Ai miei amici musulmani di tutto il mondo

COSA SI PROPONE QUESTO LIBRO

Contro lo scontro delle civiltà

«Non c’è pace mondiale senza pace religiosa»: giunsi a questa conclusione già nel 1982, in seguito alle lezioni di dialogo tenute all’Università di Tübingen sul cristianesimo e l’islam. E come già i volumi Ebraismo (1991) e Cristianesimo (1994), anche questo libro sull’islam è soggetto a quei principi programmatici che erano stati formulati in vista di un globale cambiamento di consapevolezza, fondamentale per la sopravvivenza:

Non c’è pace tra le nazioni
senza pace tra le religioni.

 

Non c’è pace tra le religioni
senza dialogo tra le religioni.

 

Non c’è dialogo tra le religioni
senza una ricerca sui fondamenti delle religioni.

Nel 1993 il politologo statunitense Samuel Huntington delineò un programma opposto – in un primo momento prudentemente sotto forma di domanda, poi però in modo programmatico come nuovo paradigma della politica estera: «A Clash of Civilizations» – uno scontro di civiltà. Una guerra tra culture, quindi, come scenario mondiale ineluttabile? Huntington, consigliere del Pentagono, si era occupato poco delle dinamiche interne e della multiformità delle singole culture e gli sono chiaramente ignoti i complessi rapporti storici, le transizioni fluttuanti, la fecondazione vicendevole e la convivenza pacifica: egli pronosticò, infatti, lo scontro tra l’«Occidente» e l’«Islam» come particolarmente pericoloso. In questo modo, dopo la fine della Guerra Fredda, fornì un sostegno ideologico per la sostituzione dell’immagine di un nemico, il comunismo, con l’immagine di un altro nemico, l’islam; per giustificare, inoltre, il grande apparato militare americano e, volutamente o meno, per creare un’atmosfera adatta a ulteriori guerre.

Già un anno prima dell’articolo di Huntington – nel 1992, subito dopo la fine ingloriosa della prima guerra in Iraq sotto il presidente Bush senior, e un decennio prima della seconda – negli USA un piccolo gruppo di ideologi «neoconservatori» fautori della politica di potenza aveva cominciato a preparare ideologicamente una guerra preventiva – per le riserve di petrolio, per l’egemonia americana e per la «sicurezza» di Israele. Dopo l’entrata in carica del presidente Bush junior, nel 1999, la guerra fu pianificata con precisione e la strage inaudita dell’11 settembre 2001 venne utilizzata come occasione sia per condurre, in primo luogo, un attacco all’Afghanistan, sia per farne preconizzare uno contro l’Iraq (non coinvolto negli attentati). Dopo essersi sforzata inutilmente di ottenere l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e dopo aver portato avanti una campagna di menzogne addirittura orwelliana riguardo alle cause e agli scopi della guerra, il 18 marzo 2003 l’amministrazione Bush cominciò, sostenuta inconcepibilmente dal primo ministro britannico Tony Blair, una guerra contro l’Iraq, contro il diritto dei popoli e l’opinione pubblica mondiale; grazie a una massiccia forza militare, sembrò vincere subito.

Ma il terrorismo, invece di essere sconfitto, fu perlopiù aiutato a diffondersi in Afghanistan, nel Vicino Oriente e nel mondo intero. Seguirono ulteriori tragedie: a Bali, Casablanca, Riad, Istanbul e Madrid. Qui si giunse per la prima volta, l’11 marzo 2004, a un massacro che, per la sua enorme portata sul suolo europeo, condusse nelle elezioni parlamentari di due giorni dopo alla mancata rielezione del governo spagnolo impegnato nella guerra in Iraq. Questo massacro fu però un campanello di allarme anche per i paesi europei non coinvolti nella guerra, che compresero come la situazione mondiale si fosse drammaticamente deteriorata. In effetti, la guerra contro due paesi islamici, ma anche il «doppio standard» praticato da decenni rispetto all’inumana politica di occupazione da parte di Israele, con l’inosservanza di tutte le disposizioni dell’ONU, hanno precipitato l’intero mondo islamico in una rabbia, in un’amarezza e in un irrigidimento indescrivibili. Lo «scontro» appare ora come una «profezia che si autoavvera».

Ci troviamo indubbiamente in una delicata fase-chiave per il riassetto delle relazioni internazionali, del rapporto Occidente-Islam e anche delle relazioni tra le tre religioni abramitiche – ebraismo, cristianesimo e islam. Le opzioni sono diventate chiare: o rivalità tra le religioni, scontro delle civiltà, guerra delle nazioni – o dialogo delle civiltà e pace tra le religioni come presupposto per la pace tra le nazioni! Di fronte alla minaccia di morte per l’intera umanità, invece che erigere nuove dighe dell’odio, della vendetta e dell’ostilità, non dovremmo cercare di demolire, pietra dopo pietra, i muri del pregiudizio e di costruire dei ponti per il dialogo, dei ponti proprio anche verso l’islam? No, qui non si propone né una cancellazione delle opposizioni, né una mescolanza sincretistica. Ci si batte piuttosto per un avvicinamento e un’intesa sinceri, che si basino sulla reciproca consapevolezza di sé, sull’obiettività, sulla lealtà, sulla conoscenza di ciò che divide e di ciò che unisce.

È ingenua una simile aspirazione, come pensano i pessimisti e i cinici nella politica, nell’economia, nella scienza e nella pubblicistica? Al contrario, essa è l’unica alternativa realistica, se non si vuole abbandonare sin dall’inizio la speranza di un ordine mondiale migliore. E sono convinto che anche gli USA, dopo l’isteria della guerra all’inizio del XXI secolo, ritroveranno presto se stessi e la loro grande tradizione democratica – come accadde negli anni Cinquanta dopo l’isteria di McCarthy. In seguito al palese fallimento della «strategia della potenza mondiale unilaterale» e della politica aggressiva di guerra in Afghanistan e in Iraq, dopo l’impegno unidirezionale in Palestina nonché dopo la perdita a livello mondiale della credibilità morale degli USA, il dialogo interculturale e interreligioso è diventato ancora più urgente. Certo, contro una rete di criminali accecati e religiosamente fuorviati, una battaglia è inevitabile: ma non una guerra terrestre, sottomarina e aerea, come quella inscenata dall’amministrazione Bush, bensì operazioni di polizia e servizi segreti, di diplomazia e di finanza. Contemporaneamente, però, soprattutto, sostegno alle riforme sociali e politiche nei paesi islamici, per togliere ai terroristi il terreno fertile che essi trovano negli strati della popolazione frustrati e impoveriti. Poiché solo quando si riuscirà a isolare gli estremisti violenti e a rafforzare i musulmani moderati, a costruire ponti di fiducia e a stabilizzare di nuovo i rapporti tra il mondo occidentale e quello islamico, solo quando gli israeliani, gli arabi e gli «occidentalisti», gli ebrei, i cristiani e i musulmani non si comprenderanno e non si tratteranno più come avversari, ma come partner, i problemi politici, economici, sociali e culturali della contemporaneità, apparentemente insormontabili, potranno essere risolti e si potrà offrire un contributo per un ordine mondiale più pacifico.

Per questo oggi molti chiedono di non ricadere nel paradigma dello scontro politico-militare, dell’aggressione e del revanscismo, praticato dalle nazioni europee in epoca moderna, fortunatamente superato dopo la Seconda guerra mondiale! Piuttosto, è necessaria una realizzazione decisiva del nuovo paradigma «post-moderno», contenuto nella Carta dell’ONU e portato avanti nell’ambito dell’Unione Europea nel modo più ampio possibile, dell’accordo, della cooperazione e dell’integrazione politica, economica e culturale. Pace e libertà possono essere raggiunte in modo duraturo solo sulla base dello stato di diritto, della tolleranza, dei diritti dell’uomo e di standard etici. Sulla specifica problematica politica ho preso posizione nel 2003, insieme a etici e scienziati politici competenti, nel volume Friedenspolitik. Ethische Grundlagen internationaler Beziehungen («Politica della pace. Fondamenti etici delle relazioni internazionali»).1

Al dialogo non sono invitate le civiltà e le culture in quanto tali, che non sono né soggetti né unità chiuse, bensì le singole persone e gruppi ben determinati, che vengono da formazioni culturali diverse, ma soprattutto le élite responsabili politicamente, economicamente e culturalmente. Riguardo all’islam, i cristiani e i non cristiani si dovrebbero porre la domanda: perché un miliardo e duecento milioni di persone – è una tendenza in aumento! – nelle regioni centrali della nostra terra, dalla costa atlantica fino alle isole indonesiane, dalle steppe dell’Asia centrale fino al Mozambico, professano quest’unica religione? Perché essa è la più grande delle religioni mondiali, dopo il cristianesimo, e a volte si illude persino di poterlo un giorno superare? Perché, secondo la convinzione dei suoi seguaci, non solo è la religione più nuova e migliore, bensì anche la più antica e universale? Perché è riuscita a mettere insieme in una grande famiglia religiosa, più di ogni altra religione, uomini tanto diversi quanto i berberi nomadi, gli arabi del Vicino Oriente, gli africani occidentali e quelli orientali, ma anche i turchi, i bosniaci e gli albanesi, i persiani, i pakistani, gli indiani, i cinesi e i malesi e, nei tempi più recenti, anche altri, in quasi tutti i paesi della terra a dispetto di ogni differenza culturale? Sì, la grande domanda è: da che cosa dipende effettivamente la forza dell’islam, il suo fascino? Quali sono le sue fonti, i suoi valori, i suoi simboli? Qual è il suo messaggio, la sua essenza, quali sono i suoi elementi costitutivi? Ma anche: che cosa plasma la vita quotidiana musulmana, la politica, la cultura e l’arte islamiche? E infine: quali sono le sue debolezze e le sue omissioni? Dove dovrebbero porsi domande autocritiche i musulmani?

 

Rendere gli uomini capaci di dialogare

Di fronte alla sovrabbondanza di pubblicazioni sull’islam, ci si può chiedere naturalmente perché sia necessario un ulteriore ampio volume sull’islam. E proprio se si conosce approfonditamente la letteratura sull’islam, ci si pone più che mai questa domanda: qual è l’interesse specifico, il profilo, il senso di una simile impresa? Sull’islam vi sono abbastanza storie della civiltà, storie della religione in diverse lingue, e altrettante storie politiche. Ma io scrivo questo mio libro non come storico delle civiltà, storico della religione, storico della politica o del diritto. Lo scrivo per rendere gli uomini capaci di dialogare, in questa fase di transizione decisiva verso un nuovo rapporto tra le civiltà, le religioni e le nazioni, per renderli «capaci di vivere nel mondo»: in modo che essi – che siano cristiani, musulmani o laici, politici, dirigenti dell’economia od operatori culturali, insegnanti, parroci o studenti, in breve: tutti coloro che sono in cerca di un orientamento – giudichino meglio la situazione mondiale, che non può essere compresa senza le religioni mondiali, e possano reagire di conseguenza. La storia della civiltà e della religione, della politica e del diritto viene qui elaborata in un processo di rappresentazione molto complesso, ma allo stesso tempo questo programma, che non mi dà pace da decenni, deve rimanere trasparente. Tale è il contributo che io, come persona che dialoga sulla teologia, la filosofia e la religione, spero di fornire con questo libro.

Con un simile obiettivo si vuole perciò, tenendo conto del futuro, offrire una rappresentazione corretta dell’islam nella storia e nel presente – 14 secoli di islam, non certo più facili da presentare di quanto lo siano stati prima i 30 secoli di ebraismo e i 20 di cristianesimo. Come entrambi i volumi precedenti, quindi, non vi è una descrizione di tipo storico-religioso-neutrale di questa religione, ma neanche solo una rappresentazione sistematico-teologica della sua dottrina, piuttosto una sintesi di entrambe le dimensioni, esposta cronologicamente e nello stesso tempo argomentata obiettivamente. Anche in questo libro si racconterà una grande storia, estremamente drammatica e multiforme. Tuttavia, allo stesso tempo, il racconto verrà interrotto continuamente e ci si interrogherà criticamente, partendo dall’origine per giungere al futuro, sul risultato del cambiamento che l’islam ha compiuto con una precisa costellazione paradigmatica. Saranno poste «controdomande» e «domande per la discussione», che emergono soprattutto quando una tradizione è diventata insensibile e quasi incapace di comunicare. Questo libro sull’islam è così concepito in modo interdisciplinare, come entrambi i precedenti sull’ebraismo e sul cristianesimo: esso incrocia le «discipline» che sono tra loro isolate e tenta di trasmettere una visione multidimensionale dell’islam.

Ero ben conscio del rischio di una simile impresa audace sotto ogni aspetto. Si trattava, certamente, di osare di procedere sul filo del rasoio: tra una profonda comprensione per l’islam, di cui però non si può approfittare per giustificare lo status quo, e in qualche punto una più aperta critica all’islam, che però non può portare a essere convinti della propria infallibilità. Questo libro – scritto da un non musulmano – è l’espressione della speranza non nell’indebolimento o addirittura nella scomparsa, bensì in un rinnovamento interno dell’islam. Lontano da ogni presunzione di superiorità (di tipo cristiano o laicista), esso sostiene – con la consapevolezza della dialettica illuminista – la causa di un islam rinnovato.

In considerazione del «sovraccarico di informazioni» – pare che la quantità di dati cresca annualmente del 30 per cento nel mondo – oltre a una pura conoscenza dei fatti, questo libro offre un sapere utile per orientarsi: l’islam è rappresentato come un tutt’uno non in maniera schematica, ma ben differenziata. Una tale impresa, oltremodo difficile, si può intraprendere solo perché si dispone – con l’analisi dei paradigmi – di un’impostazione teorica e degli strumenti concettuali che sono stati sviluppati e pensati metodologicamente, dopo le prime riflessioni in Dio esiste? Risposta al problema di Dio nell’étà moderna (1978), nei miei libri Teologia in cammino (1987) e Progetto per un’etica mondiale (1990). Per il bilancio storico, questo metodo ha dato pienamente buona prova di sé negli anni Novanta, sia in Ebraismo sia in Cristianesimo. Si può quindi convenientemente fare a meno di ricostruire dettagliatamente i 1400 anni di storia dell’islam nelle diverse epoche e nei diversi territori, con tutte le varie correnti e personalità fondamentali; si rimanderà alle opere storiche classiche e alla letteratura specialistica, che nel frattempo è divenuta incalcolabile persino per gli islamologi. Pensare per paradigmi significa piuttosto comprendere la storia nelle sue strutture dominanti e figure caratterizzanti. Pensare per paradigmi significa analizzare le diverse costellazioni complessive dell’islam, la loro origine, poi la loro maturazione e spesso il loro fossilizzarsi. Pensare per paradigmi significa, infine, descrivere la sopravvivenza nel presente dei paradigmi irrigiditi nella tradizione, mostrare l’ascesa del nuovo paradigma e in questo modo, forse, indicare delle prospettive per il futuro.

Certamente presso i musulmani, ancora di più che tra gli ebrei e i cristiani, è diffusa l’opinione che la loro religione sia sempre rimasta la stessa, che essa non abbia in effetti attraversato alcuna grande trasformazione, bensì abbia conosciuto solo uno sviluppo continuativo. Verrà chiaramente mostrato che questa apparenza inganna. Qui non ci interessa tanto il passato, quanto soprattutto il presente: come l’islam è giunto a essere ciò che è oggi – tenendo conto di come potrebbe essere. Lo specifico di questo tipo di storiografia non è quindi la pura cronologia, bensì l’intreccio dei tempi e dei problemi. Questo pone indubbiamente una sfida da entrambe le parti. Innanzitutto per il lettore musulmano: come può un teologo cristiano osare immischiarsi così tanto in discussioni e affari «interni dei musulmani»? Una sfida però anche per il lettore cristiano: come può un teologo cristiano osare andare incontro così tanto ai musulmani su molte questioni? Io non ho mai praticato un dialogo interreligioso che escluda le controversie: non è un «corso di leziosaggini interreligiose», come lamentano talvolta quegli uomini di chiesa, che a dire il vero si intendono essi stessi nel migliore dei casi solo superficialmente delle altre religioni. Allo stesso tempo, però, mi sono sempre rivolto anche contro i finti scontri, che vengono coltivati dai dogmatici di entrambe le parti; essi non indagano sulle cause della verità dei propri dogmi e pretendono solo per se stessi la vera fede in Dio.

Si spera che questa rappresentazione, applicata necessariamente in modo ampio, dia risposte a domande di ogni sorta e offra ai musulmani come ai cristiani (e agli ebrei) degli stimoli per un accordo. Certamente, in quest’impresa si dovrà rinunciare a innumerevoli particolari interessanti, ad aneddoti attraenti e persino ad aspetti importanti, per ottenere la necessaria nitidezza di visione in una prospettiva storica sempre diversa. Si sono dovuti quindi porre al centro i nuclei principali dell’islam, il mondo arabo, la Turchia e l’Iran, mentre è stato possibile trattare gli sviluppi particolari in India, nell’Africa subsahariana e nel Sud-Est asiatico solo marginalmente. È stato necessario prendere in considerazione soprattutto lo sviluppo dell’islam statuale e politico, mentre l’islam popolare è stato tenuto solo come sfondo e come base. In ognuna delle grandi costellazioni complessive islamiche o paradigma – che fosse il paradigma della comunità islamica originaria (P I), quello del regno arabo (P II), quello classico-islamico della religione universale (P III), quello degli ulama e dei sufi (P IV) e infine il paradigma della modernizzazione dell’islam (P V) – lo sforzo è stato quello di non perdersi nell’intrico dei dettagli, bensì di ricavare, sullo sfondo dello sviluppo schizzato brevemente, le condizioni, le cause e le necessità, le costanti e le variabili, per esaminare e comprendere così il paradigma contemporaneo (P VI) nei suoi tratti fondamentali. E siccome i paradigmi più antichi non scompaiono completamente con la nascita di quelli nuovi, piccole sovrapposizioni sono non solo inevitabili, bensì assolutamente illuminanti.

 

Un lungo cammino di pensiero

Molti studi ed esperienze sostengono le mie attuali riflessioni sull’islam, a partire dal mio primo viaggio in un paese islamico, come giovane dottorando nel 1955 nel Nordafrica: l’epoca del mio primo grande tentativo di dialogo ecumenico in una controversia fondamentale tra Roma e la Riforma protestante, e della mia dissertazione sulla dottrina della giustificazione di Karl Barth (1957), che ora si può leggere nel primo volume delle mie memorie Erkämpfte Freiheit («Libertà combattuta», 2002). Da questa prima ricerca ho imparato molto a livello di metodo per i successivi dialoghi interreligiosi. In seguito furono fondamentali per il mio lavoro scientifico nel campo dell’islam quelle grandi lezioni di dialogo sull’islam che tenni con il mio collega islamista, il professor Josef van Ess, nello «Studium Generale» dell’Università di Tübingen nel 1982 (si veda il libro Il cristianesimo e religioni universali, 1984). Le idee che mi feci all’epoca ho potuto approfondirle e ampliarle in seguito, soprattutto attraverso numerosi studi, viaggi e colloqui e infine grazie al viaggio per la lavorazione della settima parte della serie televisiva della SWR (Germania) e della DRS (Svizzera) Spurensuche. Die Weltreligionen auf dem Weg («Alla ricerca delle tracce. Le religioni mondiali in cammino»). Il settimo film della serie è infatti dedicato all’islam coi suoi diversi paradigmi, e il tutto è disponibile in diverse lingue su video, CD-Rom, DVD e in un libro illustrato integrativo.

Con questo terzo volume della trilogia è ora concluso, con mia grande soddisfazione, il progetto complessivo «Sulla situazione religiosa del tempo», che si doveva concentrare sulle tre religioni di origine mediorientale – l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam – come era stato pianificato tra il 1989 e il 1997 nell’ambito del progetto «Non c’è pace mondiale senza pace religiosa», sostenuto dalla Bosch-Jubiläumsstiftung e da Daimler-Benz-Fonds. Ho ora elaborato quello che avevo promesso: le analisi delle forze spirituali, ancora attive nel presente, delle tre religioni lungo una storia vecchia di millenni, quindi una diagnosi storico-sistematica; e da ciò poi le prospettive del presente, preso in analisi sulle diverse opzioni possibili per il futuro e in questo modo degli inizi di soluzione pratici ed ecumenici. E in questo terzo volume, specialmente nei capitoli sistematici, attraverso una metodica trilaterale, la spiegazione e la critica all’islam sono sempre state intrecciate con l’autocritica al cristianesimo (e all’ebraismo), per ottenere sia una dialogicità verso l’esterno, sia una coesione della mia trilogia dall’interno.

Il miglior frutto teorico-pratico del progetto di ricerca «Non c’è pace mondiale senza pace religiosa» fu il Progetto per un’etica mondiale iniziato nel 1990 in rapporto con la «svolta» europea, che non portò soltanto a ulteriori pubblicazioni, quali Etica mondiale per la politica e l’économia (1997), Wissenschaft und Weltethos («Scienza ed etica mondiale», 1998), Friedenspolitik. Ethische Grundlagen internationaler Beziehungen («Politica della pace. Fondamenti etici delle relazioni internazionali», 2003). Già nel 1995 esso portò anche alla Fondazione per un’etica mondiale («Stiftung Weltethos») – resa possibile grazie alla generosa donazione del conte e della contessa von Groeben – che nonostante risorse finanziarie e umane relativamente molto limitate ha potuto da allora realizzare una sorprendente attività, partendo dalle scuole per giungere fino agli organismi internazionali come l’ONU (cfr. internet: www.weltethos.org).

La stesura di un secondo volume, inizialmente pianificato, riguardo al presente e al futuro del cristianesimo, risulta ormai superflua. Sono state presentate così tante analisi del presente e visioni per il futuro in tutti i miei «scritti per la riforma della chiesa» raccolti sotto il titolo Conservare la speranza (1990), che ci si può risparmiare di spiegare dettagliatamente in un nuovo volume ciò che è ben noto e, purtroppo, perlopiù non realizzato. Sulla situazione della cristianità in Africa o in America latina ho pubblicato singoli saggi. La mia Chiesa cattolica: una breve storia (2002) ha aperto gli occhi a molti sull’immensa congestione di problemi e sulla crisi strutturale nella quale è caduta la chiesa «cattolico-romana». Il più recente sviluppo, rappresentato altrettanto oggettivamente e storicamente nella «breve storia», è stato illustrato e completato nel primo volume delle mie già citate «memorie» (2002). Dopo l’uscita di questo volume sull’islam mi metterò all’opera per rendere conto, in questa seconda metà della mia vita, di come sono stato esposto a violente tempeste, per giungere proprio attraverso queste a nuove aperture e a nuove rive. Tutto nella speranza che mi vengano donati ancora abbastanza forza e tempo per farlo...

 

Tübingen, luglio 2004

HANS KÜNG