– nel X secolo i Qarakhanidi conquistano la Transoxania,
– nell’XI secolo i Selgiuchidi sunniti conquistano l’Iran e l’Anatolia (sotto il comando dapprima di Arslan ibn Salguq, poi di Togril Beg, vincitore sui Ghaznawidi),
– nel XIII secolo infine i Mongoli (per lo più sciamanisti e buddhisti) conquistano quasi l’intera regione. Quest’attacco mongolo lascia dietro di sé quasi solo tracce negative: nel 1258 Baghdad viene conquistata e distrutta, l’ultimo Abbaside viene assassinato e così il califfato viene portato all’estinzione anche fisicamente.
Con ciò è anche cancellato il simbolo politico dell’unità dell’islam. Tutti i tentativi di rifondarlo (ad esempio il califfato succedaneo in Egitto dal 1261 al 1517) falliscono. E tuttavia, ironia della storia: proprio per tramite dell’immenso impero mongolo, in cui in seguito molti dovevano convertirsi all’islam, l’islam penetra ora massicciamente in Cina. Timur (1336-1405), un mongolo musulmano turchizzato di Samarcanda (Transoxania), che per una lontana parentela si richiama al leggendario conquistatore del mondo Gengis Khan (1167-1227), riunisce una seconda volta, nella seconda metà del XIV secolo, le grandi leghe tribali turco-mongoliche contro il mondo islamico e spietatamente dà il colpo di grazia anche alle chiese del Vicino Oriente e dell’Iran. Al tempo stesso, però, consente il permanere di una cultura islamica negli stati minori nati dalla frammentazione del regno abbaside.
A Occidente si possono osservare i seguenti grandi cambiamenti:
– già nell’VIII secolo, in occasione della rivoluzione abbaside, la Spagna era uscita dal grande impero arabo: un emirato indipendente e poi il califfato di Cordova, che però si spense nel 1031;
– nel IX secolo, in Tunisia e Tripolitania gli Aghlabiti arabi (con capitale Kairouan) si affrancano dal potere centrale e conquistano la Sicilia, poi si distaccano i Tulunidi di origine turca nella Valle del Nilo (Moschea di Ibn-Ţūlūn nell’attuale Cairo);
– nel X secolo, partendo dalla Tunisia, si impongono in Egitto e Siria (da allora stati tra di loro particolarmente legati) i Fatimidi sciiti, fondatori della città del Cairo e di un contro-califfato sciita; tuttavia i Fatimidi non sono in grado di imporsi completamente come dinastia di successione agli Abbasidi. Nel 1171 vengono rimpiazzati dagli Ayyubidi sunniti guidati dal Saladino;
– nel X secolo Bisanzio riesce ancora una volta a riconquistare il nord della Siria e dall’XI al XIII secolo crociati europei, nel corso di sette crociate, possono occupare la Palestina – contro i Selgiuchidi turchi che furono in grado di espandersi fino all’Asia Minore – e instaurare un «regno di Gerusalemme».
Terzo grande scontro islam-cristianesimo: le crociate
Sulle orme del Profeta, l’islam fu senza dubbio una religione guerriera. E il cristianesimo? In contraddizione con il non-violento Gesù di Nazaret, anche il cristianesimo si era sviluppato come religione bellicosa. Fu il precursore del papato assolutista, Gregorio VII (Ildebrando, 1073-1085) che per primo lavorò intensamente al piano di una grande campagna militare verso Oriente – per estorcere l’obbedienza di Bisanzio e per conquistare Gerusalemme – vent’anni prima che la Prima crociata avesse effettivamente luogo. Sotto la sua guida personale come papa e generale, il primato romano si sarebbe imposto anche a Bisanzio e si sarebbe posto termine allo scisma tra Oriente e Occidente. Anzi, Gregorio è a suo modo un sostenitore della «guerra santa», lui che non solo invia la «bandiera di Pietro» (cioè la benedizione di Pietro) alle fazioni in guerra da lui favorite e benedice così i conflitti, ma che è anche il primo papa a garantire ai partecipanti alla guerra – ad esempio per la riconquista della Spagna – un’«indulgenza» dalle pene per i peccati commessi, sulla base dei «pieni poteri» che si presume Cristo abbia conferito a Pietro.
Per questo, non senza ragione, Gregorio VII è stato definito il papa più guerrafondaio che abbia mai occupato il soglio di Pietro. Continuamente arruola nuove truppe, compie spedizioni militari e cavalca anche di persona, splendidamente decorato, nella battaglia. Sembra che con lui l’antico principio secondo cui la chiesa non deve spargere sangue sia finito nel dimenticatoio. Gregorio cita volentieri il passo di Geremia: «Maledetto chi trattiene la spada dal sangue!».1 Non è un caso, dunque, che già dieci anni dopo la morte di Gregorio si giunga alla Prima crociata (1096-1099)2 – nella e per la «Terra Santa», per la liberazione dei luoghi santi dagli «infedeli»! Il gran regno selgiuchide si trova in crisi, dopo l’uccisione dell’eminente Gran Visir Nizam al-Mulk nel 1092, e minaccia di crollare, cosicché gli eserciti crociati non si imbattono più in alcuna grande potenza islamica unita.
Ora, come è noto una crociata è qualcosa di essenzialmente diverso da un pellegrinaggio, un viaggio d’avventura o un’emigrazione, benché il fattore pellegrini giochi un ruolo essenziale e la voglia di avventure (favolose concezioni dell’Oriente) e il desiderio di evasione (dai debiti e da altre condizioni miserevoli in patria) giochino un ruolo non di poco conto. Una crociata è per sua essenza una guerra santa che pretende di avere l’autorità divina, nel segno – ricordiamo Costantino – della croce vittoriosa! Bernardo di Chiaravalle (1090-1153, un monaco come Ildebrando!) fu il primo teorico cristiano della guerra santa che giustificasse teologicamente l’uccisione di infedeli. 3 Ma senza l’iniziativa e la benedizione del papato, che contribuisce concedendo privilegi ai crociati (indulgenze, liberazione da tasse e dazi, moratoria dei debiti privati), non si sarebbe mai potuti arrivare a questo. Le crociate anti-islamiche sono fin dall’inizio iniziative papali, anche se al papato, spesso, la loro realizzazione concreta sfugge di mano.
Le crociate non sono pertanto incidenti di percorso storico o sottoprodotti accidentali della storia della chiesa. Sono un tipico fenomeno del paradigma cattolico-romano (P III).4 Eppure si era generalmente convinti, in Occidente, che si trattasse di un’impresa profondamente cristiana:
– la crociata è considerata una faccenda di tutta la cristianità (occidentale), non importa se la Prima crociata ha luogo sotto guida francese, la Seconda sotto guida francese e tedesca, la Terza sotto quella tedesca;
– le crociate sono considerate come approvate da Cristo stesso, poiché appunto il papa ha personalmente lanciato l’appello a parteciparvi come portavoce di Cristo;
– le crociate, nelle quali si è privi di basi di approvvigionamento per migliaia di miglia e sottoposti a indescrivibili strapazzi per lo più attraverso terre ostili, non sarebbero possibili senza un autentico entusiasmo religioso, passione, spesso psicosi di massa. Ai crociati la loro impresa viene presentata come una sorta di pellegrinaggio, e parecchi vi prendono addirittura parte sulla base di un esplicito voto. E «Gerusalemme», la città santa dell’inizio e della fine della storia cristiana, proprio in quest’epoca ha un suono magico. Anzi, le indicibili sofferenze, paure, perdite e il «successo» nonostante tutto incredibile proprio della Prima crociata sembrano confermare ai crociati: «Dio lo vuole!».5 È questa l’unica crociata che, per lo meno, raggiunge l’obiettivo militare e fonda stati crociati: il regno di Gerusalemme e gli stati feudali di Antiochia, Edessa e Tripoli, che diventano subito oggetto di controversie tra le potenze europee.
Innocenzo III, che celebra la crociata come «mezzo di salvezza», promuove quella Quarta crociata (1202-1204) che conduce alla conquista fatale e al saccheggio di tre giorni della Costantinopoli cristiano-ortodossa, all’erezione di un impero latino con organizzazione ecclesiastica latina e all’asservimento della chiesa bizantina. Certo, questa non era l’intenzione originaria di Innocenzo, a posteriori però egli loda questo sviluppo come opera della provvidenza divina; l’obiettivo a cui il papato mirava fin dal V secolo – erigere il primato romano anche a Costantinopoli – sembra raggiunto. E invece, è proprio il contrario: lo scisma Occidente-Oriente della chiesa è con ciò praticamente suggellato.
Ovviamente anche le crociate devono essere comprese «alla luce della loro epoca», senza con ciò giustificarle. Dietro a esse sta la teologia agostiniana dell’uso legittimo della violenza da parte dell’autorità legittima e per giusta causa. Doveva venire difesa o imposta la «causa di Cristo», intendendo questo Cristo, ora visto con occhi molto umani, come «Cristo politico», e il primato romano come primato di sovranità. Perciò fu possibile all’epoca criticare i crociati, i cui peccati furono considerati causa degli insuccessi, ma quasi per nulla le crociate, per lo meno non fintanto che si credette alla loro riuscita.6 Di certo, le crociate hanno indirettamente contribuito all’allargamento dell’orizzonte spirituale dell’Occidente, alla ripresa economica del commercio nel Mediterraneo e delle città italiane, alla formazione di un’aristocrazia fondata su ideali comuni (cavalleria) e alla crescita del tenore di vita nelle città (borghesia). Eppure al tempo stesso fa riflettere il fatto che, allora, in considerazione di questa evidente reinterpretazione politico-militare del messaggio cristiano, sorgessero sì in misura crescente dubbi sull’utilità delle crociate, sulle alte tassazioni ad esse collegate e sulla verità esclusiva della dottrina cristiana, ma che quasi nessuno ponesse fin dall’inizio e in maniera ineludibile le domande critiche evidenti a partire dal Vangelo.
Dovremo porre all’islam alcune domande molto chiare riguardo alla politicizzazione e militarizzazione della religione. Ma per prima cosa i cristiani stessi dovrebbero oggi chiedersi, con lo sguardo alla mentalità della crociata contro l’islam, che per di più sta rifiorendo («guerra al terrorismo», guerra contro l’Iraq 2003):
– se la croce del Nazareno non sia distorta quando, invece di ispirare il cristiano a portare quotidianamente la sua croce reale, legittima guerre sanguinose di cavalieri crociati che la indossano sulle loro vesti;
– se il papa sia veramente portavoce di Cristo quando descrive una simile spedizione crociata come atto di «amore» cristiano e di «penitenza» e come «opera meritoria» proprio per laici e soprattutto per cavalieri, dato che appunto a monaci e preti non è consentito lo spargimento di sangue;
– se la persecuzione sanguinosa delle comunità ebraiche in Francia, nella Renania, nella Baviera e nella Boemia, che è già collegata all’ondata della Prima crociata, ma anche la persecuzione di comunità cristiane ortodosse da parte dei crociati latini, non avrebbero dovuto essere un segnale di avvertimento che qui si trattava per molti più di odio, vendetta e avidità che di penitenza e amore;
– se la strategia del massacro e dell’espulsione dei musulmani in importanti luoghi conquistati (in attesa di coloni occidentali) e lo spaventoso bagno di sangue di ebrei e musulmani dopo l’ingresso a Gerusalemme non stia in eclatante contraddizione con quel Gesù che è entrato a Gerusalemme senza violenza, a cavallo di un asino;
– se gli stati crociati appena fondati e gli ordini di cavalierato che prestavano servizio armato (i Gerosolimitani, i Templari) non siano fin dall’inizio sconfessati dal predicatore di Nazaret, secondo il quale i non violenti possiederanno «la terra»;
– se pertanto, contro l’antica tradizione, fosse lecito considerare i cavalieri caduti come martiri destinati a entrare direttamente in paradiso...
Per la grandiosa storia dell’islam le crociate – per quanto fossero rimaste impresse nella memoria dei musulmani come aggressione – furono in fin dei conti un episodio, che si consumò al margine dell’impero e non scosse la potenza dell’islam. Non fu primariamente dall’esterno che giunse la distruzione per l’impero mondiale degli Abbasidi: il dissolvimento iniziò prima di tutto dall’interno.
L’età post-imperiale: i controcaliffi
Alla disgregazione interna del califfato era seguita l’esautorazione esterna, e precisamente sia da parte della periferia che dal centro del regno.7 L’emiro omayyade di Cordova si faceva già da tempo chiamare califfo, mettendo sostanzialmente in discussione la sovranità del califfo di Baghdad sul suo regno spagnolo. E in Tunisia era stato fondato nel 909 da parte dei Fatimidi8 un terzo califfato, che nel 969 già dominava quasi tutto il Nordafrica e l’Egitto, con la sua nuova capitale Il Cairo: questi sono ora i diretti vicini e i più pericolosi rivali degli Abbasidi, con i quali l’Occidente islamico – prescindendo dalla Siria, oggetto di contesa – è definitivamente perduto. I Fatimidi, che appartengono alla shia politico-rivoluzionaria dei Sette o ismailita, non sono solo rivali politici, che infiltrano propagandisti e agitatori per far traballare il regno abbaside; sono anche nemici ideologico-religiosi. Non a caso affermano di discendere direttamente dal profeta Muḥammad attraverso la di lui figlia, Faṭimā (più importante dello zio ’Abbas!), e con l’utilizzo del titolo di califfo si avvalgono della successione del Profeta per l’intera umma – senza però poterlo imporre contro i due califfi rivali di Baghdad nell’Oriente arabo e di Cordova nell’Occidente arabo.
Al quarto califfo fatimide al-Mu’izz l’Egitto deve la nuova cittàreggia (costruita poche miglia a nord dell’antico insediamento militare arabo di Fustat) del Cairo (al-Qāhira – «la potente, la vittoriosa») e la moschea reale al-Azhar («la splendente»), presto dotata di trentacinque cattedre giuridiche, e che sarebbe diventata, ed è ancora oggi, la più rinomata sede accademica del mondo islamico. Il regno dei Fatimidi organizza inizialmente un sistema amministrativo, economico e culturale molto riuscito che, benché sciita, si mostra straordinariamente tollerante, e questo non solo nei confronti della maggioranza sunnita: «Sotto nessun altro regime islamico, i cristiani e gli ebrei egizi hanno goduto di libertà e privilegi tanto ampi come sotto il primo califfo fatimide»,9 scrive a buon diritto Halm, islamista di Tübingen.
Ben diverso però è il famigerato sesto califfo fatimide al-Ḥākim (996-1021) che sebbene non sia, come sostengono la propaganda cristiana e quella pro-abbaside, un dissoluto assetato di sangue, è comunque un brutale «fondamentalista» estremamente diffidente, che si considera l’incarnazione dell’intelletto divino, reintroduce provvedimenti discriminatori nei confronti di cristiani ed ebrei e nel 1009 fa demolire, con altre chiese, anche il Santo Sepolcro costruito da Costantino a Gerusalemme.
Verso la fine del secolo il primo esercito crociato conquista le coste della Siria e della Palestina e nel 1099 infine anche Gerusalemme. Dopo più di duecento anni di controcaliffato sciita, il califfo fatimide, nel frattempo ridotto a principe di un territorio ridotto, viene deposto nel 1171. Questo accade per mano di un ufficiale curdo trentunenne, che dal 1168 è wazir, Ṣalāh ad-dīn, il Saladino, che riporta l’Egitto sotto la sovranità formale del califfo sunnita di Baghdad. Domina ora al Cairo, per i successivi otto decenni, la dinastia fondata dal Saladino, figlio del curdo Aiyūb, per questo detta degli Ayyubidi .10 Diversamente dai Fatimidi, il Saladino può fare affidamento sulla lealtà dei suoi numerosi parenti e governa con l’aiuto di una sorta di federazione familiare. Tramite un’accorta politica e una superiore strategia militare il Saladino riesce, nel 1187, a sbaragliare il regno di Gerusalemme. Nonostante le violente lotte per la successione, la federazione di governo dinastica degli Ayyubidi resta in vita, fino a che non viene disgregata nel 1252 dalla sua stessa stirpe di mercenari, quella dei Mamelucchi. Ai «curdi» seguono quindi come sovrani i «turchi».
L’Occidente cristiano, però, nel XII-XIII secolo ha riportato una vittoria colossale, sia economica sia scientifica, nonostante le crociate e in parte grazie a esse, per l’intensificarsi degli scambi commerciali tra l’Europa e i paesi islamici del Mediterraneo orientale. Le repubbliche marinare di Genova, Pisa e Venezia sono diventate immensamente ricche con le loro flotte, come testimoniano il Duomo, il Battistero e il Campanile di Pisa (XII secolo).
Ritorniamo ai Buyidi (945-1055), già nominati, che governano sull’Oriente fin dalla tarda epoca abbaside.11 Di origine iranica, fanno parte della shia dei dodici politicamente quietista. Non vogliono fondare alcun controcaliffato, benché ne abbiano la possibilità, ma appoggiano il califfato abbaside (come faranno più tardi anche i Ghaznawidi). Perché? Non perché non avessero la forza necessaria per surclassare gli Abbasidi (un califfo divenuto politicamente sospetto, ad esempio, venne accecato da un Buyida e sostituito con un altro), ma per un calcolo freddamente politico. Data la situazione politica della seconda metà del X secolo, la formale conservazione del califfato era un vantaggio, sia in considerazione dei nemici Fatimidi e del loro falso califfato, sia dei bizantini che spingevano minacciosamente verso sud, si erano già inoltrati dalla Cilicia fino ad Antiochia e avevano anche conquistato Cipro.
Il modo migliore in cui i Buyidi possono dimostrare davanti a tutto il mondo la legittimità, niente affatto garantita, del loro dominio, in una umma profondamente divisa, è ricollegarsi al venerando califfato di Baghdad; per questo si fanno nominare insieme al califfo nella preghiera del venerdì. Alla luce riflessa di questo grande nome si crogiolano i nuovi «barbari», in modo simile ai «barbari» germani con i papi romani che li incoronano, e fanno volentieri trasferire formalmente su di sé funzioni di governo prerogative del califfo – dalla guida della preghiera all’amministrazione militare fino alla giustizia. Lo stesso, sulla falsa riga dei Buyidi iranici, faranno anche i Ghaznavidi e i Selgiuchidi turchi.
I turchi come eredi dell’impero islamico: invece dei califfi, i sultani
Il mondo islamico è e rimane diviso. Non solo gli arabi, ma anche gli iranici non possono conservare a lungo termine la loro posizione dominante. Altri sono gli eredi dell’impero: i turchi soprattutto! Solo in un simile periodo di debolezza fu possibile anche quella riconquista cristiana che abbiamo già conosciuto sotto il nome di crociate. In effetti: il futuro dell’islam giace ora in mano turca, e di questa supremazia turca erano già state poste le basi nel periodo della decadenza abbaside. Di turchi, infatti, di questo popolo delle steppe dell’Asia centrale convertitosi a partire dalla Persia all’islam sunnita di orientamento hanafita, erano appunto composte le primissime truppe degli Abbasidi, e turchi erano anche i Ghaznavidi, i signori del grande stato orientale con centro nell’attuale Afghanistan e in seguito anche nell’India settentrionale. Nomadi turchi sono infine anche i Selgiuchidi, che nella prima metà dell’XI secolo conquistano l’intera Persia e nel 1055 anche Baghdad, per fare del califfo fantoccio dei Buyidi il proprio fantoccio.
I Selgiuchidi, che risiedono per lo più nella persiana Isfahan, la cui classe dominante impara il persiano (ma raramente l’arabo) e il cui dialetto turco sudoccidentale impiega diverso tempo prima di saper produrre letteratura, si presentano come difensori e sostenitori del califfato e dell’islam sunnita, una politica culminata nel matrimonio del capo selgiuchide Ṭoġril Beg con una figlia del califfo. Ma qual è intanto la reale autorità del califfo? Essa è ora, nell’XI secolo selgiuchide, puramente nominale, simbolica, persino nel settore orientale, e si estende per di più solo a una parte del precedente impero.
Ottocento anni più tardi i papi, a fronte della perdita del loro potere politico, accentueranno sempre più il loro potere spirituale: allo stesso modo il califfo esautorato cerca di essere ora «simbolo della sovranità della legge islamica, a cui» sarebbero «tenuti tutti i musulmani». 12 E come, dall’XI al XXI secolo, teologi cattolici cercano di far discendere dal papa l’autorità di qualunque ufficio nella chiesa cattolica, così, ancora sotto i deboli Buyidi, il Gran Qadi shafiita al-Māwardī (morto nel 1058), su incarico del califfo al-Qã’im, cerca di presentare il califfato: esso sarebbe il fulcro di ogni potere islamico legittimo, anzi, sarebbe il «pilastro su cui poggiano i fondamenti della comunità religiosa e in conformità al quale si regola il bene della comunità. Di conseguenza tutte le faccende comuni si basano sull’imamato, tutti gli uffici particolari discendono da esso».13
In questo contesto, nel 1056 Togril Beg si fa assegnare ufficialmente dal califfo, come primo sovrano islamico, il titolo di Sultano (sulṭān), termine che originariamente indicava a dire il vero il potere di un sovrano, ma dal X secolo il sovrano stesso. A questo punto indica il sovrano investito di potere dal califfo. All’inizio, perciò, sono sultani, in questo significato ufficiale, solo i capi selgiuchidi. Tra il califfo e il sultano c’è per lo più un rapporto teso, per quanto non possa sussistere alcun dubbio sulla dipendenza politica del califfo dal sultano. Benché risiedano soltanto temporaneamente a Baghdad, i sultani selgiuchidi hanno in pugno la metropoli con il loro esercito, possono ricacciare i Fatimidi dalla Siria e infliggere ai bizantini, nel 1071, una sconfitta totale (con cui inizia la turchizzazione dell’Anatolia!) e giungere così, un po’ alla volta, a dominare il settore centrale e orientale dell’impero. Alla fine addirittura riesce ai Selgiuchidi ciò che non riuscì agli arabi: dopo la distruzione del grande regno armeno nel 1071, il loro grande regno selgiuchide può estendersi fino all’Asia Minore, ancor oggi popolato dai turchi. In seguito, però, anche altri signori regionali si attribuiscono il titolo di sultano: una legittimazione a posteriori di questi usurpatori attraverso un califfo appare col tempo superflua, così come la figura stessa del califfo in quanto simbolo dell’unità musulmana.
Nel XIII secolo giungono al potere, in Egitto e in Siria, i Mamelucchi turchi, originariamente schiavi militari (mamālīk: «schiavi»), che già nel 1260 sono in grado di impedire, con la loro vittoria presso ‘Ain Ǧālūt in Palestina, un’ulteriore avanzata dei Mongoli, che avevano distrutto Baghdad due anni prima. I Mamelucchi annientano anche definitivamente i possedimenti crociati in Palestina e in Siria. Fondano così nel Vicino Oriente una signoria stabile per ben duecento anni, che permette una tarda fioritura dell’islam sunnita tradizionale. L’ortodossia sunnita, incarnata dal falso califfato mamelucco del Cairo, procura loro la legittimità; l’aristocrazia militare, formata da schiavi militari continuamente reclutati di fresco, garantisce il potere politico; dazi interni e di transito, nonché beni demaniali, finanziano il mantenimento dello stato, mentre i feudi finanziano l’esercito. Eppure, nell’epoca della sua decadenza, il regno dei Mamelucchi viene sopraffatto dalla forza in espansione degli Osmani.
Basilari, nella tradizione selgiucca, sono questi Osmani (da Osman I, 1281-1326), stanziati nel XIV secolo originariamente nella regione nordoccidentale dell’Asia Minore (più tardi in Bursa), che subentrano anche ai Selgiuchidi in Anatolia (la Roma orientale: per questo sono detti «Selgiuchidi romeni»). Essi osano già nel 1354 varcare lo stretto del Bosforo, stabilire la loro residenza a Adrianopoli (oggi Edirne) e assoggettare nei Balcani serbi e bulgari. Gli Osmani raggiungeranno infine, il 29 maggio del 1453, quello che era stato per sei secoli, invano, l’obiettivo tanto ambito degli arabi: la conquista di Costantinopoli, che diviene, col nome di Stambul o Istanbul, la capitale della Turchia e il centro del nuovo grande regno islamico occidentale; ben presto ne faranno parte anche Mesopotamia, Siria, Palestina, Egitto e Arabia.
L’invasione mongola e le sue conseguenze catastrofiche
Nell’epoca della dissoluzione progressiva del sultanato selgiuchide, gli ultimi Abbasidi tentano di fondare almeno un regno abbaside regionale. Nel corso di questi scontri con i Selgiuchidi un califfo viene giustiziato, il suo successore cacciato dal trono e il terzo assassinato. Tuttavia a un energico wazir di califfi riesce di erigere un piccolo regno regionale abbaside, grande all’incirca come l’attuale Iraq. Anzi, il califfo che vi regnò a lungo, an-Nāṣir li-dīn Allāh (1180-1225), è in grado, con l’aiuto delle «Leghe Futuwa» ascetiche e combattenti, leghe maschili cittadine di cavalieri originariamente provenienti dagli strati sociali più bassi, dapprima di fondare una dinastia e poi di integrare nel suo regno molte dinastie locali, dall’Afghanistan fino all’Asia Minore. Ma questa impresa ha portata solo regionale.
Già prima della morte di an-Nāṣir compaiono alle frontiere i Mongoli, che sottomettono in pochi anni l’Iran e nel 1258 sono alle porte di Baghdad. Allorché il califfo al-Musta‘ṣim (1242-1258) non reagisce all’intimazione a capitolare, il capo mongolo Hülägü fa assaltare la città ed entra a cavallo nel palazzo, fin sotto il trono dell’ultimo califfo di Baghdad, che viene ucciso avvolto dentro a un tappeto. Gran parte della popolazione della città viene massacrata. Dovunque l’onda mongola si diriga, si lascia dietro innumerevoli morti, città distrutte e sistemi d’irrigazione, fondamentali per l’agricoltura, abbandonati. Dovunque, viene arrestato uno sviluppo economico, sociale, culturale e religioso che per molti secoli e molte generazioni era stato incoraggiato.
Una catastrofe, non c’è dubbio. Per la prima volta vaste e centrali regioni dell’islam sono sotto un dominio non islamico. Al tempo stesso, l’invasione mongola sospinge avanti molti popoli turchi, verso l’Asia occidentale, fino all’Anatolia. Solo col tempo i Mongoli dell’Iran, sotto la dinastia degli Ilkhanidi, adottano la religione dei sudditi musulmani e propagano infine l’islam sunnita anche verso l’Asia centrale, cosicché l’«Orda d’Oro», che si estende fino a tutta la Russia, si converte da sé all’islam. Le missioni cristiane operanti anche nell’Asia centrale subiscono in larga misura un tracollo. Eppure, col tempo tanto le potenze europee quanto quelle islamiche concorrenti raggiungono un risultato: dall’Europa fino all’Estremo Oriente si possono sviluppare contatti commerciali e culturali – garantiti per due secoli esatti dalla pax mongolica.
Questo è dunque il bilancio storico: il paradigma abbaside del califfato, già nel 945 politicamente finito, è tramontato irrimediabilmente nel 1258 con l’invasione delle tribù mongole dall’Asia centrale. L’ampia regione dall’Estremo Oriente fino ai Balcani ha subito un cambiamento radicale tra il XIII e il XV secolo: già dalla metà del X secolo nessun califfo vanta più, nell’area di dominio dell’islam, il comando come «guida dei credenti». Il comando ce l’hanno ora dovunque i guerrieri nomadi turchi, così come i signori della guerra di schiavi e i loro sultani. Per l’analisi del cambiamento di paradigma questo ha diverse implicazioni.
Questo significa: chiunque sia politicamente al potere e governi lo stato, religiosamente, eticamente e giuridicamente i fedeli ora non guardano più, per orientarsi, ai califfi e ai sultani. Guardano piuttosto agli esperti di religione, gli ulama, e – in futuro sempre di più – anche ai mistici, i sufi e alle loro comunità religiose. A entrambi questi gruppi dobbiamo ora dedicare la nostra attenzione; entrambi hanno avuto e continuano ad avere nel nostro presente, per lo meno in particolari paesi e milieu islamici, un grande significato religioso e talvolta anche politico.
L’ebraismo non sarebbe sopravvissuto alla fine politica del paradigma teocratico postesilico (P III ebraico), dopo il tramonto dello stato giudaico, la distruzione del Secondo Tempio (70 d.C.) e della città di Gerusalemme (135), senza i rabbini. Furono gli esperti di religione ebraici che, con le loro sinagoghe e la codificazione della tradizione interpretativa (Talmud), posero le fondamenta del nuovo paradigma rabbinico-sinagogale del medioevo (P IV ebraico), assicurando così all’ebraismo la sopravvivenza per secoli. Lo stesso vale per l’islam: anch’esso non sarebbe potuto sopravvivere, dopo l’esautorazione del califfato (945) e il suo crollo (1258), alla fine del paradigma islamicoclassico del califfato (P III) senza gli ulama (’ulamã’, al sing. ‘ālim). Sono gli esperti di religione islamici, che come i rabbini non sono sacerdoti, che fondano un nuovo paradigma «tardo-medievale» per l’islam (P V). Questi dotti del Corano e degli ḥadīṯ, del diritto e della teologia, sempre distinti dal califfato, si erano comunque guadagnati già da tempo un’autorità propria nelle questioni religiose e avevano trovato riconoscimento pubblico: ora, sotto regimi stranieri, in una costellazione politica completamente nuova, non solo sono in grado di conservare entrambi, ma di rafforzarli ancor più fondamentalmente. Perché?14
Funzioni: formazione dei funzionari, educazione comunitaria, rete di comunicazioni
Anche i nuovi signori, spesso davvero privi di educazione e quasi senza istruzione, dipendono dalle vecchie élite, anche dalla loro formazione dei funzionari. Gli ulama, che per lo più sono, contemporaneamente, teologi ed esperti di diritto, divennero col tempo responsabili dell’educazione superiore. Avevano costruito scuole di diritto che erano corporazioni perfettamente organizzate di maestri e allievi. Si erano preoccupati della formazione di giudici, notai, esperti di diritto e funzionari della giustizia. E a fianco delle scuole di diritto fondano speciali scuole per teologi, che non possiedono alcuna funzione giudiziaria e amministrativa, ma che comunque, come ad esempio la Mu‘tazila e la scuola di Aš’arī, acquisiscono un’identità sociale precisa.
L’aspetto importante è che queste scuole per quadri della burocrazia non sono accademie scientifiche lontane dal popolo, ma istituzioni con un proprio seguito, completamente radicate nella società popolare. Da sempre, infatti, vengono sostenute e mantenute non dallo stato, ma da benefattori e seguaci, soprattutto dal ceto dei mercanti e degli artigiani che vivono grazie a quelle comunità in cui operano e di cui essi educano i qadi, gli imam e i predicatori da pulpito (ḫaṭīb). Queste scuole servono così non solo alla formazione dei quadri amministrativi, ma anche all’educazione della comunità. I legami sociali all’interno delle scuole sono spesso più forti delle relazioni politiche con l’autorità statale.
Tuttavia, le scuole di diritto e di teologia non sono per nulla cristallizzate localmente e territorialmente isolate. È vero che si basano completamente sulla relazione personale dello studente con il suo maestro, che è anche il suo educatore religioso e dal quale egli ottiene, dopo la conclusione dei suoi studi, un certificato sui libri studiati a fondo con lui; ma alcuni dei professori compiono grandi viaggi, ad esempio se vanno alla ricerca di ḥadīṯ o anche se si sono resi troppo invisi all’autorità politica. A loro volta, anche gli studenti viaggiano volentieri da un grande maestro di diritto e di teologia ad un altro, per potersi così cimentare in un ampio ventaglio di studi differenti. Di conseguenza, tutte le scuole di diritto e di teologia dispongono di numerosi contatti internazionali. E questo si ripercuote, non da ultimo, sulle nomine di posti da giudice e altri incarichi amministrativi, che si effettuano secondo le scuole di diritto. Si giunge così a una rete di comunicazione internazionale informale, ma estremamente efficace, di dotti musulmani.
Di queste tre funzioni – formazione dei quadri amministrativi, educazione comunitaria, rete di comunicazione – gli ulama si erano già avvalsi molte volte nel precedente paradigma (P III), tuttavia esse ottengono nel nuovo paradigma, privo di un vertice politico centrale, una qualità diversa, superiore, e un peso politico maggiore. Al tempo stesso si giunge ora a innovazioni determinanti.
La nuova forma di organizzazione: la madrasa
Chi viaggia attraverso la Persia o il Marocco s’imbatterà di certo in questo gioiello dell’architettura, soprattutto a Isfahan e a Fès: la madrasa (madrasa: scuola), detta anche medrese, medresse, medersa.15 Si tratta di un luogo di educazione islamica superiore, che ora partecipa in maniera essenziale alla formazione dell’islam, ma in seguito, a causa della stagnazione in ogni settore, perde credito e significato e nel XVI secolo ha già fatto il suo tempo. La madrasa è proprio un simbolo di questo paradigma.
Originariamente la formazione degli ulama si svolgeva in maniera del tutto informale, per lo più nell’ambito delle moschee, dove spesso venivano attrezzate una o più stanze apposite e in seguito anche una biblioteca per lo studio. In quest’epoca invece nasce un’istituzione in larga misura indipendente con un proprio complesso di edifici, che serve al tempo stesso da sede di insegnamento e da residenza per studenti e docenti. Ci sono precedenti per la madrasa? Sì, si trovano nel Khorasan nell’ambito della scuola di diritto shafiita: la lezione di diritto si svolgeva qui originariamente in case private, che poi furono trasformate in case per studenti e per docenti di passaggio. Però sono i Ghaznavidi che all’inizio dell’XI secolo fondano ufficialmente le prime madrasa. I Selgiuchidi ne fanno delle istituzioni statali e fondano in tutte le città di una certa grandezza madrase hanafite o shafiite, che ben presto diventano il modo principale, nell’islam sunnita, per impartire l’educazione giuridica e teologica. In questo modo tali istituzioni educative si espandono dall’Iran verso occidente, tanto che poi, alla fine del XII secolo, solo a Baghdad si contano trenta madrase, a Mosul sei e a Damasco venti. Nel XIII e nel XIV secolo ce ne sono anche nel Maghreb, anzi persino a Granada.
Anche nello stile edilizio la madrasa rappresenta qualcosa di nuovo. 16 Il suo schema a quattro īwān è di origine persiana, a forma di croce dall’epoca selgiuchide: quattro edifici (a due o più piani) con un grande atrio con tetto a volta (īwān), aperto sul cortile, si raggruppano intorno a un cortile interno a forma quadrata o rettangolare, decorato non di rado da una fontana. Dirimpetto all’entrata principale si riconosce l’īwān centrale e, in maniera non dissimile dall’abside di una basilica cristiana, la nicchia di preghiera in direzione della Mecca (mihrāb), per lo più rivestita riccamente di maioliche, piastrelle, marmi, decorazioni in stucco e in legno e ornata di iscrizioni coraniche e di decorazioni floreali e geometriche – sede dell’officiante la preghiera (imām) durante la liturgia divina. Negli edifici non si trovano solo celle, una cucina e un bagno, ma di solito anche una biblioteca, talvolta addirittura un ospedale, così come il mausoleo del fondatore.
La madrasa riunisce così le funzioni di una moschea, di una scuola di diritto e di un seminario teologico. Essa dà alloggio a docenti e ad allievi; questi ottengono gratis il loro insegnamento assieme a vitto e alloggio e spesso anche all’assistenza medica. La madrasa viene finanziata sempre tramite una donazione religiosa (waqf), grazie alla quali i benefattori evitano la suddivisione ereditaria, nominano amministratori i loro eredi e possono in larga parte determinare l’orientamento della madrasa. Per gli ulama che qui operano, questo significa un introito regolare assicurato e un innalzamento del loro status. Benché non siano persone consacrate, gli ulama godono di un maggiore prestigio rispetto alle professioni mondane, appartengono a un ceto specifico che si differenzia nell’abbigliamento non meno che nei privilegi, non diversamente, per molti aspetti, dal clero cristiano – ma senza praticare il celibato proprio della chiesa romana.
E come è strutturato il piano di studi? Non esiste un vero e proprio curriculum con gradi accademici. Si mira a far sì che lo studente padroneggi il Corano, per quanto possibile a memoria. Vengono insegnate dai diversi professori le «scienze islamiche»: scienza del diritto (di una o di più scuole di diritto), teologia, scienza storica e scienze ausiliarie come grammatica, lessicologia e retorica. Non vengono generalmente insegnate le «scienze non islamiche» come la filosofia, la medicina, la matematica, le scienze naturali e le scienze occulte. Lo studente può in seguito dare lezioni come docente solo nelle materie per le quali può esibire un certificato.
Movimenti popolari e lotte di partito
In origine il cuore della scuola di diritto era costituito esclusivamente da dotti, giudici e loro studenti, e inoltre funzionari, ricchi mecenati e seguaci locali. Ora però tali scuole si estendono sempre più a ogni strato della popolazione: non offrono infatti soltanto servizi caritativi, educativi e giuridici, ma assumono in misura crescente anche compiti di guida politica e sociale.17
Già durante i conflitti tra i seguaci di Ibn Hanbal, la «prova» aveva evidenziato la facilità con cui gli ulama potevano mobilitare masse. Senza negare fautorità del califfo in faccende statali, essi rivendicarono però autorità in tutte le questioni religiose, che appunto potevano essere giudicate in maniera giusta solo sulla base del Corano e degli hadīt. In questo modo gli hanbaliti, dapprima, si guadagnarono un’autorità religiosa e un ruolo di guida sociale indipendente dallo stato; nell’islam sunnita fu questa di fatto la prima comunità musulmana separata dal califfato. Venne così sperimentato il nuovo modello di relazione tra gli esperti della religione e il potere politico, che ora, in un’epoca prima di impotenza, poi di scomparsa del califfato, doveva ottenere un significato molto più grande. Anche le altre scuole di diritto si sviluppano ora in comunità religiose, che seguono le loro autorità e regole interne, incuranti del califfato, e che basilarmente possono funzionare anche senza il califfato. Gli ulama lo rendono possibile.
Gli ulama rafforzano la loro posizione nella società: a confronto con le gerarchie militari, che non hanno dimestichezza con le tradizioni locali, gli esperti di religione, inizialmente lontani dalla politica, grazie al loro prestigio religioso ed intellettuale diventano la futura élite sociale e politica. Legati in varia misura a mercanti, proprietari terrieri e funzionari amministrativi, sono loro stessi ad esercitare, di fatto, il governo in alcune città e territori, data l’instabilità dei regimi politici. Gli ulama devono la loro autorità non a una nomina o a un gruppo che devono rappresentare, ma al loro maestro, alla loro educazione e al riconoscimento di cui godono presso il popolo. Un’autorità centrale sovraordinata agli ulama o un’organizzazione di tipo ecclesiastico con potere di consacrazione non c’è. È evidente che, nell’età post-califfale, si entra in un nuovo paradigma islamico.
In quest’epoca, le scuole di diritto imparano quindi sempre meglio ad assicurarsi il sostegno delle masse, o a procurarsi direttamente influsso politico nelle dimostrazioni pubbliche. Le madrasa funzionano in ciò come centri di propaganda religiosa e agitazione politica, non solo, ad esempio, dei sunniti contro i sempre attivi sciiti, ma anche delle scuole di diritto sunnite le une contro le altre. Da sempre, del resto, tali scuole erano state in concorrenza tra loro, avevano litigato per posti da giudice, per il controllo della dottrina e per decisioni politiche. Ora però la lotta tra scuole e tra partiti assume obiettivi ancora diversi.
Gli hanbaliti sono coloro che danno l’avvio all’unica vera e propria Inquisizione dal basso, cercando con ogni mezzo di imporre anche ad altri le proprie concezioni religiose. Qui compaiono, per la prima volta nell’islam, quei gruppi di guardiani della fede impegnati a reprimere le attività immorali, come la prostituzione e il bere vino, e che non arretrano neppure davanti alla violenza nei confronti dei loro avversari della Mu’tazila e della scuola di Aš’arī. È tristemente noto il caso di Ibn ’Aqīl,18 che turba profondamente Baghdad negli anni 1068-1072, perché gli hanbaliti dapprima mandano in esilio questo studioso e poi addirittura lo costringono ad abbandonare in pubblico e in forma scritta i suoi contatti con la Mu’tazila e a ripudiare le sue concezioni in favore di una professione di fede strettamente ḥanbalita.
Controdomanda: un’alternativa all islam della legge?
Diversamente da quanto accade nei precedenti paradigmi, in quest’epoca si è radicata presso la maggioranza dei musulmani e dei loro docenti di religione la concezione secondo cui la verità appartiene alla maggioranza. Come abbiamo visto, nell’islam la comunità ha una grande rilevanza nel determinare la verità. Però, mentre in precedenza si trattava della comunità musulmana come tale (umma) contrapposta a tutte le comunità non musulmane, ora si tratta della «maggioranza istituzionalizzata» (al-ǧamā’a) all’interno della umma, vale a dire della comunità di coloro che si attengono alla sunna. Essi rivendicano per sé, al contrario di altre (minoritarie) comunità religiose, l’ortodossia – il tutto in maniera non dissimile alla prassi della grande chiesa nel paradigma cattolico-romano (P III) nei confronti delle chiese orientali e degli sviluppi particolari occidentali. Gli studiosi musulmani trovarono naturalmente un numero sufficiente di hadīt che facevano dire al Profeta in persona che il vero musulmano deve seguire sempre la maggioranza, mentre le minoranze sono sulla via dell’inferno. Anzi, l’aiuto speciale di Dio sarebbe talmente dalla parte della maggioranza, che questa non può mai essere in errore. Questa concezione fu sviluppata dalla maggioranza fedele alla sunna, il sunnismo, che si attribuì così in pratica l’infallibilità nelle questioni di fede, di morale e di diritto.
Tuttavia, nel sunnismo non ci si spinge fino al punto di attribuire infallibilità a un singolo capo religioso. Nonostante tutti i pregiudizi dello scisma e la messa al bando di ogni dissenso, nella prassi ci si sforza molto per tollerare le diversità. Fortunatamente, anche a questo riguardo esiste un famoso hadīt: le differenze di opinione sono una benedizione per la comunità. Nell’islam, quindi, giungere a scomuniche formali e a grandi divisioni di fede è molto più difficile che nel cristianesimo di ispirazione ellenistica (P II), o ancor più cattolico-romana (P III). In linea di massima, nell’islam l’aspirazione è l’adattamento, l’integrazione, la sintesi. Ḥarigiti e mu’taziliti avevano appunto mostrato dove portavano il rigorismo morale o l’uniformità dottrinaria. Fintanto che un gruppo si attiene alla fede nell’unico Dio e alla profezia definitiva di Muḥammad – e questo lo fanno appunto anche i grandi avversari dei sunniti, gli sciiti, che credevano all’infallibilità dei loro imam – si chiude un occhio su talune loro eccentricità ed «eresie» e li si considera sì in errore, ma musulmani in errore.
Nonostante tutto ciò, in questo paradigma privo di califfi gli scontri tra scuole, così come tra sunniti e sciiti, raggiungono il culmine. Gli sciiti, ora, per rafforzare e propagare il loro credo, celebrano le loro proprie feste e venerano soprattutto i propri martiri perseguitati dalla maggioranza, mentre le diverse scuole sunnite, seppure nell’ambito dell’unica umma, si sviluppano in comunità sempre più esclusive e tra loro ostili. Talvolta un quartiere della città insorge contro l’altro; non di rado, per dividere sunniti e sciiti vengono persino innalzate mura tra i diversi quartieri. Addirittura una intera città, Nishapur (nell’Iran nordorientale), viene completamente sconvolta alla metà del XII secolo da violenti scontri, in questo caso tra la scuola di diritto hanafita e quella shafiita. L’identificazione con la propria setta religiosa diventa più importante di quella con la umma: «In questa forma le scuole equivalgono al quartiere cittadino, alla linea di discendenza o alle altre corporazioni municipali in cui già da sempre le città del Medio Oriente venivano divise. La religione si sovrappose ora alle identificazioni di tribù o di quartiere» (I.M. Lapidus). 19
La sharia costituisce la base comune, unificatrice, perlomeno dell’islam sunnita. Ma, così si chiedevano e si chiedono ancora alcuni musulmani, tutte le scuole di diritto, tutti gli esperti di diritto e l’intera dottrina giuridica non mettono appunto in luce aspetti del tutto particolari dell’islam, trascurandone altri? Assolutamente sì, e diviene sempre più chiaro che le esigenze religiose che vanno ora affermandosi tra i singoli e in seguito anche tra la popolazione in senso ampio non possono essere veramente soddisfatte dall’islam della sharia. Certo, la preghiera comune, la vita religiosa e il pellegrinaggio alla Mecca hanno ancora un ruolo importante. Certo, un ingegnoso complesso di procedure giuridiche aiuta l’uomo a trovare nel Corano e nella sunna la risposta giusta per tutte le domande della vita e del culto quotidiani. Certo, le istituzioni che amministrano la giustizia, culminanti nell’ufficio del giudice, del qadi, hanno il dovere di fare in modo che il diritto si affermi: hanno lo stesso dovere gli esperti chiamati a consiglio dal sovrano, i mufti. E tuttavia è altrettanto certo che l’uomo, e soprattutto l’uomo religioso, esige più che solo «diritto». Molte delle domande critiche già allora sollevate contro l’islam della legge sono attuali ancora oggi: domande che vengono dal passato e altre che valgono per il futuro.
Non c’è dunque affatto da meravigliarsi che i movimenti popolari delle scuole di diritto non rimangano gli unici raggruppamenti sociali a strutturare il nuovo paradigma senza califfi. Anzi, proprio nell’XI secolo, allorché l’islam sunnita della sharia sembra stabilito, allorché ciò che i grandi giuristi dell’VIII e del IX secolo avevano annunciato e di cui avevano dato testimonianza con la loro vita era divenuto bene comune, molti lasciano passare in primo piano altri scopi e ideali: invece dello studio di una legge estremamente complicata e delle sue innumerevoli applicazioni nel quotidiano, la ricerca dell’esperienza diretta di Dio. Diviene pertanto sempre più importante un genere del tutto diverso di comunità rispetto alle scuole di legge. Esso deriva dai «mistici», e costoro costituiscono solo a partire da questo paradigma vere e proprie confraternite, che surclassano in molti ambiti le scuole di legge e ottengono un importante ruolo sociale universale – e perciò è solo in questo paradigma che possiamo darne una descrizione, anche se la loro fondazione risale a molto prima.
Già l’ebraismo, come anche il cristianesimo, aveva avuto un rapporto piuttosto schizofrenico con la mistica. In quanto religioni profetiche, entrambe hanno come presupposto fondamentale non il divenire una cosa sola con Dio, ma il perenne contrapporsi di Dio e uomo, il contrapporsi di creatore a creatura, del giudice giusto e santo al peccatore che continuamente ricade nel suo peccato. Qualunque identificazione dell’uomo con Dio o con il divino viene dunque considerata con grandi riserve. Allo stesso modo ci si comporta, in linea di massima, nell’islam, la terza grande forza religiosa di carattere profeticomonoteista.
Eppure, come nell’ebraismo poté formarsi per un lungo periodo, sotto l’influsso della Qabbalah, un movimento mistico di una certa importanza, che però fallì tragicamente,20 e come anche nel cristianesimo troviamo a più riprese singoli mistici e piccole comunità mistiche, che però altrettanto continuamente vengono nel sospetto dell’Inquisizione e ne subiscono la persecuzione,21 così anche nell’islam nasce un movimento mistico. Esso diventa addirittura potentissimo e riesce a sviluppare strutture capaci di dominare, a fianco delle scuole di legge, nel nuovo paradigma senza califfi (P IV) – diversamente da quanto accade nell’ebraismo e nel cristianesimo. Si sta parlando del movimento dei sufi, che, pur con tante sovrapposizioni, rappresentano comunque un altro tipo di musulmano rispetto agli ulama. Dal X al XIV secolo i sufi diventano un vero e proprio movimento popolare, a cui compete una dinamica sociale considerevolmente più forte che alle scuole di legge, orientate complessivamente alla conservazione dell’esistente. Con proprie forme di devozione, proprie istituzioni e una propria teologia, questo movimento diventa la forma più popolare e maggiormente diffusa di islam, appunto la forma «mistica». Ma è poi, in sostanza, «mistica» ciò che qui nasce?
La mistica è proto-islamica? In principio è l’ascetismo
Il sufi (sūfī, plur. ṣūfiyūn; şūfīya= sufismo) sarebbe, come si traduce spesso in maniera troppo semplicistica, un mistico. Ma che cos’è un «mistico»? I termini «mistico», «mistica» vengono utilizzati nel linguaggio comune in maniera spesso estremamente vaga e equiparati a termini come enigmatico, strano, misterioso o anche semplicemente irrazionale. Invece «mistico», interpretato sulla base del significato originario, viene dal greco myein, che significa: chiudere la bocca o gli occhi; i «misteri» sono «dottrine nascoste», «culti segreti», sui quali vige l’assoluto silenzio nei confronti di coloro che non sono iniziati. «Mistica» non è pertanto ogni forma di spiritualità; è più precisamente quella religiosità che trattando con orecchie profane tiene chiusa la bocca (e gli occhi) sui segreti celati, poiché essa cerca di raggiungere la salvezza nell’interiorità e infine un’esperienza intuitivo-immediata di unità con Dio, che la si voglia chiamare «gnosi» o «conoscenza», «sophia» o «saggezza» o anche «luce» e «amore».22
Dal precedente capitolo sugli ulama si dovrebbe poter facilmente dedurre perché la fascinazione della mistica potesse coinvolgere i singoli credenti anche nell’islam, come già era avvenuto tra gli ebrei e i cristiani: in una religione della legge dovevano apparire particolarmente attraenti per i singoli musulmani:
– la tendenza all’interiorità e all’approfondimento;
– la libertà interiore nei confronti delle costrizioni legalistiche ed eventualmente anche nei confronti del potere politico;
– infine, il superamento dell’autoritarismo e del formalismo tramite il pensare e lo sperimentare l’unità.
Ora, però, proprio l’esperienza dell’unità non fu mai primaria nell’isiam, e questo ci porta a dover rispondere alla domanda: che cosa s’intende esattamente per mistica islamica?23 Coincide esattamente con il movimento del sufismo? Lo stato delle fonti riguardo ai primi testi sufi è confuso; gli specialisti sono in disaccordo sia sulla datazione, sia sull’autenticità delle prime testimonianze, risalenti all’VIII secolo. Una cosa è comunque certa: la parola araba per mistica, tasauwuf, significa letteralmente «vestirsi di lana». E così anche la parola şūfī, da cui a partire dal XIX secolo si è tratto, nelle lingue occidentali, il termine «sufismo», risale alla parola şūf = «lana» (non è dimostrato se abbia avuto un ruolo sul suo impiego il termine greco sophós = «saggio»). È il ricordo del fatto che i primi sufi si fecero notare non per una particolare «filosofia» o pratica spirituale, bensì per un panno di lana grezza: quel saio di lana che già molto prima aveva rappresentato l’abito della penitenza per gli asceti cristiani (soprattutto i nestoriani). Ma questi sufi erano veramente mistici? Certo, fin dall’inizio ci furono seguaci del Profeta che aspiravano a una più stretta relazione interiore con Dio. Che però, già nel VII secolo, ci fossero nell’islam veri e propri mistici, non è ancora oggi stato dimostrato. In ogni caso, i sufi compaiono solo a partire dall’VIII secolo.
Da dove trae le sue origini il sufismo? Studiosi islamici e occidentali le hanno a lungo ricercate al di fuori dell’islam. E in effetti, nella storia successiva del sufismo si possono accertare svariati influssi:
– neoplatonici: concezioni dell’Uno, della ragione e dell’anima attraverso la cosiddetta «Teologia di Aristotele» (opera che di fatto deriva dalle Enneadi di Plotino),24 tradotta in arabo nell’840;
– cristiani: tramite i monaci ed eremiti siriaci;25
– indiani: tramite gli asceti buddhisti per quanto riguarda le tecniche di meditazione e di respirazione (per il primo periodo, tuttavia, questi influssi sono particolarmente controversi);26
– turkestani: influssi sciamanici,27 solo in determinati luoghi, su particolari usi e consuetudini, senza significato per il contenuto spirituale del sufismo.28
Ciò nonostante, la critica odierna – sotto influsso soprattutto dei grandi fondamentali lavori dell’orientalista francesce Louis Massignon 29 – si è allontanata in larga misura dalle tesi di dipendenza: non solo perché, ad esempio, i musulmani danno importanza all’originalità, ma perché i problemi metodologici di autenticità e di datazione sono pressoché insormontabili. Oggi, in ogni caso, anche la ricerca scientifica presuppone uno sviluppo indipendente: le origini del sufismo sono cioè da ricercare nell’ascetismo islamico.30 Non per nulla i sufi, che indossano il ruvido panno di lana, la stoffa dei poveri, si chiamano anche i «poveri» = fuqarā’(plurale del termine arabo faqīr, in persiano darwēš, più recentemente darwīš), da cui derivano i termini italiani fachiro e derviscio.
Da ciò deriva una prima importante cognizione: i sufi originari non furono affatto, in senso proprio, mistici che proclamavano una dottrina e un’esperienza di unità, ma piuttosto asceti, tra i quali molti avevano provocatoriamente rotto i ponti con la società vigente e la disprezzavano, oppure lottavano attivamente per la gloria della fede (ǧihād) negli insediamenti musulmani di confine.31 A questi musulmani, che sfuggono alla minaccia e alla collera di Dio per rifugiarsi tra le sue braccia protettive, non interessa tanto l’«unità» con Dio quanto l’ottemperare alle sue richieste.
Ricordiamo: già al-Hasan al-Basrī (morto nel 728), che in seguito verrà considerato anche dai mistici, come dai teologi, il loro padre fondatore, non era un mistico che ricercasse la fusione con Dio. Era un asceta, che voleva semplicemente condurre una vita proba e devota all’interno del mondo. Asceti erano quei fedeli a Bassora e dintorni che reagirono alla crescente mondanizzazione, al lusso e alla decadenza dei costumi sotto gli Omayyadi (P II): meditavano con dolore e paura le parole del Corano sull’imminente Giorno del giudizio, e per questo li chiamarono «quelli che piangono ininterrottamente» (albakkā’ ūn,) che certo si poteva anche intendere ironicamente come «i piagnoni».
A differenza del musulmano medio, questi devoti proclamavano e praticavano la rinuncia e la purezza, si esercitavano nella sottomissione a Dio e nell’assimilazione al suo Profeta e inoltre davano grande peso all’osservanza scrupolosa dei comandamenti coranici e della tradizione, a fronte della diffusa indifferenza e superficialità della vita religiosa. Attraverso l’umiliazione e l’annullamento di sé cercavano l’annullamento in Dio.
La mistica però, pur con tutte le sue innumerevoli varianti, è qualcosa di più dell’ascesi e dell’obbedienza alla legge. La mistica in senso stretto – così dicevamo – è l’aspirazione consapevole all’esperienza interiore diretta della realtà di Dio. E di mistici islamici in questo senso (nell’ambito dei molti «portatori di saio») ce ne sono in numero rilevante solo a partire dalla fine del IX secolo, dunque solo dall’epoca degli Abbasidi (P III), e anche qui non si tratta affatto di un movimento di massa capace di determinare un paradigma, ma di una questione elitaria di competenza dei singoli sufi e dei loro allievi, amici e circoli, soprattutto a Baghdad. Da ciò consegue una seconda importante cognizione, che viene troppo poco sottolineata dagli amanti, occidentali e orientali, della mistica islamica: la mistica non è proto-islamica (P I), per quanto si possa richiamare a singoli versetti coranici e per quanto naturalmente ci siano stati, già nell’epoca della conquista, alcuni singoli fedeli che hanno riflettuto sulla loro posizione nei confronti di Dio, e in generale di quella di tutti gli uomini, e ne hanno parlato. Si conferma qui la nostra interpretazione dell’essenza dell’islam (che vale analogamente anche per l’ebraismo e il cristianesimo): originariamente l’islam non è una religione mistica, ma una religione radicalmente profetica.32 Ne dobbiamo però dedurre che la mistica sia non-islamica?
La mistica è non-islamica? Esperienza personale di Dio
Naturalmente, anche in epoche più tarde, ci furono sufi che diedero una enorme importanza all’ascesi, ma alla domanda se un sufi possa essere ricco vengono date risposte differenti. Una chiara divisione tra asceti e mistici non è possibile, né necessaria. Ma la caratteristica dei primi asceti – il continuo piangere sulla condizione miserevole del mondo e la separazione dal consesso umano – non permane, guarda caso, nella mistica islamica classica che prende forma nel IX secolo. Sebbene anch’essa apprezzi genericamente l’allontanamento dal mondo, non lo intende obbligatoriamente nel senso di una fuga radicale, ma soprattutto come un parziale distacco interiore e un’insistenza sulla libertà spirituale pur all’interno della società umana. Il sufismo accetta sì l’ascesi (zuhd), ma trascende anch’essa come una delle «stazioni» del «cammino». Per i sufi in senso classico è caratteristico l’itinerario interiore con cui si ricerca l’unione diretta con Dio. Essi volevano essere «amici di Dio»: auliyā’ (sing. wali) Allāh. Anche nell’ambito di religioni profetiche, questa esperienza di unione mistica può non essere dichiarata impossibile, in linea di principio. Ciò che davvero conta è come la s’intende.
Secondo i maestri della mistica, tale esperienza non può compiersi in maniera spontanea e arbitraria, ma deve seguire un processo ordinato e metodico per «gradi»: cominciando dalla purificazione intenzionale raggiunta tramite diversi mezzi psichici e fisici, attraverso la contemplazione dimentica di sé fino magari all’estasi del rapimento e dell’immersione in Dio, nella quale l’uomo unisce il suo io all’incommensurabile Assoluto, alla divinità. Ci sono a questo proposito alcuni esercizi d’immersione mistica (ancora oggi utilizzati), che hanno sicuramente avuto un ruolo speciale, già fin dall’epoca classica del sufismo, nella ricerca di una maggiore vicinanza con Dio o, magari, per il raggiungimento di stati psichico-spirituali eccezionali:
– il ricordo di Dio (dikr Allāh): l’invocazione ripetuta ininterrottamente, a mo’ di litania, del nome di Dio e degli altri suoi 99 nomi, così come la ripetizione di determinate formule (soprattutto della professione di fede), originariamente una semplice preghiera33 (sussurrata o pronunciata ad alta voce, da soli o in gruppo), diviene un mezzo per raggiungere stati di estasi. Già durante il servizio militare alle frontiere questo «incitamento al ricordo di Dio» veniva consigliato per tenere alto il morale, per dare senso al ğihād;34
– l’ascolto di poesia e musica (samā’): per questo, dalla metà del IX secolo, i sufi non solo coltivarono la fratellanza tra di loro, ma soprattutto si risvegliò e aumentò in loro il sentimento di amore per Dio. I canti d’amore recitati, cui i poeti avevano dato un significato puramente terreno, vennero interpretati più simbolicamente dai sufi;35
– fin dai primi tempi si aggiunsero a ciò, come espressione esteriore del sommovimento interiore, il movimento e la danza ritualizzata, nella quale era ammesso che gli spettatori si lasciassero trascinare dai movimenti e in cui talora gli estatici strappavano o gettavano singoli capi d’abbigliamento (spesso un omaggio a musicisti o cantanti), non di rado perdevano il turbante, anzi potevano addirittura entrare in trance; nel XIII secolo la danza riceverà presso i Maulawī (l’ordine del grande poeta Ğālal ad-dīn Rūmī) una forma artistica e un carattere simbolico.36
A guidare in tutto i sufi è l’esempio del Profeta, come testimoniato negli hadīt: la sua giustizia e la sua affabilità, la sua compassione e la sua misericordia. Nessuno come lui ha raggiunto ciò che i sufi cercano: l’intimità con Dio. Chiunque cerchi di imitare il cammino di vita del Profeta, sarà capace di ottenere lui stesso una simile intimità con Dio.
Benché tale mistica avesse, in alcune sue forme di manifestazione e in alcuni suoi personaggi, qualcosa di rivoluzionario e di losco, fin dall’inizio non si pose affatto in contrapposizione alla sharia, ma volle scavalcarla (come l’ascesi). Detto con una formula: dalla legge islamica (šarī’a) al cammino mistico (ṭarīqa) verso la verità (ḥaqīa), alla più vera delle realtà, a Dio, cosa che può essere raggiunta con l’aiuto dei tre esercizi d’immersione sopra nominati. Non ci si propone la separazione dalla comunità islamica (certo, nulla vieta a un mistico di far parte di una delle scuole di diritto), ma un processo di interiorizzazione al centro del quale stanno, al posto dell’erudizione giuridica, il lavoro su se stessi sotto la guida del maestro e la conoscenza diretta e l’esperienza personale di Dio. Al posto della dottrina razionale, la guida pratica delle anime.
Per questo, i sufi hanno generalmente una posizione di rifiuto nei confronti della filosofia, del suo retaggio ideologico ellenistico e della sua lingua astratta, che crede di trovare la sapienza senza profeta e senza rivelazione. Di teologia invece si occupano, ma in un senso nuovo, come ha correttamente osservato l’orientalista basileese Fritz Meier, uno dei maggiori conoscitori occidentali del sufismo: se ne occupano come di «una scienza di introspezione religiosa e una riflessione interiore, ad essa mirata, delle sacre scritture islamiche», detta anche «scienza dell’interiorità» o «dottrina delle opere del cuore».37 Il classico sufi è perciò al tempo stesso uno studioso e una guida spirituale. In linea di principio anche gli ulama, che si attengono al Corano, agli hadīt e alla sharia, possono ricercare, tramite pratiche specifiche, una più profonda conoscenza religiosa, un atteggiamento spirituale più intenso e una disciplina etica più rigorosa: così facendo, ulama e sufi divengono la stessa cosa.
Per quanto possano esserci influssi dall’esterno – neoplatonici, cristiani, indiani o dell’Asia centrale – la cosa decisiva è: la mistica non avrebbe mai potuto imporsi nell’islam se non fosse stata in profonda consonanza con lo spirito del Corano. I sufi, che si considerano speciali «amici di Dio» come pure veri eredi del Profeta, si sentono certo anche confortati e legittimati proprio dal Corano. In effetti, il lettore attento trova nel Corano non solo, appunto, continuamente proclamata la trascendenza di Dio, ma anche alcuni accenni all’immanenza di Dio. Dopotutto, Dio è «più vicino che la vena grande del collo»38 all’uomo. Certo, «non l’afferrano gli sguardi»39 degli uomini, ma essi devono sapere: «ovunque vi volgiate ivi è il volto di Dio».40 E Dio ha posto segni della sua onnipotenza e bontà non solo nella natura, ma anche «dentro voi stessi».41
Per i mistici musulmani diventa particolarmente importante quell’alleanza preistorica o antichissimo patto di Dio con l’umanità, di cui si può leggere la motivazione nella Sura 7, 172, dove Dio chiama la futura umanità dai lombi del non ancora creato Adamo e le chiede: «Non sono Io il vostro Signore?», ed essa risponde: «Sì, l’attestiamo!». Oltre a ciò, già lo stesso Corano parla, appunto, di una classe privilegiata di «amici di Dio»,42 riferimento che i sufi attribuiranno a se stessi. Il libro sacro parla anche a più riprese dell’anima inferiore o carnale (nafs) e dello spirito (rūḥ), che secondo i sufi spesso si trovano in contrasto tra di loro nel cuore (qalb) dell’uomo.
In questo contesto si ha un nuovo orientamento della lettura del Corano, opera che, di certo, si contraddistingue in generale più per rigore e severità che per mitezza e calore. Il Corano deve essere letto non solo con gli occhi del capo, ma anche con gli occhi del cuore, che sono in grado, se illuminati da Dio, di vedere e comprendere la natura interiore e il significato delle cose.43 Mentre gli antichi asceti avevano continuamente fatto ricorso alle sure del giudizio finale, motivo per loro di critica, paura e pianto, i mistici si basano soprattutto sui passi fondamentali che abbiamo citato e in modo particolare su quel versetto che parla dell’amore di Dio orientato alla reciprocità: «Egli amerà [loro] come essi ameranno Lui».44
Si parla pertanto di mistica dell’amore. La grande orientalista tedesca Annemarie Schimmel, che ha indagato le «dimensioni mistiche dell’islam» sulla base soprattutto della letteratura poetica e delle sue ardenti metafore tratte dagli ambiti dell’amore terreno e dell’ebbrezza da vino,45 ha chiarito a più riprese che è questo amore, l’amore per l’assoluto, che distingue la mistica autentica dall’atteggiamento ascetico. Ciò che caratterizza i mistici non è la tristezza della rinuncia, no, ma la gioia dell’unione. «Che cos’è il sufismo?», si chiederà molto più tardi il grande poeta mistico che abbiamo già nominato, Rūmī, e risponderà: «Trovare la gioia nel cuore, quando viene il tempo della preoccupazione».46
Tuttavia: come la mistica cristiana trae ben poco direttamente dalla Bibbia, così la mistica islamica trae ben poco direttamente dal Corano. Dietro a parole coraniche possono nascondersi idee molto diverse. Dopotutto, le opinioni degli specialisti divergono molto non solo in relazione ai diversi influssi, ma anche riguardo alla datazione e autenticità dei primi testi sufi dell’VIII secolo; e non spetta certo a un teologo cristiano fare qui da arbitro.
La difficoltà diventa evidente se si esamina la testimonianza di quella devota donna di Bassora, Rābi’a al-’Adawīya (morta nell’801) che, esplicitamente inserita dal notissimo scrittore arabo Ğāḥiz nella lista dei «non sufi», non si è mai neppure lei stessa definita come tale. Secondo alcuni interpreti,47 è stata la prima a testimoniare con la sua vita l’ideale dell’amore altruistico per Dio: un amore indipendente da qualsiasi paura dell’inferno e premio nel paradiso, un amore fine a se stesso, come si trova espresso anche da parte degli eremiti cristiani. Per altri interpreti,48 invece, questa accentuazione dell’amore nell’islam poggia su versi che vengono attribuiti a Rābi’a (come anche a quattro altre figure) solo da una fonte circa duecento anni più recente (per quanto gli studiosi abbiano scoperto anche una seconda Rābi’a, vissuta in Siria nel X secolo). Ciò che conta per il nostro contesto è che nella prima mistica si ritenesse capace di un ruolo così rilevante una donna, anzi conta il fatto stesso che sia provata l’esistenza di un’intera serie di mistiche sia in Iraq sia in Siria.49
Scopo della mistica – vivere continuamente in Dio: Muḥāsibī e Ğunaid
Di sicuro, in ogni caso, nella mistica classica non siamo di fronte a un concetto di unità nel senso della mistica dell’unità universale proto-indiana, bensì di religiosità dalla radice profetica. Non a caso la mistica classica è stata definita anche «mistica morale» (at-taṣauwuf al ḫuluqī). Ciò deriva dalla constatazione che un’intera serie di mistici slamici della prima ora diedero centralità alla fiducia incondizionata (tawakkul) in Dio, che per questo – impiegata unicamente in relazione a Dio! – diventa un concetto centrale del sufismo.50 E questo accento sulla fiducia assoluta in Dio (credo fiducioso) conferma il fatto che la mistica classica islamica si muove perfettamente nell’ambito delle religioni profetiche, che sono state appunto definite (a differenza delle antiche religioni mistiche dell’unità di origine indiana) anche come «religioni della fede». Che si consideri questa fiducia in Dio come un attributo in sé e per sé del credente o come conseguenza di una fede perfetta, o che si differenzi tra diversi gradi di fede: fiducia incondizionata, dedizione fiduciosa a Dio nascono per i mistici islamici dal riconoscimento dell’unicità di Dio (tawhīd), che non ammette nessuna associazione (širk) di una creatura, nemmeno un cripto-politeismo (širk ḫafī), poiché la saggezza, la forza e la misericordia dell’unico Dio comprendono assolutamente tutto e sono causa di tutto (mistici persiani della fiducia in Dio come Yaḥyā ibn Mu’ād ar-Rāzī parlano addirittura di perdono universale).
Tuttavia, una fiducia in Dio eccessiva, che faccia appello alla predeterminazione e all’efficacia universale di Dio, può condurre alla totale passività dell’uomo. Viene così raccontato l’aneddoto di un sufi che confidava solo in Dio, il quale, mentre vagava per il deserto senza cibo, venne divorato da un leone, e di un altro che non fece nulla per salvarsi e affogò nel Tigri. E se si fosse imposto in generale quel disprezzo estremistico di tutto ciò che è mondano in quanto contaminato, di ogni lavoro fisico in quanto sporco, di ogni possesso e denaro in quanto riprovevole, allora l’economia e la vita sociale islamiche sarebbero state completamente paralizzate. Ciò aiuta a comprendere, non da ultimo, perché i capi sufi spingano, invece che a pratiche esteriori di fiducia in Dio, all’abbandono nelle braccia di Dio come atteggiamento interiore. Ciò che importa in questo contesto è la teoria della conoscenza interiore, intuitiva di Dio, o gnosi, che pare abbia per la prima volta formulato il nubiano Dū n-Nūn (morto nell’859 o 860), figura difficilmente inquadrabile storicamente, capo della scuola egiziana di sufismo.
Tuttavia è soprattutto alla scuola irachena di mistica, fondata da al-Muhāsibī (morto nell’857), che i sufi debbono molte tematiche per la loro psicologia e la loro complessa terminologia – sviluppata non ai fini della riflessione antropologica, ma dell’interpretazione religiosa. Nella sostanza, Muḥāsibī è ancora sulla linea degli asceti più che su quella dei mistici; lui stesso, non a caso, non si definisce «sufi», benché egli rappresenti, sotto il profilo per così dire specialistico-concreto, una sorta di «Padre della chiesa» della religiosità mistica; solo in seguito il termine «sufi» verrà accettato in senso più generale come definizione dei mistici islamici. Di una visione terrena di Dio, in ogni caso, Muḥāsibī parla «più come un teologo prudente e razionale che come un mistico rapito dall’esperienza interiore».51 Con ciò egli non rifiuta l’ascesi, non la vede però fine a se stessa, bensì come mezzo per la purificazione dell’anima, per prepararla così alla comunione con Dio.52
Un antesignano della mistica vera e propria facente parte di questa scuola irachena, che dà tanta importanza al giudizio psicologico, alla precisa osservazione di sé e al rigoroso autocontrollo, è l’indiscussa guida del sufismo classico, Abū 1-Qāsim al-Ğunaid (morto nel 910), un iraniano nato in Iraq e passato attraverso la scuola shafiita di diritto, al quale in seguito risaliranno tutte le catene di trasmissione, di legittimazione e d’iniziazione delle confraternite sufi.53 Gunaid è un pensatore acuto di grande razionalità e serietà religiosa, traboccante di pensieri di maestà divina. Naturalmente anche lui sapeva che il sufi deve percorrere una lunga strada di purificazione e di lotta interiore. Egli sottolinea in particolare proprio il ritorno all’origine, a quell’alleanza preistorica tra Dio e l’umanità. Tutti devono ritornare a Dio nella celebrazione perpetua di Dio, nell’obbedienza a Lui e nella riflessione sul Suo nome. Attraverso i diversi stadi, l’uomo può così giungere all’amore mistico, nel quale non riflette più sugli attributi di Dio, ma è trasformato in essi.
Il mistico comprende, attraverso riflessione e meditazione, che egli, come individuo terreno e mortale, non ha alcuna vera esistenza, che solo nell’allontanarsi da sé e nel rivolgersi a Dio conquista la propria vera esistenza. Eppure proprio Ğunaid ha poca considerazione per fistantanea condizione dell’estasi mistica (sukr), che cancella completamente le qualità umane; stima invece la sobrietà (šaḥw), quella sobrietà secondaria in cui l’uomo, dopo l’estasi, riprende la percezione di sé, e in cui gli vengono restituiti tutti i suoi attributi, benché rimodellati spiritualmente. Perché il fine ultimo del mistico non è il «venir meno» (fanā’), lo scomparire, ma il «rimanere» (baqā’), il durevole vivere in Dio.54
Con questo dovrebbe essere divenuto chiaro che la mistica islamica classica del IX e del X secolo non rompe in alcun modo lo schema delle religioni profetiche. Che la si chiami mistica dell’amore (in contrasto con l’ascesi), mistica personale (in contrasto con la mistica dell’unità nel tutto) o mistica morale (in contrasto con la mistica della conoscenza gnostica), non conta. Decisivo è piuttosto il fatto che nessuno dei grandi mistici ricerca un’esperienza d’identificazione panteistica, nessuno una presunta unità dell’uomo con il Tutto, con la natura, il cosmo, la «vita». Certamente interessa invece loro sperimentare per lo meno negli istanti dell’estasi, dopo un lungo cammino con molte «stazioni» e «condizioni» (le prime ottenute col proprio impegno, le seconde donate da Dio, come spesso si distingue), l’unità dell’uomo nella sua interezza con l’origine recondita del reale: con quella prima e ultima realtà inesprimibile, che tutto afferra, tutto abbraccia, tutto determina, davanti alla quale la lingua dell’uomo comincia a balbettare, i suoi concetti si inceppano, le sue idee si liquefanno, anzi, davanti al cui mistero sembra più opportuno tacere. Lo scopo di tutto non è alienare l’uomo dal mondo, ma far condurre una vita da Dio nel mondo.
Questa è una terza importante cognizione: i mistici islamici classici del IX e X secolo non vogliono far diventare Dio le cose della natura (divinizzazione di tutto), e neppure farsi loro stessi Dio (auto-divinizzazione). È però vero che ognuno vorrebbe, con qualunque metodo, sperimentare direttamente la realtà travolgente di Dio: non certo come un’unità ontologica data fin dal principio di Dio e uomo, ma come un incontro personale, che tramite la grazia di Dio, la misericordia e l’amore conduce alla presenza di Dio e così alla comunione con Dio e infine all’unità in Lui.
Come la mettiamo, però, con quella mistica che sembra non rispettare il confine tra Dio e uomo, ma sembra abolirlo definitivamente, e che per questo è stata ed è tuttora combattuta aspramente dall’ortodossia islamica? Non aveva anche un mistico così importante come Ğunaid avanzato delle riserve nei confronti delle dottrine di colui che si trova qui al centro della disputa e che ancor oggi è una figura controversa nell’islam: al-Ḥallāǧ? Non rappresenta per lo meno lui, con i suoi seguaci, una mistica non-islamica, che non conosce più confini di fronte al divino?
La mistica ha confini? Il conflitto riguardo al Ḥallāǧ
Già in precedenza, alcuni ortodossi erano stati profondamente scossi dalle dichiarazioni di un altro mistico di primo piano della scuola persiana, che nella letteratura poetica viene citato quasi tanto spesso quanto Ḥallāǧ: Abū Yazīd (in persiano/turco: Bàyazid) al-Biṣtāmī (morto nell’874),55 originario probabilmente della piccola località di Bisṭām nell’Iran nordorientale. Fu soprattutto lui a porre le basi della dottrina, tanto importante per il sufismo successivo, dell’annullamento di sé, del «venir meno», non tanto, probabilmente, sotto l’influsso di dottrine indiane vedānta,56 quanto sulla base di autentiche esperienze di fede personali. Bāyazīd fu comunque il primo a descrivere le sue esperienze mistiche con la metafora del «viaggio in cielo» (mi’rāǧ) del Profeta, cosa che, essendosi in questo arrogato un privilegio del Profeta, probabilmente provocò la sua espulsione dalla patria. 57 Tuttavia Bàyazid ha non solo offerto molti stimoli a poeti mistici successivi con il suo originale simbolismo, ma ha anche osato pronunciare frasi come: «Sia lode a me, quanto grande è la mia maestà! »,58 una di quelle frasi che «indicano la sua ibrida autocoscienza religiosa» (H. Ritter). Eppure, secondo l’interpretazione di Ritter, sembra possibile che egli «nonostante tutti i suoi orgogliosi pronunciamenti, abbia da qualche parte cozzato contro i limiti posti a ogni esperienza religiosa delle creature umane, finite»: «in questo senso, allora, avrebbe ragione Ğunaid nell’affermare che Bāyazīd non ha raggiunto Dio. Ma Bàyazid potrebbe ribattergli, con una delle sue sentenze: "O tu miserabile, c’è forse qualcuno che mai lo raggiunge?"».59
Eppure al-Ḥusayn ibn Manṣūr al-Ḥallāǧ, una generazione dopo, trova che «il povero Bàyazid abbia raggiunto solo la soglia del divino». 60 Lui stesso, cresciuto a Wasit (a sudest di Baghdad) e a Tustar (Iran sudoccidentale), fu per lungo tempo allievo anche di Ğunaid, fece poi il grande pellegrinaggio alla Mecca e vi rimase per un anno intero sottoponendosi ai più duri esercizi ascetici. Dopo il suo ritorno a Baghdad si dice che abbia bussato alla porta di Ğunaid e, alla sua domanda «Chi è là?», abbia risposto: «Io sono (anā) il Vero (alhaqq)» – un termine usato già in precedenza e frequentemente per Dio.
Nessuna frase sufi è dunque più famigerata di questa: anā l’ḥaqq, che, benché attestata negli scritti di al-Ḥallāǧ, non poteva essere verificata nel suo contesto e quasi non fu intesa come frase «dogmatica». Di certo non fu solo questa frase che portò Ğunaid al distacco dal suo ex allievo. Costui diffondeva, secondo Ğunaid, pretese religiose false. Si era in effetti fatto notare per osservazioni critiche sull’islam tradizionale e sul sufismo corrente. In ogni caso, ben presto il clima a Baghdad diventa ostile per al-Ḥallāǧ, e allora egli si mette a vagabondare per anni: una seconda volta va alla Mecca, questa volta a quanto pare con quattrocento giovani seguaci, poi via mare in India (in missione o, come sostengono i suoi avversari, per imparare la magia), poi da Sind in Khorasan e Turkestan, dove infine si ferma a Turfan; è politicamente sempre più sospetto per via dei suoi contatti con i Carmati sciiti (a Sind e Multan).
Dopo un secondo, grande pellegrinaggio e due anni di soggiorno alla Mecca, al-Ḥallāǧ, ora noto ovunque come grande asceta e predicatore ardente dell’amore mistico, capace di compiere miracoli, si stabilisce nuovamente a Baghdad, dove trova molti amici anche alla corte del califfo. Eppure costoro non possono impedire che, in quanto oggetto di grande sospetto sia religioso che politico, nel 912 egli venga arrestato presso Susa durante un viaggio, venga messo tre giorni alla gogna, poi imprigionato per anni e infine, su ordine del wazīr, condannato a morte. Viene giustiziato nel 922, esattamente 300 anni dopo l’Egira. Di lui, che si dice abbia danzato anche in catene e, andando a morire, abbia recitato una quartina sull’ebbrezza mistica, ci sono tramandate come ultime parole: «Per chi ama è sufficiente isolare l’Uno (è sufficiente che abbia sgomberato la sua personale esistenza dalla via dell’amore)».61
Non ha avuto la consolazione di una tomba, lui che fu appeso alla gogna con le mani e i piedi amputati e a cui infine fu tagliata la testa. Il suo cadavere fu bruciato e le ceneri disperse nel Tigri. Ci restano solo frammenti della sua opera: il Kitàb at-tawāsīn (termine artificiale intraducibile, un libretto risalente con probabilità all’epoca della sua prigionia), in prosa rimata, tratta questioni di unità divina e di profetologia tramite inni in onore del Profeta; inoltre si trovano diverse preghiere, poesie, lettere e massime isolate.
Ora, al-Ḥallāǧ, che per amore di Dio sembra aver corteggiato la morte, è forse simile alla farfalla da lui descritta, che si avvicina alla fiamma e per questo brucia, per unirsi così alla «Realtà della realtà»? Questo mistico radicale rimane tuttora controverso: mentre i poeti persiani lo venerano e sufi entusiasti lo prendono a modello, alcuni ulama ortodossi lo considerano ancora un arci-eretico, che tra le altre cose pare abbia affermato che si potrebbe adempiere al pellegrinaggio alla Mecca anche restando a casa e dando di che sfamarsi agli orfani. Ma persino alcuni mistici moderati lo criticano: non perché insegnava l’amore attraverso la sofferenza, ma perché egli vede nell’amore passionale, traboccante (espresso con la parola sensuale ’išq, anziché con il riservato ḥubb) l’essenza più profonda della divinità e con ciò ha svelato il segreto dell’unità amorosa. La frase «io sono Dio» fa vedere in al-Ḥallāǧ un panteista non solo a molti mistici musulmani, ma anche a molti studiosi occidentali – tra i quali il futuro teologo evangelico del risveglio, Augustin Tholuck, che ventunenne scrisse il primo libretto riassuntivo sul sufismo.62
Il primo a essersi occupato di al-Ḥallāǧ in maniera scientifica e approfondita è però il grande orientalista francese Louis Massignon. Per un’intera vita di studi egli percorse tutte le biblioteche d’Europa e del Vicino Oriente, per esporre la vita e le opere del Martyr mystique de l’islam, dapprima in due poderosi volumi pubblicati nel 1922, esattamente mille anni dopo la sua esecuzione. Dopo la morte di Massignon, l’opera apparve nel 1976 addirittura in quattro volumi. Dobbiamo ringraziare questo studioso, che ha anche grandissimi meriti per quanto riguarda l’affermarsi di un nuovo atteggiamento della chiesa cattolica verso l’islam in occasione del concilio Vaticano II, se al-Ḥallāǧ oggigiorno viene meglio compreso nelle sue intenzioni originarie e difeso contro una critica ingiusta. L’assoluta trascendenza di Dio non fu mai negata, a quanto pare, da quest’uomo, pur con tante dichiarazioni problematiche, anche se egli volle vedere Dio in ogni cosa e soprattutto nel cuore umano: «Non c’è goccia d’acqua ch’io beva assetato, senza che io rintracci la Tua immagine nel bicchiere».63
Pensatori sufi o teosofisti posteriori, tendenti a una concezione di unità di Dio e mondo (monismo), fecero propri pensieri di al-Ḥallāǧ. Per lo più essi svilupparono il loro sistema di pensiero nell’ambito di un’emanazione graduale di tutte le cose da Dio e un’ascesa dell’uomo dalla materia e dall’oscurità di nuovo verso Dio: Dio inteso come Luce assoluta, come per Yahyà as-Suhrawardī (giustiziato nel 1191), o come Essere assoluto, come per il più famoso pensatore monista, Ibn ’Arabī (morto nel 1240), che secondo un’opinione diffusa fu in grado di integrare filosofia e teologia nel sufismo, per altri interpreti invece non volle, come sufi, avere assolutamente nulla a che fare con la filosofia.64 Proprio lui venne venerato come un santo dai suoi seguaci, mentre fu accusato di panteismo dagli ortodossi.
Questa è un’importante quarta cognizione: fino a che punto lo spirito umano nell’istante dell’estasi possa e debba unirsi allo Spirito divino (e solo in questo senso, al-Ḥallāǧ sembra essersi identificato con «il Vero», con Dio), era allora e rimane ancora oggi una questione controversa. Alla testimonianza empirica del mistico, che racconta di aver sperimentato il divenire tutt’uno a Dio nell’unione finale (nell’elemento ultimo della Luce o dell’Essere), si può difficilmente opporre un argomento teoretico. Ma esiste forse addirittura un argomento teoretico a favore di una simile testimonianza empirica, per il quale sia pensabile o quasi pensabile una coincidenza tra Dio e uomo? D’altra parte, è difficile eliminare il sospetto di proiezione che, molto tempo prima dei moderni critici di religione, hanno espresso i critici musulmani.
Per tutto il periodo degli Abbasidi (P III), che non provarono alcuna simpatia per i mistici, una categoria per lo più critica nei confronti dell’autorità e che disprezzava la gloria terrena, il sufismo classico rimase un fenomeno marginale; la letteratura non sufi concede appena qualche cenno a coloro che potevano facilmente fare a meno, nella loro vita religiosa, delle forme ufficiali di culto. Solo ora, nel paradigma senza califfi post-classico (P IV), dal X al XIV secolo, ma già prima dell’ondata mongola, il movimento sufi evolve – parallelamente alle scuole di diritto – in forza dotata di impatto culturale di significato paradigmatico. In tale occasione il sufismo subisce una profonda trasformazione, con diversificazioni regionali, che ora – pur mantenendo una grande continuità! – è necessario analizzare sistematicamente per via dello sviluppo storico.
Regolamentazione delle comunità sufi
Il mutamento del sufismo nella cornice del nuovo paradigma post-classico si può sintetizzare sotto diverse voci.65
Già nel sufismo classico (P III) si era formata una specie di scuola. La parola ṭarīqa = «sentiero», cammino di vita sufi, viene impiegata ora anche per la scuola sufi, in seguito confraternita o ordine sufi. All’inizio si tratta semplicemente di celle di sufi, che travalicano l’angusta cerchia di allievi di un maestro o sceicco, pur richiamandosi tutte a lui come alla loro guida spirituale e proseguendo una comune disciplina spirituale. A partire dal X secolo, molti sufi che in precedenza si radunavano nell’abitazione (o nella bottega) del loro maestro o nelle moschee, stabiliscono propri luoghi di riunione. Si mantengono grazie a contributi volontari, spesso regolari, e si sviluppano così in centri di assistenza spirituale e di carità.66 Dappertutto vengono ora fondati centri sufi sul modello del ribàṭ (originariamente definizione per una fortezza di confine dei combattenti islamici alle frontiere), una sorta di ospizio o albergo (in persiano ḫānaqāh). Dal XII-XIII secolo – l’epoca delle grandi fondazioni di ordini nell’Europa cristiana – un numero sempre maggiore di queste celle, che esistevano in maniera indipendente l’una dall’altra, viene a costituire, richiamandosi al nome o all’autorità del loro sceicco, fondatore o patrono, reti dai legami più o meno stretti, che non a torto vengono chiamate, in considerazione della loro affinità spirituale, confraternite o «ordini»; ciò che le tiene insieme è la comune cultura spirituale dei diversi maestri sufi, più che una struttura organizzativa altamente sviluppata.67
Già a seguito delle dispute riguardo al-Ḥallāǧ e con la shia, che nel X secolo si era enormemente rafforzata (i Buyidi a Baghdad erano sciiti moderati, i Fatimidi in Egitto sciiti radicali), si era andato diffondendo chiaramente dal X-XI secolo un bisogno di delimitazione. A fronte di alcuni eccentrici strambi e di sufi itineranti dalle abitudini spesso libertine, senza salda affiliazione (qalandar), che sostenevano che il sufi avrebbe attributi divini e non umani e gli sarebbe permesso tutto, devono essere osservati all’interno del sufismo limiti istituzionali e dottrinali, per consolidare spiritualmente le migliaia di comunità sufi e per regolamentarle per lo meno in misura minima. Questo avviene:
– tramite manuali sufi, che presentano una scelta adatta di parole di mistici classici (con controesempi) e impartiscono istruzioni che riguardano persino la corretta maniera di comportarsi (adab = etichetta);
– tramite catene di garanti sufi (salāsil, sing. silsila), che (in maniera simile a quanto avvenne per gli ḥadīt), tramite il richiamo a predecessori, soprattutto a Gunaid, ma anche ai primi califfi, soprattutto ’Alī, anzi al Profeta stesso, legittimano le proprie dottrine e pratiche: la genealogia spirituale di una «successione sufi» autorevole, di una «successione» di «vicari» (ḫulafā; sing. ḫalifā’);68
– tramite collegi sufi, che si occupano di un migliore insegnamento, un’educazione più rigorosa degli allievi e una severa sottomissione al maestro o sceicco, cosicché al posto dell’insegnamento libero presso diversi maestri subentra la scolarizzazione di base presso un solo docente.
A cavallo tra l’XI e il XII secolo si era imposta anche la mistica con il rinnovato potere del sunnitismo – non solo nell’opinione pubblica, ma anche nella teologia professionale, dove essa aveva già nel X secolo sostenuto la rifondazione da parte di al-Aš’arī di una «ortodossia» razionale. Le fondamenta per la piena integrazione del sufismo nella teologia furono gettate, verso la fine dell’XI secolo, ad opera di Muḥammad al-Ġazzālī, a cui riesce di collegare organicamente l’isiam della sharia e l’islam sufi, come riconosceremo in un apposito capitolo.
Paralleli con gli ordini religiosi cristiani
Orbene nel XII e nel XIII secolo, in cui il saio (ḫirqa) è soprattutto un segno dell’accettazione in una particolare comunità sufi e poi un segno di appartenenza, le reti sufi assumono sempre più tratti conventuali – nonostante differenze fondamentali non dissimili da quelle degli ordini che si sviluppavano nello stesso periodo in Europa (naturalmente i due fenomeni sono tra loro indipendenti).69 Infatti, come negli ordini cristiani, troviamo anche presso i sufi:
– gli ideali dell’amore di Dio, della successione, della fratellanza e del servizio agli uomini;
– la sottomissione ad autorità (sceicchi) che possono esigere, come ḫulafa del fondatore dell’ordine, anzi, come vicari di Dio, obbedienza incondizionata;
– una propria regola dell’ordine, molto diversa a seconda dello sceicco e dell’ordine, che regolamenta tutto, fin nei più minuti dettagli, dalla cerimonia di accoglienza, il noviziato, la tonsura, al ricordo di Dio e alle manifestazioni musicali «liturgiche», fino al modo di guadagnarsi di che vivere e alla morte;
– un abito proprio dell’ordine, diverso a seconda degli ordini per colore, forma e dettagli, anche se un sufi, a dire il vero, può appartenere anche a molti ordini e possedere diversi abiti (molti abiti, molto onore – per entrambe le parti!);
– un modo di pregare particolare, con numerose formule prescrittive, litanie prolisse e molti gesti di devozione;
– liti tra ordini dovute alle rivalità, soprattutto se singoli ordini si attengono strettamente alla loro dottrina, metodo e appartenenza, sono gelosi del loro sceicco, e addirittura sollevano pretese assolute (lo sceicco come «sigillo dei santi», addirittura come mahdi apocalittico con innumerevoli movimenti rivoluzionario-apocalittici come conseguenza);
– organizzazione sovraregionale sotto un Gran Sceicco («sceicco degli sceicchi»), per lo più nominato al controllo dal governo, che però non riesce a tener testa alle singole comunità conventuali, spesso più potenti.
Lavoro sociale, missione, guerra
I paralleli con gli ordini cristiani vanno ancora oltre: il «convento» sufi (nelle regioni orientali dell’islam detto ḫānaqāh, in turco tekke), che sta sotto diversi aspetti in concorrenza con la madrasa delle scuole di legge, è un centro non solo della predicazione pubblica, dell’insegnamento religioso e del culto comune, ma anche dell’attività caritativo-sociale del servizio ai bisognosi, ai poveri, agli ammalati e ai pellegrini. In questo modo i sufi ottengono una base straordinariamente ampia e impegnata tra la popolazione e si procurano anche influenza nelle scuole di legge.
Al tempo stesso le comunità sufi, dotate di grande capacità di adattamento, sono attive nella missione, convincono e attirano molti grazie alla loro forza di convincimento, al loro modo di vita autentico e semplice e alla vicinanza al popolo. In fondo, non insegnano mai leggi astratte, ma mostrano nella massima concretezza la way of life, lo stile di vita islamico. Hanno efficacia soprattutto nelle regioni di frontiera dell’espansione islamica e utilizzano per la loro predicazione non l’arabo del Corano e dei dotti, ma la lingua del popolo, e hanno così il merito fondamentale di aver fatto sì che lingue come il turco, l’urdu, il sindhi, il panfabi si evolvessero in lingue letterarie. Non solo, ad esempio, l’Albania, ma anche l’India, l’Indonesia e l’Africa nera sono state in larga misura islamizzate da predicatori sufi; operano sotto i mongoli come sotto i tatari; il movimento e la dinastia persiana dei Safawidi nascono da un ordine sufi; in India, ad esempio, o nell’Africa occidentale, la struttura ṭarīqa, con la sua forte partecipazione di laici, doveva costituire addirittura il fondamento per l’organizzazione socio-politica della società islamica; gli ordini successivi saranno efficaci addirittura nell’intero mondo islamico.
I sufi, che considerano la lotta contro le proprie debolezze e cattive inclinazioni come il sommo ǧihād, prendono anche parte a guerre di ǧihād Sono coinvolti in innumerevoli imprese militari e rivoluzionarie: così, ad esempio, l’ordine dei Bektaʂi è responsabile dell’assistenza spirituale delle schiere Janit, unità elitarie turche formate da giovani cristiani selezionati fin da bambini. Da un lato, in questo modo, alcuni sufi hanno collaborato senza tanti scrupoli anche con regimi ingiusti; dall’altro, però, proprio i sufi, dall’Africa subsahariana all’Asia centrale e all’India, furono attivi in rivolte e rivoluzioni contro regimi tirannici, nonché a dire il vero anche in insurrezioni messianicofanatiche condotte da individui autonominatisi mahdi.
Per quanto bizzarre, e criticate dai musulmani stessi, siano le forme che il sufismo ha talvolta assunto, nella fedeltà al loro Profeta i sufi non vogliono essere superati da nessuno! Dopotutto, proprio nel sufismo si è creata, a partire almeno dal XV secolo, una sorta di adorazione per il Profeta, che si può definire a buon diritto mistica di Muḥammad.70 S’intende con ciò una forte aspirazione a essere destinatari di apparizioni oniriche del Profeta così come lo sforzo di ottenere esperienze occulte, visionarie e uditive in stato di veglia. Diventano soprattutto popolari delle litanie, nelle quali (in maniera simile alle litanie cattoliche sul «nome di Gesù» o «cuore di Gesù»), il ricordo di Dio si sposa alla chiamata del Profeta. «O Dio, benedici il Profeta» e molte altre benedizioni per Muḥammad vengono qui ripetute in continuazione, in riunioni che a seconda delle situazioni possono durare per tutta la notte e pertanto sono chiamate «veglia» (mahya).71
A partire dal XVIII secolo compaiono veri e propri mistici di Muḥammad, che si concentrano completamente nell’attesa di un incontro con il Profeta, e forse anche nella mediazione verso esso; i miracoli che tali sufi sono in grado di compiere valgono per loro e per i loro seguaci come miracoli del Profeta. E soprattutto nelle terre di lingua araba, dall’Arabia passando per il Sudan fino all’Africa occidentale, vengono fondati ordini il cui principale fine è di raggiungere una simile presenza del Profeta. Sarebbe del tutto sbagliato ignorare le conquiste positive della mistica di Muḥammad.
Nessun progresso per le donne
Fin dall’inizio ci fu – prescindendo da tutte le differenze dottrinali – una differenza strutturale densa di conseguenze, che non poteva sfuggire all’attenzione, tra ordini islamici e cristiani. L’islam non conosce, per lo meno nella teoria, né monastero né monachesimo; non ha alcuna stima, fin già dal Profeta, dell’ideale del celibato, e anche i sufi sono sposati, con poche eccezioni,72 e hanno spesso famiglie numerose. 73 Non sono monaci che hanno scelto il celibato, bensì esercitano, come uomini coniugati e padri di famiglia, le più svariate professioni; per questo, il sufismo è particolarmente attraente per gli artigiani, categoria spesso disprezzata. Denominazioni cristiane come «convento» o «monastero»; impiegate in relazione ai centri sufi, possono pertanto facilmente suscitare una falsa impressione. Le prime cellule sufi sono imprese familiari. Solo a partire dal XII-XIII secolo si passa alla confraternita e all’ordine, benché venga molto spesso mantenuto il legame con la cellula costituente e con la centrale.
Non deve essere taciuto il fatto che, anche nel sufismo, le donne non ottengono alcuna parità di diritti. Abbiamo sentito, è vero, che la mistica d’epoca arcaica Rābi’a (VIII secolo) non rimase assolutamente l’unica rappresentante femminile della mistica, e che ci furono allora parecchie donne che scelsero il cammino mistico. Tuttavia salta agli occhi il fatto che, nell’epoca dello sviluppo del sufismo come movimento popolare, ci furono sì centri riservati a donne che potevano essere guidati da una donna come sceicca (šaiḫa), ma nessun ordine femminile. Benché l’islam non conosca il celibato obbligatorio, che svaluta le donne, la posizione inferiore di queste ultime nella società e anche nella religione è evidente: le sufi donne devono condurre la loro vita religiosa in modo indipendente o legarsi a uno degli ordini maschili esistenti – con uno status però chiaramente inferiore. Persino come studentesse e insegnanti di mistica devono osservare una precisa distanza dagli uomini, stabilita già dall’uso del velo e da divisori tra i sessi. Lo «sguardo fisso sui giovani senza barba» degli uomini, condannato anche da alcuni maestri sufi, viene in più occasioni giustificato come contemplazione della bellezza divina in figura umana, per quanto nella letteratura si faccia talvolta distinzione tra amore «platonico», permesso, e amore sessuale, illecito.
Lo status familiare dei sufi significa che gli ordini islamici mostrano in molti casi – cosa del tutto impossibile negli ordini cristiani – una struttura genealogica, che ha delle ripercussioni sia finanziarioeconomiche, sia spirituale-religiose. Alcuni maestri sufi, infatti, a cui già apparteneva il proprio «convento», si erano imparentati con famiglie di alto rango, erano diventati ricchi e alla fine gestivano grandi proprietà terriere e istituzioni (esenti da tasse!), a cui appartenevano talvolta interi villaggi e contrade. Al tempo stesso, però, la filiazione ha delle conseguenze religiose: l’autorità spirituale, gli ampi poteri e le conoscenze personali vengono tramandati con la catena genealogica dal maestro sufi, anzi, dal Profeta stesso, ai discendenti, che in questo modo hanno parte alla santità e alla benedizione (baraka) del loro santo.
Tuttavia, in quei secoli non sono più gli arabi, com’è noto, a costituire il ceto dominante nelle terre islamiche, bensì i popoli turchi, penetrati dall’Asia centrale fino all’India nordoccidentale, all’Iraq e all’Iran, alla Siria e all’attuale Turchia, che erano stati convertiti ancora nella loro patria dell’Asia centrale all’islam sunnita da parte dell’Iran. Essi cercano ora di imporre ovunque norme sunnite rigorose e affidano questo incarico alle istituzioni sufi, sia per il controllo sociale all’interno che per la difesa da nemici all’esterno. D’altra parte, il sufismo cade così sotto l’influsso di una religiosità tribale nomade, che contiene molti elementi estatici e sciamanici.
Comunque sia: nel XIII secolo i sufi sono stati promossi molto spesso, al posto dei giuristi di scuola, a un ruolo pari ai capi popolari più stimati. Sono capaci anche di utilizzare abilmente le invasioni mongole, per occupare sotto i nuovi dominatori i posti più alti della scala sociale in qualità di «amici di Dio»;74 gli ulama fanno ora parte normalmente delle confraternite. Tutto ciò significa: il paradigma ulama-sufi dell’islam è oramai stabilito saldamente con i sufi nel ruolo di guida sociale.
Ombre del sufismo
Ogni sistema, però, ha i suoi svantaggi, e anche qui non è facile evitare gli abusi. Così, lo sviluppo del sufismo da religione elitaria a religione di massa ebbe come comprensibile conseguenza una banalizzazione che fa apparire fortemente attenuati gli alti ideali del periodo classico. Dal XII-XIII secolo si accentuano le ombre del sufismo, uno sviluppo per il quale si danno, di nuovo, paralleli nel medioevo cristiano.
– Vengono ora apprezzate sempre di più le esperienze visionarie, uditive e occulte (spesso generate con mezzi «meccanici»), che nella mistica classica erano state piuttosto lasciate ai margini o eliminate, che però erano state giustificate in linea di massima da al-Ġazzālī (come la «tradizione minore» della mistica, che conferma la «tradizione maggiore» della religione).75
– Molti sceicchi e i loro successori vengono, se non proprio divinizzati, però di certo idolatrati nella poesia, nella propaganda religiosa e nel credo popolare («venir meno nello sceicco» e «venir meno dello sceicco nel Profeta»); quanto a loro, essi vivono spesso più la vita di principi feudali che quella di «poveri» (l’incarico era spesso divenuto ereditario e «patrimonio di famiglia»).
– La tomba dello sceicco o fondatore, spesso riccamente dotata e collocata nel proprio convento, diventa meta di pellegrinaggio (non di rado al posto di un luogo sacro pre-islamico), presso la quale le masse di pellegrini si aspettano benedizioni (baraka) spirituali e materiali in maniera spesso magica.
– Si sviluppa dappertutto un culto dei santi che venera il sufi come «amico di Dio» capace, grazie alla Sua intercessione, di molto di ciò che rimane irraggiungibile per il fedele stesso in preghiera; il culto presso la tomba del santo diventa il veicolo principale dell’islam sufi.
– Si giunge in ciò anche a una degenerante fede nei miracoli, che si può rivolgere, con innumerevoli racconti miracolosi, sia allo sceicco vivente sia alla tomba, e che molte volte fornisce l’occasione anche alla dimostrazione pubblica di poteri taumaturgici (ingestione di veleno, giochi di abilità col coltello e simili prodigi).
Si può perciò dire, con Ira M. Lapidus: «Dal XIII secolo, sino alla fine del XVIII, l’adorazione di reliquiari e luoghi santi divenne la forma più diffusa di vita religiosa islamica. I sufi e i reliquiari accordavano un consiglio rituale e spirituale, aiuto medico e intermediazione tra diversi gruppi e strati della popolazione. I sufi aiutarono a far considerare tali corporazioni come gilde e a formare organizzazioni politiche tra i diversi gruppi etnici».76 Erano responsabili tanto di circoncisione, matrimonio e sepoltura quanto di appianamento di una lite, della scelta del capo clan, della celebrazione delle feste e dell’organizzazione del commercio estero. E come i sufi istruivano i bambini e guarivano i malati, così distribuivano anche amuleti, praticavano la magia bianca e fungevano da mediatori tra il mondo degli uomini e il mondo degli spiriti e del divino. Un assottigliamento della sostanza religiosa e uno slittamento del centro focale dell’islam, che avrebbe dovuto sollevare critiche!
La critica al sufismo è antica quanto il sufismo stesso. Fin dall’inizio si è distinto nell’islam tra veri e falsi sufi. Si sa quanto sia facile simulare esperienze e conoscenze mistiche. A nessuno, tuttavia, sarebbe venuto in mente, nel medioevo musulmano e cristiano, di definire tutte le esperienze mistiche indifferenziatamente come fenomeni abnormi, simulati, proiettati, patologici, per liquidare in questo modo anche ogni autentica esperienza mistica come pseudo-mistica. È davvero così facile poter negare esperienze mistiche autentiche? In ogni caso, di fronte all’erudizione giuridica spesso sterile, nel suo legalismo, e di fronte a una teologia «scolastica» fossilizzata razionalmente, il sufismo ha a buon diritto portato a espressione determinati aspetti trascurati dell’islam.
Tuttavia anche gli ammiratori del sufismo77 non possono non vedere che quest’ultimo, pur con tutte le sue legittime richieste, scade molte volte in un anti-intellettualismo e irrazionalismo aggressivi. Mistici e poeti, nella loro predilezione per la conoscenza non mediata, hanno talora non solo ridicolizzato i fondatori delle grandi scuole di diritto, come Abū Ḥanifa e Šafī’ī, ma soprattutto hanno attaccato con violenza i filosofi, persino Ibn Sīnā (Avicenna), che fu anche mistico.
Chi, come loro, è dell’opinione che ogni sapienza è racchiusa già nella prima lettera dell’alfabeto (alif= A), simbolo di Allāh, aveva di che farsi beffe degli asini che si logorano sui libri – benché questi mistici scrivessero essi stessi molte volte libri, che non erano certo più comprensibili dei trattati teologici che essi criticavano nella loro poesia.
Non stupisce che questo anti-intellettualismo produca «sufi» singolari: «trasognati» che girano per le strade nudi, come forsennati; «santi» che si permettono come analfabeti ogni genere di sconcezza; «fachiri» che operano «miracoli» come dervisci itineranti, cosicché non a caso, per i primi viaggiatori europei in Oriente, il termine «fachiro» diventa sinonimo di imbroglione e truffatore. Non c’è neanche da meravigliarsi che alcuni ritengano di vedere l’essenza del sufismo nelle danze mistiche, in cui «dervisci ululanti» in estasi girano vorticosamente sul loro stesso asse. Non c’è da stupirsi, infine, che alcuni mistici musulmani moderni, a causa di tutte queste assurdità, non vogliano più affatto essere chiamati «sufi».
La critica alla venerazione sufi dei santi, al culto delle tombe, alle cerimonie musicali, alla divinizzazione dello sceicco e all’autodivinizzazione si è fatta sentire già nell’islam medievale, a cominciare dall’antica scuola di diritto hanbalita nel X secolo. Essa è nota per la sua fedeltà ai detti del Profeta e cerca di prevenire la grande distanza delle testimonianze originarie di fede tramite l’utilizzo della ragione. Critiche agli eccessi del sufismo vennero però anche dai tentativi di riforma in Egitto e Marocco e dal dogmatico hanbalita Ibn Taimīya in Siria nel XIV secolo, fino al movimento wahhabita nell’Arabia del XVIII e nel XIX secolo, che abolì il sufismo e offrì alla monarchia arabo-saudita un proprio fondamento ideologico: ovunque sono proprio i conservatori che reclamano un ritorno all’islam delle origini. Spesso però invano. E dopo che capi e «santi» sufi vengono a ricoprire anche in politica, non di rado, un ruolo cruciale, è difficile stupirsi del fatto che Kemal Atatürk, nel 1925, proibisca nella sua Turchia modernizzata gli ordini dervisci, reazionari in politica e religione. Muḥammad Iqbal, il padre spirituale del Pakistan, di orientamento mistico, considera anch’egli il «pirismo» (dal persiano pir = sceicco) come uno degli sviluppi più pericolosi dell’islam. Anche l’esperta di sufismo Annemarie Schimmel non si fa scrupolo di osservare: «Le confraternite religiose che sorsero dalla necessità di una spiritualizzazione dell’islam divennero, nel corso del tempo, proprio i fattori che contribuirono maggiormente alla stagnazione della religione islamica». 78 Molti intellettuali e politici critici del XX secolo considereranno le comunità conventuali mistiche e le pratiche di religione popolare come una tradizione sorpassata di cui sbarazzarsi.
Controdomande: invece della religione della ragione, la religione del cuore?
Qualunque critica al sufismo non può rendere ciechi al fatto che ancora oggi il sufismo piace parecchio a molti musulmani. Con l’adesione a uno sceicco, sperimentano qualcosa di simile a un’assistenza «spirituale». D’altra parte, però, non si possono ignorare le riserve che persino alcuni musulmani credenti mantengono. Come all’islam della legge, così si pongono anche all’islam sufi domande critiche che erano già state sollevate molto prima e in parte sono rimaste attuali fino a oggi, domande dal passato come domande per il futuro:
C’è però un teologo nell’islam che cerca di mettere d’accordo ragione e cuore e non aspira solo a collegare organicamente, come abbiamo brevemente accennato già in precedenza, islam della sharia e islam dei sufi, ma che in questo modo è in grado di formulare teologicamente anche la forma normativa dell’islam sunnita. Questo sarà ora oggetto di un’esposizione di una certa ampiezza, per l’approfondimento teologico della nostra analisi del paradigma medievale (P IV).
Il paradigma di religione universale degli Abbasidi, considerato ora in via di estinzione, aveva dato all’islam, come mai prima d’allora, un pluralismo interno. Dalla devozione fedele alla lettera del Corano e degli ḥadīṯ, attraverso tutti i possibili razionalismi filosofici e teologici, fino allo scetticismo totale, lo spettro è ora ampio. Il mondo islamico sta vivendo un rivolgimento politico e spirituale: una «confusione degli indirizzi di scuola (firaq, sing. firqa) che si sono separati in sentieri e cammini», constata uno di quei molti teologi che si ritrovano in mezzo al subbuglio dell’XI secolo: Muḥammad al-Ġazzālī (morto nel 1111). Le «opinioni degli uomini sulle religioni e sugli indirizzi di fede» (milal, sing. milla), e il «netto divergere degli indirizzi di scuola» sono per lui «un mare profondo in cui già molti sono affogati» e da cui si sono «salvati solo in pochi».79 Ha esagerato? Il «mare dell’incertezza» è certamente un topos letterario che già aveva lamentato con parole molto simili il grande mistico Muḥāsibī, nel IX secolo. 80 Non c’è dubbio, però, che dietro simili topoi si nascondano senz’altro anche esperienze esistenziali.
Per la nostra analisi di paradigmi non abbiamo ora bisogno di descrivere tutti questi indirizzi di fede e di scuola; gli storici di teologia hanno cercato di registrarli, per quanto è possibile in base allo stato degli studi contemporanei.81 Si deve ora solo mettere in evidenza ciò che nel paradigma ulama-sufi, alla fine, si è imposto come teologia dominante ed è divenuto, com’è ancora oggi, normativo.
Il lungo cammino della teologia
La disciplina centrale nell’istruzione islamica superiore è e rimane la scienza del diritto. Ma tale scienza sarebbe stata da sola incapace di raggiungere una sintesi organica con quel movimento sempre più potente che rappresenta ora il sufismo. Per questo c’era bisogno della teologia, che appunto in tempi relativamente brevi aveva percorso un lungo cammino. Ricordiamone lo sviluppo nei precedenti paradigmi:
Nei primi decenni della conquista (P I) non si poteva parlare di una teologia islamica – a confronto, ad esempio, dei grandi abbozzi teologici dell’apostolo Paolo – al limite di germi di singole teologie locali. Solo nella nuova costellazione sotto gli Omayyadi (P II) si era giunti a dispute teologiche di maggior rilevanza, e in particolare su un problema centrale, posto ai musulmani già dal Corano stesso: come si debba collegare l’onnipotenza di Dio con la causalità interna al mondo, la predestinazione onnipotente di Dio con la libera autodeterminazione dell’uomo. In quest’epoca furono elaborate per la prima volta teologie esplicite, che però, profondamente diverse tra di loro, non rivendicarono nei confronti delle altre alcuna pretesa di carattere vincolante universale («ortodossia»).
Solo in concomitanza con lo spostamento del centro di gravitazione della teologia verso Oriente, sotto gli Abbasidi, si era costituito un nuovo paradigma di teologia (P III), per il quale ora non era più decisivo il contrasto di città o «sette», bensì un contrasto di metodi: scienza della tradizione (dei muḥaddiṯūn, degli esperti di ḥadīṯ) oppure teologia razionale (= kalām dei mutakallimūn). Questa è soprattutto dogmatica speculativa e apologetica e coincide quindi solo parzialmente con il concetto cristiano di «teologia», che comprende appunto anche esegesi, storia, etica, pastorale e diritto. Allo stesso tempo, la problematica centrale si spostò sempre più, nella teologia islamica, da «predestinazione divina – autodeterminazione umana» a «rivelazione divina – ragione umana». Analogamente a quanto avverrà in seguito nella Scolastica cristiana, si distinguono due livelli di conoscenza di Dio: ciò che l’uomo può conoscere a partire da se stesso e ciò che egli conosce tramite la rivelazione di Dio, il che porta alla formulazione di dimostrazioni di Dio e a una dottrina approfondita degli attributi divini.
È al-Aš‘arī, morto dieci anni prima della perdita di potere del regno abbaside (945), che come convertito dalla Mu’tazila ai tradizionisti formula la sintesi teologica in larga misura valida per questo terzo paradigma – in modo simile a quello che aveva fatto un secolo prima Šāfi’ī per il diritto islamico: una forma razionale di teologia sunnita, che tuttavia, ora come in precedenza, incontra una violenta opposizione presso le maggioranze tradizioniste di molte scuole di diritto. 82 Aš’arī difende senz’altro la teologia dei custodi della tradizione, ma la difende con un metodo speculativo per l’epoca «moderno»: l’argomento razionale, il kalām, si pone dunque al pieno servizio della dottrina ortodossa, della sunna.
La sintesi di al-Aš’arī convince molti anche tra gli appartenenti all’ortodossia tradizionalistica, ma non può evitare che la scuola as’arita, che si colloca tra la Mu’tazila razionale e gli hanbaliti schiavi dell’interpretazione letterale, si muova nel X-XI secolo sempre più verso una forma filosofica di teologia. Mentre, cioè, l’influsso della filosofia, considerato nel suo complesso, perde terreno, il metodo e il modo di argomentare filosofici divengono sempre più di casa nella teologia e conducono a considerazioni preliminari strettamente filosofiche sempre più lunghe. Quello che nello stesso al-Aš’arī trova un utilizzo più apologetico (nella disputa contro posizioni ebraiche, cristiane, manichee e islamico-eretiche), è ora diventato il patrimonio metodico scontato della teologia.
D’altra parte, si osserva proprio nell’XI secolo una restaurazione del tradizionismo (di impronta hanbalita o safi’ita) con centro a Baghdad. Col sostegno per lo più dei califfi, si vuole valorizzare senza compromessi la sharia nella vita pubblica, e non si arretra neanche davanti al controllo della morale pubblica con l’aiuto di guardiani islamici della virtù.83 In prima linea contro i teologi mu’taziliti e aš’ariti, e soprattutto gli sciiti e la classe, a essi perlopiù legata, dei mercanti ebrei e cristiani, si giunge spesso a scontri sanguinosi (fitan, sing. fitna), nei quali hanno un ruolo molto attivo, non da ultimo, giovani con lunghi capelli, pettorali e armi. La teologia però, in un primo momento, non si accorge di tutto questo.
È soprattutto il teologo ’Abd al-Malik al-Ğuwainī (morto nel 1085), a Nishapur (Iran nordorientale), allora importante centro spirituale, che ambisce a una forma sistematica di rappresentazione letteraria della sua teologia e utilizza, per rafforzare l’argomentazione razionale, il sillogismo aristotelico, per far discendere così le sue deduzioni da principi universali e presupposti logici, senza però rinunciare a procedimenti dell’antica logica giuridica e alla filosofia della natura atomistica.84 Ma lo stesso al-Guwainī è anche colui che, alla fine della sua vita, tende al tradizionalismo e, come si rimarcò per sbeffeggiarlo, ritorna alla «fede delle vecchiette».85 La teologia as’arita in questa forma razionale è comunque poco adatta a integrare il movimento sufi che sempre più pone l’accento sull’esperienza. Chi sarà in grado di adempiere a questo grande compito?
Sintesi di islam della sharia e islam sufi: al-Ġazzālī
Il teologo che, grazie alla sua biografia e al suo instancabile lavoro scientifico anche come esperto di diritto, doveva essere capace di unire l’islam della legge, dominato dagli ulama, con l’islam mistico, retto dalle comunità sufi, è un allievo dell’aš’arita al-Ğuwainī: Muḥammad al-Ġazzālī (1058-1111). La critica occidentale ha forse troppo isolato da predecessori e teologi contemporanei questo teologo, che venne insignito del soprannome onorifico «l’argomento dell’islam» (ḥuğğat al-islām), e lo ha sopravvalutato sia come metafisico, sia come mistico. 86 Ma si cade dall’ammirazione acritica nell’altro estremo, se si cerca oggi di squalificare questa personalità senza dubbio inconsueta come uomo ligio alla classe dirigente e inconsistent popularizer e se gli si nega anche l’onestà personale,87 dato che egli forse «si conforma, nella stesura dei suoi scritti, alla capacità di comprensione intellettuale dei diversi destinatari»88 e oltre tutto scrive a partire da situazioni esistenziali estremamente differenziate.
Sicuramente ci furono anche prima di Ġazzālī innumerevoli sufi rispettabili, e dopo di lui innumerevoli meno rispettabili. E sicuramente ha sperimentato anche lui molta opposizione, soprattutto tra gli hanafiti guidati da interessi, e in seguito le sue opere teologiche sono state meno citate di quelle giuridiche. Ma tutto questo non è una ragione sufficiente per ignorare il fatto che Ġazzālī si distingue per una produzione giuridica e teologica straordinariamente vasta (delle 400 opere a lui attribuite ne sopravvivono 70, delle più importanti l’autenticità è sicura). Ġazzālī riesce nel compito di integrare una concezione integrale della prassi sufi nella sua teologia. Dopotutto è di casa nella madrasa, il collegio della giurisprudenza, così come nella hanaqah, il centro delle attività sufi. Fino alla fine della sua vita rimane giurista e teologo; e di certo il suo esempio ha dato un contributo non piccolo al fatto che, nell’epoca seguente, anche molti ulama aderiscono al movimento sufi.
Certo, al-Ġazzālī non ha mai l’autorità suprema che talvolta gli si è attribuita nelle questioni dell’ortodossia sunnita. Ma è indiscutibilmente uno degli studiosi più riconosciuti e più influenti nella storia del pensiero islamico e ha creato, grazie alla sua prima sintesi esemplare di teologia tradizionale e sufismo per il paradigma degli ulama e dei sufi dell’epoca post-classica (P IV), una teologia alla fine in larga misura determinante per la maggioranza sunnita. Ġazzālī doveva avere nell’islam un ruolo paragonabile a quello che, un secolo abbondante più tardi, avrebbe avuto Tommaso d’Aquino nel cristianesimo cattolico: anche di quest’ultimo è impossibile isolare la singolarità o esagerare l’autorità. Come Tommaso, Ġazzālī divenne (ottenendo però anch’egli il dovuto riconoscimento solo molto dopo la morte) il «doctor communis», il «maestro comune» che «esercita ancora un forte influsso sullo sviluppo spirituale nel mondo islamico», come attesta Mahmoud Zakzouk, professore di filosofia all’Università al-Azhar del Cairo e ministro egiziano della religione nei primi anni del XXI secolo.89 Poiché al-Ġazzālī è un teologo paradigmatico, rappresentativo per il paradigma degli ulama e dei sufi come nessun altro prima e dopo di lui, gli dedico un capitolo relativamente particolareggiato, che culmina in un confronto con un altro teologo paradigmatico del medioevo cristiano, appunto Tommaso d’Aquino.
Come giunse Ġazzālī alla sua sintesi? Questo ci interessa non solo perché sono stati scritti e ancora si scrivono tanti libri su di lui e perché lui stesso ha scritto così tanti libri, ma perché egli ha fatto un resoconto molto personale del suo cammino e del suo punto di vista in un celebre, specifico libro dal titolo al-Munqiḍ min aḍ-ḍalāl («Guida dall’errore»). Certo, pur con tutti i suoi riferimenti biografici, questo testo non è un’autobiografia, dotata di un preciso ordine cronologico. Si tratta di una guida sistematizzata e stilizzata alla ricerca della verità per ogni persona ragionevole,90 ma anche di un’abile «Apologia pro vita sua» dell’autore, come diviene chiaro soprattutto nell’ultimo dei quattro capitoli.91 La si è perciò spesso paragonata alle Confessioni di Agostino, ma sarebbe meglio paragonarla ai Discorsi sul metodo di Descartes («per guidare bene la ragione e cercare la verità nelle scienze»).92
Da dove deriva una certezza di base: un precursore di Descartes?
Nel 1055 la dinastia dei Selgiuchidi, che si consideravano i campioni dell’islam sunnita, aveva annientato il dominio dei Buyidi sciiti sull’Iraq.93 Sotto il dominio militare dei Selgiuchidi nasce a Tūs, nel 1058, (Khorasan) Muḥammad al-Ġazzālī. Là, dopo la morte precoce del padre, probabilmente un venditore di tessuti (ġazzāl = filatore),94 egli viene accolto con il fratello Ahmad, in seguito un famoso esperto di diritto e mistico, in una madrasa e ottiene gratuitamente vitto, alloggio e insegnamento. Ma già ben presto sorge nel dotato e brillante giovane il sospetto sulla fede ingenua nell’autorità (taqlid = «imitazione» cieca), che semplicemente assume e «imita» i dogmi e le forme esteriori della religione senza alcun esame delle cause. A Ġazzālī salta agli occhi che i bambini dei cristiani e degli ebrei, ma anche quelli dei musulmani, assumono semplicemente ciascuno la religione dei propri genitori. Il pensiero indipendente (iğtihād) non è richiesto e tanto meno la ricerca indipendente. Questo lascia insoddisfatto il teologo adolescente.
A vent’anni al-Ġazzālī arriva a Nishapur. Là si trova uno di quei centri di formazione per teologi fondati dal più importante dei Gran Visir selgiuchi, il già nominato Niẓām al-Mulk (da cui il nome della madrasa, Niẓāmīya), per imporre la sua politica, indirizzata programmaticamente all’unità del regno e al rinnovamento dell’islam sunnita – e questo con l’aiuto delle università da lui fondate in diverse città del regno e con il sostegno della teologia razionale aš’arita – per imporsi contro la durissima opposizione degli ḥanbaliti tradizionalistici, che considerano i mediatori aš’ariti pericolosi tanto quanto i razionali mu’taziliti. Nell’Università Niẓāmīya di Nishapur, dunque, alĠazzālī studia scienze del diritto e teologia aš’arita. Dopo che già nella prima gioventù, come scrive, gli erano stati distrutti «i fondamenti della fede tradizionale», la sua massima aspirazione è «ottenere conoscenza sulle verità delle cose», e cioè una «sicura conoscenza, in cui ciò che è conosciuto si riveli in modo tale da non permettere più alcun dubbio».95
A noi lettori occidentali moderni sorge spontaneo, di fronte a questo modo di presentare il problema, pensare a René Descartes, il primo filosofo dell’Europa moderna. Costui vuole, com’è noto, esporsi impavidamente al dubbio, non per sprofondare nella disperazione, ma per raggiungere la certezza priva di dubbi.96 Per questo si è talvolta ipotizzato che Descartes conoscesse il libro di Ġazzālī, al-Munqiḏ .97 Alcune opere di Ġazzālī, in effetti, soprattutto quelle di critica filosofica, erano già state tradotte in ebraico e in latino prima dell’epoca di Descartes. Lo stesso Descartes era legato da amicizia, a Leiden, con il famoso orientalista Jakobus Golius (morto nel 1667), che aveva portato con sé numerosi manoscritti arabi dai suoi viaggi in Marocco, nel Vicino Oriente e in Persia, e il cui allievo Levinius Warner, in seguito ambasciatore olandese a Istanbul, aveva lasciato alla biblioteca universitaria di Leiden un esemplare del Munqiḏ Un altro manoscritto di quest’opera si trovava all’epoca di Descartes in Francia, in possesso di Giulio Mazarin, che lo aveva ricevuto probabilmente dal famoso padre Paulaner Marin Mersenne, un amico di Descartes. Di più, nell’edizione tedesca del suo libro Al-Ghazalis Philosophie im Vergleich mit Descartes («Un confronto tra la filosofia di alĠazzālī e quella di Descartes»), Mahmoud Zakzouk98 riferisce di una relazione dello storico tunisino Osman al-Kaak (Algeri 1976), che avrebbe visto nella biblioteca di Descartes (conservata presso la Bibliotèque Nationale di Parigi) una traduzione latina del Munqiḏ risalente al XIV secolo, nella quale il passo sul dubbio come primo gradino verso la certezza sarebbe stato sottolineato di proprio pugno da Descartes.
Nessuno, tuttavia, ha mai esibito questo esemplare. Più importante della questione della dipendenza storica – che forse non si potrà mai decidere definitivamente – è senz’altro quella della concordanza contenutistica, e una tale concordanza esiste come minimo per quanto riguarda l’approccio di entrambi i pensatori al dubbio universale (metodico o reale). Al-Ġazzālī confessa di essere totalmente precipitato nello scetticismo e nell’agnosticismo, nel corso della sua ricerca della verità e della certezza indubitabile. Già ben sei secoli prima di Descartes, dunque, un pensatore musulmano constata qualcosa che, tuttavia, da parte sua, può aver imparato dagli scettici antichi: che si può dubitare di quasi tutto, tanto più delle cose materiali: «Dopo un lungo dubitare sono giunto alla conclusione di non concedere alcuna certezza neanche alla conoscenza sensoriale».99
Ma se già «non c’è fiducia (ṯiqa) nelle percezioni sensoriali», allora forse neanche la «fiducia nelle realtà» della ragione è giustificata?100 In effetti è proprio così, giacché: «Forse, chissà, dietro la conoscenza razionale si nasconde un altro giudice che, non appena si manifesta, accusa di menzogna il giudizio della ragione, così come il giudice della ragione si è manifestato e ha definito come menzogna il giudizio della percezione sensoriale».101 Descartes scriverà, secoli dopo, della possibilità di uno «spirito maligno» (genius malignus)102 ingannevole, che potrebbe far apparire tutto «come un gioco ingannevole di sogni». Già Ġazzālī vede nel sogno una conferma dei suoi dubbi: «Non sei forse convinto che durante il sonno credi a cose e ti immagini situazioni che hanno solidità e durata e di cui tu allora non dubiti assolutamente? Poi però ti svegli e riconosci che tutte le tue costruzioni e supposizioni non hanno alcun fondamento e alcuna utilità. Che cosa ti rende così sicuro del fatto che tutto ciò che tu, da sveglio, credi attraverso i sensi o attraverso la ragione, sia vero in relazione allo stato in cui ti trovi?».103 In breve: neanche della ragione ci si può fidare; «le verità intellettuali, che sono i principi primi»,104 dunque i principi razionali, non sono dimostrabili. Questo problema fondamentale non si può risolvere con argomenti razionali, tanto più se il valore della stessa ragione che argomenta è posto in discussione: «Una prova esige la conoscenza dei principi primi: poiché però questa non viene concessa, è impossibile fornire una prova».105
La conseguenza è una crisi intellettuale: per due mesi interi, racconta Ġazzālī, egli rimase preda della «malattia» dello scetticismo e si trovò «nella condizione spirituale di un sofista». Ma come venne guarito da questa «malattia» e come trovò la condizione di salute e di equilibrio, come gli divennero «di nuovo accettabili e degne di fiducia le necessarie realtà della ragione sulla base della sicurezza e della certezza»? La risposta di Ġazzālī è inequivocabile: «Questo non avvenne tramite una prova ordinata e un discorso sistematico, ma grazie a una luce, che il Dio sublime gettò nel mio petto, quella luce che vale come chiave della maggior parte delle conoscenze».106
Ma come si deve intendere questa «luce» che vince il dubbio filosofico e procura certezza e sicurezza? Se non si tratta di un ritorno alla fede oscurantista nell’autorità (taqlīd), e d’altra parte neanche di una prova razionale, né sicuramente di una decisione irrazionale, non si tratta allora per lo meno – così intendono singoli interpreti – di un’evidenza ingenua107 o riflessa108 di questi principi razionali? Però, se la loro evidenza s’impone obbligatoriamente fin dall’inizio o a posteriori, Ġazzālī non avrebbe certo dovuto tormentarsi per mesi intorno a una soluzione. Oppure si tratta, invece che di una deduzione, di una «intuizione» dei principi primi?109 Ma – sorge nuovamente la domanda – perché mai un uomo della levatura di Ġazzālī dovette lottare tanto a lungo per ottenere una tale conoscenza di per sé immediata? E perché non la attribuisce a se stesso, ma a una luce donata da Dio? Mahmoud Zakzouk, il cui sofisticato confronto con Descartes fornisce paralleli davvero notevoli, spiega così questa «intuizione»: «in un solo atto [...] la ragione al tempo stesso conosce Dio (che le manda la luce) e si vede fondata in lui».110 E proprio in questo egli vede la concordanza tra Ġazzālī e Descartes, nel fatto che «al centro di entrambe le soluzioni sta la conoscenza di Dio ottenuta tramite intuizione» .111
Eppure proprio questo mi pare discutibile. Tanto, infatti, entrambi considerano innata l’idea di Dio ed entrambi danno molto valore alla conoscenza intuitiva, quanto poco Descartes utilizza la conoscenza di Dio come soluzione per il problema della certezza sui fondamenti.112 Io mi chiedo anche se in Ġazzālī davvero «conoscenza di sé e di Dio vengono compiute in un unico atto».113 In ogni caso, qui risulta chiara la differenza fondamentale rispetto a Descartes: la conoscenza di Dio viene introdotta da quest’ultimo solo molto più tardi nell’argomentazione. Descartes fonda la certezza primaria sul soggetto umano, sul suo famoso «cogito» («penso») sperimentabile in ogni dubbio, che gli parve giustificare come giudizio spontaneo un «ergo sum» («dunque sono»). E per questo gli si è rimproverato, a partire da Kant, di avere senza ragione tratto conclusioni dal pensiero sulla verità sostanziale di un Io.
Ġazzālī, da parte sua, ha parlato fin dall’inizio di una «fiducia» nella ragione – in un primo momento manchevole, ma necessaria. Tuttavia era convinto che l’uomo non può giungere a una simile fiducia senza Dio e senza la luce donata da Dio alla sua interiorità.114
Quale cammino di vita: teologia, filosofia, esoterismo?
Nel 1091, a trentaquattro anni, ancora scapolo e indipendente, alĠazzālī viene chiamato all’Università Niẓāmīya di Baghdad, sulla cattedra di certo più importante del mondo islamico sunnita dell’epoca. A chiamarlo è il potente, ultrasettantenne Gran Visir Niẓām al-Mulk, originario anch’egli di Ṭūs, alla cui corte Ġazzālī ha probabilmente vissuto per sei anni dopo la morte del suo maestro, entrando così in contatto con quella sconcertante varietà di opinioni. All’università fa il suo ingresso sotto gli occhi di un vasto pubblico, vestito d’oro e seta, con una costosa armatura da cavaliere, e ben presto si trova a seguire trecento studenti e ad assolvere anche funzioni pubbliche. Per se stesso, egli si sforza di trovare certezze definitive nella ricerca della verità. Ciò che egli ci presenta in perfetta forma sistematica e didattica nel suo «Guida dall’errore» sono senza dubbio non tanto le quattro tappe cronologicamente ben distinguibili del suo sviluppo biografico, quanto le quattro posizioni spirituali fondamentali, alle quali egli riduce gli innumerevoli indirizzi di fede e di scuole nominati al principio. Quali fossero le tesi teologiche che al-Ġazzālī aveva sostenuto prima di studiare filosofia e di porsi sul cammino del sufismo, si può difficilmente accertare storicamente in maniera inequivoca. E già prima di Ġazzālī il matematico persiano ’Umar Ḫaiyām, a lui noto, aveva distinto quattro classi molto simili in un trattato filosofico.115 Quali sono dunque le quattro grandi posizioni, movimenti, raggruppamenti dell’epoca tra le quali il musulmano riflessivo deve decidersi? È con chiarezza e leggibilità che questo giurista e teologo, che è anche un abile pedagogo, docente e retore, mostra ai suoi contemporanei un cammino attraverso il caos spirituale.
Il primo raggruppamento: gli scolastici islamici (i mutakallimūn di orientamento aš‘arita), i campioni del giudizio e del pensiero speculativo. Tuttavia lo scopo di questa dogmatica speculativa (kalam) – la conservazione della sostanza di fede rivelata nel Corano e nella sunna e la sua difesa da innovazioni eretiche – appare ad al-Ġazzālī come insufficiente. Questi dogmatici, infatti, si appoggiano troppo nella loro impresa sulle premesse dei loro avversari, accettandole del tutto pacificamente per cieca imitazione (taqlīd), per il consenso (iǧmā‘) della comunità o perché accettano senza riflettere Corano e sunna. Si accontentano di poter esibire contraddizioni e false conseguenze delle posizioni avversarie e non soddisfano i requisiti della logica aristotelica. Mai una volta passano dalla pura apologetica alla ricerca della verità interiore delle cose, ma si perdono in discussioni senza fine su sostanze e accidenti, sulla loro natura e attributi, senza addentrarsi fino alla verità attraverso l’oscurità in cui si sono smarriti. No, un tale dogmatismo speculativo non è in grado di fornire la giustificazione razionale delle sue stesse ipotesi e dei suoi presupposti, e così al-Ġazzālī nella sua esposizione sistematica si rivolge alla filosofia.
Il secondo raggruppamento: i filosofi, i campioni della logica e delle prove. Al-Ġazzālī non è affatto un nemico radicale di ogni filosofia; al contrario, egli si lascia prendere totalmente da essa. Studia per parecchi anni le discipline dei filosofi greci (matematica, logica, fisica e metafisica, politica ed etica) ed è in particolare molto affascinato dalla logica aristotelica, poiché essa, grazie al sillogismo (logica conclusione tratta da due premesse), è di gran lunga superiore alla logica giuridica tradizionale. Nel trattato sui «fini dei filosofi» (maqāṣid al-falāsifa), Ġazzālā presenta con stupefacente obbiettività le idee soprattutto di Avicenna e dei suoi scolari – e si rivela così un profondo conoscitore della filosofia.
Quando già alcuni ritengono che Ġazzālī sia passato alla filosofia, egli pubblica invece la sua complessa «Confutazione dei filosofi» (tahāfut al-falāsifa).Ġazzālī rimane fedele all’argomentazione basata sulla logica sillogistica e prende seriamente, come in precedenza, la filosofia neoplatonica. La sua critica però è ora diretta a quelle dottrine filosofiche che contraddicono chiaramente le dottrine religiose dell’islam. Egli analizza con acume venti insegnamenti filosofici problematici e confuta la dottrina dell’eternità del mondo, del tempo e del movimento, inoltre le dottrine dell’impossibilità di una prova di Dio sulla base della creazione, della mancanza di attributi di Dio e dell’incapacità di Dio di conoscere particolari (invece che solo gli universali), infine le dottrine dell’impossibilità della resurrezione della carne e dell’esistenza materiale di inferno e paradiso. Diciassette di queste dottrine sono considerate eretiche da Ġazzālī, tre addirittura «miscredenti»; chi le sostiene si pone al di fuori della comunità musulmana.
La disputa acuta e coraggiosa di al-Ġazzālī con la filosofia ha un duplice effetto: quelle discipline filosofiche (proprio la logica aristotelica, su cui egli scrive due trattati) e tutte le dottrine neoplatoniche che hanno posizioni neutrali riguardo alla rivelazione islamica possono ora venire ampiamente assunte nella teologia, cosicché questa mantiene ancora l’impronta filosofica.116 Per quanto riguarda invece la filosofia pura, la critica di al-Ġazzālī porta a un suo decisivo indebolimento.
Il terzo raggruppamento: il rinvigorito movimento degli sciiti rivoluzionari (batiniti, ismailiti), per lo più partigiani e propagandisti degli ostili Fatimidi sciiti e del loro controcaliffato del Cairo. Questi pretendono di essere portatori del vero insegnamento e beneficiari privilegiati del sapere tramite un imam infallibile: la vera conoscenza esoterica del senso nascosto (bāṭin) di tutti i simboli esteriori sarebbe ottenibile solo tramite questo imam infallibile, il difensore del vero. Ġazzālī tuttavia, su incarico del califfato di Baghdad, espone con precisione – secondo alcuni sunniti con troppa precisione – le dottrine sciite e le confuta al tempo stesso secondo scienza e coscienza. All’argomento degli sciiti estremisti, secondo cui ci sarebbe bisogno d’insegnamento e di docenti e solo un maestro infallibile sarebbe adatto allo scopo, Ġazzālī rinvia dapprima al profeta Muḥammad come maestro ispirato e osserva poi che i profeti e i capi religiosi hanno già sempre incitato gli uomini «a sottomettersi allo sforzo necessario per formare la propria opinione, benché essi possano sbagliarsi»: «persino il Profeta – sia lode a lui – diceva: io giudico secondo l’esteriorità, l’interiorità però è da affidare a Dio, vale a dire io giudico solo secondo la migliore opinione, che deriva da testimonianze, per quanto io possa anche sbagliarmi». Secondo questa tradizione, conclude Ġazzālī, non ci sarebbe dunque «per gli stessi profeti nessuna sicurezza contro errori nei casi in cui è necessario farsi una propria opinione», e questo varrebbe anche senz’altro per «questioni dogmatiche».117 Oltre tutto egli avrebbe esposto il metodo con cui si elimina la disputa sui fondamenti della fede nella sua opera La giusta misura.
Dopo il bilancio negativo riguardo alla teologia scolastica, la filosofia e la fede sciita nell’infallibilità, rimane ancora il quarto raggruppamento: i sufi, gli eletti della presenza divina, della visione e dell’illuminazione, che, superata l’arida scienza giuridica e l’elitaria speculazione teologica, spingono a una interiorizzazione della fede e a una relazione più intima con Dio.
Crisi e svolta verso la mistica
Al-Ġazzālī ha chiaro che, diversamente dal caso dei filosofi, con questo gruppo non basta un confronto puramente accademico; che la teoria da sola, che tutti i libri dei vari Muḥāsibī, Ǧunaid, Abū Yazīd non sono sufficienti per comprendere il cammino mistico. Qui c’è piuttosto bisogno della prassi, dell’esperienza personale, dell’«assaggio» e della trasformazione esistenziale, per capire discorsi e vita vissuta dei mistici.
Per sei mesi al-Ġazzālī, benché la sua fede in Dio, nella profezia e nel giudizio universale non sia mai fuori controllo,118 è lacerato interiormente dalla scelta se cominciare o meno una vita completamente nuova. Non hanno contato per lui, nella sua attività fino a quel momento, piuttosto la sua fama e gloria personale che non l’amore per Dio? Il popolare professore, ora trentottenne, cade in una crisi psicosomatica così grave che deve interrompere le sue lezioni per difficoltà del linguaggio («Dio rese muta la mia bocca»).119 La situazione politica carica di terrore a Baghdad, di cui Ġazzālī non parla nella sua apologia, ha avuto un crescendo drammatico. Il suo benefattore Niẓām al-Mulk viene ucciso nel 1092 dagli «assassini», quella setta segreta sciita che agisce dalla fortezza di Alamūt (sui monti Alburz) con omicidi proditorii (da cui la parola italiana «assassino»): morte del sultano due settimane più tardi, liti per la successione al trono, decadenza del potere centrale, provincializzazione crescente, crisi profonda dello stato selgiuchide. In breve, non c’è più alcuna autorità politica con cui al-Ġazzālī possa identificarsi.120
Comunque sia: nel luglio del 1095, solo quattro anni dopo l’assunzione del suo incarico, il grande dotto di legge prende la decisione gravida di conseguenze di rinunciare al suo incarico di professore e, essendosi nel frattempo sposato, di abbandonare famiglia, amici, cattedra, fama e ricchezza. Per cosa? Per condurre la vita di un sufi, invece che seguire la carriera di un teologo di scuola. Per Baghdad, un evento che suscita scalpore! Con la scusa di un pellegrinaggio alla Mecca (perché altrimenti sicuramente l’avrebbero trattenuto), l’ammirato studioso fugge in una rozza veste di lana verso Damasco. Là egli segue (per lo più in solitudine e povertà, nella cella di una grande moschea) per due anni lo stile di vita dei sufi – «il migliore di tutti gli stili di vita»: superata ogni conoscenza intellettuale e ogni fedeltà esteriore alla legge, è del tutto concentrato nello «sprofondare completamente del cuore nell’invocazione a Dio» (ḏikr), nella «purificazione totale del cuore» e come fine ultimo, nell’«assorbimento totale (fanā’) in Dio».121 Tuttavia, con tutto ciò al-Ġazzālī non esercita alcun ritorno a una esoterica mistica o a un sufismo senza legge, bensì produce un rigoroso lavoro scientifico per i credenti. Non più, però, una dogmatica sterile, lontana dalla realtà, e un’arte della disputazione dialettica che disprezza i semplici e che pure non ha mai condotto alla conversione di un ateo, bensì una teologia per gli uomini, che si sforzi di essere comprensibile e affondi le sue radici nell’esperienza di vita.
Ma la sua immersione nella vita da sufi viene continuamente disturbata da notizie familiari, avvenimenti storici, problemi quotidiani. Dopo un prolungato soggiorno a Gerusalemme (chiuso nella moschea della roccia) e un pellegrinaggio alla Mecca e a Medina, Ġazzālī ritorna a casa su preghiera dei figli, dopo otto anni di ininterrotta vita raminga, di predicazione e di lavoro a una grande opera teologica: non fa ritorno, tuttavia, a Baghdad, nell’opulenta vita locale, ma nella sua città natale nella regione del Khorasan, Ţūs, dove fonda a fianco della madrasa una ḫānaqāh sufi. Quello però che egli tace nei suoi ricordi biografici e che tuttavia è attestato senza ombra di dubbio dalla sua corrispondenza, è che Ġazzālī nel 1095 aveva fatto a Hebron, sulla tomba di Abramo, un triplice voto: mai più accettare denaro dal governo, mai più comparire davanti a un sovrano e mai più partecipare a dispute pubbliche, le esibizioni dei dotti.122 A questo voto tiene fede fino alla morte, ma forse ne infrange lo spirito. I rimorsi possono costituire il retroscena inespresso per il capitolo finale del Munqiḏ, incredibilmente lungo, in cui egli espone i motivi per cui, invece, un decennio più tardi sia di nuovo ritornato (benché senza grande esibizione e dispute) alla sua attività didattica.123
Già, che cosa lo spinge a ritornare a quest’istituzione, privata sì, ma che al tempo stesso riveste un eminente ruolo politico? La risposta di Ġazzālī è: l’evidente affievolimento della fede popolare, poi l’ordine del visir del sultano, un figlio di Niẓām al-Mulk, in cui egli per lo meno in un secondo tempo riconosce la volontà di Dio, e infine la convinzione musulmana, da lui espressa molto apertamente, che all’inizio di ogni secolo sarebbe comparso un rinnovatore (muǧaddid) della religione. Dopo il califfo ‘Umar nel primo secolo islamico, l’esperto di diritto aš-Safī‘i nel secondo, il teologo al-Aš‘arī nel terzo, il qadi al-Baqillani nel quarto, ora, nel quinto secolo, il rinnovatore sarebbe appunto lui, al-Ġazzālī, rassicurato nella sua coscienza di sé da molti amici. In opposizione alla paura, quasi apocalittica, che molti musulmani nutrono verso l’anno musulmano 500 (che doveva cominciare il 2 settembre 1106 d.C.), Ġazzālī lascia poche settimane prima dell’inizio del VI secolo il suo eremo sufi a Ţūs e si presenta all’Università Niẓāmīya di Nishapur. Dopo appena tre anni, tuttavia, ritorna nuovamente a Ţūs, probabilmente per motivi di salute. Quando Ġazzālī, dopo una vita instancabile di studi e pubblicazioni, sente avvicinarsi la fine, secondo quanto è riportato compie l’abluzione rituale, si fa dare il sudario, lo bacia e se lo pone sugli occhi con le parole: «Io ascolto e obbedisco, entrando dal re». Così muore, il 18 dicembre 1111, colui che in seguito alcuni dovevano considerare il più grande dopo il Profeta.
Ma, così ci si chiede, che cosa sarebbe andato perduto per l’islam, se questo sufi non fosse rimasto fino alla fine anche giurista e teologo? Difatti, egli ha scritto solo nella seconda metà della sua intensa vita il suo capolavoro: Iḥyā’ ’ulūm ad-dīn («La rivitalizzazione delle scienze da parte della religione»),124 che abbraccia per lui tutti gli ambiti della vita umana, dalle abitudini a tavola fino ai segreti del cuore. Una classica «summa teologica», che si può senz’altro confrontare con quella cristiana di Tommaso d’Aquino.
Un punto di partenza davvero pessimistico per una summa della religione, se la scienza di questa religione, apparentemente morta, ha bisogno proprio di «rivitalizzazione». Ma così appunto la vede al-Ġazzālī. Già nel primo dei ben quaranta libri di questa summa, dal titolo ’ilm, che significa «sapere» o «scienza» e ha a che fare etimologicamente con ‘ulamā’(sing. ‘alim’), al-Ġazzālī si sfoga con amarezza proprio sui dotti della religione, sulla loro giurisprudenza fossilizzata e sulla loro pretenziosa teologia. Invece di preparare gli uomini al mondo che deve giungere, in onestà davanti a Dio e nella fede in lui, questi giuristi e teologi discuterebbero, in isolamento accademico, di questioni di diritto completamente avulse dalla vita reale, e si occuperebbero di speculazioni sterili – per l’affermazione di sé come intellettuali invece che per l’utilità del popolo. Considerata la dissoluzione in atto dell’ordine politico, al-Ġazzālī è interessato a un rinnovamento della società dal basso.
Ma sarebbe un malinteso credere che al-Ġazzālī sia contro la giurisprudenza in sé e contro la teologia come tale. Anche da sufi, egli rimane giurista e teologo, ma entrambe le cose in un senso più alto, interpretato in modo nuovo. Anzi, gli sta senz’altro a cuore continuare a essere considerato come riconosciuto membro della scuola di diritto šafi‘ita e della scuola di teologia aš‘arita. Ma per far questo non ha assolutamente bisogno di identificarsi con tutte le loro concezioni, lui che si è espresso sempre in maniera così critica sulle loro opinioni. Il fatto che distingua tre livelli di consenso (ciò che qualcuno sostiene in una disputa scolastica, ciò che egli propaga come insegnamento e lezione pubblica e ciò che egli crede nel privato), non significa necessariamente che questi tre livelli siano tra di loro in contraddizione per lo stesso al-Ġazzālī, qualunque cosa ricostruiscano e interpretino autori moderni da una distanza forse troppo storica.125
Due maestri della teologia: al-Ġazzālī e Tommaso d’Aquino
La critica a una modalità determinata di giurisprudenza e di teologia, entrambe le quali egli non vuole abbandonare nonostante ogni abuso, costituisce il costante sfondo della grande summa theo-logica di al-Ġazzālī, concepita per aiutare in maniera molto concreta l’uomo a trovare la sua strada verso Dio. Quel che conta per lui è Dio, davanti al quale ogni atto umano si compie in maniera immediata, e probabilmente il teologo musulmano avrebbe potuto all’inizio del XII secolo descrivere il suo compito allo stesso modo di come, un secolo e mezzo più tardi, lo formulerà un teologo cristiano: «Io sono consapevole che devo a Dio, come il primo e più importante compito della mia vita, di farlo parlare in ogni mia orazione e riflessione».126 Così Tommaso d’Aquino in apertura della sua Summa contra gentiles (1259-1264), contro i «pagani», con cui egli in prima linea intende quei filosofi arabi di cui, già da lungo tempo prima di lui, al-Ġazzālī aveva combattuto le tesi eretiche o miscredenti. «Parola che risponde davanti a Dio» avrebbero potuto certo scrivere entrambi, anche se l’uno la chiama «teologia», l’altro «scienza della religione».127
Tommaso non ha conosciuto la teologia di al-Ġazzālī. Solo le opere della filosofia islamica ebbero una diffusione relativamente ampia nel medioevo cristiano, e tra queste la descrizione di al-Ġazzālī dei filosofi arabi – per ironia della sorte priva della sua confutazione. Ma nessuna opera fondamentale della teologia islamica (a differenza della filosofia) si trova nella lista delle opere tradotte a Toledo, Burgos o in Italia.128 A dire il vero Tommaso ha considerato per la Summa contra gentiles isolati argomenti del filosofo ebreo Mosè Maimonide (per lui «il rabbino Mosè») contro la teologia islamica. Ma anche la Summa theologiae filosofico-teologica per la fede cristiana, con cui egli completò dal 1265 fino alla sua interruzione nel 1273 la «Summa contro i gentili» teologico-filosofica, è priva di ogni più approfondita conoscenza del contesto generale del kalam, della Scolastica islamica. 129
Voler attestare qualche concordanza univoca tra le due grandi summe teologiche avrebbe poco senso. Se invece vengono «prese determinate coincidenze (coincidences) come linee di orientamento e vengono approfondite nel loro rispettivo ambito biografico», esse possono essere «estremamente illuminanti», dicono Louis Gardet e Georges Anawati (allievi di Massignon), che, come sostenitori di una «théologie comparée», confrontano utilmente funzione e metodi della teologia nelle diverse epoche islamiche e cristiane,130 senza però entrare nel merito delle decisive differenze contenutistiche.131
Ciò nonostante non si può escludere che Tommaso avesse presenti gli arabi, per lo meno in maniera indiretta, quando scrisse la sua Summa theologiae. L’islamologo americano George Makdisi (Università della Pennsylvania), particolarmente interessato a questa problematica in quanto cattolico di origine libanese, cerca di dimostrare, nel suo documentatissimo libro, rapporti tra le istituzioni scientifiche dell’islam e dell’Occidente:132 già la struttura giuridica dell’antica università parigina risalirebbe all’istituzione islamica (waqf). Anche gli inizi del metodo scolastico, il metodo dialettico sic-et-non, si troverebbero prima di Abelardo già presso il famoso Fozio, ambasciatore bizantino nell’855 presso il califfo al-Mutawakkil a Baghdad e in seguito patriarca di Costantinopoli. Anche il metodo della Summa theologiae di Tommaso avrebbe nell’islam la sua origine. Effettivamente, i paralleli formali tra la Summa (al-wāḍiḥ fī uṣūl al-fiqh) del teologo hanbalita (costretto alla ritrattazione per via delle sue simpatie giovanili per la Mu‘tazila) e severo moralista Ibn ’Aqīl (vissuto tra il 1040 e il 1119 a Baghdad), un contemporaneo di al-Ġazzālī, e quella dell’Aquinate sono sorprendenti; fanno apparire Ibn ‘Aqīl e Tommaso come spiriti affini. Di certo non mancavano vie di comunicazione tra Baghdad e l’Occidente: Siria, Italia, Sicilia, Spagna... l’ipotesi sembra plausibile. Tuttavia a Makdisi, morto nel 2003, non è più riuscito di attestare dirette tracce letterarie che comprovino veramente una dipendenza al di là della semplice supposizione.
Paralleli biografici
Al-Ġazzālī e Tommaso non vivono solo in due secoli diversi, ma anche in due mondi diversi, e un confronto tra il «sistematizzatore della religione» cristiano e quello musulmano può apparire fin dall’inizio problematico a specialisti di entrambe le parti, persino se non si deve affermare alcuna dipendenza. Eppure, teologo in senso europeo è comunque anche al-Ġazzālī, nonostante pesanti obiezioni alla teologia scolastica, esercitata a lungo anche da lui. In effetti, ci sono determinati paralleli illuminanti tra Ġazzālī e Tommaso; questi stimolano un confronto strutturale, che può essere utile per l’analisi del paradigma medievale della teologia musulmana come di quella cristiana e che infine aiuta anche a cogliere più precisamente la differenza decisiva tra teologia musulmana e cristiana.
Ci sono paralleli già nel contesto biografico:
– entrambi, il musulmano e il cristiano, sono persone profondamente religiose e hanno percorso già in età giovanile un’intensa formazione spirituale;
– entrambi, dotati di una insaziabile curiosité intellectuelle, spirito critico e capacità sintetica, operano al loro apice nelle posizioni accademiche più importanti nel centro spirituale del loro mondo, l’uno alla scuola superiore di Baghdad, l’altro all’Università di Parigi (1252-1259), la più alta autorità didattica, nei fatti, della cristianità;
– entrambi si contrappongono criticamente al potere degli uffici e delle cariche teologiche: Tommaso rifiuta sempre con successo l’incarico di vescovo di Napoli e la porpora cardinalizia, al-Ġazzālī è spinto dal conflitto interiore alla crisi e alla fuga dal suo incarico;
– entrambi si sentono piuttosto attirati dalla semplice vita monastica e realizzano un’altra forma di vita in un altro mondo: l’uno – rampollo di una dinastia aristocratica con grandi proprietà terriere – entra contro l’opposizione della sua famiglia nell’ordine mendicante dei domenicani. L’altro sceglie, quando già è un teologo di corte ben sistemato, la via sufi dell’umiliazione e della povertà e fonda alla fine della sua vita un proprio convento;
– entrambi non sono affatto (Tommaso) o non primariamente (al-Ġazzālī) mistici, ma sono «teologi sistematici», che restano determinati decisamente non dal fuoco mistico, ma dall’intelletto;
– entrambi, grandi lavoratori intellettuali, vivono un crollo psicofisico, l’uno come crisi esistenziale con disturbi del linguaggio al suo rivolgimento al sufismo, l’altro nella fase finale della sua vita con difficoltà nello scrivere, che fino alla morte non riesce a vincere;
– entrambi trovano infine, dopo iniziali forti opposizioni da parte tradizionalistica (agostinismo da un lato, hanbalismo dall’altro), amplissima diffusione. Ancora nel XXI secolo la loro opera costituisce il fondamento per lo studio delle rispettive religioni.
Paralleli nell’opera
È possibile trovare paralleli di una certa rilevanza anche nella posizione della loro teologia.
– Il titolo che al-Ġazzālī sceglie per la sua opera in quattro volumi va senz’altro nel senso anche dell’Aquinate: «rivitalizzazione» della scienza della religione. Entrambi offrono, dopo innumerevoli opere giuridico-teologiche o filosofico-teologiche, la quintessenza della loro riflessione decennale su Dio, il mondo e l’uomo, che deve essere più onnicomprensiva possibile.
– Entrambi ebbero naturalmente i loro precursori, da cui essi impararono: per Tommaso soprattutto Agostino, Pietro Lombardo e Alberto Magno; al-Muḥāsibī e Abū Ṭālib al-Makki per al-Ġazzālī, che dal primo desume un importante schema strutturale e dal secondo semplicemente interi capitoli dal suo «Nutrimento del cuore» (l’originalità è un criterio occidentale moderno!).
– Paragonabile è la presa di posizione teologico-filosofica: entrambi hanno a che fare da un lato con una teologia tradizionalistica o razionalistica e dall’altro con una filosofia «miscredente» di provenienza aristotelica; l’Aristotele arabo, Averroè (morto nel 1198), che, come dovremo spiegare ancora in maniera esaustiva, scrive una «Confutazione della confutazione» in risposta alla «Confutazione dei filosofi» di al-Ġazzālī, fu l’ispiratore della filosofia averroistica di Sigieri di Brabante (morto nel 1284), la grande sfida filosofica a Parigi per Tommaso d’Aquino.
Non sono dunque casuali i paralleli nell’impianto e contenuto del loro capolavoro teologico.
– Come all’iraniano non bastano le autorità finora vigenti (Corano, sunna), così l’Aquinate non si accontenta dell’autorità di Bibbia, Padri della chiesa, concili, papi. In entrambi i casi, alla ragione si attribuisce, a fianco della Scrittura e della tradizione, una funzione essenziale per ottenere chiarezza.
– Per entrambi i teologi, Aristotele gode di un’autorità fuori del comune: benché sia un avversario pericoloso in alcune questioni di fede, «il filosofo» appare tuttavia sotto altri aspetti un forte alleato. Eppure non lo studio di Aristotele – anche in esso i due teologi potrebbero trovarsi – ma la sequela di Cristo o l’orientamento profondo al Corano costituiscono la base spirituale della loro esistenza di teologi.
– Come la «rivitalizzazione della scienza della religione», così anche la Summa theologiae parte da Dio e finisce con Dio. Al tempo stesso, l’uomo viene visto costantemente con tutte le sue azioni davanti a Dio, cosicché in entrambe le opere non è riconoscibile alcuna divisione di dogmatica ed etica, sulla quale entrambe le opere pongono un forte accento.
– Entrambe le opere trattano in maniera esaustiva dei vizi umani (e spesso dei medesimi vizi): Ġazzālī dedica tutta la terza parte del suo Ihyā’alla «guarigione delle malattie dell’anima» (dall’eccessiva golosità alla concupiscenza sessuale, attraverso ira, odio e menzogna fino all’avidità, l’avarizia e l’orgoglio), che egli diagnostica dalle radici e cerca di curare con l’educazione dell’anima e la formazione del carattere. Entrambi scrivono anche ampiamente, benché in altra disposizione, delle virtù umane: Ġazzālī nella parte quarta sulle qualità e condizioni spirituali positive, a cominciare da pentimento e conversione attraverso pazienza e riconoscenza, paura e speranza fino al puro amore di Dio; Tommaso nella parte II/2 dapprima sulle virtù teologali (fede, speranza e carità), poi sulle quattro virtù cardinali (sapienza, giustizia, fortezza e temperanza), infine sulla profezia che per lui però ha un peso del tutto diverso che per Ġazzālī.
Non è possibile né necessario entrare nel dettaglio di tutti questi paralleli e di altri. Più importante è scorgere le notevoli differenze, sullo sfondo di questi paralleli, e dunque in particolare analizzare quali sono decisive per il rapporto tra teologia islamica e cristiana e quali no.
Differenze di stile, di metodo, di interesse
Naturalmente ci sono differenze di stile. Entrambi gli autori scrivono in maniera straordinariamente chiara e logica. Ġazzālī però, un «intellettuale profetico»,133 ha inteso il suo capolavoro in generale per musulmani acculturati e scrive in un arabo molto personale, caldo e retoricamente splendido. Tommaso, scolastico fino al midollo, compila la sua Summa come introduzione alla teologia per studenti (come spesso accade, sovrastimati dal professore) e colleghi di teologia e scrive in un latino dotto medievale del tutto impersonale, freddamente obiettivo, del tutto monocorde. Desumere da ciò una differenza religiosa, tuttavia, sarebbe insensato. Perché anche un teologo cristiano può scrivere in uno stile più personale, caldo (esempio: Agostino), mentre i teologi musulmani possono senz’altro procedere in modo analitico, freddo (esempio: i mu‘taziliti).
Più importanti di quelle di stile sono le differenze di metodo. Entrambi i grandi pensatori si servono della logica aristotelica e del sillogismo: Ġazzālī però nella sua opera principale si rifiuta, dopo che si era esercitato in precedenza nell’operare costantemente con categorie tratte dalla filosofia greca (ad esempio sostanza, accidente, atomo, vuoto), di trattare i problemi così sorti e di mescolare la filosofia della natura con le asserzioni di fede.134 Tommaso d’Aquino, al contrario, ha fatto propria non solo la logica aristotelica, ma anche in larga misura la fisica e la metafisica aristoteliche e cerca con l’aiuto delle categorie, dei principi e dei ragionamenti aristotelici di vagliare in maniera nuova l’intera rivelazione cristiana: dovunque analisi con nette determinazioni concettuali e differenziazioni formali, con innumerevoli divisioni e sottodivisioni, obiezioni e repliche. Ma: neanche nel metodo sta la differenza decisiva tra teologia islamica e cristiana. Un gigantesco dispendio di tecnica scolastica altamente sviluppata e spesso ipersviluppata si ritrova – di gran lunga prima della Scolastica latina, allora ancora in fase di sviluppo! – presso i mu‘taziliti (criticati per questo da al-Ġazzālī) e gli aš’ariti. Viceversa, anche nel medioevo cristiano si trova una teologia cristiana scettica o addirittura nemica della Scolastica, più esistenziale (si pensi al commento al Cantico dei Cantici di Bernardo di Chiaravalle e alla sua lotta contro Abelardo).
Dietro a uno stile e a un metodo differenti si nasconde invece in entrambi i grandi compendii una differenza di interesse che in entrambi di casi non è di natura puramente accademica.
Al-Ġazzālī, il giurista-teologo, si mostra interessato soprattutto ad accelerare una riconciliazione della fede musulmana con il sufismo. Questo però assolutamente non a spese della sharia, perché essa si era sviluppata fin dall’epoca classica (P III). Al contrario: tutto deve portare alla sua osservazione più precisa e più ragionevole. Deve sorgere, un concetto globale della prassi sufi in accordo con il sunnitismo, che renda comprensibile ogni dettaglio della sharia al singolo musulmano a partire da cognizioni sufi. Con l’ausilio della sua grande sintesi teologico-giuridico-sufi, al-Ġazzālī vuole aiutare il musulmano medio – questo interesse pastorale lo distingue dagli ulama, accademicamente distaccati – a condurre e a intendere una vita davvero musulmana: invece che un contrasto tra sharia e devozione sufi, la sharia come presupposto e fondamento di autentica vita mistica e l’ascesa mistica come completamento e coronamento della sharia!
L’interesse dell’Aquinate, filosofo-teologo, è soprattutto quello di fondare una pacificazione della fede cristiana con la filosofia. Questo però non deve avvenire a spese del dogma, come venne elaborato dalla teologia ellenistica (P II cristiano) e da Agostino (P III). Piuttosto, la capacità di risposta e la comprensibilità del dogma ecclesiastico devono venire sottolineate in maniera chiara e convincente. Orientato meno di Ġazzālī al singolo credente, ma più che altro alla teologia, all’università e all’istituzione ecclesiastica, Tommaso, sulla base della sua sintesi teologico-filosofico-ecclesiastica, che interpreta il parlare biblico-cristiano di Dio e dell’uomo, secondo lo spirito dell’epoca, tramite concetti della filosofia greca aristotelica, vuole innanzitutto aiutare teologi e uomini di chiesa a praticare una fede responsabile di fronte alla ragione (rationabile obsequium) e con ciò tributare un servizio alla chiesa. Invece che una «doppia verità» di filosofia e teologia, la filosofia come «ancella» della teologia!
Eppure anche questa differenza d’interesse non è esclusiva. Poiché entrambi hanno un obiettivo scientifico-pedagogico, e la loro intenzione pastorale-teologica si unisce, in uno come nell’altro, a rigore metodico, ordine logico e attitudine didattica. Entrambi vogliono appunto trasmettere una panoramica sul complesso della «dottrina sacra», e in entrambi la fede, coranica o biblica, è un presupposto costante, nonostante ogni argomentazione razionale. E come il giurista-teologo musulmano impiega senza scrupoli determinati elementi e ragionamenti filosofici, ma evita un’interpretazione puramente allegorica della fede (al modo degli aš‘ariti contro la teologia «antropomorfistica» degli hanbaliti, vicini al popolo), così anche il filosofo-teologo cristiano accetta concezioni giuridiche quanto più possibile e formula in ogni parte con prudenza conseguenze giuridiche della sua teologia per la chiesa e per il singolo. Il che significa: il loro diverso interesse scientifico non richiede affatto una diversa appartenenza religiosa. Dove stanno allora le differenze decisive?
Diversa struttura complessiva
Proprio quando ci si fa un’idea generale globale di entrambe le voluminose opere, si impone la differenza della struttura complessiva.
Al-Ġazzālī si attiene a un principio organizzativo che procede per gradi, di orientamento sufi. Viene esposta la vita del musulmano dalla conversione di fede fino all’ingresso in paradiso, senza alcun dramma di redenzione cosmica: l’uomo, liberato da falsi legami e scansando ogni pericolo, deve procedere da una «stazione» all’altra, con l’obiettivo della felicità eterna.
Quest’ascesa viene forse accennata già nella suddivisione rigidamente schematica dell’opera: quattro parti per dieci capitoli ciascuna, dunque in tutto quaranta «gradi», sui quali l’uomo secondo la concezione mistica può innalzarsi a Dio. Nella prima parte, i doveri dell’uomo nei confronti di Dio: la professione di fede e gli altri quattro pilastri dell’islam, ma anche il ricordo di Dio e la recitazione del Corano. Nella parte seconda i doveri dell’uomo nei confronti dei suoi simili: comportamento a tavola, nella professione, nell’amicizia, nel matrimonio, in viaggio. Poi, nelle già nominate parti terza e quarta, la dottrina dei vizi e delle virtù, culminante nella professione dell’unicità di Dio e nella fede incondizionata in lui. Tutto infine è coronato, negli ultimi libri, dai toni più mistici, del cammino del puro amore, con il capitolo finale sulla morte e sull’aldilà.
Tommaso, benché aristotelico nell’attuazione del suo metodo, impiega un principio organizzativo ciclico di origine neoplatonica: uno schema di nascita e ritorno. La parte prima tratta di Dio (come origine) e della nascita delle creature da Dio, della loro creazione e del loro peccato originale. La parte seconda spiega il movimento della creatura razionale verso Dio (come fine). Questo schema exitus-reditus è da immaginare primariamente come spaziale: Tommaso non tratta del dettaglio epoche storiche (come, su ispirazione della Bibbia, in Agostino e in Gioacchino da Fiore), come d’altra parte non fa neppure al-Ġazzālī. Piuttosto, egli pensa principalmente per gradi filosofici di essere e cause. Questo si mostra in maniera particolare nella sua interpretazione del Cristo disceso dal cielo e di nuovo salito al cielo. E con questo siamo arrivati alla differenza decisiva tra le due summae teologiche, che rende chiaro in che cosa si esprime la differente appartenenza religiosa del giurista-teologo e del filosofo-teologo, nonostante tutti i paralleli e le convergenze.
La permanente differenza di fondo
Qui non si tratta di una questione di dettaglio, bensì della questione centrale, che porta direttamente al messaggio centrale, all’essenza dell’islam, all’essenza del cristianesimo (cfr. cap. B II). Non un punto dottrinale qualsiasi, dunque, ma il «cuore» da cui l’intero riceve la sua forza trainante e la sua luce irradiante. Ciò si mostra già solo dal punto di vista puramente esteriore nella sistematizzazione delle due summae, se prestiamo attenzione al loro «cuore» determinante tutto il resto e non guardiamo, di conseguenza, alla loro identica partenza da Dio e al loro ritorno a Dio, in cui senza dubbio si esprime l’elemento comune di islam e cristianesimo (ed ebraismo), ma al loro centro, in cui si esprime l’elemento proprio, caratteristico delle due religioni. Qui cioè constatiamo che:
– al-Ġazzālī ha collocato il cuore della sua teologia esattamente al centro della sua opera, nel ventesimo dei quaranta capitoli, dunque alla fine delle prime due parti. Si parla (non c’è da stupirsene) del profeta Muḥammad, del suo carattere, delle sue qualità morali, della sua personalità, così come vengono rivelati nel Corano come grazia di Dio e raccomandati all’imitazione dei credenti: Muḥammad, il «Sigillo dei Profeti», che pertanto si trova nella professione islamica di fede a fianco dell’unico Dio;
– Tommaso invece fa culminare la sua intera teologia (una significativa innovazione strutturale!), dopo le due grandi parti sulla nascita e sul ritorno di tutte le cose, nella parte terza, dedicata a colui che si fa garante di questo ritorno, al Cristo come via a Dio: «Tendere a Dio per Cristo, che in quanto uomo è per noi la via».135
Dunque Muḥammad come esempio là, Cristo come esempio qui? Si potrebbe dire che questa differenza è di un certo peso, ma non decisiva: Muḥammad, come profeta (post Christum natum) non è il modello per la condotta di vita dei musulmani? E similmente Gesù, in quanto il Messia o Cristo (definito così anche nel Corano, benché non nell’interpretazione cristiano-biblica di questi concetti), non è il modello per la condotta di vita dei cristiani? Ma una simile lettura è superficiale. Perché? Perché la profetologia di Ġazzālī e la cristologia di Tommaso si differenziano in maniera del tutto sostanziale:
– Ġazzālī mette in risalto, certo, il mediatore del Corano come figura luminosa senza pari e illustra tutte le sue virtù per mezzo di numerosi detti e azioni, cosicché anche il Profeta potrebbe apparire quale «via» a Dio. Al tempo stesso, però, egli non lascia sorgere il benché minimo dubbio sul fatto che questo profeta è solo un uomo;
– Tommaso d’Aquino, al contrario, dà certamente molto peso al fatto che Gesù proprio in quanto uomo è via a Dio e tratta anche più dei dogmatici posteriori il suo insegnamento, la sua vita e la sua passione. Al tempo stesso, però, si impegna in ogni modo possibile per provare e poi concretizzare fin dall’inizio che questo Cristo non è solo uomo, ma (in senso ontologico) Figlio di Dio e pertanto uomoDio.
Esattamente su questo punto, tuttavia, Ġazzālī contraddirebbe l’Aquinate con la massima energia. E perlomeno oggi nessuno si aspetterebbe che le 59 lunghe Quaestiones cristologiche di quest’ultimo, con tutti i loro articoli, saprebbero portare Ġazzālī a fare marcia indietro intellettualmente e a credere a una persona divina in due nature. Come, più che mai, le 16 dettagliatissime Quaestiones sulla divisione in tre persone in un’unica natura divina (collegate alle 27 Quaestiones sulla natura unica di Dio) gli risulterebbero non solo gratuite, ma addirittura come una blasfema messa in dubbio dell’unità di Dio. Tutto quello che Tommaso ha qui esposto sul «Mysterium Trinitatis» e sul «Mysterium incarnationis» con l’aiuto di concetti e ragionamenti latino-ellenistici (P II e P III cristiani) è del tutto incomprensibile per il pensiero musulmano.
In questo punto decisivo si capisce chiaramente in che misura le due religioni profetiche abbiano avuto sviluppi divergenti: dalle posizioni di partenza, nell’ambito del paradigma giudaico-cristiano (P I cristiano) e proto-islamico (P I islamico), il dialogo interreligioso sarebbe stato, pur con tutte le differenze, ancora non complicato: Gesù interpretato nel contesto generale semitico come il Messia, amico, messaggero di Dio, Parola di Dio. Ma ora, nel medioevo, a fronte di queste costruzioni cristologiche e trinitarie estremamente complicate, compiute con l’ausilio di concettualizzazioni greche e latine (P III cristiano), raggiungere una possibilità di comprensione con un teologo musulmano parimenti medioevale (P III islamico) è divenuto quasi impossibile. E questo, purtroppo fino a oggi, nonostante tutti i tentativi speculativi da parte cristiana. Ma questo deve per forza valere anche per il futuro?
Controdomande: fossilizzazione o rinnovamento della teologia?
L’islam era legato fin dall’inizio – certo più dell’ebraismo e del cristianesimo – a determinate asserzioni di fede e di legge che devono essere tramandate senza modifiche: innanzitutto le frasi sacre del Corano, che appunto senza eccezione, come suonano in arabo, erano state dettate al profeta Muḥammad. Lo stesso vale però anche per le frasi della sunna, della tradizione, che abbraccia le affermazioni letterali e le imprese del Profeta che accompagnano la parola. I musulmani dedicarono uno sforzo infinito attraverso tutti i secoli a imparare a memoria fin dall’infanzia il maggior numero possibile di tali frasi, per poterle utilizzare in qualunque momento in una situazione ben precisa.
Queste frasi di fede e di diritto rimasero inalterate, anche attraverso il mutare dei tempi. E in questo la trasformazione della religione sorta nella cultura tribale araba (P I) nella nuova costellazione storica sotto gli Omayyadi (P II) e poi nuovamente nel nuovo paradigma sotto gli Abbasidi (P III) riuscì davvero bene. Gli esperti di religione, i giuristiteologi, non furono autorizzati in questo processo a modificare, seguendo il mutare dei tempi, l’eredità depositata in queste frasi, poterono però interpretarle adeguandole alla nuova situazione e soprattutto aumentarle. A questo scopo servirono innumerevoli antiche e nuove parole o azioni del Profeta (ḥadīṯ) che ebbero come conseguenza una scienza ufficiale degli ḥadīṯ. Questa vide come proprio compito quello di distinguere dalle tradizioni «corrotte» quelle «sane», che infine vennero conservate per i posteri in sei grandi raccolte canoniche.
Questo però significa che, dalla metà del IX secolo, il corpus della tradizione «sana» si trovò nella sostanza immutato; non furono quasi più possibili nuove immissioni. Ora, quando si delineò un nuovo mutamento di paradigma (P IV), ma non erano più pensabili nuove parole e azioni del Profeta e al tempo stesso la «Porta della argomentazione giuridica indipendente» (iǧtihād – di fatto solo analogismi) apparve a molti chiusa, giunse la minaccia di una fossilizzazione della religione e della teologia come della scienza giuridica, che fece sì che un uomo come al-Ġazzālī, che difficilmente poteva trovare soddisfacente il metodo di insegnamento della memorizzazione di testi standard senza una riflessione personale, invocasse in ogni forma una «rivitalizzazione».
Ebbe successo la rivitalizzazione di Ġazzālī? A breve termine non molto, perché le opposizioni di parte delle scuole di diritto furono troppo forti. A medio termine molto. La sintesi di Ġazzālī rese i non sufi più tolleranti nei confronti dei sufi, si oppose al tempo stesso a un sufismo al di fuori della sharia e si impose così nella nuova costellazione come la teologia normativa per parecchi secoli fra la maggioranza sunnita musulmana. Anche come sufi, questo dotto della religione non volle certo praticare in alcun modo una fuga dalla società. Si trattò in lui non di un «gran rifiuto», bensì di un «grande rinnovamento», che egli sperò, anche dopo la sua partenza da Baghdad, di portare avanti attraverso le sue prediche, il suo studio e le sue pubblicazioni. Si doveva mostrare la giusta via alla società islamica, proprio nel momento in cui lo stato selgiuchide minacciava di crollare dopo l’assassinio di Niẓām al-Mulk. E la giusta via per il pensatore al-Ġazzàll, che conosceva la grande tradizione pre-islamica di questo principio – a cominciare dalla definizione di virtù da parte di Aristotele come il giusto mezzo tra due estremi! – fu consapevolmente una via di mezzo: la via media come linea guida del pensiero e dell’azione.136
La via media era la concezione politico-religiosa del mecenate di Ġazzālī, Nizàm al-Mulk («ordine della signoria»), di quest’uomo di stato superiore guidato da motivi etici e al tempo stesso capace di pensare con realismo, che, benché šafi‘ita e sostenitore di teologi as‘ariti, prende le distanze dall’imposizione generale rigorosa della direzione religiosa voluta di volta in volta dal sovrano e ammette nella sua cerchia rappresentanti stimati di tutte le opinioni dottrinali. Lo specchio principesco proprio di Niẓām tramanda una parola del Profeta che sprona gli uomini a scegliere in ogni cosa la via intermedia: «la cosa migliore è quella di mezzo».137
La via media era e rimane anche la concezione politico-teologica di al-Ġazzālī, pensatore tanto acuto quanto integrativo, che benché anch’egli legato alla scuola di diritto safi’ita, tuttavia non predica teologia as‘arita e in ogni caso combatte lo spirito partigiano ampiamente diffuso, il dogmatismo rigido, l’azionismo cieco e il fanatismo selvaggio. Il principio della via media viene da lui variato in diverse forme e formulato proprio nel suo Iḥyā’: «Sappi che la più augurabile tra tutte le cose e virtù è quella intermedia».138 Che cosa dunque deve aiutare la società islamica sul suo cammino, oggi? Domande del passato ma anche domande per il futuro.
A lungo termine, tuttavia, si poteva cominciare assai presto ad avere dubbi sul fatto che la generale fissazione per iscritto della sharia su base teologico-sufi si sarebbe davvero dimostrata efficace in un nuovo mutamento epocale del corso dei tempi. Non c’era il pericolo che proprio un simile «sufismo legalistico» (H. Laoust) si rivelasse, in un nuovo cambiamento di paradigma, come il grande ostacolo per l’islam, perché esso fin dall’inizio lascia troppo poco spazio per nuovi sviluppi storici e quindi teologici?
Questa stessa domanda si può naturalmente porre anche alla nuova sintesi di Tommaso. Bloccata a breve termine dal magistero ecclesiastico, a medio termine essa ebbe un successo enorme. Ma a lungo termine si doveva anche qui dubitare del fatto che la fissazione del dogma cattolico su base aristotelico-tomistica si sarebbe dimostrata valida nel passaggio a una nuova costellazione epocale. Anche qui si venne alla situazione in cui proprio un tale «tomismo ecclesiastico» si rivelò per la cristianità come il grande ostacolo, perché anch’esso fin dall’inizio non offrì quasi spazio per una dinamica storica. Al delinearsi dell’ascesa di una nuova epoca, la crisi di un paradigma divenuto tradizione si può arrestare e rimandare, ma alla fine non si può evitare.
La crisi della sintesi tomistica e soprattutto del cristianesimo medievale, a lungo evitata dalla speranza della riforma, e dalle proposte e concili a essa relativi, esplose infine nel confronto con la Riforma luterana. La crisi della sintesi di Ġazzālī e dell’islam medievale, invece, si profila già nel conflitto con la filosofia araba, vinto allora dall’islam tradizionale, così che la crisi causata dal confronto con la modernità europea esploderà soltanto più avanti. Presto si posero questioni decisive:
Può esistere una filosofia islamica indipendente?
I presupposti a favore ci sono già noti: la filosofia islamica (falsafa)139 è un fenomeno tipico del paradigma classico dell’islam come religione mondiale (P III). Fu sotto i califfi abbasidi che si formò quella cultura islamica mondiale che, grazie a una educazione e a uno stile di vita persiani, intese integrare anche la scienza e la filosofia ellenistiche. La teologia costituì senza dubbio il punto di partenza dei filosofi islamici (falasifa; sing. failasūf), ponendo loro molte domande su Dio e il mondo. L’Uno e il Molteplice, la conciliabilità della Rivelazione con la ragione: queste e altre questioni furono formulate dalla fede islamica. Molti teologi concessero grande spazio alla ragione umana e ai suoi argomenti. Vennero condotte dispute teologiche dove la «sana ragione» aveva non poca importanza accanto al Corano e alla sunna.
Certamente la vera origine della filosofia islamica si trova nella traduzione delle opere di filosofi greci condotta tra il 750 e l’850 soprattutto a Baghdad. Alcune traduzioni di testi greci circolavano già sotto gli Omayyadi (P II). Tuttavia si giunse a una attività di traduzione ampia e sistematica solo sotto gli Abbasidi (P III) e soprattutto sotto quei califfi vicini alla scuola teologica dei mu‘taziliti, che faceva uso dell’argomentazione razionale (cfr. cap. C III). Era già iniziata la traduzione di opere greche di scienza naturale, di medicina e di matematica e ci si era infine dedicati alle opere di filosofia. Presto la cosmopolita Baghdad poté disporre di una biblioteca filosofica così preziosa da non avere eguali nella sua epoca né a Roma, la città decaduta dei papi, né alla corte dell’imperatore dei franchi Carlo Magno: si pensi solo alle traduzioni, filologicamente rigorose (naturalmente non in latino bensì in arabo) delle opere di Platone come pure dei manoscritti di Aristotele. Paradossalmente si trattava soprattutto di eruditi siriaci, dunque di cristiani, che producevano per i musulmani traduzioni esemplari dal greco e dal siriaco. Questo è uno dei motivi principali per cui l’islam nel primo medioevo europeo era così ampiamente in anticipo rispetto al cristianesimo latino in ambito filosofico e scientifico.
Tuttavia gli arabi conobbero la filosofia greca classica di Platone e di Aristotele (IV secolo a.C.) attraverso l’interpretazione della filosofia neoplatonica di Plotino, ora dominante (III secolo d.C.!). Questa offre una spiegazione del mondo comprendendo l’ordine cosmico come una costruzione dinamica a gradini: le forze spirituali che formano e muovono il mondo scorrono gradualmente come tutte le cose materiali dall’immutabile Uno divino, così come i raggi di luce «sgorgano» dal sole. Dunque una «emanazione» costante, un «efflusso» di tutte le cose provenienti dalla divinità concepito come impersonale – nessuna creazione unica dal Niente attraverso un dio, inteso come persona. E di nuovo, nell’eterno ciclo creativo, ritorno dalla materia malvagia alla divinità del tutto spirituale: l’ascesa delle singole anime spirituali dalla condizione sensibile fino all’unione mistica con la divinità deve coincidere con l’auto-Rivelazione divina discendente, attraverso tale autoesternazione ed isolamento nella condizione materiale.
Basandosi sulla loro conoscenza della filosofia greca, costantemente in crescita, i pensatori arabi dimostrarono di essere in grado di elaborare una filosofia islamica indipendente – scontrandosi però con una crescente opposizione! Alcuni teologi musulmani, molto critici sin dall’inizio, si interrogavano sulla legittimità nell’islam, accanto alla teologia razionale (kalām), di una filosofia (falsafa) che si sviluppa dalle scienze pratiche e teoretiche non religiose, e di una filosofia che sin dall’inizio non si pone alcun limite, come è proprio della ragione: un’idea universale che si basa esclusivamente sulla ragione? È innegabile che i filosofi arabi siano, come più tardi gli scolastici cristiani, ovviamente uomini di fede. Non considerano la Verità della ragione per nulla in contraddizione con la Verità della Rivelazione, ma in accordo con essa, almeno quando entrambe vengono veramente comprese. Filosofia e teologia sono dunque alleate – entrambe differenziate attraverso argomentazione logica sia dalla pura scienza tradizionale, sia dal sufismo: due discipline imparentate ma indipendenti, con un primato assegnato dai filosofi, per lo più, alla filosofia.
Dunque esiste una filosofia islamica? «Islamica» è in senso stretto solo la teologia: quella praticata dai musulmani all’interno della comunità religiosa musulmana. La filosofia islamica al contrario, è islamica solo in un senso più ampio: praticata da musulmani, ma anche da cristiani ed ebrei, che prima a Baghdad, poi in Spagna, danno il loro attivo contributo a questo settore. Dal IX al XII secolo è certa l’esistenza di una filosofia «araba», ma sempre in senso lato: una filosofia in lingua araba presente nei paesi dominati dagli arabi. Non si tratta della filosofia degli arabi, che sarebbe condivisa da tutti. Infatti i dubbi cominciano subito: i filosofi islamici dunque possono, devono, sono costretti a imporsi accanto agli ulama e ai sufi nell’islam? La domanda è se la filosofia islamica possa con il tempo sviluppare forse un potere paradigmatico altrettanto forte per l’intera umma islamica, oppure se essa non resti un fenomeno marginale, nell’ambito del paradigma medievale (come per la mistica cristiana).
Per anticipare la risposta: la filosofia resta nell’islam un fenomeno marginale. Per la nostra analisi dei paradigmi dunque è sufficiente una breve panoramica del suo sviluppo attraverso le personalità filosofiche di spicco, significative per illustrare gli inizi, l’apice e la fine della filosofia araba: come essa iniziò con il paradigma classico della religione universale (P III) e di nuovo gradualmente sparì con il paradigma degli ulama e dei sufi post-classico (P IV), sebbene nell’area più o meno corrispondente all’attuale Iran si tentasse un rilancio della filosofia islamica. Dobbiamo però concentrarci qui sulla filosofia arabo-islamica, quella che ha avuto più importanza, storicamente, per lo sviluppo spirituale europeo.
Inizi della filosofia araba: al-Kindī, ar-Rāzī, al-Fārābī
Come primo filosofo islamico viene indicato in genere Abū Yusuf al-Kindī (800-870 circa),140 il «filosofo degli arabi», originario di Kufa. All’epoca del trionfo dei mu’taziliti a Baghdad, egli si aprì alla sapienza ellenistica con entusiasmo e senza riserve, diversamente dagli altri teologi. Dall’astronomia alla psicologia, alla fisica e alla metafisica, egli interpreta tutte le scienze a lui accessibili, in modo originale ed eclettico. Le sue conoscenze sono inoltre così condizionate da Platone e Aristotele da produrre una riflessione particolarmente approfondita sul rapporto tra il mondo della materia, perennemente mutevole ed il mondo eterno delle forme immutabili. Egli non vede contrasto alcuno tra la pura conoscenza umana di tutte le cose attraverso la ragione e la conoscenza basata su particolari esperienze religiose. Al contrario: la filosofia gli serve per comprendere e per convalidare la Rivelazione del Corano.
Abū Bakr ar-Rāzī, in latino Rhazes (865-925),141 eccellente medico persiano nonché filosofo, elabora un pensiero del tutto diverso da quello di al-Kindī. Sulla base di cinque principi originari eterni – demiurgo, anima del mondo, spazio, tempo e materia – egli sviluppa una teoria razionale di derivazione del mondo da Dio. I teologi che discussero con lui sostengono che egli si fidasse esclusivamente della ragione e che rifiutasse qualsiasi autorità nell’ambito della conoscenza, riponendo la sua fede nel progresso delle scienze piuttosto che in un messaggio profetico o in una legge divina. Qui si sviluppa, ed è una eccezione, una filosofia in opposizione alla Rivelazione.
Il primo filosofo sistematico nell’islam, il primo significativo logico e pensatore politico, è Abū Nasr al-Fārābī, in latino Alpharabius (dall’870 al 950).142 Nato a Farab, nel Turkestan, figlio di un ufficiale della guardia del corpo turca del califfo, cresce a Baghdad, dove viene introdotto alla filosofia ellenistica. In seguito è attivo ad Aleppo come filosofo, matematico e musicologo e muore all’età di ottant’anni a Damasco. Egli rifiuta la visione di al-Kindī, secondo la quale profeti e filosofi seguirebbero vie indipendenti per raggiungere la Verità assoluta, ma anche l’interpretazione di ar-Rāzī, per cui la filosofia sarebbe l’unica via per la Verità suprema. Al-Fārābī, che ebbe un insegnante cristiano a Baghdad, si impegna non solo per formulare una sintesi tra filosofia platonica ed aristotelica, bensì anche per integrare la religione islamica nella filosofia. Egli sviluppa così uno spiritualismo islamico-idealistico fortemente influenzato dalla dottrina emanatista neoplatonica. Come quasi tutti i pensatori arabi, egli inizia con l’accettare la cosiddetta «teologia di Aristotele»; in pratica si tratta solo di una parte delle Enneadi di Plotino. Afferma poi di poter neutralizzare la contraddizione tra Aristotele (eternità del mondo) e islam (creazione dal Niente) grazie alla sua dottrina del «necessario relativo». Al-Fārābī intende quindi conciliare filosofia e rivelazione.
Per i musulmani egli diventerà presto la più grande autorità filosofica dopo Aristotele. Mentre al-Kindī e ar-Rāzī erano principalmente filosofi della natura, al-Fārābī sviluppa un sistema (che si basa solo su pochi scritti) di scienze. Dal trattato di Platone ispirato al modello di stato (Politico), questo sistema culmina nella scienza politica. Al suo interno, tutti gli elementi di una società musulmana vengono sottoposti a indagine filosofica e si introduce così una motivazione razionale della politica nell’islam: poiché Dio stesso è l’incarnazione della ragione, gli uomini creati da Lui sono dotati di raziocinio e possono determinare se stessi. Per cui essi devono orientarsi verso principi onesti (virtù) sia come singoli sia come comunità. A capo dello stato – del tutto in sintonia con l’ideale platonico del re-filosofo – deve esserci un filosofo guidato dalla ragione.
Apogeo dell’influsso storico della filosofia araba: Ibn Sīnā
La filosofia islamica raggiunge il suo apice, dal punto di vista sistematico, con l’allievo persiano di al-Fārābī, Abū ’Alī Ibn Sīnā, in latino Avicenna (980-1037), il quale senza dubbi è quello che ha maggiormente brillato nel mondo arabo.143 Mentre ai-Kindī e al-Fārābī poterono sviluppare la loro filosofia per così dire sotto la protezione dei califfi abbasidi, Ibn Sīnā prova sulla propria pelle la regionalizzazione dell’islam e il cambiamento di paradigma che si sta delineando. Il califfato di Baghdad ha perso il controllo sui nuovi «stati – famiglia». Questi tuttavia sono troppo spesso coinvolti in bellicosi contrasti tra loro, come quello tra i Samanidi, dominatori dell’Iran orientale e della Transoxiana, ed i Ghaznawidi, signori del Khorasan e dell’Afghanistan. Nei pressi di Bukhara, splendente centro dei Samanidi, nasce Ibn Sīnā, figlio di un funzionario di corte. Secondo la sua autobiografia già a dieci anni conosceva il Corano e a sedici era già medico; riesce ad aver accesso alla corte di Bukhara ed alla sua ricca biblioteca, assume infine cariche pubbliche e conduce, in quanto illustre medico e filosofo, una vita libera dagli obblighi religiosi e rituali. Questo gli procura diversi nemici in ambito religioso e militare, e per motivi politici dovrà condurre una vita movimentata, spostandosi tra le corti di diversi principi e trascorrendo anche alcuni mesi in carcere. Solo gli ultimi quattordici anni della sua vita, passati presso un principe a Isfahan, sono relativamente tranquilli. Tuttavia, quando il sovrano di Ghazna conquista Isfahan nel 1030, la sua casa viene saccheggiata e la sua biblioteca portata a Ghazna. Nuovamente in fuga, muore nel 1037 presso Hamadan.
Questo esperto universale e importantissimo medico del medioevo arabo sarà famoso in occidente per secoli grazie soprattutto alla sua medicina: un «Galeno arabo», il cui «Canone di medicina» divenne il testo base della scienza medica per l’Europa medievale. Come primo filosofo islamico, questo pensatore creativo costruisce un sistema delle scienze coerente. La sua opera principale «La guarigione (dell’anima dall’errore)» (aš-šifā’) tratta di logica, fisica, matematica e metafisica. È la più influente sintesi della metafisica aristotelico-neoplatonica, valida per l’intera epoca successiva. A questa sintesi si rifarà il teologo al-Ġazzālī, più avanti, nella sua critica alla filosofia. Sono in particolare le idee neoplatoniche di Ibn Sīnā relative a una emanazione del mondo da Dio e a una materia eterna extra-divina, a sembrargli in contraddizione con la Rivelazione.
Di certo Ibn Sīnā rimane il più efficace intermediario del pensiero greco: nella sua dottrina dell’Essere, egli approfondisce enormemente la differenza tra Essenza ed Esistenza in ciò che esiste, già notata da al-Fārābī. Soltanto in Dio, l’Essere necessario, Essenza ed Esistenza coincidono. Solo da Lui in poi, l’intera catena delle cose esistenti può essere spiegata: Dio è l’Essere semplice ed eternamente esistente, dal quale, essendo Causa prima immutabile, provengono tutte le cose esistenti mutevoli e contingenti secondo una graduale successione dinamica: innanzitutto il mondo rappresentato come extra-temporale e luminoso, poi quello temporalmente materiale. Il fatto che Ibn Sīnā (diversamente da Aristotele) attribuisca con ciò alla materia poteri suoi propri giustifica tuttavia a stento quei tentativi posteriori di interpretazione marxista, che nel XX secolo vollero far passare questo pensatore, orientato verso il misticismo, per un uomo della «sinistra aristotelica», intesa in senso materialistico.144
Ciò che concerne il ritorno del mondo a Dio, persino l’immortalità della semplice anima spirituale, la quale non può disgregarsi come invece fa il corpo assemblato, viene motivato da Avicenna in modo razionale. Vero è che sulla base di questo fondamento filosofico, con l’aiuto di una esegesi razionale del Corano e degli hadīṯ, egli spiega infine anche la possibilità della conoscenza profetica, della Rivelazione e del miracolo, come pure le leggi e le istituzioni, attraverso cui Dio raggiunge il proprio scopo. La fede in Dio diventa così la mistica ascesa dell’anima al primo Essere, il quale è essenzialmente Conoscenza, Verità, Bene ed Amore in Uno – esattamente il modo sufista di concepire Dio. Dunque un’armonia tra filosofia e religione, in una mistica filosofica, che Ibn Sīnā esprime anche attraverso poesie allegoriche riuscendo così a interpretare come verità rivelate alcuni testi decisivi che sono comprensibili anche senza rivelazione, solo su base filosofica. Ma si deve, per questo, rinunciare alla ricchezza della sua formidabile sintesi filosofica?
Solo nel XII secolo gli scritti di al-Fārābī, Ibn Sīnā e al-Ġazzālī trovarono la loro via verso l’Ovest, verso la Spagna, dove per lungo tempo fu evidente una chiusura verso gli influssi provenienti dalla nemica Baghdad abbaside, e fu permesso solo lo studio della medicina, della farmacologia, della matematica, dell’astronomia e della logica. È da notare che non si trova nei paesi arabi fulcro dell’islam un filosofo storicamente importante già dopo la morte di Ibn Sīnā nel 1037. È forse la morte della filosofia arabo-islamica, poco amata dagli ulama come dai sufi, anzi odiata e combattuta?
Punto finale della filosofia arabo-islamica: Ibn Rušd
La tradizione filosofica occidentale in Marocco ed in Spagna rappresenta in pratica la fase finale della filosofia islamico-araba. In quelle regioni la dinastia berbera degli Almoravidi era succeduta nel 1061 alle due dozzine di sovrani locali (mulūk aṭ-ṭawā’if= reyes de taifas) che si erano avvicendati dopo gli Omayyadi nel 1031. Dopo ottant’anni (1147) gli Almoravidi furono soppiantati dagli Almohadi, una dinastia berbera dell’alto Atlante. Il loro secondo sovrano al-Mansur («il Vittorioso») poté lanciarsi innanzitutto alla riconquista della Spagna. Senza dubbio, chi sapeva vedere avrebbe potuto cogliere un segnale rilevante quando, verso la fine di questo secolo, nel 1195, il più significativo filosofo della Spagna, Abū l-Walīd Muḥammad Ibn Rusd, latinizzato come Avveroè,145 fu abbandonato da questo sovrano almohade, che pure lo teneva in alta considerazione: il tribunale di corte della città di Cordoba lo bandì come eretico e i suoi scritti filosofici furono vietati e bruciati. Ibn Rusd, nato in questa Cordoba nel 1126 era pur sempre un importante giurista, nipote e figlio di importanti giuristi, egli stesso un dotto poliedrico, ottimamente istruito nella scienza religiosa, in giurisprudenza e medicina. Come era potuto accadere?
Già a ventisette anni Ibn Rušd, per desiderio del primo sovrano almohade, aveva compilato nella residenza marocchina di Marrakesh il primo commentario al Corpus aristotelicum, e in seguito come giurista a Siviglia e a Cordoba aveva scritto altri commenti, oltre a trattati di medicina. Ibn Rusd divenne il principale commentatore di Aristotele, colui che voleva offrire un’interpretazione del grande filosofo greco più autentica di quella data dai propri predecessori neoplatonici; fu lui che per primo propose agli arabi il «vero» Aristotele. Non parafrasava, come invece Ibn Sīnā, brani di testi aristotelici, ma essendo un giurista offriva piuttosto, con giuridica chiarezza, precisissimi commenti frase per frase, parola per parola. Nessuno era riuscito finora a spiegare in modo così illuminante le difficili dottrine aristoteliche sui principi di tutte le cose – materia e forma, realtà (atto) e possibilità (potenza). Consapevolmente o meno, anche Ibn Rusd è tuttavia debitore al Neoplatonismo: non accoglie infatti solo una prima e unica causa del Tutto, bensì anche un unico intelletto universale attivo, al quale partecipano tutti gli uomini.
In quanto giurista, Ibn Rusd è senz’altro molto stimato a Cordoba. Tuttavia i suoi scritti filosofici, in particolare la sua risposta all’opera «Distruzione della filosofia» (tahāfut al-falāsifa) di al-Ġazzālī, dal titolo eloquente di «Distruzione della distruzione» (tahāfut at-tahāfut, più tardi, in latino, destructio destructionis), gli procurano l’inimicizia dei giuristi religiosi: occuparsi di logica e di filosofia seppellisce l’autorità della Rivelazione e del suo commentatore; suscita ansia e sconvolge l’unità dei fedeli; conduce alla confusione e all’ipocrisia nelle questioni religiose. In questo campo, il filosofo voleva soltanto sottolineare il ruolo della ragione contro il pio scetticismo del teologo al-Ġazzālī, il quale ad esempio rifiutava l’uso del principio di causalità applicabile a domande metafisiche, sottolineando il fatto che anche ogni polemica contro la ragione presuppone l’uso della ragione.
Ibn Rusd separa rivelazione e filosofia al fine di mettere da parte le contraddizioni tra le due. Gli si attribuisce, ingiustamente, anche la tesi di una «doppia verità», come se avesse creato una contraddizione tra la verità della rivelazione e quella della ragione. Al contrario la Verità della fede e la verità della ragione sono per lui un’unica verità – anche quando capita che giungano a formulazioni contrastanti. Occorre allora stabilire una scala gerarchica articolata in tre categorie di pensatori – come spiega già il Corano: filosofi, teologi e semplici fedeli. Al fine di evitare dispute, tutti devono mantenersi entro i propri limiti e non tentare di ascendere alla categoria più alta, e tutti devono rispettarsi a vicenda. La filosofia indica, mediante la concettualizzazione scientifica, fondamentalmente ciò che la religione esprime per il popolo attraverso immagini. In questo senso, argomenta Ibn Rusd contro al-Ġazzālī, non si escluderebbero l’eternità del mondo (aspetto filosofico) e la sua creazione (aspetto teologico), né Dio come causa prima (aspetto filosofico) e come demiurgo (aspetto teologico); il mondo sarebbe, seppure eterno in seguito alla sua creazione divina, tuttavia creato e limitato nello spazio. La questione della resurrezione dei corpi dà luogo a un’argomentazione analoga.146 Nonostante ciò, alcuni oppositori del filosofo hanno l’impressione che questa distinzione serva come «paravento» dietro al quale si nasconderebbe un razionalista, che pone la ragione al di sopra della religione e la filosofia al di sopra della teologia.
È indubbio che Ibn Rusd voglia mantenere il primato della ragione autonoma. Secondo principi aristotelici, egli vuole offrire una comprensione del cosmo strutturata in maniera scientificamente conseguente. Ma contemporaneamente è assai chiaro: «Egli credeva fortemente in Dio, nel suo profeta Muḥammad, nel miracoloso carattere del Corano e nessun singolo testo di Ibn Rusd può essere interpretato in maniera diversa; questo è l’essenziale, tutti gli altri punti – l’eternità del cosmo, la sapienza divina che non comprende i dettagli, la preveggenza divina limitata ai principi generici – sono questioni discutibili che non pregiudicano la motivazione della fede e al-Ġazzālī sbaglia a considerarli così, come se essi avessero per conseguenza necessariamente la qualifica di infedeli» (A. Badawi).147
Seguono anni di polemica e di lotta contro il filosofo. Alla fine il califfo cede ai fanatici ortodossi poiché essi lo sostengono nella sua battaglia contro i Reconquistadores cattolici che avanzano, e che già nel 1085 avevano riconquistato Toledo e nel 1115 Saragozza. Nel 1195, si giunge così all’esilio di Ibn Rusd nella città ebraica di Lucena, priva di biblioteca, a circa settanta chilometri da Cordoba; due anni dopo si sposta invece a Marrakesh, città in cui risiede il califfo, dove infine viene riabilitato. Muore poco dopo, nel dicembre 1198, all’età di settantadue anni. I suoi resti vengono portati a Cordoba. Non lascia discepoli.
Al-Andalus: un cristianesimo arabizzato
Dopo la decisiva battaglia di Jerez de la Frontera nel 711, per quasi otto secoli una grande parte della Spagna rimase sotto il dominio dei «mori», come gli spagnoli chiamavano i musulmani di provenienza arabo-berbera, giunti in seguito alle lotte interne tra i visigoti cristiani. Tre delle sedi metropolitane visigote, e soprattutto la sede primaziale di Toledo, con 29 diocesi, riuscirono a essere mantenute nell’ampia amministrazione autonoma della chiesa degli antichi cristiani spagnoli, che furono indicati come «mozarabi» (arab. musta’rib = «arabizzato»). Eppure la maggior parte del popolo cristiano si convertì abbastanza presto all’islam. Solo piccole minoranze cristiane, appunto i mozarabi, restarono fedeli al credo e alle regole di vita cristiani. Tra questi gruppi cristiani, linguisticamente e culturalmente arabizzati, cominciarono a svilupparsi un’architettura mozarabica tipica, e anche una liturgia mozarabica con elementi musulmani, insieme al canto liturgico. In nessun altro luogo l’Occidente cristiano sarà mai in stretto contatto con il mondo culturale arabo quanto in Spagna.
Tra i mozarabi si sviluppò anche una teologia cristiana autonoma, che è stata studiata maggiormente solo in epoca più recente.148 Accadde il contrario in Nordafrica dove, dopo diverse ondate migratorie cristiane, la cristianità, inizialmente fiorente, si spense come una lampada che ha terminato l’olio a causa, secondo l’erudito musulmano Mohamed Talbi, dell’esaurirsi delle risorse spirituali.149 Icristiani del Nordafrica non svilupparono alcuna cultura arabo-cristiana specifica e finirono con l’estinguersi, diversamente dagli ebrei che, in vari modi, accettarono la cultura araba. In Spagna invece la teologia cristiana riuscì ad aprirsi un varco, di dimensioni modeste, anche se i suoi rappresentanti rimasero evidentemente sconosciuti ai grandi eruditi musulmani (come Averroè) ed ebrei (Mosè Maimonide). Sempre nel XII secolo, peraltro, un arcidiacono di Segovia di nome Gundisalvi (lat. Dominicus Gundissalinus), traduttore della Classificazione delle scienze di al-Fārābī, ebbe l’ardire di tentare una sintesi tra la scienza arabo-aristotelica e il pensiero cristiano-scolastico primitivo. Nel XIII secolo la teologia mozarabica influenzò l’importante erudito catalano già citato, l’apologeta e missionario Ramon Llull, così come il suo intellettuale rivale, il domenicano Ramon Martí, entrambi indicati oggi come neomozarabi.150
Tuttavia si trova in al-Andalus, accanto a una teologia ortodossa, una teologia eterodossa e questo ai livelli ecclesiastici più alti: il primate Elipando da Toledo ed il vescovo Felice da Urgel – così scrive papa Adriano I biasimando aspramente la Spagna – non si sarebbero vergognati «di riconoscere il Figlio di Dio come figlio adottivo e quasi come un semplice uomo».151 Una «cristologia dal basso», come quella che il Vangelo più antico (Marco) adotta con il racconto del battesimo di Gesù, sul quale venne lo Spirito di Dio («Tu sei il Figlio mio prediletto, e in te mi sono compiaciuto»).152 Era una dottrina sostenuta già nel giudeo-cristianesimo (cfr. cap. AII, 2) e poi nella scuola antiochena (Paolo di Samosata), e che viene formulata nuovamente in Spagna, con ogni probabilità in risposta alla critica dei musulmani. 153 La filiazione di Gesù da Dio può infatti essere così spiegata in modo comprensibile ai musulmani: «Egli venne assunto al posto del Figlio». Questa formulazione, denunciata come eretica, viene però combattuta già dai teologi di Carlo Magno (Alcuino) e condannata da numerosi sinodi in Francia e in Germania (Francoforte, Ratisbona,...). Dunque il problema della cristologia di fronte all’islam non si risolve: questo aspetto merita un’attenzione particolare nell’interesse del dialogo odierno (cfr. cap. D IV, 2).
A questo proposito una curiosità: un «Vangelo secondo il santo Barnaba» arabo, non è in realtà, come si era supposto, l’opera di un falsario cristiano del XI secolo che voleva usare la «migrazione verso ovest» dell’apostolo Barnaba in Europa, via Cipro, per propri scopi missionari. Si tratta invece di uno scritto apologetico musulmano risalente alla persecuzione dopo la caduta, nel 1492, di Granada, ultima città musulmana, scritto che tentava di diffondere l’ortodossia della concezione musulmana del Profeta e Messia Gesù.154
Al Andalus: fertile simbiosi tra musulmani ed ebrei
Anche alcuni ebrei, isolatamente, si convertirono volontariamente all’islam, perché influenzati dall’ambiente islamico o per timore di persecuzioni. In realtà la condizione degli ebrei era notevolmente migliore sotto l’islam che sotto il dominio del cristianesimo proprio dell’impero romano e del regno dei visigoti. Solo a causa delfostilità dei cristiani? No, esistono anche motivi ed aspetti di fondo per cui musulmani ed ebrei, sotto molti aspetti, sono più vicini di quanto non lo siano cristiani ed ebrei.155
– Nell’impero islamico esiste per la minoranza ebraica, malgrado tutte le limitazioni, una comune base giuridica vincolante con diritti sicuri (anche in ambito personale). Nell’Occidente cristiano questa manca, a causa della migrazione dei popoli e del conseguente tramonto dell’ordine giuridico romano; nel regno bizantino è stata man mano sostituita da una legislazione chiaramente ostile agli ebrei.
– Gli ebrei possono essere sempre utili all’impero islamico, dopo la caduta dei cristiani siriaci, nel commercio tra l’Oriente ed il Medie terraneo; a tal proposito essi possono usare l’arabo come lingua internazionale e del commercio, imparentata con l’ebraico. In ambito cristiano, essi devono presto cedere il monopolio del commercio con il mondo islamico alle città italiane, le quali nel tardo medioevo assumono la conduzione dei commerci anche in zone tradizionalmente sotto controllo islamico.
– Gli ebrei sono più vicini ai musulmani che ai cristiani anche dal punto di vista religioso, grazie al chiaro monoteismo privo di dogmi misteriosi e grazie a regole di purità e di purità alimentare tra loro simili. Piuttosto che il primitivo dissidio palestinese sulla Legge e sulla circoncisione, sono le dottrine ellenistico-latine della Trinità e dell’Incarnazione, ora ben sviluppate, a separare chiaramente gli ebrei e i musulmani dai cristiani.
– In ambito islamico, gli ebrei si confrontano abbastanza presto con la filosofia islamica e solo in parte con la pretesa teologica dell’islam, mentre solo dal XII secolo vengono a confronto con la teologia cristiana, e direttamente con l’aspettativa della Rivelazione cristiana (fatta eccezione per la corte dell’imperatore Federico II di Sicilia nel XIII secolo).
Diversamente che nei restanti paesi europei, in Spagna molti ebrei potevano ancora dedicarsi all’agricoltura. Tuttavia, non si può ignorare il fatto che qui molti ebrei furono attivi nel fiorente commercio di schiavi esistente dal Vicino Oriente fino all’Europa dell’Est.
A Cordoba e in altri centri gli ebrei (almeno quelli degli strati sociali più alti) assunsero comunque usi e costumi arabi, e persino la lingua. Partecipavano attivamente alla vita economica, politica e culturale e si differenziavano chiaramente dagli ebrei degli altri paesi per il loro comportamento distinto e consapevole. In Spagna si realizzò insomma tra ebrei e musulmani, pur mantenendo una certa distanza, una fertilissima simbiosi risultante in un periodo aureo senza pari per le scienze e le arti ebraiche: filosofia e teologia ebraiche, linguistica ebraica e poesia profana (la prima lirica d’amore ebraica dal Cantico dei Cantici della Bibbia, grazie a Jehuda Ben Halevi), scienza naturale e medicina ebraiche così pure una attività di traduzione molto ramificata (arabo-ebraico-latino). Nel X secolo la Spagna moresca aveva ampiamente superato, come centro spirituale dell’ebraismo, Babilonia, dove si era ugualmente verificato nel IX-X secolo un fecondo scambio tra musulmani ed ebrei. Nonostante la dominazione musulmana e tutte le conseguenti limitazioni, la convivenza relativamente armonica tra musulmani ed ebrei smentisce il cliché, oggi molto diffuso, di una religiosamente motivata «inimicizia secolare tra ebrei e arabi».
La grande figura simbolica dell’ebraismo spagnolo resta ancora oggi il più significativo erudito ebreo del medioevo: Mosheh ben Maimon (1135-1204, arabo Musa ibn Maimun),156 chiamato in Occidente Mosè Maimonide, originario di Cordoba ma attivo soprattutto in Marocco e in Egitto. Come medico, commerciante, giurista, filosofo e teologo mira con la sua opera principale «Condottiero dei confusi» a conciliare la fede religiosa e la ragione (come i filosofi musulmani Avicenna e Averroè oppure più tardi nel cristianesimo Alberto Magno e Tommaso d’Aquino) – e anche oggi resta per gli studiosi ebrei il grande modello. A questo proposito, anche Avicebron, che gli Scolastici cristiani consideravano un filosofo arabo, era un ebreo spagnolo: Salomone ben Jehuda ibn Gabirol (1020-1070). Senza lo scambio intellettuale con l’islam, l’ebraismo non avrebbe prodotto così tanti dotti importanti, né medici, né funzionari, né ufficiali amministrativi, né amministratori dei beni; con la caduta dell’islam nel XII secolo anche la forza creativa dell’ebraismo diminuì di conseguenza. 157
Una religione predominante, due minoranze riconosciute
Nel X-XI secolo, Cordoba è la capitale del califfato. Questo «gioiello della terra» dal punto di vista economico e culturale – diecimila negozi, mille moschee, terme e acqua corrente, strade lastricate e illuminate, la biblioteca del califfo (solo una delle settanta biblioteche) ricca di quattrocentomila volumi – è stata descritta da molti studiosi fra cui recentemente, in un altro contesto storico, Maria Rosa Menocal (Università di Yale).158 Tolleranza e scambio culturale a Cordoba e nell’intera al-Andalus sono ineguagliabili. A tal proposito, alcuni degli storici spagnoli giudicano positivamente la convivenza delle tre religioni (A. Asín Palacios159 e A. Castro),160 altri la vedono in modo scettico (S. Fanjul).161 I cristiani non vi ebbero certamente lo stesso ruolo degli ebrei, ben più presenti dal punto di vista intellettuale ed economico, sebbene i vescovi cattolici, membri del corpo diplomatico presso le corti europee, potessero narrare della meravigliosa città sul Guadalquivir.
Nessun dubbio: Cordoba mostra – come più tardi anche Toledo, riconquistata dai cristiani – che i fedeli delle tre religioni di Abramo, così ben distinte nel loro nucleo teologico, possono convivere bene, mantenendo le regole di vita prescritte loro dalla propria religione. Qui al posto della scomunica, ampiamente praticata in Europa, si ebbe una vivace comunicazione. Persino in ambito medievale fu possibile un «dialogo delle culture» invece che uno «scontro».
In ambito medievale: stiamo parlando del paradigma medievale (P III-IV), e sarebbe illusorio aspettarsi una libertà di culto nel senso moderno del termine. Uno dei migliori conoscitori della situazione in al-Andalus, lo storico spagnolo Mikel de Epalza, ha ridotto a una formula la convivenza delle tre religioni dall’inizio dell’VIII fino all’inizio del XVI secolo, quando si ebbe la conversione forzata dei musulmani e degli ebrei: «una religione predominante e due minoranze riconosciute». L’islam è la religione predominante: «Questo schema riproduce a grandi linee il periodo musulmano. Solo la religione dei musulmani, la cultura arabo-islamica, può svilupparsi del tutto. Poco restò della cultura cristiana preislamica: essa si manifesta solo in ambito religioso e linguistico, attraverso l’uso del latino, e inoltre – e questo non è neppure certo – attraverso alcuni elementi materiali ed usi locali, incorporati completamente dalla cultura dominante. Eccettuando la religione e la lingua, si deve parlare di una cultura araba dei cristiani, come ben indica l’espressione "mozarabico", cioè "arabizzato". Lo stesso vale per gli ebrei in tutta l’al-Andalus. La sacra lingua (l’ebraico) e la religione costituiscono la loro unica particolarità culturale».162
Con tutt’altre caratteristiche, si ritrova la stessa struttura dopo la Reconquista, cioè dopo la rioccupazione cristiana del 1085, in una Toledo cristiana. Ora è il cristianesimo la religione predominante: «Le norme della vita sociale sono cristiane sotto tutti gli aspetti. Le culture musulmana ed ebraica vengono tollerate come sottoculture o micro-culture, caratteristiche di comunità religiose ridotte ed esposte ad abusi di ogni tipo».163
Sia sotto il dominio cristiano, che sotto il precedente dominio islamico, si verifica in Al-Andalus una convivenza pacifica, tuttavia senza parità di diritti nel senso moderno: ebrei e cristiani sono sottoposti a numerose limitazioni.164 Le «Leggi di ’Umar», risalenti al VII-VIII secolo, almeno in teoria valgono per gli appartenenti alle altre due «religioni del Libro»: non si poteva avere un musulmano come schiavo, né andare a cavallo, non si potevano né costruire case più alte di quella del vicino musulmano, né nuovi luoghi di culto e soprattutto non si poteva praticare pubblicamente il proprio culto.
Per secoli l’islam è culturalmente lontano dall’Occidente, ma nel 1031 la rivolta della nobiltà araba e le insurrezioni delle milizie in Nordafrica portano alla caduta del califfato di Cordoba. Nei secoli successivi, diversi regni locali vassallatici (Taifa) si distaccano dal potere centrale. La parte musulmana della penisola iberica prima viene conquistata, poi ripresa dai signori di Siviglia, e successivamente subisce il movimento berbero di riforme politico-religiose degli Almoravidi, molto tradizionalisti, rimpiazzato nel XII secolo dal secondo movimento berbero di riforma degli Almohadi, più aperti. Dopo la battaglia decisiva di Las Navas de Tolosa nel 1212 gli Almohadi perdono gradualmente il dominio su quasi tutti i territori spagnoli a favore dei regni cristiani di Aragona, Castiglia-León, Catalogna e Portogallo. Nel 1269 si frantuma il regno degli Almohadi, l’ultimo grande impero dell’islam occidentale comprendente il Nordafrica e la Spagna. Il Marocco, l’Algeria e la Tunisia vengono a essere dominati da tre dinastie berbere, con un equilibrio molto labile tra città e unioni tribali insubordinate. Nel frattempo appare, nell’islam del XIV secolo, un grande storico arabo che avrebbe potuto mettere in guardia i musulmani dall’autocompiacimento e dall’eccessiva fiducia nella propria invincibilità.
La storia come ciclo di fioritura e caduta: Ibn Haldūn
La storia universale (kitab al’ibar), relativa in pratica agli arabi e ai berberi, scritta da al-Hasan ibn Haldūn, nato a Tunisi nel 1332, si basa sulle amare esperienze di questa epoca di capovolgimenti.165 Come introduzione (al Muqaddima) dettagliata, questo illustre esperto di religione, giudice e scrittore, concepisce il geniale progetto di una filosofia della storia e della società che contenga riflessioni particolareggiate sulla fioritura e la caduta dei regni, delle dinastie e degli stati.
Ibn Haldūn, discendente a quanto pare di un’antica famiglia araba, in questi momenti turbolenti e insicuri sarà al servizio di molti sovrani nella Spagna islamica e in Maghreb: come generale, come politico e persino come «primo ministro». Ma tutti i suoi progetti finiscono per naufragare, e per spiegare i fallimenti sociali e politici nel 1375 analizza le diverse forze che reggono le società musulmane a lui conosciute, rinchiudendosi per tre anni in un castello nell’odierna Algeria, lontano dalla politica. Dopo aver discusso innanzitutto i criteri per distinguere la verità storica dall’errore, egli ricostruisce le correnti principali dello sviluppo sociale lungo vari secoli: la sua opera anticipa di molto la storiografia occidentale.
Ibn Haldūn riesce a sviluppare alcune regole generali relative all’ascesa, alla fioritura e alla caduta di stirpi, dinastie e stati. In sostanza si tratta di una nuova scienza: una scienza della cultura (’ilm al ’úrmrān) – qualcosa come una sociologia della società, della politica, della vita cittadina, dell’economia e del sapere. Concetto centrale alla sua argomentazione è quello di «coesione sociale» (’ašabīya): fino a quando questa coesione viene rafforzata attraverso vari fattori (non ultimi quelli religiosi), la società in questione si trova nella fase ascendente. Ma al contrario essa inevitabilmente si indebolisce dopo aver raggiunto un certo apogeo, a causa dell’allentamento di questa coesione sociale. Si assiste così al sorgere di un’altra dinastia, o di un impero, più saldamente coesi, a cui la società precedente deve cedere il posto. È una teoria che postula una storia senza progresso reale, poiché non considera un avvicendamento dalla società primitiva a quella civilizzata.
Più tardi Ibn Haldūn è attivo al Cairo, mentre a Damasco, nel 1400, negozia persino con il crudele conquistatore tartaro Timur, il quale lo vorrebbe prendere al suo servizio. Muore nel 1406 senza aver trovato tra gli storiografi musulmani un degno successore. La costruzione della storia di Ibn Haldūn non esercita alcuna duratura influenza sul pensiero islamico dei secoli seguenti. Ancora a lungo non si riconosce la crisi, poiché l’islam continua ad avanzare politicamente e militarmente. In fondo, poco meno di cinquant’anni dopo la morte di Ibn Haldūn vi sarà la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi (1453) – un grande trionfo per l’islam, un duro colpo per l’intera cristianità. Dopo i Balcani, l’islam arriverà a conquistare persino Vienna, la capitale dell’impero asburgico; eppure, vi sono segnali di un cambiamento imminente a favore della cristianità. Il cristianesimo occidentale si trova nel XV secolo alla vigilia di un epocale mutamento di paradigma, percepito già dal XII secolo, nel quale si intravede anche la crisi dell’islam.
L’opera di Ibn Rusd rappresenta in sostanza la fine della filosofia arabo-islamica, che era stata una disciplina assai feconda dal IX al XII secolo, ben prima della Scolastica cristiana. Certamente anche dopo Averroè – nel solco di Avicenna – ci si dedica ancora alla filosofia e lo storico ha a disposizione una nutrita serie di nomi ed opere anche per l’epoca successiva.166 Tuttavia i pensatori cardinali rimangono Avicenna e Averroè. I successori di questi grandi filosofi non hanno esercitato un’influenza degna di nota sullo sviluppo generale dell’islam. Persino la ripresa della filosofia islamica nell’Iran del XVII secolo – dopo un periodo di stagnazione e dopo la diffusione del sufismo – quella ripresa studiata a fondo da Henri Corbin167 che sarà avviata da Mir Damad e raggiungerà il suo culmine con Mollah Sadra Shirazi, rimarrà, per quanto importante, essenzialmente limitata alla shia. Questi filosofi restano in pratica sconosciuti non solo nella cristianità occidentale, ma anche nel mondo islamico occidentale.168
Inizio della filosofia cristiana occidentale
La filosofia arabo-islamica ha ben poche possibilità nel confronto con l’islam della sharia e all’islam dei sufi. Non raggiunge nessun valore normativo accettato e non è in grado di sviluppare né strutture dominanti resistenti né istituzioni, ad esempio, nel contesto universitario. Nonostante la sua grande storia, la filosofia arabo-islamica nell’islam, non «fa» alcuna storia. Percepita dagli esperti di religione e dai sufi come un corpo estraneo, ebbe un ruolo circoscritto nello sviluppo dell’islam, tanto nella durata quanto negli eventi che produsse. Si potrebbe affermare senza mezzi termini che già nel XII secolo si assiste alla morte della filosofia arabo-islamica e questo è, come solo più tardi diverrà visibile, un evento fatale per lo sviluppo spirituale dell’islam.
Appena pochi anni dopo la morte di Ibn Rusd, traduttori e scuole per traduttori (una grande scuola per traduttori nella Toledo ora nuovamente cattolica) rendono accessibili i suoi commenti alle principali opere aristoteliche della cristianità latina. Michele Scoto, attivo nella suddetta scuola per traduttori di Toledo, trascorre i suoi ultimi anni (ca. 1227-1236) come letterato, medico e traduttore presso la corte dell’imperatore Federico II in Sicilia. Probabilmente si devono a questo periodo anche le sue traduzioni delle opere di filosofia della natura (anche della Metafisica) di Aristotele, accompagnate dal grande commentario di Averroè. Il XIII secolo apparterrà alla Scolastica cristiana: se Avveroè non ha fatto storia nell’islam, l’ha fatta di certo nel cristianesimo, come indica il fatto che rimane traccia dei suoi scritti soprattutto nelle traduzioni latine (ed ebraiche). Perciò anche se egli rappresenta un punto finale per la filosofia arabo-islamica, segna invece un inizio per quella cristiana medievale. L’orientalista Ernest Renan (1823-1892) nella sua opera giovanile innovativa Averroè e l’averroismo, 169 con la quale per primo ha dimostrato l’enorme influenza di Averroè sulla filosofia ebraica (soprattutto su Maimonide) e sulla Scolastica, ritiene di poter constatare tracce di «averroismo» già nella pri, ma metà del XIII secolo. Ricerche più recenti170 attestano che Averroè prima del 1230 era sconosciuto e che fu tradotto per la prima volta 171 solo intorno a quest’epoca, nella cerchia della corte siciliana dell’imperatore; dal quel momento in poi si incontrano traduzioni di Averroè nell’Università di Parigi, il centro culturale della cristianità. Si deve presupporre che da metà secolo tutti gli scolastici dispongano del suo commentario.
Nasce così una nuova figura, quella dell’intellettuale, grazie a una filosofia occidentale ravvivata dalle numerose traduzioni di Aristotele e dei commentari arabi, e che sebbene esercitata anche dai teologi può essere praticata indipendentemente dalla teologia; alla nascita di questa figura lo storico francese Jacques Le Goff ha dedicato un arguto libro.172 Secondo Le Goff, la comparsa di questa nuova categoria socio-professionale nelle città del XII/XIII secolo, che stanno rifiorendo, è un momento decisivo per la storia dell’Occidente. Assume un nuovo status il professore universitario, che esercita «il nuovo lavoro intellettuale come congiunzione di ricerca e insegnamento nello spazio cittadino e non più in quello monastico».173 Proprio in contrapposizione alla filosofia degli «arabi», i magistri dell’università fecero l’esperienza del cogitare.
Così il cristianesimo eredita la filosofia araba dell’islam. Nessun filosofo arabo ha stimolato così tanto la discussione degli scolastici – ad esempio sull’eternità del mondo, sulla teoria dell’intelletto attivo e sul rapporto tra ragione e fede – come Averroè. La sua enorme importanza si nota dal fatto che dal 1250 circa viene citato come «il Commentatore» di Aristotele per eccellenza, senza alcun riferimento al suo nome. Gli scolastici usavano sempre i suoi commentari per comprendere, con l’aiuto delle sue spiegazioni precise e dettagliate, i difficili e pregnanti testi di Aristotele; fino al XX secolo nelle edizioni delle opere di Aristotele si cita secondo l’introduzione di Averroè.
Mentre Alberto Magno parafrasa soprattutto Avicenna, Tommaso d’Aquino è il primo allievo di Averroè e contemporaneamente il suo più significativo oppositore. Egli usa abbondantemente i commentari di Averroè ma, proprio come aveva fatto un secolo prima al-Cazzālī, al contempo si allontana chiaramente da alcuni suoi insegnamenti non-ortodossi: dall’idea aristotelica di una materia eterna come da quel concetto neoplatonico, assunto da al-Fārābī e da Avicenna, di un unico, universale intelletto attivo (il «nous» divino), il quale mette in attività l’intelletto passivo degli uomini, finché esso, con la morte, si distacca di nuovo dall’anima singola, così che questa non può essere considerata immortale. Contro questa interpretazione (che in Aristotele rappresenta solo un inciso) Tommaso d’Aquino scrive nel 1270 un intero trattato sull’unità dell’intelletto contro gli averroisti parigini (De unitate intellectus contra averroistas): l’intelletto è un bene dell’anima, proprio di ogni singolo uomo. Da questo momento Averroè avrà due facce: quella del grande commentatore e quella del pericoloso eretico.
Caposcuola degli «averroisti», che a Parigi dal 1260 difendono ad ogni costo l’ortodossia di un aristotelismo radicale, è Sigieri di Brabante, attivo presso la «facoltà delle arti» (le sette arti libere, «artes liberales»), il quale lotta per la giusta interpretazione di Aristotele e per i diritti dei filosofi («artisti»), contro la posizione di potere assunta dai teologi nella conduzione dell’università. Tuttavia, nel corso della sua vita, il 10 dicembre 1270, il vescovo di Parigi Stephan Tempier condanna tredici tesi degli averroisti, il 7 marzo 1277 addirittura 219 tesi, tra cui alcune di Tommaso stesso. Per la sua fama è un duro colpo, anche se a breve e medio termine. Poiché, mentre nell’islam il grande sistematico al-Ġazzālī, come si è detto, era soprattutto interessato a conciliare la fede musulmana con il sufismo, indebolendo la filosofia pura con la sua critica, nel cristianesimo invece Tommaso d’Aquino lavorò per rendere affini tra loro la fede cristiana e la filosofia (dei greci pagani!) e, con il suo metodo razionale preparò la strada alla pura filosofia: per questo nel lungo periodo la chiesa ne riconobbe il valore.
Alain de Libera174 ha messo in evidenza come, accanto agli intellettuali «organici» stabiliti nell’università si sviluppi anche l’«intellettuale critico», il quale fin dall’inizio non vuole legarsi né all’università, né alla chiesa, né allo stato. Contemporaneamente, de Libera spezza una lancia a favore dei teologi: «Qualora si comprenda con "filosofìa" la pratica dell’argomentazione, allora i teologi medievali hanno filosofeggiato molto, tanto quanto i filosofi "di mestiere", se non di più. Oggi è una verità evidente: la filosofia analitica nacque nel medioevo tra i teologi.» Per i teologi come per i filosofi «l’università medievale è il luogo della ragione». Il «dominio della disputatio» è «l’elemento unificante di tutti gli atteggiamenti filosofici medievali»; «la regola della discussione vale per tutti».175 L’entusiasmo per il confronto intellettuale conquista altre cerchie della popolazione.
L’islam è tuttavia a quel tempo sempre più lontano dall’Europa cristiana per ciò che concerne la ricerca scientifica, come mette in evidenza lo studioso turco Fuat Sezgin (Istanbul/Francoforte), allievo dell’importante arabista Hellmut Ritter, nella sua Geschichte des arabischen Schrifttums («Storia del patrimonio letterario arabo»), opera che entro il 2000 era già formata da dodici volumi, in cui spazia attraverso molte discipline, dalle scienze umanistiche alla medicina e alle scienze naturali, dalla geografia alla chimica.176 Nulla sarebbe più falso che il considerare l’islam come una religione nemica della scienza. Tuttavia, da quest’epoca indubbiamente si accresce l’importanza delle diverse scienze nel cristianesimo.
Nel XIV secolo alcuni scolastici si identificano completamente con Averroè e accolgono la sua interpretazione di Aristotele come un sistema chiuso, anche quando si trovano a constatare contraddizioni insolubili tra le proprie esigenze filosofiche e gli articoli di fede ecclesiastici, i quali però sono considerati insondabili. Una simile interpretazione dell’ortodossia, che per motivi opportunistici qualifica come Verità gli articoli di fede cristiani rivelati, difficilmente può essere presa sul serio. Particolarmente a Padova – per tre secoli roccaforte dell’averroismo – si delinea la pratica di una filosofia razionale cosciente di sé e pura, la quale – insieme al risveglio del neoplatonismo – diventa un elemento importante per il Rinascimento. Per citare in particolare l’influente ma anche contestabile aristotelico Pietro Pomponazzi (1462-1525), in cui l’approccio scientifico-teoretico dell’averroismo si frantuma completamente, si propugna l’autodifesa del sapere dimostrabile della filosofia di fronte alla rivelazione e alla fede religiosa e con ciò la possibilità di una condotta morale autonoma e di una dignità interiore dell’uomo. Tale autodifesa dell’autonomia delle scienze profane in un mondo religioso è possibile nel cristianesimo – ovviamente con difficoltà.
Non Rinascimento, ma continuità del medioevo
Uno degli effetti secondari della conquista di Costantinopoli da parte dei turchi (1453), poco percepito dai musulmani, fu la fuga da Bisanzio verso l’Italia di numerosi studiosi greci. Nello stesso XV secolo – il Quattrocento italiano del primo Rinascimento fiorentino – l’Italia guadagna il primato nelle arti e nella cultura in Europa. Si giunge all’epoca cosiddetta della rinascita, del Rinascimento appunto. I musulmani, per quanto abituati alla vittoria, avrebbero dovuto poter intuire da questo che la storia mondiale forse si decide non solo sui campi di battaglia, ma anche nei salotti e negli studi dei pensatori, degli inventori, degli ingegneri e degli artisti, nelle scuole inferiori come in quelle più elevate. Il Rinascimento inizia con la rinascita degli studi del latino e del greco, la cura storico-critica e il confronto con l’antica letteratura dei romani e in seguito anche dei greci. A Firenze questo processo era già stato avviato dall’infruttuoso concilio di unione con i greci (1439), ispirato dalla paura dell’islam; proseguì dopo la caduta di Costantinopoli con la fuga di cervelli greci, che rafforzarono e concretizzarono la nuova immagine di un mondo indipendente e di un uomo autonomo basandosi sulla filosofia di Platone e Aristotele; e fu rafforzato dalla fondazione dell’Accademia platonica, fondata da Marsilio Ficino (1459).