avanzate arabe in Francia (a sud fino alla valle del Reno e alla Garonna, a nord addirittura fino alla Loira), in una famosa, ma scarsamente documentata battaglia nei pressi di Tours e Poitiers. Ma nonostante questo epilogo, la conquista islamica (ho già esposto questa opinione nel volume sul cristianesimo),56 vista dall’esterno, rappresenta per la cristianità una sconfitta di portata storica.

 

Il secondo grande confronto con il cristianesimo

Sicuramente la conquista araba, anche in questa situazione, non implica la totale islamizzazione della popolazione. In nessuna delle terre conquistate si hanno conversioni di massa. Esse, come abbiamo già visto, non rientrano nei piani dei musulmani. Grandi porzioni di popolazione rimangono cristiane e molte chiese restano in attività. Un testimone di questa iniziale sopravvivenza del cristianesimo è il più eminente teologo bizantino dell’epoca, che però opera non nella cristiana Bisanzio, ma nella musulmana Damasco: Giovanni Damasceno, alto funzionario alla corte degli Omayyadi, che scrive in greco e che successivamente si ritirerà nel monastero di Mar Saba, nei pressi di Gerusalemme (cfr. cap. A I,1).

CONQUISTE ARABE

CONQUISTE ARABE

Ma qual è la sorte del cristianesimo nordafricano, un tempo così fiorente? Esso, a partire dall’ottavo secolo, non ha più alcuna possibilità di sopravvivenza (a eccezione dei copti egiziani). E le grandi chiese latine di Tertulliano, Cipriano e Agostino? Sono tutte decadute. E gli importantissimi patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme? Sprofondati nell’oblio. Conseguenza: le regioni originarie del cristianesimo (Palestina, Siria ed Egitto) sono «perdute». E nel processo a lungo termine innescato da tali conquiste, in fin dei conti, è scomparso quasi del tutto anche il cristianesimo nordafricano. Uno sviluppo interessante, del tutto diverso da quello avutosi in Europa settentrionale: mentre là gli invasori germanici avevano assorbito la fede delle evolute popolazioni cristiane, nel Vicino Oriente la stragrande maggioranza delle popolazioni locali, più evolute culturalmente, avevano assorbito la fede degli invasori. Come mai? Su questo interrogativo rifletteremo più avanti (cfr. cap. C IV, 7-8).

In considerazione di questi fatti ci si può già chiedere: nella storia delle religioni esiste un’espansione militare rapida, vasta e allo stesso tempo persistente e duratura come quella dell’islam? Crediamo proprio di no. Può stupire il fatto che fino a oggi tutto l’orgoglio musulmano si sia ricollegato alle vicende appena descritte, risalenti all’età antica? L’islam è «una religione della vittoria»! E ci stupiamo se il contrasto tra presente e passato viene vissuto in modo così intenso, tanto più dopo la colonizzazione del XIX secolo? «Perché oggi noi musulmani siamo così arretrati culturalmente ed economicamente?»

Nel 1937 lo studioso di storia economica e sociale belga Henri Pirenne ha già sottolineato, nel suo libro Maometto e Carlomagno57 l’importanza dell’espansione islamica nel mondo mediterraneo della tarda antichità: un islam per così dire responsabile indiretto dell’ascesa dei franchi. Senza dubbio si assiste a uno spostamento del baricentro della storia cristiana europea da sud a nord. Dal punto di vista della storia economica, la valutazione potrebbe forse essere un po’ differente, ma considerando politica, cultura e religione i conti tornano. Le conseguenze della conquista islamica (P II), infatti, nell’ambito della formazione del paradigma medievale del cristianesimo (il P III cristiano), non possono essere trascurate:

  • L’unità del mondo mediterraneo è preclusa per sempre; il mare Mediterraneo, anche oggi, non è più un mare nostrum in senso cristiano.
  • L’impero romano d’Oriente diviene definitivamente più debole, anche rispetto all’Occidente, per la perdita delle regioni meridionali e sud orientali.
  • La chiesa d’Occidente ha la possibilità di staccarsi definitivamente da quella d’Oriente, trasformandosi in uno stato autonomo. Essa, con il tempo, diventerà una delle principali oppositrici dell’islam.
  • Il regno nordeuropeo dei franchi ha la storica opportunità di costituire un nuovo Imperium Christianum.

Per usare una battuta provocatoria di Henri Pirenne, Maometto ha semplicemente reso possibile l’opera di Carlo Magno. Tuttavia, la storia vittoriosa dell’antico islam ha effetti non soltanto positivi, sia per l’Europa che per islam stesso. L’impero arabo-islamico, che si espande notevolmente verso l’esterno, all’interno deve fare i conti con una crisi che mette addirittura in pericolo la sua stessa esistenza. Le minacciose tensioni accumulatesi in politica interna cominciano a farsi pericolose. Ecco che nell’islam si giunge a una prima grande controversia teologica.

7. CONTROVERSIA TEOLOGICA, CONSEGUENZE POLITICHE

La disputa teologica dovette fondamentalmente fare i conti con le due differenti culture che si erano sviluppate durante il dominio degli Omayyadi.58

– Da un lato la cultura di corte dei califfi e delle élite politiche. In questo distinto ambiente di corte ci si occupa prevalentemente di architettura, arte, filosofia, scienza e letteratura ellenica e persiana. L’aristocrazia araba, il cui esponente ideale è il guerriero e per la quale i valori più importanti sono la dignità e la fama, vive di saccheggi e di pensioni statali e utilizza i possedimenti e il denaro soprattutto per procacciarsi la gloria tramite atti di generosità e di ospitalità.

– Dall’altro lato la cultura cittadina dei nuovi ceti di lavoratori e di formatori. In questo ambiente cittadino molto variegato nessuno si interessa più dell’interpretazione del Corano, della legge islamica o della letteratura e della mistica araba. In questo mondo i mawālī utilizzano molto spesso la loro ricchezza per compiere opere di bene, una condotta che colloca il commerciante in una posizione centrale all’interno dell’intellighenzia religiosa e nella sua missione all’esterno.

 

La predestinazione di Dio, una disputa teologica

Sulla teologia, che ora si sviluppa gradualmente nelle varie province culturali del gigantesco impero, converge l’interesse di entrambi gli ambienti, anche se per motivi del tutto differenti. Per rispondere a tutti gli interrogativi, sempre più grandi e complessi, mi baserò nuovamente sull’esaustiva opera in sei volumi di Josef van Ess e sulle concise descrizioni di W. Montgomery Watt59 e Tilman Nagel.60

Già nell’antica Arabia preislamica era molto diffusa la convinzione che ogni cosa fosse predeterminata: le stelle, il «destino» e il «fatum» (dahr). Il Corano aveva corretto tale fatalismo «pagano» grazie a un’immagine di Dio come persona:61 è il Dio-persona, il Dio vivente che ora predetermina ogni cosa. Il problema di come la predeterminazione divina si colleghi con gli importanti presupposti umani del libero arbitrio e della responsabilità non viene preso in considerazione dal Corano. E, come già osservato brevemente a proposito del paradigma comunitario dell’islam originario, la spiegazione del rapporto tra Dio e uomo, e più precisamente tra volere divino e responsabilità umana, divenne il «problema centrale» (T. Nagel) della teologia del primo islam.

Entrambi i concetti, predeterminazione di Dio e autodeterminazione dell’uomo furono resi con la parola qadar, definizione che complicò ulteriormente la problematica.62 Originariamente qadar indica semplicemente «la cosa di Dio» e nel Corano definisce la misura, determinata da Dio, di una cosa63 e così la disposizione, la cura e la predeterminazione di Dio: la definizione del destino tramite Dio. Ma ora il problema era un altro: non esiste anche nella vita reale, in cui vivono anche i ceti di lavoratori e di formatori, una responsabilità, una disposizione, un’autodeterminazione propria dell’uomo? Vi fu una differenziazione tra prospettiva «dall’alto» e prospettiva «dal basso».

«Prospettiva dall’alto»: i califfi omayyadi e le élite politiche erano interessati soprattutto, per comprensibili motivi, al gadar divino. A differenza, infatti, dai loro quattro predecessori «ben guidati» (P I), gli Omayyadi (P II) ebbero sicuramente non poche difficoltà a fondare in modo convincente la loro autorità di califfi. Tra l’altro essi lo fecero definendosi già dai tempi di Mu‘āwiya (secondo l’esempio di ‘Uṯmān) come rappresentanti di Dio (ḫalīfat Allāh), e comunque «ben guidati» (mahdi). In questo modo si poteva dimostrare che ogni cosa i califfi facessero, essa era ben guidata dalla predeterminazione divina, e addirittura predestinata (nel bene e nel male).64

Probabilmente furono già Mu’āwiya, predestinazionista, e di sicuro il molto più religioso ’Abd al-Malik, perlomeno nella seconda metà del suo regno, coloro che legarono strettamente la misericordia divina del principe e il determinismo religioso. Il significato concreto, spiega un ḥadīṯ che deve aver molto circolato sotto al-Walād I: Dio scrive soltanto le buone azioni del sovrano, ma non quelle malvagie. E Yazād II ha fatto già confermare in tutte le forme, all’inizio del suo regno, che un califfo non deve rendere conto a Dio della sua condotta, poiché tutto ciò che fa il «rappresentante ben guidato» da Dio, è giusto fin dal principio. In questo modo si potrebbe definire volontà di Dio anche la condotta di vita del godereccio al-Walād II che, già da pretendente al trono, viveva di «vino, donne e canti». In una poesia questi si richiama al fatto che un musulmano, sempre che non rinneghi la sua fede, va comunque in paradiso (a prescindere dalle sue mancanze). Interpretazioni del genere, in questi ambienti, sono molto diffuse.

«Prospettiva dal basso»: in base a questa iperbolica ideologia di potere, negli ambienti della cultura cittadina dei nuovi ceti lavoratori e formatori si originano naturalmente tendenze opposte. Si insiste con decisione: l’uomo è responsabile del male; esso non può assolutamente essere attribuito a Dio. Ogni uomo è creato da Dio per compiere il bene, tuttavia è libero di compiere anche il male. Egli risponde come individuo e ha quindi il suo qadar, una propria autodeterminazione e una propria responsabilità. Si riconosce subito la dirompente forza politica di una controversia che sembrerebbe puramente teologica: se l’uomo è responsabile delle sue cattive azioni, proprio per questo può essere chiamato a rispondere anche dinnanzi a Dio (che sia un suddito o un califfo!)

Qadarāya è il nome di questa corrente spirituale-religiosa non sempre precisamente inquadrabile, ma già presto oggetto di violente discussioni, una corrente che prende forma in Iraq con gli asceti di Bassora, caratterizzata da una concezione quasi pietistica del peccato. All’inizio il movimento non è ancora militante, ma in Siria, dove questa tendenza è diffusa, probabilmente già in epoca cristiana, essa dà origine a una fazione politico-sociale. Pur non assumendo posizioni politiche apertamente avverse al califfato, gli abili rappresentanti dell’ autodeterminazione umana (tra cui i più valenti teologi dello stato!) e «rappresentanti di Dio» vedono certo in questa teoria un pericolo. Ma osserviamo questo fenomeno con maggiore attenzione e concentriamoci prima di tutto su due figure di leader, una a Bassora (Iraq) e l’altra a Damasco (Siria).

 

Autodeterminazione dell’uomo – un pericolo politico: i qadariti

In Iraq il pensiero qadarita è precoce. Bassora è una città cosmopolita in cui vivono molti persiani, molti indiani e molti africani dell’est, la città si trova a 15 km dallo Shatt el-Arab, da cui, secondo la tradizione, l’apostolo Tommaso avrebbe scelto la via del mare per raggiungere l’India. In queste regioni l’atteggiamento generale verso i califfi regnanti è di fedeltà e il colpo di stato di Yazād III non viene visto con approvazione. Ma Bassora è allo stesso tempo una città molto viva dal punto di vista intellettuale, un centro in cui si ama il kalām, la disputa teologica, e la poesia, una città in cui non mancano correnti di pensiero irrazionali, tra cui estatici ed eretici di ogni tipo. Bassora è stata definita la culla dell’ascesi e della mistica islamica. Infine ci sono anche tracce di libero pensiero:65 in città (oltre ad audaci componimenti poetici) circola uno scritto contro l’islam, una condanna senza eguali della religione islamica nel mondo arabo. C’è anche una parodia del Corano, che cerca di dimostrare come si possa imitare lo stile del Corano e rendere l’effetto delle sure coraniche con una prosa rimata.

 

Tuttavia, in generale, il clima spirituale della città è orientato all’ascetismo. Più che, ad esempio, a Kufa, a Bassora la coscienza di essere il popolo eletto è controbilanciata dalla consapevolezza della propria peccaminosità e della bassezza del mondo. E nessuno sottolinea il prezzo che il popolo eletto deve pagare in modo più incisivo di Ḥasan al-Basrī (morto nel 728),66 figlio di un iraniano e, sebbene per poco, addirittura qāḍī sotto ’Umar II. Uomo devoto, ma non certo mistico che parte dall’accordo con Dio, egli fu un predicatore molto influente della coscienza dei peccati. L’ideale religioso del timore di Dio (taqwā), concetto centrale già nel Corano e virtù fondamentale del musulmano, che dimostra l’elezione della sua fede con l’osservanza degli ordini, appare ora superato dall’ideale della rinuncia al mondo (zuhd), che tuttavia mira al compimento di un’opera divina nel mondo stesso.

A quanto pare il califfo ’Abd al-Malik interroga in ogni modo Hasan al-Basrī, chiedendo che cosa intenda con qadar. Senza dubbio Hasan era un quraisita, ma certo un qadarita «asimmetrico»: predeterminati da Dio sono: il momento della morte, le condizioni patrimoniali personali, le afflizioni e le buone opere. I peccati, al contrario, non vengono da Dio, ma dall’uomo (o da Satana). Nella sua risposta ai califfi, ammesso che sia autentica (cosa assolutamente possibile), 67 Hasan non limita la sua teoria, ma la completa: le sue idee non sono assolutamente innovative, anzi gli antenati della comunità musulmana originaria avevano già attribuito agli uomini la propria responsabilità e una certa autodeterminazione, basandosi su parole del Corano come: «E io non ho creato i ğinn e gli uomini altro che perché M’adorassero?».68 Un’innovazione, invece, era costituita dal severo predestinazionismo, che assegna a Dio una totale capacità di predeterminazione.

Evidentemente, tuttavia, al-Hasan non riesce a convincere il califfo. Il fatto che i teologi assegnino il qadar a ogni uomo, quando secondo la concezione ufficiale esso spetta soltanto a Dio e al suo rappresentante, al signore appare come una teoria sovversiva e pericolosa per lo stato, dalle conseguenze imprevedibili. È comprensibile che già ’Abd al-Malik tenti di porre dei limiti a questa corrente... soltanto che il suo tentativo ottiene il risultato opposto.

E come stanno le cose in Siria? Sotto il successore di ’Abd al-Malik, al-Walīd, i qadariti arricchiscono la loro teoria di elementi anti-omayyadi. Gailàn ad-Dimašqī (morto nel 732)69 è una delle loro guide spirituali. Sebbene suo padre fosse un convertito copto e, per questo, lui stesso un mawlā («associato»), pare che questi abbia ricoperto, sotto ’Umar II, una posizione importante, dirigendo tra l’altro la zecca di Damasco. Egli accompagna persino il califfo Hišām nel suo pellegrinaggio alla Mecca. Ġailān non fu un pensatore speculativo, ma un critico della società e un prolifico scrittore di lettere. Egli aveva un’idea ben precisa: i governanti possono considerare il loro potere non semplicemente come «dono divino», con il quale possono fare ciò che vogliono. Dovrebbero invece prendere coscienza della loro responsabilità verso gli uomini, proprio dinanzi a Dio.

A questo punto si pongono i primi problemi storico-critici: Ġailān ha davvero estremizzato la teoria della responsabilità salvifica individuale di ogni uomo in base all’audace tesi che non solo un quraisita, ma ogni uomo che faccia buon uso del Corano e della sunna, possa diventare califfo. Josef van Ess ritiene che questa non sia una tesi siriana, ma una tesi irachena diffusasi successivamente. È già Gailàn ad affermare che un califfo che non segue questi principi deve essere rimosso dal trono? Egli arriva addirittura ad affermare: se tutti i musulmani prestassero veramente obbedienza a Dio e alla sua legge, ci sarebbe poi bisogno, in fondo, di un «rappresentante di Dio» sulla terra? Di sicuro c’è soltanto una cosa: in futuro molti si ispireranno a Gailàn...