Prefazione

«Tracce» o «echi»? Siamo stati a lungo incerti sulla scelta del termine con cui inaugurare un libro scritto per riportare alla luce i segni che la «parola parlata» ha impresso nella formazione della cultura romana. Dato che si tratta di «parola», forse avremmo dovuto dire che ne abbiamo ricercato gli «echi» di cui ancora risuonano le testimonianze inevitabilmente scritte che di Roma antica ci sono pervenute – le quali però, in quanto scritte, non possono che serbare «tracce», e non «echi», di una parola ormai cosí lontana. Si tratta di un paradosso, ovviamente, ma è lo stesso che caratterizza tutte le ricerche che riguardano l’oralità quando si studiano culture che appartengono irrimediabilmente al passato (quella omerica fra tutte), i cui strati sonori sono perciò raggiungibili solo attraverso il medium dei caratteri alfabetici. Oggi che la ricerca è conclusa, almeno per quel che ci riguarda, possiamo dire però che questa intrinseca difficoltà l’ha resa solo piú appassionante. Soprattutto perché non ci siamo interessati agli aspetti diciamo piú visibili, piú noti e discussi, della parola romana, come l’importanza che l’oratoria ha giocato nella vita della Città e dei suoi abitanti. Quando Cicerone, nel Brutus, ricorda il personaggio che la memoria considera a Roma il primo vero oratore, Marco Cornelio Cetego, lo fa citando le parole con cui lo descriveva il poeta Ennio (che aveva potuto «ascoltarlo» direttamente): flos delibatus populi, «squisito fiore del popolo», e soprattutto Suadai medulla, «midollo di Suada», la dea della persuasione1. Forse basterebbero già queste espressioni enniane a dar conto di che cosa avesse significato a Roma, fin dagli inizi, la parola parlata nella vita cittadina. Non sono però questi i fenomeni di cui ci siamo occupati. Abbiamo avuto timore, infatti, che tornare ancora una volta a parlare dell’oratoria a Roma – della sua importanza politica e civile, oltre che letteraria – avrebbe finito per sfondare una tale quantità di porte aperte da farci prendere un raffreddore. Per raggiungere l’obiettivo che ci eravamo proposti – ossia mettere in luce i fondamenti «orali» di numerosi aspetti rilevanti della cultura romana – abbiamo dunque seguito un percorso assai meno consueto, fatto di vie trasversali, incroci, deviazioni apparentemente eccentriche, ritorni, il cui carattere inatteso (proprio in quanto tale) ci auguriamo possa accrescere l’interesse del lettore.

Siamo dunque partiti dal mondo delle «credenze» romane per passare poi alla scarsa presenza che la scrittura ebbe nella Roma arcaica: un’originaria penuria, o scarsa dimestichezza, che traspare in filigrana attraverso alcune singolari manifestazioni religiose e stilistiche. Ci siamo poi occupati di certi tratti – particolarmente legati alla voce e alla parola – che restano caratteristici della composizione poetica romana anche passato il periodo arcaico. Dopo di ciò, abbiamo imboccato piú risolutamente la via della memoria culturale, del diritto, delle rappresentazioni del destino, della religione e della giustizia in generale: territori nei quali l’ambito della «parola parlata» ha svolto a Roma un ruolo tanto rilevante quanto, normalmente, poco esplorato. La nostra analisi è infine culminata nella manifestazione forse piú spiccatamente «orale» della creazione culturale romana: ossia la tessitura di «armonie foniche» che avvolge gran parte degli enunciati che ci vengono dalla produzione poetica, religiosa e giuridica di Roma arcaica. Si tratta di un fenomeno stilistico affascinante, per tanti aspetti enigmatico, che aveva attratto perfino l’interesse del grande Ferdinand de Saussure. Fatta questa breve premessa, non ci resta che formulare l’augurio che i Romani stessi (non a caso avvolgendolo in una fitta rete di «armonie foniche») avrebbero pronunziato in limine a qualsiasi loro impresa: quod bonum, felix, faustum fortunatumque sit «che ciò sia buono, felice, fausto e fortunato».

Questa ricerca nasce dalle «Sather lectures» che nel semestre 2017-18 ho tenuto presso il Department of Classics della University of California at Berkeley (City of the Spoken Word. Orality and the Foundation of Roman Culture) e i seminari che ho tenuto successivamente presso l’École Normale Superieure di Parigi. Durante le varie fasi che hanno caratterizzato la stesura del libro ho ricevuto aiuti e suggerimenti da parte di molti amici, fra i quali voglio ringraziare in particolare Simone Beta, Licia Ferro, Mark Griffith, Eric Gruen, Ellen Olliensis, Jean Trinquier, e soprattutto Mario Lentano e Cristiano Viglietti. Aglaia McClintock ha seguito la nascita e lo sviluppo di questo lavoro sin dai suoi inizi, ed è stata prodiga di suggerimenti soprattutto per le parti relative al diritto e alla giustizia (ma non solo riguardo a queste). Durante il corso di Antropologia del mondo antico tenuto (online) presso l’Università di Siena, A.a. 2020/21, molte sollecitazioni mi sono giunte, come sempre, dalla discussione con i miei studenti; cosí come dagli incontri (sempre online) del seminario “Laborality”, organizzato presso il Centro AMA di Siena da Manuela Giordano e da me, con la partecipazione di Laura Lulli, Livio Sbardella, Andrea Ercolani, Riccardo Palmisciano. Un grazie sincero va poi a Sabrina Celi e Ilaria Betocchi, della Biblioteca Umanistica di Siena, che nella fase di chiusura sono riuscite a superare le barriere del confinamento e mi hanno procurato molte pubblicazioni di cui avevo bisogno. Grazie infine ad Adriana Romaldo, sempre cosí generosa e disponibile, per tutto l’aiuto, bibliografico e non solo, che mi ha offerto durante lo svolgimento di questo lavoro. Damiano Fermi ha curato l’editing e la bibliografia del volume, segnalandomi anche ripetizioni o sviste che mi sarebbero altrimenti sfuggite. Di tutto comunque sono responsabile io, è inutile che lo dica.