Note

Prefazione.

1. Cicerone, Brutus 57 sgg.; Ennio, Annales 304 sgg. Skutsch. Sull’uso di memoria nel senso di memoria collettiva, cfr. BAROIN 2010, pp. 29 sgg.; GALINSKY 2014b.

Capitolo primo.

1. Cfr. Cicerone, Epistulae ad Atticum 4.1.5; Pro Murena 77. Era detto nomenclator anche il servo che, in casa, suggeriva al padrone i nomi di coloro che venivano a salutare la mattina. Seneca, De beneficiis 1.3.10; Epistulae ad Lucilium 19.11; De brevitate vitae 14.5. Per quanto riguarda in particolare Orazio, Epistulae 1.6.49-55, cfr. RACCANELLI 2017a.

2. Cicerone, Verrinae, Divinatio contra Quinctum Caecilium 52; De oratore 2.24.99; Quintiliano, Institutio oratoria 6.4.9; etc. Festo, De significatu verborum, pp. 122.18 sgg. Lindsay; Paolo Diacono, Epitome, pp. 123.12 sgg. Lindsay; per il monitor in funzione di praecentor, ossia colui che «praeit verbis» il sacerdote nella recitazione di una preghiera cfr. ThLL s.v. (VIII.1421.7 sgg.)

3. Paolo Diacono, Epitome (pp. 78.27 sg. Lindsay): «fartores, nomenclatores, qui clam velut infercirent nomina salutatorum in aurem candidati». Cfr. lo scolio di Porfirione a Orazio, Saturae 2.3.229 (II.276.5 Hauthal).

4. La metafora è buffa, verisimilmente comica: cfr. la nota di MÜLLER 1829, p. 88: «comica, ut videtur, horum hominum appellatio». In effetti questa metafora richiama certe immagini di Plauto, come quando l’ancella Sofoclidisca, incaricata di portare un messaggio allo schiavo Tossilo, dichiara (Plauto, Persa 182): «mi avvicinerò a lui, gli caricherò le orecchie (aures … onerabo) con le cose che sono stata incaricata di dirgli»; cfr. Seneca, Epistulae ad Lucilium 1.3.4. La metafora onus/onerare è la stessa che usiamo noi quando parliamo di «caricare» un file sul (o «scaricare» dal) computer o quella dei corrispondenti termini inglesi up-load, down-load. Sulle metafore alimentari utilizzate dai Romani per descrivere la comunicazione cfr. SHORT 2018, pp. 62-70.

5. Ovvero colui che professionalmente ingrassa gli animali destinati alla tavola (specialmente gli uccelli). Cfr. ThLL, s.v. «fartor» (VI.287.8 sgg.). Per fartor nel senso di «salsicciaio», «qui farcimina facit», si veda Donato nel commento a Terenzio, Eunuchus 257 (II.323.6 sg. Wessner): «fartores sono coloro che fanno insaccati o salsicce»; per fartor nel senso di saginator cfr. p. es. Plauto, Truculentus 105; Terenzio, Eunuchus 257 (con il commento di Eugrafio); Orazio, Saturae 2.3.229; soprattutto Columella, De agricultura 8.7.1: «far diventare grasse le galline è compito da fartor, non da contadino».

6. Cfr. supra n. 4

7. Leges duodecim tabularum, tab. III.2 (FIRA I2, p. 32). Cfr. ALBANESE 1987, p. 27 n. 72.

8. Orazio, Saturae 1.9.75 sg. Pseudo-Acrone, II.104 sg. Keller: «solebant enim aurem testium tenere et ita dicere: memento, quod tu mihi in illa causa testis eris». Cfr. anche Porfirione, II.165.5 sgg. Hauthal: «adversarius molesti illius Horatium consulit an permittat se antestari, iniecta manu extracturus ad praetorem quod vadimonio non paruerit … porro autem qui antestabatur, auriculam ei tangebat atque dicebat “licet te antestari”? si ille responderat “licet”, tum iniecta manu adversarium suum extrahebat; nisi autem antestaus esset qui inicere manum adversario volebat iniuriarum reum constitui poterat».

9. Epistulae ad Lucilium 94.59. Altre testimonianze in OTTO 1890, p. 48. Non dimentichiamo che a Roma la funzione «rammemorativa» godeva anche di una contropartita religiosa: uno degli epiteti di Iuno, infatti, era proprio Moneta, ossia «che fa ricordare» (moneo). Un tempio dedicato a Iuno Moneta sorgeva sull’arx, dedicato dal figlio di Furio Camillo, il vincitore di Veio. Per la morfologia e il significato di Mone-ta cfr. infra cap. VI, par. 2. Sui racconti relativi all’origine dell’epiteto cfr. Baroin 2010, pp. 42-44.

10. Appendix Vergiliana, Copa 38. Probabilmente questo gesto simbolico sopravvive ancora nella nostra cultura. Anche noi, infatti, dichiariamo che occorre tirare le orecchie a qualcuno per ammonirlo a non fare o non dire piú una certa cosa, pur se tale gesto sembra aver assunto un significato quasi esclusivamente punitivo: si tratta di ammonire qualcuno, e soprattutto dei bambini, a non ripetere una certa azione (D. MORRIS 1983, pp. 256 sgg.). È certo però che «una buona tirata d’orecchi», sia pure metaforica, anche per noi ha valore di monito, e dunque serba legami con la sfera della memoria. Ancora, è possibile che qualcosa di questo antico valore resti nell’abitudine moderna di tirare le orecchie a qualcuno in occasione del suo compleanno, tante volte quanti sono gli anni compiuti. Quasi a ricordargli solennemente a che punto della sua vita è arrivato.

11. Plinio, Naturalis historia 11.251. Sul rapporto fra orecchio e memoria a Roma BAROIN 2010, pp. 60-66.

12. Ovidio, Heroides, 20.99 sg.: «adfuit … et vocem memori condidit aure tuam».

13. Per il fegato Orazio, Carmina 1.13.4; Giovenale, Saturae 1.45; Pacuvio, 83-85 Ribbeck3; etc.; per la vitalitas del ginocchio Plinio, Naturalis historia 11.250. Per alcuni aspetti dell’anatomia simbolica romana si può vedere ANDRÉ 1991. Secondo Livio, Ab urbe condita 1.21.4 la mano destra era sede della fides.

14. Cit. da VANSINA 1985, p. XI.

15. Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, Giornata prima (FAVARO 1897, pp. 130 sg.); Lucrezio, De rerum natura 1.196 sgg.; Victor Hugo, Notre-Dame de Paris, libro V, cap. II: Questo ucciderà quello (MAUREL 1972, pp. 224 sg.).

16. HARRIS 1991, pp. 171-79.

17. Lucrezio, De rerum natura 5.1133.

18. Seneca, De beneficiis 3.14.3; Plinio il Vecchio, Naturalis historia 18.36; per i placiti o le «posizioni» dei filosofi definiti voces cfr. Cicerone, De natura deorum 1.111; Tusculanae disputationes 5.31.

19. Terenzio, Eunuchus 174 sgg.

20. Allo stesso modo in greco sia épos sia rhêma, prima di specializzarsi nel senso di «parola» o «verbo», indicano genericamente un enunciato, un flusso di parole. Per altri esempi di verbum usato per designare enunciati anche piú complessi di quello riportato nel testo, rimando a BETTINI 2012, pp. 78 sgg.; ulteriore raccolta di documentazione alle pp. 269-71.

21. Come ha rilevato GOODY 1981, p. 134, nelle lingue africane occidentali non esiste alcun termine specifico per indicare la nostra «parola».

22. LYONS 1982, pp. 70 sg.

23. Quando in De oratore 3.181 Cicerone (a parlare è Crasso) dirà che «il fiato corto e il bisogno di respirare hanno reso necessari gli intervalli fra le parole (interpuncta verborum)», questa affermazione ci viene da chi – per raffinata educazione personale e naturale evoluzione storica – ormai osserva inevitabilmente il linguaggio attraverso i quadri mentali della cultura scritta.

24. MCDONALD 2019.

25. WOODARD 2014, pp. 264-71.

26. MCDONALD 2019. Altro il caso del frammento di kylix in bucchero proveniente dall’area del santuario di Iuno Sospita a Lanuvio, che reca inciso il piú antico alfabetario latino (ATTENNI e MARAS 2004). In ogni caso, mentre per l’ambito culturale etrusco o greco sono abbastanza numerosi gli alfabetari incisi su oggetti di uso comune (vasi, tavolette, mensae), pochi sono i ritrovamenti per la lingua latina (OLIVIERI 2009).

27. Cicerone, De natura deorum 1.84; 3.40. Per tale motivo i pontefici, dopo aver invocato gli dèi che era necessario nominare relativamente alla cerimonia in corso, si rivolgevano «generalmente a tutti i numi» («generaliter omnia numina»), senza piú pronunziare alcun nome, per evitare che qualcuno fra essi fosse trascurato. Si tratta dello stesso Cotta, che piú avanti esclamerà: «quanta autem est eorum [sc. deorum] multitudo!» Le testimonianze romane relative all’infinito numero degli dèi sono molte. Oltre a quelle fornite dai cristiani, come Tertulliano, Apologeticus 10 («tot ac tantos, novos, veteres, barbaros, Graecos, Romanos…»), cfr. p. es. Petronio, Satyricon 17.5 («nostra regio tam praesentibus plena est numinibus, ut facilius possis deum quam hominem invenire»); Plinio il Vecchio, Naturalis historia 2.16 («maior caelitum populus etiam quam hominum intellegi potest»); Giovenale, Saturae 13.46 sg. («nec turba deorum / talis ut est hodie»); etc.

28. Arnobio, Adversus nationes 4.3 («catervas … deorum»); Agostino, De civitate Dei 3.7.3; 4.8; etc.

29. Infra capp. V-VI.

30. Infra cap. V, parr. 1 e 3; cap. VI, par. 2.

31. Infra cap. V, par. 3.

32. Cicerone, De divinatione 2.69. Cfr Livio, Ab urbe condita, 5.32.6; 5.52; 52.11; Varrone in Gellio, Noctes Atticae, 16.17.2. WISSOWA 1971, p. 55; RADKE 1979, pp. 59 sgg. Su Carmenta/Carmentis si veda in particolare GUITTARD 2001; ID. 2007.

33. Infra cap. VI, par. 2. Plutarco, Numa 8. Cfr. Ovidio, Fastorum libri 2.569 sgg. Cfr. BETTINI 2006.

34. Isidoro, Etymologiae 6.8.12.

35. Macrobio, Saturnalia 1.12.20: Ovidio, Fastorum libri 5.681 sgg. Cfr. anche Agostino, De civitate Dei 7.14 (il dio sarebbe chiamato Mercurius in quanto medius currens, perché il sermo corre medius fra gli uomini).

36. Orazio, Epistulae 1.16.79.

37. J. W. Goethe, Noten und Abhandlungen zum besseren Verständnis des west-östlichen Divans, Orientalischer Poesie Urelemente (KOCH, PORENA e BORIO 1990, pp. 611 sg.). Sull’importanza delle metafore culturali per lo studio antropologico del mondo antico cfr. SHORT 2018.

38. Curtius 1992, pp. 335 sgg.

39. Ampia documentazione in ThLL, s.v. «loquor» (VII.2.1661.21 sgg.; 1667.9 sgg.).

40. ThLL, s.v. «dico» (V.1.989.21 sgg.).

41. Plauto, Pseudolus 62 sg.; cfr. Frontone, Epistulae, p. 66.5 Van den Hout.

42. Per l’espansione (nelle lingue europee) di termini come «literate», «literacy» etc. in riferimento alla conoscenza e all’uso della scrittura, e non piú per designare il classico «homme des lettres», cfr. già BAUMANN 1986, pp. 17-20.

43. Cfr. l’efficace sintesi di BESNIER 2001.

44. Cosí perfino già ONG 1986a (posizione condivisa da tutti i saggi a suo tempo raccolti nel libro di Baumann); HARRIS 1991, pp. 47-49.

45. Graffito su un coccio proveniente dal cimitero dell’esquilino, VII secolo a.C.: WISEMAN 2008, pp. 1-8. Un repertorio di iscrizioni arcaiche romane in STIBBE 1980. Sempre del VII secolo a.C. (forse ancora piú antica) è l’iscrizione EYOIN (o EYLIN … il dibattito è aperto) da Osteria dell’Osa: si veda BOFFA 2015.

46. VI secolo a.C.: WISEMAN 2008, pp. 2 sg. Per le rassomiglianze, dal punto di vista scrittorio, fra l’iscrizione del lapis niger, la stele di Tortora e una stele di Chios, entrambe risalenti al VI secolo a.C. e contenenti prescrizioni a carattere legale, cfr. CRAWFORD 2011, p. 155; CLACKSON 2020, pp. 14, 18.

47. 370 a.C.: WISEMAN 2008, p. 4.

48. È il caso della celebre cista Ficoroni o della fibula praenestina, la cui autenticità è stata oggi pienamente rivendicata dagli studi di FRANCHI DE BELLIS 2009; EAD. 2011; EAD. 2012; e soprattutto EAD. 2011-14, in cui, oltre a riassumere diffusamente la questione, si dà spazio anche agli importanti risultati delle analisi archeometriche di Edilberto Formigli.

49. CIL I2.2832a. Su questa iscrizione la bibliografia è già vastissima: ROCCA e SARULLO 2014; SANTANGELO 2019, pp. 31-38.

50. I singoli esempi cui alludiamo sono ben noti e comunque esaminati in WISEMAN 2008, pp. 1-8; FEENEY 2016, pp. 13 sg.; si veda in particolare HARRIS 1991, pp. 171-79 (ma per Roma non parlerei di un «saldo alfabetismo indigeno già verso la fine del settimo secolo»).

51. Non bastano dunque testimonianze di questo tipo per affermare che i Romani «had been literate … for centuries», FEENEY 2016, pp. 13 sg.; cfr. p. 210.

52. HARRIS 1991, pp. 36-37; 171-78; etc. PUCCI 1992.

53. Livio, Ab urbe condita 6.1. Sulla nozione di «memoria culturale» cfr. infra cap. III.

54. Fenomeno generale in tutto il mondo antico: HARRIS 1991, pp. 39 sg.; WISEMAN 2008, partic. p. 4; PUCCI 1992.

55. Livio, Ab urbe condita 2.12.7; Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 5.28.2.

56. COLONNA 1976. Si veda anche BAGNASCO GIANNI 1999, che mette in evidenza il nesso fra pratica della filatura e acquisizione della scrittura, specie in ambito femminile.

57. HABINEK 1998, pp. 36-39; ID. 2009, p. 116; cfr. anche HARRIS 1991, pp. 250-54; FEENEY 2016, pp. 199-235.

58. È questa la tesi centrale del magistrale volume di FEENEY 2016.

59. Festo, De verborum significatu, pp. 446.26 sgg. Lindsay: «scribas proprio nomine antiqui et librarios et poetas vocabant; at nunc dicuntur scribae equidem librarii, qui rationes publicas scribunt in tabulis. itaque cum Livius Andronicus bello punico secundo scripsisset carmen, quod a virginibus est cantatum, quia prosperius res publica populi Romani geri coepta est, publice adtributa est ei in Aventino aedis Minervae, in qua liceret scribis histrionibusque consistere ac dona ponere; in honorem Livi quia is et scribebat fabulas et agebat».

Capitolo secondo.

1. Si tratta di una questione tanto vasta quanto esigue sono le risposte che a essa si possono dare. L’aveva comunque ripresa, sul background degli studi precedenti e con una visione rinnovata, HABINEK 1998, pp. 34-39, 179 sg.; e dopo di lui FEENEY 2016, pp. 213-18.

2. WISEMAN 2014.

3. WISEMAN 2008, pp. 24-38.

4. WISEMAN 2008, p. 40; Gellio, Noctes Atticae 18.5.

5. Donato, Vita Terenti 3; Gellio, Noctes Atticae 13.2.

6. Vita Donatiana, pp. 6 sg. Brummer.

7. Servio, ad Aeneidem 6.861, 4.324; Svetonio, Augustus 85 (Augusto recitava in pubblico le opere di Virgilio o le faceva recitare da Tiberio). Una lettura ad alta voce Virgilio dedicò anche alla sesta Ecloga: Servio, ad Eclogas 6.11.

8. Vita Donatiana, pp. 6 sg. Brummer.

9. HARRIS 1991, p. 254; FANTHAM 1999; Seneca il Vecchio, Controversiae 4; Praef. 2. Dalla tradizione greca emerge un analogo uso di «leggere ad alta voce» ad «ascoltatori» le opere storiche: WISEMAN 2014.

10. Orazio, Ars poetica 434 sgg.

11. Dialogus de oratoribus 3.3. Incompiuto doveva essere anche il De gloria di Cicerone quando l’autore pregava Attico che ne facesse leggere alcuni «stralci» a Salvio, dopo aver invitato bonos auditores (Epistulae ad Atticum 16.2).

12. Eccellente la ricostruzione di VALETTE-CAGNAC 1997, pp. 111-69 («la recitation, une écriture orale»); JOHNSON 2010, pp. 42-62; cfr. anche Cicerone, De officiis 1.147 (si vuole che l’opera sia giudicata dal vulgus «affinché ciò che è stato rimproverato da molti venga corretto»).

13. Epigrammata 12; Praef. 10.

14. Di fronte alla molteplicità di generi letterari destinati a Roma alla recitazione (poesia epica, lirica, tragedia, commedia, opere storiche…) – e soprattutto considerando il ruolo che la critica da parte del pubblico esercitava nel fenomeno delle recitationesG. FUNAIOLI s.v. «Recitationes», in Pauly-Wissowa (I.A.1 [1914], col. 445), aveva proposto un parallelo singolare con la modernità: le recitationes sarebbero state simili alle «recensioni» che si pubblicano sulle nostre riviste, in cui si fa conoscere e insieme si giudica una certa opera.

15. VALETTE-CAGNAC 1997, pp. 137-39 («l’auditeur ne vient pas entendre un bon livre, il vient le faire»).

16. KRISTEVA 1978. Una sintesi delle innumerevoli posizioni in BERNARDELLI 2013; BRAVIN 2019.

17. L. GAVOILLE 2019 (e gli altri saggi raccolti in É. GAVOILLE 2019); BETTINI 2015b.

18. Cfr. p. es. Gloss. II.250.47 authentikón: auctoraticium authenticum; IV.473.9 autenticum: auctoritate plenum; V.342.9 auctorale; etc. Cfr. ThLL, s.v. «authenticus» (II.1598.43 sgg.).

19. Qui e di seguito con la nozione di «agency» ci riferiamo in particolare alla tradizione di studi inaugurata da DURANTI 1994.

20. HARRIS 1991, p. 259 (a proposito delle epistole); pp. 279-84 (sul fenomeno secondo cui, data la diffusione di questa pratica, un membro dell’élite non aveva necessità di saper scrivere come si deve). Emblematica ci sembra comunque questa frase di Seneca, Epistulae ad Lucilium 15.6: «possis legere, possis dictare, possis loqui, possis audire»: mentre loqui si oppone ad audire, legere si oppone a dictare, non a scribere.

21. CLANCHY 2013, p. 272.

22. Orazio, Epistulae 2.1.110.

23. Orazio, Saturae 1.4.10 s.: «[Lucilius] in hora saepe ducentos, / ut magnum, versus dictabat stans pede in uno»; Persio, Saturae 1.52: «non siqua elegidia crudi / dictarunt proceres?»

24. Vita Donatiana 59.13.

25. Plinio il Giovane, Epistulae 3.5. JOHNSON 2010, p. 14.

26. Noctes Atticae 19.7.3-10. JOHNSON 2010, p. 105.

27. JOHNSON 2010, pp. 119 sg.

28. Gellio, Noctes Atticae 18.5.

29. Ennio, Annales 236 sg. (SKUTSCH 1986, con il commento ad loc.).

30. JOHNSON 2010, pp. 114 sgg., 149. Per l’origine del termine, da lucubrum, Isidoro, Etymologiae 10.20.9: «modicus ignis qui solet ex tenui stuppa ceraque formari». Dunque «lavorare alla luce di un lucubrum».

31. HARRIS 1991, p. 260, contro PETRUCCI 1969, p. 160: «la forma piú naturale di trasmissione o di fissazione del pensiero a qualsiasi livello della scala sociale in qualsiasi occasione era quella dello scritto». Affermazione errata anche solo per quel che riguarda gli ambienti piú colti.

32. Agostino, Confessiones, 10.8.12.

Capitolo terzo.

1. Cicerone, De re publica 2.1 sgg.

2. Cicerone, De re publica 2.31.55.

3. Sulla funzione «rammemorativa» svolta dall’exemplum, in quanto «commemoratio di un’azione compiuta, o ritenuta tale, utile a persuadere quanto all’intento cui si mira», cfr. Quintiliano, Institutio oratoria 5.11.6; LAUSBERG 1960, pp. 227-30.

4. Cicerone, De re publica 18.33. Su Pompilia, figlia di Numa e madre di Anco Marcio, Plutarco, Numa 21; Coriolanus 1. Neppure Plutarco, che all’inizio della Vita di Coriolano ricorda alcuni illustri rappresentanti di questo casato, menziona il padre del re.

5. Sembrerebbe quasi che SAHLINS 1986, pp. XII, 30-64 (41) avesse voluto fornire una giustificazione alla risposta che Scipione dà a Lelio, quando riconosceva che «nei tempi antichi vengono resi celebri solo i nomi dei re». Il fatto è, argomentava Sahlins, che se nelle società di un certo tipo la storiografia ha ragione di privilegiare la storia dei re e delle battaglie «il motivo è dato da una struttura che generalizza l’azione del re, considerata come la forma e il destino della società» in quanto «la regalità costituisce un indicatore generale del tempo per tanti episodi […] che di per sé sarebbero privi di significato».

6. Cicerone, De oratore 2.359.

7. Anche l’ignoto autore della Rhetorica ad Herennium (3.21.34 sgg.), nei paragrafi dedicati alle tecniche della memoria, attribuisce a «personaggi» la capacità di tenere vivo il ricordo, stavolta addirittura sotto forma di vere e proprie scene di cui essi sono interpreti: nella fattispecie «Domizio frustato dai Marci Reges» e «gli attori Esopo e Cimbro si apprestano a recitare la parte degli Atridi» costituiscono due sequenze narrative, corredate di personaggi, utili per la rammemorazione di un determinato verso. Su tutto ciò si veda in particolare YATES 1993, pp. 4-26.

8. J. ASSMANN 1997, pp. 5-58; HALBWACHS 1997; ID. 2001; e soprattutto ID. 1988; VANSINA 1985; cfr. anche A. ASSMANN 2002, pp. 146-48. In terra romana, ma soprattutto per il periodo repubblicano, cfr. i saggi raccolti da GALINSKY 2014a, e la Introduction del curatore (ID. 2014b). WISEMAN 2014, in polemica con HÖLKESKAMP 2006 rifiuta la nozione di «cultural memory» e le preferisce «popular memory». La sua ricostruzione però non riesce a uscire dai binari di una storiografia che identifica la memoria con la scrittura (anche se nell’ultima parte del saggio lascia spazio a una possibile tradizione romana di inni eroici e ai ludi scaenici come fonte di memoria); nella raccolta di GALINSKY 2014a si segnala invece lo stesso HÖLKESKAMP 2014: saggio di grande ricchezza teorica, documentaria e bibliografica, che si muove in una prospettiva con la quale ci sentiamo in sintonia. Fondamentale resta comunque il lavoro di VANSINA 1985, la cui assenza si fa sentire nei saggi raccolti da Galinsky. Si veda anche SETTIS 2020, p. 16: «La memoria culturale collettiva … “sa” da sempre – momento per momento, caso per caso, tema per tema – che cosa può considerarsi ammesso, necessario, desiderabile dirompente o vietato rispetto all’uso corrente».

9. Una sorta di «memoria delle memorie», i cui elementi non presentano piú una relazione vitale con il presente, ma sono consegnati alle ricerche degli specialisti. Cfr. A. ASSMANN 2002, p. 149. Per parte sua HALBWACHS 2001, p. 161, con una definizione piú poetica che rigorosa, designava «il mondo storico … un oceano a cui affluiscono tutte le storie parziali». È chiaro però che il tema si è prestato e si presta a una discussione molto piú complessa (nella direzione che maggiormente ci interessa, ossia il rapporto fra stabilità e mutamento, storia e struttura, FINLEY 1981, partic. pp. 149-76; SAHLINS 1986, partic. pp. IX sg., 29-64, 119-37, etc.).

10. VANSINA 1985, pp. 100, 118 sgg., 190 sgg.

11. Com’è noto, una lunga dialettica ha contrapposto le varie posizioni in materia (fideiste, ipercritiche, conciliatrici fra tradizione letteraria e ritrovamenti archeologici, centrate esclusivamente sui dati archeologici, etc.). La massa di bibliografia che si è accumulata su questi temi è enorme. Cfr. GRANDAZZI 1993, partic. pp. 13-130; AMPOLO 2013; una brillante sintesi e soprattutto nuove prospettive in VIGLIETTI 2011, pp. 59-81; originali proposte e interpretazioni GIANLUCA DE SANCTIS 2021. Da non dimenticare POUCET 2000, pp. 33 sgg. e 85 sgg.

12. Livio, Ab urbe condita 6.1: Cfr. Plutarco, Numa 1.1.

13. In 6.1.9 sg. Livio ci dà qualche vaga informazione per quanto riguarda il ritrovamento di foedera ac leges sopravvissuti alla distruzione gallica, alcuni dei quali furono pubblicati.

14. Cfr. Plutarco, Numa 1.1 (a proposito del contrasto fra gli storici relativamente all’epoca in cui Numa sarebbe vissuto): a dispetto degli alberi genealogici (stemmáton) in circolazione, che fanno discendere fino a Numa l’origine di certe famiglie, «un certo Clodio in una ricerca cronologica … avrebbe mostrato che quegli antichi registri (anagraphaí) sono scomparsi nella distruzione di Roma da parte dei Galli, e che quelli che si citano attualmente sono dei falsi …». Impossibile identificare con esattezza il Clodio citato da Plutarco: cfr. MANFREDINI e PICCIRILLI 1980, p. 290.

15. Cosí come GRANDAZZI 1993, p. 212, anche CORNELL 1995, pp. 24 e 318 sg., riprende la tesi secondo cui l’effetto distruttivo del sacco gallico sarebbe sostanzialmente un’invenzione degli annalisti, usata come «aetiology» per spiegare la scarsità di documentazione relativa ai primi secoli. Grandazzi attribuisce anzi «il grande merito» di aver proposto questa ipotesi a GAETANO DE SANCTIS 1909 (dove però di questo non si parla). In ogni caso, anche accettando l’ipotesi – perché sempre di ipotesi si tratta – che gli annalisti avessero fatto ricorso a questo «mito eziologico» (Grandazzi) per il suddetto motivo, ciò non farebbe che confermare quanto dice Livio: ossia che di documenti relativi ai periodi piú risalenti di Roma o non ce n’erano o ce n’erano pochi.

16. A cominciare dalla celebre opera di DE BEAUFORT 1738: GRANDAZZI 1993, pp. 14 sg.

17. Come ha mostrato NAMER 1987 (l’ultima edizione critica degli scritti di Halbwachs destinati a essere pubblicati nella Memoria collettiva), nella revisione cui costantemente sottopose i manoscritti l’autore mostra delle interessanti esitazioni terminologiche: in particolare quella fra «ricostruzione» e «ricostituzione» del passato (cfr. HALBWACHS 2001, pp. 38 sg.).

18. VANSINA 1985, pp. 94, 121, contro la «homeostasis» di Goody, ossia la perfetta congruenza fra le tradizioni orali e la condizione del presente. Questa posizione à la Goody, secondo cui molta parte delle vicende narrate su Roma arcaica sarebbero il prodotto di esigenze posteriori, è propria anche di molti storici del mondo romano: cfr. ad esempio GABBA 2000 (tutta la storia delle lotte per la terra del V secolo a.C. sarebbe stata costruita a partire dalle urgenze dell’età graccana).

19. SPERBER 1996, p. 92.

20. VANSINA 1985, p. 23: il periodo di mezzo è definito da Vansina «floating gap».

21. GABBA 1967, pp. 134-66, pur in una prospettiva decisamente diversa dalla nostra (lo studioso non riteneva infatti che i Romani collocassero nell’età delle origini, seppur compressi, eventi che riguardano realmente una fase originaria o molto antica della città, ma piuttosto eventi di poco anteriori all’affermarsi della scrittura).

22. Sul verificarsi di questo fenomeno all’interno delle tradizioni orali cfr. VANSINA 1985, p. 120.

23. LÉVI-STRAUSS 2019, pp. 201-19.

24. Sul significato di monumentum cfr. in particolare BAROIN 2010, pp. 33-37. Una panoramica sulle «vie della memoria» per quello che riguarda la conoscenza della Roma piú antica in GRANDAZZI 1993, pp. 207-44; in una prospettiva piú rigida, ispirata cioè ai criteri della storiografia tradizionale, CORNELL 1995, pp. 1-30.

25. Ennio, Annales 156 Skutsch. Il carattere «oracolare» del verso era rilevato da Cicerone (citato da Agostino, De civitate Dei 2.31). Questo paragrafo costituisce una breve sintesi di quanto ho scritto a proposito del mos in BETTINI 2000.

26. Festo, De verborum significatu, p. 146.3-5 Lindsay.

27. Servio, ad Aeneidem 7.601 = Varrone, Gramm. Rom. Fr., 232 Funaioli; Ulpiano, Regulae 1.4: «i mores sono costituiti dal tacito consenso del popolo, che si è affermato nel tempo per lunga consuetudine». Per il rapporto fra mos e consuetudo in Varrone cfr. BETTINI 2000; e adesso LEONARDIS 2019, pp. 37-53.

28. Servio Danielino, ad Aeneidem 6.316.

29. Isidoro Etymologiae 2.10.1 sg.; cfr. 5.3.2 sg.

30. BETTINI 2000.

31. Molti esempi e una sintesi in VIGLIETTi 2011, pp. 76-78.

32. Per fama e fabula si veda infra cap. V, par. 3. Per le espressioni usate da Livio nel senso pressappoco di «tradizione», tra le quali fama, cfr. BERGER 2011 (soprattutto Appendix: Words Referring to an Allegedly Oral Tradition, p. 327); per fama nel senso di memoria (in genere di eventi) cfr. ThLL, s.v. «fama» (VI.206 sg.). Sullo «hearsay» come fonte per la tradizione orale VANSINA 1985, p. 6.

33. Supra cap. 2, par. 1. WISEMAN 2014 ricorda in particolare Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 1.31.2 (Fauno onorato dai Romani «nei loro sacrifici e inni»), 1.79.10 (i «patrii inni» con cui i Romani celebrano Romolo e Remo) e 8.62.4 (Coriolano «celebrato nei canti anche dopo cinquecento anni»); per la possibilità che gli inconditi versus recitati dai soldati al trionfo, e spesso menzionati da Livio, potessero essersi conservati nella tradizione successiva, cfr. ancora WISEMAN 2008, pp. 24-38; per i carmina convivalia cfr. supra cap. 2, par. 1 e n. 1 cap. II.

34. BETTINI 2012, pp. 81-83.

35. Cfr. infra cap. IV, par. 8.

36. GRANDAZZI 1993, p. 211, a proposito del testo di due trattati (fra Servio Tullio e i Latini, fra Roma e Gabi) che Dionigi di Alicarnasso afferma di aver potuto «vedere».

37. I IT XIII, 2, 123 (Fasti Praenestini); Plutarco, Camillus 32.6 (ritrovamento del «lituo» di Romolo da parte di Camillo nei resti del sacello di Marte). Cfr. FRASCHETTI 2007.

38. Paolo Diacono, Epitome, p. 49, 7 sgg. Lindsay; Livio, Ab urbe condita 7.3, specifica che alle Idi di settembre il chiodo veniva piantato dal praetor maximus sulla parete destra del tempio di Iuppiter Optimus Maximus, sul lato rivolto verso il tempio di Minerva: dato che all’epoca la scrittura era poco diffusa, per tenere il conto degli anni si faceva ricorso a questa pratica. Livio ricorda anche la presenza di una legge a essa relativa, «scritta con lettere e parole antiche». La stessa pratica era ricordata anche a proposito del tempio della dea Nortia (Livio, ibidem, che cita l’annalista Cincio Alimento: fr. 9, BECK e WALTER 2001, p. 144 e la bibliografia ivi citata): cfr. OAKLEY 1998 ad loc.

39. VANSINA 1985, p. 46; soprattutto SEVERI 2004, pp. 87 sgg.; ID. 2018, pp. 88 sgg.

40. Infra cap. IV, par. 2.

41. La «sequence of regular festivals» in Roma come fonte di memoria sociale è messa particolarmente in evidenza da WISEMAN 2014.

42. FAVRO 2014; SARULLO 2014a.

43. Varrone, De lingua latina 6.49.

44. Anche queste occasioni di memoria ricostruttiva: quella che Livio, Ab urbe condita 8.40, riteneva piú semplicemente «memoria alterata».

45. «Nella città, attraverso i riti assicurati dai sacerdoti dello Stato romano, il passato torna a essere presente, il presente ripete il passato»: GRANDAZZI 1993, p. 219.

46. ZERUBAVEL 2005, pp. 15 sg. Sul calendario come «sito della memoria» ibidem, pp. 51-56. Cfr. anche J. ASSMANN 1997, pp. 30-33.

47. BASSO 1996, p. 7 (un’appassionante ricerca sul rapporto fra luoghi, nomi e memoria presso gli Apache occidentali). Sull’importanza dei luoghi come strumenti del ricordo cfr. anche J. ASSMANN 1997, pp. 33 sg.; A. ASSMANN 2002, pp. 331-80; ZERUBAVEL 2005, pp. 72-75. Molto rigida la posizione di WISEMAN 2014, contro l’importanza attribuita da Karl-Joachim Hölkeskamp ai «luoghi di memoria» (a patto che non vi siano «iscrizioni» a documentarla). La mancanza di antropologia, tipica nella tradizionale storiografia anglosassone, si fa in Wiseman particolarmente sentire.

48. Sul fenomeno della «iconatrophy» cfr. VANSINA 1985, p. 10 e passim; per un’applicazione di questa categoria al mondo antico, in particolare ai monumenti artistici, KEESLING 2005, pp. 41-79.

49. Su questo si veda in particolare HÖLKESKAMP 2014, che in una solida prospettiva teorica dà contemporaneamente conto delle numerose ricerche già svolte su questo terreno; e i saggi raccolti in LOAR, MURRAY, REBEGGIANI 2019.

50. BASSO 1996, p. 62; BACHTIN 1997, partic. pp. 231-33 e 390-405.

51. Cfr. F. COARELLI, s.v. «Casa Romuli», in LTUR I (1993), p. 241. Che poi i Romani non trovassero «charming» questo monumento e non si curassero della sua autenticità (tanto da rinnovarne la struttura ogni volta che ce ne fosse bisogno) è ovviamente un altro discorso, che pertiene al modo con cui i Romani guardavano in generale ai propri monumenta («the feeling was more moral than aesthetic»: JENKYNS 2014).

52. HALBWACHS 1988, pp. 53 sgg.

53. Livio, Ab urbe condita 1. 8. Cfr. C. F. GIULIANI, s.v. «Lacus Curtius», in LTUR III (1996), pp. 166 sg.

54. Cfr. F. COARELLI, s.v. «Tigillum sororium», in LTUR V (1999), pp. 74 sg.; GAROFALO 2020; MCCLINTOCK 2020b.

55. Cfr. F. COARELLI, s.v. «Clivus Orbius, Urbius», in LTUR I (1993), p. 283. Cosí come in altre occasioni, anche sul significato di questa divaricazione narrativa relativamente alla «memoria» del lacus ha certamente ragione HÖLKESKAMP 2014 sulle obiezioni di WISEMAN 2014.

56. Plinio, Naturalis historia 15, 77; cfr. Varrone, De lingua latina 5.55; Livio, Ab urbe condita 1.4.5; Paolo Diacono, Epitome, p. 333 Lindsay; una testimonianza esplicita in Tacito, Annales 13.58: «nello stesso anno (nel 58 d.C.) morirono alcuni rami e si inaridí il tronco dell’albero Ruminale che sorgeva nel Comizio: ottocentotrenta anni prima aveva protetto l’infanzia di Romolo e Remo e l’evento fu ritenuto un prodigio, finché la pianta buttò nuovamente».

57. Livio, Ab urbe condita 10.23.12.

58. NORENZAYAN 2014, pp. 160 sg. (sulle tracce di SPERBER 1996).

59. VANSINA 1985, p. 160.

60. Nel senso di VANSINA 1985, pp. 156 sg.

61. VANSINA 1985, pp. 156 sg. per la reciproca «incorporazione» fra tradizione orale e documenti scritti; sullo sviluppo della storiografia «indigena» fra oralità e scrittura utili osservazioni in BOD 2019, 341-46.

62. VIGLIETTI 2011, pp. 69-72. Già GRANDAZZI 1993, p. 224, contrapponeva «una storia … strettamente evenemenziale» a una «storia delle mentalità, delle istituzioni».

63. BETTINI 2018c.

64. Livio, Ab urbe condita, Praef. Quasi due millenni dopo, BLOCH 2009, pp. 50 sg. inviterà a interrogare le narrazioni storiche (nella fattispecie, le Vite dei santi) non su ciò che hanno intenzione di comunicarci, ma «sui modi di vivere o di pensare tipici delle epoche in cui furono scritte».

65. Per questo senso di vita cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis historia 38.7.35; 30.2.9 sg.: BETTINI 2018a, pp. 231 e 245 n. 48.

66. Cit. da SAHLINS 2019b, p. 259.

67. LEONARDIS 2019, pp. 67-74.

68. Varrone, De lingua latina 5.8.

Capitolo quarto.

1. ORESTANO 1967, p. 204 (corsivi nostri). Per quanto talora attribuiscano alla parola giuridica una dimensione magica che oggi stentiamo a condividere (infra par. 9), tutte le pagine di Orestano dedicate alla componente orale dello ius (189-217) sono illuminanti per comprendere la rilevanza di questa dimensione nella pratica giuridica a Roma.

2. È quanto emerge dal confronto fra la «giustizia» dello ius romano e la «purezza» dello yaoš avestico, nel senso di «avvicinamento alla perfezione primigenia», con entrambi i termini che «denotano gli stati ideali a cui la società aspira, ma che sono sempre minacciati e compromessi dalle innumerevoli violazioni (in-iuria, a-yaožda) … che richiedevano una vigilanza costante e un’azione periodica di riequilibrio da parte degli esperti autorevoli (iudex, yaoždatar), i quali sono addestrati e autorizzati a pronunziare azioni verbali assai significative …» (LINCOLN 2016). Cfr. MCCLINTOCK 2022.

3. MAGDELAIN 1978, pp. 18 sgg. Nella formazione delle leges la lettura ad alta voce costituisce un passaggio fondamentale sia che si tratti di leggi pubbliche, proposte da un magistrato e sancite dal popolo, sia che si tratti di atti giuridici unilaterali: comunemente indicati proprio dall’espressione leges dictae; cfr. HARRIS 1991, pp. 186-87; VALETTE-CAGNAC 1997, pp. 181-87; cfr. anche THOMAS 2011, p. 72.

4. Cfr. infra cap. V, par. 1.

5. Gaio, Institutiones 3.92. Sulle origini remote di questo istituto GERNET 1983, partic. pp. 209 sgg.; BENVENISTE 1976, vol. 2, p. 446.

6. PSLMA 33093a.

7. Gaio, Institutiones 3.93.2. Alla stessa esclusione il sordo andava soggetto anche quanto alla facoltà di postulare pro aliis, poiché «non si poteva permettere di postulare un giudizio a chi non era in grado di udire il decreto del pretore» (Ulpiano, Digesta 3.1.1.3). Ennesima dimostrazione della centralità occupata dalla «parola parlata» nell’azione giuridica romana.

8. Venuleio, Digesta 45.1.137: «Continuus actus stipulantis et promittentis esse debet (ut tamen aliquod momentum naturae intervenire possit) et comminus responderi stipulanti oportet»; sulla stipulazione orale dei contratti a Roma si veda WATSON 1965, pp. 1-9; su un possibile regime misto, HARRIS 1991, p. 185.

9. Gaio, Institutiones 3.93.

10. Cfr. DELL, s.v. «voco».

11. Su questo tema la bibliografia è ovviamente sterminata. Tra le ricostruzioni piú suggestive, quella avanzata a suo tempo da THOMAS 2011, pp. 69-84.

12. In GRAEBER e SAHLINS 2019, p. 24, si legge questa interessante parafrasi della celebre frase di Leopold Von Ranke: «La parte migliore della storia è atemporale e culturale: non “ciò che è realmente accaduto”, ma quello che (sappiamo che) è successo»; cfr. anche SAHLINS 2019b, pp. 259 sgg.

13. Livio, Ab urbe condita 1.19. Sul rapporto fra diritto e religione nei primordi dell’esperienza romana cfr. in particolare SCHIAVONE 2005, pp. 50 sgg. Sulla figura e il ruolo dei pontefici in generale il ricco lavoro di VAN HAEPEREN 2002; su questo testo di Livio, pp. 56-58.

14. Come intende fare la stella Arturo, nel prologo della Rudens di Plauto, proponendo di fornire a Iuppiter l’«elenco scritto» dei nomi di coloro che spergiurano e ricorrono a falsi testimoni («eorum referimus nomina exscripta ad Iovem»); mentre in altre tabulae la divinità tiene un analogo «elenco scritto» dei buoni («bonos in aliis tabulis exscriptos habet»): Plauto, Rudens 15 e 21. Cfr. ThLL, s.v. «exscribo» (V.2.1831.25 sgg.). Secondo Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 2.63.4, Numa, «avendo raccolto per iscritto (graphaîs) tutta la legislazione (nomothesían) relativa alle cose sacre, la divise in otto parti, quante erano le classi (symmoríai) dei riti religiosi».

15. Exsigno è un verbo molto raro: in Plauto, Trinummus 655, è usato metaforicamente da Lesbonico, l’adulescens troppo dedito ai piaceri, per dire che «sottoscrive in pieno», «senza condizioni», i rimproveri che l’amico gli rivolge. VAN HAEPEREN 2002 pensa che la narrazione di Livio preveda anche che una parte del sapere trasmesso ai pontefici da Numa fosse orale: non mi pare che il testo autorizzi a dirlo.

16. Spesso i traduttori liviani non hanno colto il significato specifico dei due participi (exscripta exsignataque): FOSTER 1919, p. 71: «to him he intrusted written directions, full and accurate, for performing the rites of worship»; BAYET e BAILLET 1940, p. 33: «et lui donna en dépôt une description très détaillée de toutes les cérémonies religeuses» (la traduzione è di Baillet); PERELLI 1974, pp. 165 sg.: «gli affidò la cura di tutte le prescrizioni sacre, descritte e notate punto per punto»; MORESCHINI e SCANDOLA 1982, p. 272: «gli affidò tutti i riti sacri dopo averne fatta una descrizione precisia e particolareggiata» (la traduzione è di Scandola).

17. Ampia documentazione comparativa in H. M. CHADWICK e N. K. CHADWICK 1968, pp. 276 sgg.

18. Sull’uso delle liste nelle culture orali in generale VANSINA 1985, pp. 178-82; per l’area indoeuropea in particolare WATKINS 1995, pp. 46 sg. Liste del genere sono spesso accompagnate da figure fonetiche connettive: ibidem, pp. 42 sgg. Cfr. Appendice 1.

19. GOODY 1981, pp. 89 sgg.

20. GOODY 1981 ha insistito con particolare enfasi sulla diversità, dal punto di vista cognitivo, che la parola scritta introdurrebbe nella creazione delle liste, e sulle conseguenze intellettuali e culturali che questa pratica comporterebbe; contra p. es. HALVERSON 1992, pp. 301-17.

21. Cfr. Appendice 1.

22. WARDE FOWLER 1911, p. 170.

23. SEVERI 2008.

24. Cosí OGILVIE 1965, p. 101, il cui splendido commento mostra talora il peso del tempo.

25. SEVERI 2008; cfr. anche ASSMANN 2006 pp. 63-121; PISANO 2019, 197-212 e passim (sul tema della “autorità senza autore”).

26. Plutarco, Numa 22.2: ekdidáxas dè toùs hiereîs éti zôn tà gegramména kaì pánton héxin [léxin Ziegler] te kaì gnómen energasámenos autoîs.

27. La congettura di Ziegler, léxis, per l’héxis tramandato nei codici, sembra molto probabile (è accettata in MANFREDINI e PICCIRILLI 1980, p. 184 e in MERIANI e GIANNATTASIO 1998, che riproduce il testo di Ziegler): in questo modo si ricrea infatti l’opposizione canonica fra «lettera» e «significato» (o «spirito») di un testo scritto (grámmata). Va detto peraltro che anche con héxis il significato del passo non cambierebbe di molto: alla gnóme dei grámmata verrebbe infatti contrapposto un piú generico «contenuto» o «condizione» del testo medesimo. FLACELIÈRE, CHAMBRY e JOUNEAUX 1957, p. es., conservavano il tradito héxis.

28. Fr. 9a Chassignet. Cfr. supra par. 3.

29. Sul valore di hósios come «ciò che è in regola con gli dèi», essendo stati rispettati i necessari rituali, cfr. JEANMAIRE 1945, pp. 66-89.

30. Il verbo energázomai designa spesso l’azione di chi influisce sulle facoltà spirituali di qualcuno: Senofonte, Memorabilia 4.4.15 (a proposito di Licurgo); 3.10.7 (lo scultore Clitone «insuffla» nelle sue statue l’apparenza della vita); Gorgia, Helenae encomium 14 (Elena che «instilla» desiderio erotico con la sua bellezza); etc. Per la scelta orale di Licurgo nella trasmissione delle leggi cfr. Plutarco, Lycurgus, 13.3 - 4.

31. Iscrizione conservata al British Museum, nr. inv. 1969, 0402.1: cfr. TRIBULATO 2017. La Grecia ci testimonia l’esistenza di mnémones «ricordatori», anche dotati di funzioni pubbliche, sulla cui figura e funzione civica si discute: HARTOG 2005, pp. 61-64; CARAWAN 2008.

32. VANSINA 1985, pp. 37 sg.

33. GOODY 1989, pp. 5, 301, etc.; ONG 1986b, p. 64.

34. LARIOS 2017, pp. 1-35. Che i Veda, cosí come molti testi religiosi indiani, siano stati trasmessi oralmente per oltre due millenni, è cosa fin troppo nota: utile peraltro la sintesi di GRAHAM 1993, pp. 67-77, in quanto collocata in prospettiva comparativa. Il caso dei Veda diverge da quello della ebraica Mishna (da una radice che significa «ripetizione») nella tradizione Tannaitica, in cui la trasmissione orale e la presenza delle scritture si intrecciano in un rapporto di interdipendenza che è stato piuttosto definito «interpenetration»: JAFFEE 2001, pp. 100-25.

35. Vale ancora l’analogia con la memorizzazione dei Veda (LARIOS 2017). Una traccia di questo insegnamento forse in Dionigi di Alicarnasso (Antiquitates Romanae 2.73.2), allorché afferma che i pontefici (collegio creato da Numa) «controllano che i loro ministri e gli assistenti di cui si servono per le funzioni cultuali non commettano infrazioni riguardo alle leggi sacre». Come già osservava FÖGEN 2005, p. 76, «il diritto tramandato oralmente si fonda sulla ripetizione e il medium per mantenerlo stabile è costituito dal rituale».

36. Paolo Diacono, Epitome, pp. 14.20-15.4 Lindsay. Esemplare la testimonianza di Cesare a proposito dei Druidi (De bello gallico 6.14.3), in cui si motiva la scelta di trasmettere oralmente la disciplina sacra sia per impedirne la diffusione sia per evitare di indebolire la fiducia nella memoria. Riflessioni di carattere generale e comparative nel bel volume di HELLER-ROAZEN 2013, pp. 100-7.

37. Cfr. DELL, s.v. «celeber».

38. Supra parr. 3 e 8.

39. Per i meccanismi di controllo sulle «performances» enunciative nelle società orali, VANSINA 1985, pp. 41 sg.; per i risvolti di discriminazione politica cfr. JAFFEE 2001, p. 10.

40. Cfr. LEONARDIS 2019, pp. 68-71, 113-19.

41. BRETONE 1994, pp. 15 sgg. Il responso del giureconsulto ha carattere assertivo: Seneca, De beneficiis 5.19.8; Epistulae ad Lucilium 24.94.27: BRETONE, ibidem.

42. Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 2.73.2. Analogamente in Plutarco, Numa 9.8, al pontefice massimo viene attribuito la qualifica di exegetés e di prophétes, oltre che di sovraintendente al culto pubblico e privato. Il termine exegetaí ricorre altre cinque volte in Dionigi, sempre nella locuzione tôn hierôn exegetaí: 3.67.3; 8.56.4; 8.89.4; 9.40.1; 9.40.3. Nel passo analizzato sopra, la coordinazione con prophétai enfatizza il carattere specificamente «orale» della esposizione/interpretazione delle norme data dai pontefici. Cfr. anche VAN HAEPEREN 2002, pp. 59-64.

43. Cfr. SVENBRO 1988, pp. 130-36; cfr. OLIVER 1950, pp. 24-33; per Apollo exegetés cfr. DETIENNE 1998, pp. 87-89, 169-72. Per i Mazaceni Strabone, Geographica, 12.2.9.

44. Secondo la bella formulazione di GRAHAM 1993, p. 68.

45. Su questo personaggio e la ricostruzione della vicenda cfr. F. MÜNZER, s.v. «Q. Petillius Spurinus», in Pauly-Wissowa XIX.1 (1937), coll. 1150 sg. Si tratta di Q. Petillius Spurinus, pretore nel 186.

46. WILLI 1998, p. 146. Il solo Livio (Ab urbe condita 40.29.6) sembra insinuare il sospetto che si trattasse di un falso, attraverso l’espressione non integros modo sed recentissima specie con cui descrive i rotoli: ma può trattarsi anche di una semplice sottolineatura della «freschezza» (sorprendente) che caratterizzava i libri al momento della loro scoperta; la stessa che Cassio Hemina aveva cercato dettagliatamente di giustificare.

47. Cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis historia 13.84-88 (= Cassio Hemina, fr. 40 Chassignet; Calpurnio Pisone, fr. 13 Chassignet; Sempronio Tuditano, fr. 7 Chassignet; Valerio Anziate, frr. 9b e 16 Chassignet; Varrone, Antiquitates rerum humanarum 7); Varrone, Logistoricus Curio sive de cultu deorum, fr. 3, p. 36 Cardauns (= Agostino, De civitate Dei 7.34); Livio, Ab urbe condita 40.29; Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri 1.1.12; Lattanzio, Divinae institutiones 1.22.

48. La discussione su questo episodio è stata ovviamente assai vasta. Si veda SANTINI 1995, pp. 185-95; WILLI 1998; inoltre le ossservazioni di BECK e WALTER 2001, pp. 276-78, sulle tracce di ROSEN 1985; GRUEN 1990; THOMAS 2011, pp. 73 sgg. Cfr. LENTANO 2012, pp. 25-39 (ampia documentazione alle pp. 152-53).

49. In Agostino, De civitate Dei 7.34 = Varrone, Logistoricus Curio sive de cultu deorum, fr. 3, p. 36 Cardauns.

50. Cosí anche WILLI 1998, p. 146.

51. Che la scelta del Senato fosse dettata non tanto dalla «pericolosità» degli scritti, quanto dalla loro «non divulgabilità» argomenta giustamente DILIBERTO 2013.

52. Fr. 15 Chassignet = Plinio il Vecchio, Naturalis historia 28.14; 2.140; cfr. Livio, Ab urbe condita 1.31.5 (che definisce l’operato del re con l’espressione prava religione). Sull’episodio cfr. THOMAS 2011, p. 74.

53. Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri 1.1.13; Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 4.62.4, riporta lo stesso episodio ma lo riferisce ai «libri» contenenti gli oracoli sibillini: cfr DILIBERTO 2013.

54. Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 3.36.4. La vicenda è narrata in modo simile da Livio, Ab urbe condita 1.32.1, secondo cui le norme di Numa, contenute nei commentarii regii, sarebbero state trascritte in album: sui commentarii regii cfr. TONDO 1973, pp. 21 sgg.; anche su questo episodio cfr. THOMAS 2011, pp. 74 sg.

55. Sullo specifico uso del bronzo come supporto scrittorio ufficiale a Roma cfr. WILLIAMSON 1987 (che attribuirebbe addirittura un valore sacro alla scelta di questo metallo).

56. La figura e il nome di questo personaggio sono avvolti da un «alone di nebulosa incertezza» (TONDO 1973, p. 32): se Dionigi menziona in questo passo un Gaius Papirius, piú avanti (Antiquitates Romanae 5.1.4) ricorda invece un Manius Papirius che ricoprí la carica di rex sacrorum; di un Sextus Papirius, che avrebbe raccolto le leges regiae dando loro forma, ci parla invece Pomponio nel suo Encheiridion, Digesta 1.2.2.2; mentre lo stesso (ibidem 1.2.2.36) lo cita piú avanti come Publius Papirius. Sulla complessa e insolubile questione si può rinviare all’analisi di TONDO 1973, pp. 32 sgg. (ignorando perlomeno l’insostenibile correzione da lui proposta al testo citato di Pomponio, 1.2.2.36); e soprattutto all’ampia discussione, con edizione di testimonia e frammenti, di MANZO 2019. Cfr. anche THOMAS 2011, pp. 70 sg.

57. Su questa vicenda di «libri» composti e scomparsi cfr. in particolare MCCLINTOCK 2020c.

58. «À leur droit, les romains ne semblent vouloir reconnaître aucune origine; ils ne lui confèrent le patronage d’aucun fondateur désigné»: THOMAS 2011, p. 68. Infra cap. XI, par. 1, mostreremo peraltro che in realtà non è cosí.

59. Pomponio, Digesta 1.2.1.

60. Servio, ad Aeneidem 1.737; Plinio, Naturalis historia 14.89 sg. Cfr. Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 2.14.1; 2.29.1. Cfr. MCCLINTOCK 2022. Secondo Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri, 6.3.89, Mecennio non venne né punito né accusato.

61. Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 10.1.2 : «a quel tempo presso i Romani non tutte le leggi erano scritte»; anche secondo Dionigi «all’inizio» erano i re ad amministrare la giustizia, e le loro decisioni erano legge.

62. GOODY 1988, pp. 104, 165; ID. 1989, p. 158: in una cultura che non scrive «la parola degli anziani costituisce la principale sorgente delle informazioni»; per i LoDagaa (popolazione presente nell’area nordoccidentale del Ghana) la conoscenza tradizionale è «discorso»: «tenkouri yl», letteralmente «il discorso del paese vecchio», quello degli anziani. L’idea di «tenkouri yl» è legata a quella di «tenkouri sor», il cammino delle origini: tale strada esiste davvero ed è quella che porta al «paese antico», ossia il sito dal quale nel passato è venuta ogni singola parte del clan.

63. Tacito, Annales 3.26; Digesta 1.2.2.

64. Sull’«alone di incertezza» che avvolge questa figura, cfr. supra n. 56. Secondo TONDO 1973, p. 33, la qualifica di civile con cui Pomponio accompagna la menzione dello ius Papirianum sarebbe in realtà frutto di un arbitrio del giurista, suggerito dall’analogia con lo ius civile Flavianum dallo stesso menzionato al paragrafo 32.

65. Pomponio confonde manifestamente Tarquinio Prisco con suo figlio il Superbo.

66. GOODY 1988, pp. 15, 193, 199; EPSTEIN 1967, p. 210.

67. GOODY 1988, pp. 158 sg., 166.

68. ALLOTT, EPSTEIN E GLUCKMAN 1969. Ci sembra perciò che affermazioni anche recentissime quali «as a source of law, custom always preserves the laws of the past» ovvero «custom is the result of blind historical developements», peraltro avanzate senza riferimento ad alcuna documentazione etnografica, rispondano semplicemente a vecchi pregiudizi (AMUNÁTEGUI PERELLÓ 2020, p. 59).

69. BETTINI 2000.

70. MALINOWSKI 1976, pp. 47, 97.

71. MALINOWSKI 1976, p. 91.

72. Pomponio, Encheiridion, Digesta 1.2.2. D’IPPOLITO 1988; cfr. FÖGEN 2005, pp. 69 sg.

73. Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 10.57.5.

74. Livio, Ab urbe condita 3.34.

75. FÖGEN 2005, pp. 69 sg.; SCHIAVONE 2005, pp. 83 sgg. Sulle XII Tavole possediamo oggi i due volumi curati da CURSI 2018.

76. Su questo dubbio corpus di testi (o piuttosto «menagerie composed of very different kinds of animals», come lo definisce CRAWFORD 1996, vol. 2, pp. 561-64) la letteratura è ovviamente vastissima e non ci riguarda qui direttamente: TONDO 1973, pp. 11 sgg.; FIORI 1996, pp. 182 sgg.; SANTALUCIA 1998, pp. 2 sgg.; FRANCIOSI 2003. Contributi recenti in BELL e DU PLESSIS 2020, alcuni utili, altri no (perché certo è difficile dare credito a chi ritiene Macrobio un «poeta» e mostra di fraintendere i testi di cui vorrebbe fornire l’interpretazione, salvo accusare il povero Pomponio di «inaccuracy»: davvero ironico).

77. Livio, Ab urbe condita 3.34; Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 12.26; 10.57.5; Pomponio, Encheiridion, Digesta, 1.2.2.4. Sulle XII Tavole come «testo che dal punto di vista di uno studioso dell’alfabetismo si presenta piú problematico di qualsiasi altro dei precedenti [le prime iscrizioni romane che ci sono pervenute]», cfr. le considerazioni di HARRIS 1991, pp. 172-76.

78. FÖGEN 2005, pp. 74 sgg.

79. Livio, Ab urbe condita 3.34.

80. E. WILL, s.v. «Dei Consentes», in LIMC III.1 (1986), pp. 658-60; LONG 1987, pp. 235-43; F. GRAF, s.v. «Consentes Dei», in Der Neue Pauly III (1997), coll. 129 sg.

81. Varrone, De re rustica 1.4-7.

82. OLRIK 1973, p. 222; USENER 1993, pp. 199 sg.

83. Livio, Ab urbe condita 1.8. Sono i ter quattuor (tre volte quattro) corpora sancta di Ennio, Annales 88 Skutsch. A Livio sembra comunque preferibile una derivazione dai littori della dodecapoli etrusca, uno per città.

84. Livio, Ab urbe condita 3.34: «volgatur deinde rumor duas deesse tabulas quibus adiectis absolvi posse velut corpus omnis Romani iuris».

85. È questo l’unico caso in cui a Roma un «numero» ha dato il nome a una legge: normalmente infatti esse vengono contrassegnate con quello dei proponenti, tribuni della plebe, consoli e in seguito imperatori (FÖGEN 2005, p. 82). Il fatto è che «dodici» non è un numero qualsiasi e dunque poteva ben fornire il nome delle leggi piú importanti che la tradizione giuridica romana potesse e volesse vantare.

86. Plutarco, Numa 18 sg.

87. Plutarco, Numa 13.

88. Cicerone, De officiis 2.42; BRETONE 1987, p. 38 n. 3; D’IPPOLITO 1988, p. 404.

89. GOODY 1988, p. 166: con l’avvento della scrittura «la consuetudine diventa ciò che la gente sa e fa; il diritto e la legge ciò che trova sistemazione nel “codice”»; ID. 1989, p. 118.

90. Cosí invece OGILVIE 1965, pp. 451 sg.

91. Intendiamo «discorso» nel senso che gli ha attribuito Émile Benveniste, ossia il fenomeno che si realizza allorché la langue saussuriana, intesa come sistema di regole, viene «attualizzata nelle situazioni di discorso, in cui emergono le manifestazioni della soggettività, cioè della capacità dell’individuo di mettersi come soggetto nel / e mediante l’atto dell’enunciazione linguistica» (MANETTI 2008, p. 2).

92. Livio, Ab urbe condita 3.44.12: FÖGEN 2005, pp. 93 sgg.

93. È probabile che in questo caso ci si trovi di fronte al riuso di un motivo tipico: anche Caronda, il legislatore catanese, finisce vittima delle stesse leggi da lui promulgate (Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 12.19); secondo Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri 8.6.3, Licinio Stolone «fu il primo a essere condannato in base alla sua stessa legge»: avendone infatti promulgato una sui limiti della proprietà fondiaria (367 a.C.), secondo cui non era lecito possedere piú di cinquecento iugeri di terreno, ne procurò per se mille, e per questo fu condannato. Tutto il capitolo di Valerio Massimo (8.6) raccoglie exempla relativi a «coloro che commisero loro stessi le colpe che avevano punito in altri».

94. Euripide, Supplices 433 sg.

95. Per le «storie mitiche» connesse alla nascita di alcune importanti istituzioni romane, cfr. MCCLINTOCK 2020b; per la vicenda di Virginia in particolare, DE SANCTIS 2020. In passato NOAILLES 1942 e OGILVIE 1962 avevano avanzato la possibilità che alcune delle disposizioni delle XII Tavole fossero accompagnate da «esempi» per renderle piú intellegibili. Teoria non suffragata da alcun elemento, naturalmente, e che (in quanto estranea agli studi sulla memoria sociale condotti in seguito da M. Halbwachs e J. Assmann) tentava ancora di spiegare i fenomeni di tradizione narrativa sulla base di ipotesi esclusivamente testuali. Nel caso di Virginia, a questa visione della tradizione sembra invece dare ancora credito AMUNÁTEGUI PERELLÓ 2020, p. 70.

96. Sull’importanza dell’episodio di Virginia per la «comunicazione» del diritto cfr. le belle riflessioni di FÖGEN 2005, pp. 97-99.

97. Su questo processo interpretativo THOMAS 2011, pp. 73 sg; SCHIAVONE 2005, pp. 91 sgg.

98. Platone, Phaedrus 275d sgg.

99. Cicerone, Pro Murena 25. Sulle ambivalenze di verbum in latino cfr. supra cap. 1, par. 2.

100. Sulla specificità del linguaggio giuridico MEYER 2004; sulla «primogenitura» giuridica nell’uso di certi vocaboli MCCLINTOCK 2020d, pp. 60-71 (a proposito di furiosus).

101. GOODY 1988, pp. 45, 150, 165, 188; etc.; ID. 1989, p. 8; FÖGEN 2005, pp. 76 sg.

102. FÖGEN 2005, p. 62. Scarsa attendibilità viene attribuita alla loro presunta affissione nel foro di Cartagine nel III secolo, secondo la testimonianza di Cipriano, Ad Donatum 10: cfr. CRAWFORD 1996, vol. 2, p. 569; ROMANO 2005, p. 493 n. 3. Si tratterebbe comunque di una testimonianza tarda e ben lontana dal periodo che ci interessa.

103. Livio, Ab urbe condita 3.57.10; Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 10.57.6; Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 12.26.1 (bronzo); Pomponio, Digesta 1.2.2.4 (avorio). Che si fosse trattato di supporti lignei si potrebbe inferire dal fatto che, a proposito della prima redazione delle leggi, in dieci tavole, Livio (3.34.1) e Dionigi (10.57.5) parlano rispettivamente di tabulae e déltoi, senza altra specificazione; mentre Porfirione, a Orazio, Ars poetica 396, nota: «aereis enim tabulis antiqui non sunt usi, sed roboreis; in has incidebant leges unde adhuc Athenis legum tabulae axones vocantur». Per una storia del lungo dibattito che si è svolto tra i romanisti a proposito del materiale su cui le leggi sarebbero state fissate, e in particolare sulla testimonianza di Pomponio, che registra la natura eborea (da Scaliger già corretto in roborea) del supporto, cfr. MARAGNO 2012. Che Pomponio avesse visto una edizione celebrativa delle tavole, come tale incisa sull’avorio, in sintonia con una qualche sopravvivenza tardo-antica delle medesime, è ipotesi interessante di Maragno sulla scorta di Cujas.

104. FÖGEN 2005, pp. 59 sg.

105. Livio, Ab urbe condita 6.1.9 sg.

106. Cf. Livio, Ab urbe condita 9.46.5 («ius civile … repositum … in penetralibus pontificum»); Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri 2.5.2. ORESTANO 1967, p. 159; D’IPPOLITO 1988, p. 406.

107. Pomponio, Digesta 1.2.2.38. Sulla natura di questa edizione delle Tabulae realizzata da Sesto Elio la discussione è infinita e le congetture (data la scarsità delle testimonianze) sono molteplici. Sui Tripertita come massimo limite (temporale e testuale) cui può giungere la moderna ricostruzione delle tabulae cfr. GUARINO 1991; AGNATI 2002, pp. 14 sgg.; D’IPPOLITO 1988 propone una datazione anteriore al 200 a.C. Ancora nell’Encheiridion Pomponio (Digesta 1.2.2.7) riferisce che Sesto Elio «compose altre azioni e consegnò al popolo il libro chiamato ius Aelianum». Difficile stabilire se si trattasse o meno delle stesse «azioni» contenute nei Tripertita: BOTTIGLIERI et al. 2019, pp. 19 sgg. Discussione, testimonianze e frammenti relativi a Sesto Elio in ibidem, pp. 297-321; vedi anche SCHIAVONE 2005, pp. 102 sgg.; DILIBERTO 2018.

108. Cfr. DILIBERTO 1997; ROMANO 2005, spec. pp. 455 sg. FÖGEN 2005, pp. 62 sgg. Ai dati raccolti con magistrale accuratezza dalla Romano, e al ruolo che la studiosa attribuisce alle XII Tavole all’interno della cultura romana, ci siamo in gran parte ispirati nelle pagine che seguono.

109. Cicerone, De oratore 1.193.

110. Cicerone, De oratore 2.354; Orator 9. Cfr. ThLL, s.v. «effigies» (V.2.182.24 sgg.).

111. FÖGEN 2005, p. 63.

112. Su questo rimandiamo ancora all’eccellente ricerca di ROMANO 2005.

113. XII tabulae 2.2. ROMANO 2005. In realtà la questione è un po’ piú intricata di come spesso viene presentata. Lo «status dies cum hoste» è citato testualmente da Cicerone in De Officiis 1.12.37. La collocazione del frammento all’interno della Tabula 2.2 è stata fatta sulla base di Festo De verborum significatu 414, 36 sgg. Lindsay (s.v. «Status dies <cum hoste>»), che per spiegare la natura del giorno in cui ci si incontra in giudizio con uno straniero cita proprio il verso di apertura del Curculio. La citazione plautina aggiunge invero «condictus» rispetto alla versione ciceroniana del versetto delle XII Tavole. Un giorno cioè «concordato» con lo straniero. Sulla base di Gellio, Noctes Atticae, 16.4.4, CANNATA 2017, pp. 36-40, ha sostenuto che piuttosto che riferirsi al versetto delle XII Tavole, Plauto stesse citando il giuramento con cui, a partire da un certo giorno, il coscritto si metteva a disposizione del console. Il testo del giuramento conteneva una serie di giustificazioni tra cui lo «status condictusve dies cum hoste». Il «condictus» dell’eccezione in effetti collima con il verso plautino e secondo Cannata il -ve potrebbe essere stato eliminato da Plauto per ragioni metriche. Bisogna chiedersi tuttavia se in apertura del Curculio fosse piú di impatto una citazione delle XII Tavole o il giuramento del coscritto. Nulla esclude poi che le giustificazioni del giuramento che includono anche il «morbus sonticus» (cfr. infra) fossero a loro volta modellate sulle XII Tavole, patrimonio orale comune dei Romani.

114. Nevio comico, Ex incertis fabulis 128 Ribbeck3.

115. SIGMUND FREUD, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in MUSATTI 1972, pp. 75-77, 178-80; etc.

116. ROMANO 2005, p. 458, sulle tracce di Havelock, ha preferito usare la locuzione «enciclopedia tribale». Ancora il Crasso di Cicerone (De oratore 1.192) aveva affermato: «tutto quanto ciò [il diritto civile] sta davanti agli occhi, si applica nell’uso quotidiano, nelle relazioni sociali e nel foro».

117. De legibus 2.23.59: «discebamus enim pueri XII ut carmen necessarium, quas iam nemo discit». Cfr. anche ibidem 2.4.9: «a parvis enim, Quinte, didicimus “si in ius vocat” atque eiusmodi leges alias nominare».

118. Sul fatto che la pratica scolastica ricordata da Cicerone implicasse una conoscenza piuttosto capillare delle XII Tavole da parte dei cittadini romani, insiste giustamente, e con molti argomenti, DILIBERTO 2012.

119. Cicerone, De oratore 1.245. «La retorica trionfa in misura schiacciante sulla legge, è questo il messaggio di Cicerone… la retorica dice quello che la legge è: un espediente mnemonico, un argomento»: FÖGEN 2012, p. 55.

120. Festo, De verborum significatu, pp. 158.19 sgg. Lindsay (= Opillus Aurelius, Gramm. Rom. Fr. 9 Funaioli); ibidem, pp. 158.22 sgg. (= Gallus Aelius, Gramm. Rom. Fr. 10 Funaioli).

121. Una disamina attenta e completa di tutte le sfere sonore ricoperte dal carmen in PIERRE 2016, un lavoro che apre numerose nuove prospettive su questa polisemica categoria. Cfr. anche HABINEK 2005, partic. pp. 24 sg., 74-76.

122. Cfr. infra cap. XIV, par. 6.

123. Catone, Carmen de moribus, frr. 1-3 Jordan (= Gellio, Noctes Atticae 11.2.1 sgg.); Appio Claudio, fr. 3 Morel (= Pseudo-Sallustio, Epistula ad Caesarem de republica 1.1.2); Livio, Ab urbe condita 1.26. Gli innumerevoli tentativi di ridurre i frammenti del Carmen catoniano a forma metrica erano già elencati (e respinti) da MARMORALE 1949, pp. 158 sgg.

124. Per la categoria «discorso di consumo» vs. «discorso di riuso» si veda LAUSBERG 1969, pp. 15-17. Sul carmen come «émission d’une sonorité fixée» cfr. PIERRE 2016, pp. 53 sg. («un carmen peut être répété indéfiniment a l’idéntique»).

125. Su questo cfr. infra cap. XIV, par. 7.

126. Un accenno in SCHIAVONE 2005, p. 84. Cfr. infra cap. XIV.

127. Eliano, Varia historia, 2.39. Cfr. GIORDANO 2004. La Grecia conosce numerosi altri casi in cui le leggi venivano «cantate» – ad esempio quelle di Caronda ad Atene e quelle di Licurgo a Sparta – o comunque messe in versi (Solone): molto accurata la ricostruzione di CAMASSA 1996; si veda anche FÖGEN 2012, secondo la quale la scelta di dare forma poetica o musicale alle leggi greche non avrebbe inteso facilitarne la memorizzazione, ma dar loro quel «fondamento» – da sempre agognato dai legislatori – che in realtà solo l’arte è in grado di fornire.

128. DILIBERTO 2012.

129. Cfr. anche HARRIS 1991, p. 173.

130. FÖGEN 2005, pp. 66 sg.: «non dovremmo dimenticare che si tratta di un “testo di memoria” dei Romani».

131. Pomponio, Encheiridion, Digesta 1.2.2.6. Sappiamo peraltro che la legis actio per condictionem venne introdotta fra il 230 e il 150 a.C. dalla lex Silia e dalla Lex Calpurnia: TALAMANCA 1989, p. 133.

132. L’aggettivo sollemnis è regolarmente usato per designare pratiche o azioni realizzate secondo regole fisse, ripetute, sancite dalla tradizione.

133. Gaio, Institutiones 4.11.

134. Gaio, Institutiones 4.29: «Ex omnibus autem istis causis certis verbis pignus capiebatur, et ob id plerisque placebat hanc quoque actionem legis actionem esse»; 4.83: «cognitor autem certis verbis in litem coram adversario substituitur. nam actor ita cognitorem dat»; Varrone, De lingua latina 6.53: «hinc fasti dies, quibus verba certa legitima sine piaculo praetoribus licet fari»; Cicerone, De natura deorum 2.52: «imperatores etiam se ipsos dis inmortalibus capite velato verbis certis pro re publica devoverent»; Paolo Diacono, Epitome 46.12: «minora templa fiunt ab auguribus cum loca aliqua tabulis aut linteis sepiuntur, ne uno amplius ostio pateant, certis verbis definita».

135. Cicerone, De oratore 1.184; Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri 2.5.2; Festo, De verborum significatu, pp. 200.2 sgg. Lindsay: «… pontifex maximus, quod iudex atque arbiter habetur rerum divinarum humanarumque»; Cicerone, De legibus 2.19.47: «“sae<pe>” inquit Publi filius “ex patre audivi, pontificem bonum neminem esse, nisi qui ius civile cognosset”»; De oratore 3.33.136; Brutus 42.156; etc. SCHIAVONE 2005, pp. 67 sg.; LEONARDIS 2019, pp. 109-13.

136. Pomponio, Encheiridion, Digesta 1.2.2.7; 1.2.2.36. Cfr. Nepoziano, Epitoma 2.5.2: «verum Cn. Flavius scriba, natus a patre libertino, formulas sacras verbis apertioribus expedivit et in notitiam populi publicavit». Appio è ricordato come «colui che per primo scrisse azioni de usurpationibus». Cfr. BOTTIGLIERI et al. 2019, pp. 12 sg., 96. Per il «furto del diritto» da parte di Gneo Flavio cfr. MCCLINTOCK 2020c

137. SCHIAVONE 2005, p. 98 stabilisce un nesso fra «oralità aristocratica» e «segretezza pontificale»; sulla rottura di questo nesso operata in seguito dall’avvento massiccio della scrittura si veda ibidem, pp. 134-51 (Oralità e scrittura).

138. Gaio, Institutiones 4.16 sgg.; TALAMANCA 1989, pp. 132 sgg.

139. Sul deittico cfr. infra cap. V, par. 4 e n. 102 cap. V.

140. Gaio, Institutiones 4.16-17a.

141. FÖGEN 2005, p. 135 («dizione stereotipa»: «der feststehende Wortlaut der Formeln» nell’edizione tedesca – vedi EAD. 2002, p. 140 –, «la lettera assodata delle formule» nella traduzione italiana); SCHIAVONE 2005, p. 68: i fatti «apparivano soltanto nelle costruzioni linguistiche e gestuali create per riprodurli».

142. Gaio, Institutiones 4.11.

143. GOODY 1989, pp. 180, 195; ONG 1986b, pp. 62 sgg.; una piú elaborata teoria di «cueing» e «scanning» in VANSINA 1985, p. 43.

144. Infra cap. XIV, par. 5.

145. Sulla gestualità nella procedura legale romana CORBEILL 2005, che distingue fra formal e formality; MILANI 2017.

146. Gaio, Institutiones, 16 e 21. «Affermo che questo schiavo è mio per diritto dei Quiriti … Poiché tu hai rivendicato ingiustamente … Affermo che questo schiavo è mio per diritto dei Quiriti, in conformità della sua condizione giuridica … Dico che devi darmi [diecimila sesterzi]. Ti chiedo se tu lo ammetti o lo neghi … Nego di doverli dare … Poiché tu neghi … Quest’uomo … ecco ti impongo la vindicta … Metto la mano su di te». Numerose sono state le speculazioni sull’origine e la formazione di questi formulari gestuali e verbali: una sintesi in BOTTIGLIERI et al. 2019, pp. 24 sg.

147. Cicerone, Pro Murena 24-26.

148. Cicerone, Pro Murena 26: «praetor … ei quoque carmen compositum est». Sia pure in prospettiva diversa dalla nostra, questo brano ciceroniano è finemente analizzato da PIERRE 2016, pp. 86 sgg. (ma la formula uti lingua nuncupassit non è usata qui da Cicerone per descrivere l’enunciato/carmen, ma come esempio tipico di linguaggio delle XII Tavole: è la citazione di un caso, non la descrizione di una modalità del dire).

149. Cicerone, De oratore 1.236. Cfr. PIERRE 2016, pp. 82 sg.

150. Cicerone, Pro Murena 25. Si veda supra cap. IV, par. 5. Il fatto che Cicerone nomini proprio le «sillabe» come oggetto della cura che il giureconsulto dedica al linguaggio e alla sua interpretazione, non è casuale. Nella scrittura antica cosí come nel suo apprendimento – sia in Grecia, che a Roma che fra i Veneti (Reitia) – la sillaba costituiva infatti un elemento fondamentale, cui veniva dedicata particolare attenzione da parte degli insegnanti: il passaggio era infatti litterae - syllabae - verba. Cfr. MCDONALD 2019.

151. Viene in mente il nomodós, il «cantore di leggi» assunto dagli abitanti di Mazaka come exegetés delle leggi di Caronda, che Strabone (cfr. supra) assimilava ai giureconsulti romani (hoi pará Rhomáiois nomikói).

152. Pomponio, Encheiridion, Digesta 1.2.2.7. MCCLINTOCK 2020c, pp. 217-35.

153. MCCLINTOCK. 2020c.

154. Quest’ultima espressione, che con tanta facilità giustappone magia e religione, è in realtà piuttosto infelice: se non altro dal momento che già MAUSS 1965, pp. 16 sgg., nella sua Teoria generale della magia, aveva sufficientemente delineato i tratti distintivi che oppongono sul piano sociale la sfera della «magia» a quella della «religione».

155. In questa «recita di formulari vincolanti» riscontrava «arcaiche suggestioni magiche» p. es. BERNARDI 1988, pp. 422 sg.; nel diritto piú arcaico, presenze magico-religiose individua anche SCHIAVONE 2005, pp. 53, 55, 58, 66, 68, etc. Anche MAGDELAIN 1990, pp. 34-48 insisteva sulla «efficacité immediate» propria dello ius in quanto dotato di forza propria, e avanzava l’ipotesi che la condanna del malum carmen, cosí come compare nelle XII Tavole, fosse dovuta al desiderio di prevenire il pericolo causato da forme di enunciazione che avevano la stessa efficacia di quelle giuridiche (cfr. anche PIERRE 2016, pp. 82 sg.). Per questa impostazione si può in realtà risalire a HUVELIN 1905-06: in proposito si vedano già le cautele di GERNET 1983, pp. 208 sgg., che metteva comunque in «continuità» la «forza immanente al rito religioso» e la «forza» che si esprime nel diritto, in cui resisterebbero le tracce del «misticismo» delle origini; e a proposito delle actiones evocava una «virtú rituale che fu all’inizio di tipo magico religioso» (p. 214).

156. Rimandiamo a TAMBIAH 1995b, p. 44. L’affermazione di WATKINS 1995, p. 91 secondo cui «without the proper form ritual fails, prayer is useless» è valida solo se si accetta che sia vero anche il contrario: ossia che senza un adeguato contesto rituale la formula a sua volta fallisce. Per la concezione tradizionale del «potere della parola» cfr. il classico lavoro SEPPILLI 1971 (peraltro ancora ricchissimo di dati e di spunti); in territorio romano SALVADORE 1987.

157. BETTINI 2018b.

158. Plinio il Vecchio, Naturalis historia 28.10 sgg.

159. Per l’uso di vita nel senso di «cultura diffusa», «opinione comune», cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis historia 28.35; cfr. anche 30.10.

160. Sui carmina ricordati nelle XII Tavole cfr. PIERRE 2016, 58-63.

161. Come l’arseverse ricordato da Paolo Diacono, Epitome, p. 16 sgg. Lindsay (che lo riteneva composto da due parole etrusche).

162. MAUSS 1965, p. 13 (corsivo nostro).

163. CIRESE 1973, pp. 43 sg.; DI FAZIO 2008.

164. Sull’importanza della eccezionalità del linguaggio giuridico, rispetto a quello quotidiano, per connotare la specificità di questo tipo di discorso, si veda in particolare la documentazione di MEYER 2004; sulla necessità che i rituali costituiscano eventi fuori dall’ordinario cfr. TAMBIAH 1995c. Per quanto concerne invece gli specifici canoni della «scrittura» giuridica in quanto letteratura cfr. MANTOVANI 2018, partic. pp. 47-78.

165. Cfr infra cap. IX, par. 3.

166. Digesta 3.1.1.5. Sulle «insegne» come strumento di costruzione dell’autorità LINCOLN 2000, pp. 10-13.

167. Digesta 1.1.1.11. Cit. da DE ANGELIS 2010.

168. Sulle vicende spaziali del tribunal si può vedere P. VERDUCHI, Tribunal Praetoris, LTUR V (1999), pp. 88-89; SANTORO 1991, pp. 300 sgg. Dal 184 a.C., con la costruzione della basilica Porcia voluta da Catone, lo spazio in cui il pretore amministra la giustizia inizia a identificarsi con quello della basilica stessa, anche se mai con una sola basilica.

169. Seguiamo DE ANGELIS 2010. Tutti i saggi raccolti nel volume aprono una straordinaria pluralità di prospettive sui «luoghi della giustizia» a Roma.

170. Cfr. TAMBIAH 1995c, che individua in formalismo (convenzionalità), stereotipia (rigidità), condensazione (fusione) e ridondanza (ripetizione) i tratti che contraddistinguono in generale l’azione rituale. Inutilmente complesso ci è parso l’elenco definito da SNOEK 2006: «multi-medial, creating/organizing society/social groups, creating change/transition, purposeful (for the participants), repeated, standardized; rehearsed, redundant, repetitive, etc. etc.». Sulla eleganza cerimoniale che caratterizzava «la maggior parte degli obblighi legali» presso i Melanesiani cfr. MALINOWSKI 1976: «l’individuo» vi era vincolato «mediante un appello alla sua vanità e al suo amor proprio, al suo amore per l’autogratificazione mediante l’esibizione». Nella piú ampia prospettiva che abbiamo esposto, la rivendicazione della formality (contro il semplice carattere formal) della gestualità romana fatta da CORBEILL 2005, resta corretta ma del tutto insufficiente.

171. Ci ispiriamo qui alla nozione di «embedded context» elaborata da HANKS 2006, tramite cui si designano «le relazioni che si stabiliscono tra quegli aspetti del contesto che rimandano al quadro del discorso, alla sua focalizzazione o al suo radicamento in contesti piú ampi»; SEVERI 2018, pp. 135 sgg.

172. Sulla ripetizione e la ridondanza come strumenti usati per produrre efficacia rituale, procedimento peraltro ben noto agli studi antropologici, cfr. anche BAUDY 1998, pp. 67 sgg., 77 sgg.

173. Se ci si riflette solo un momento, anche l’odierno processo, nei nostri tribunali, prevede una ritualità la cui efficacia nessuno vorrebbe definire «magica».

174. Gaio, Institutiones 4.30; Gellio, Noctes Atticae 16.10.8. A proposito della discordanza fra le testimonianze di Gaio e Gellio (su cui molto si è discusso) cfr. TOMULESCU 1971, il quale conclude che la lex Aebutia «partially abrogated» le legis actiones. Cfr. anche ARANGIO-RUIZ 2012, pp. 123 sgg.

175. ARANGIO-RUIZ 2012, pp. 123 sgg.; TALAMANCA 1989, pp. 137 sgg.; SCHIAVONE 2005, pp. 115 sgg.

176. TALAMANCA 1989, pp. 140 sg. L’elenco delle testimonianze è accuratamente selezionato e raccolto in ThLL, s.v. «formula» VI.1.1116.21 sgg.: «[formula] duas potissimas habet notiones: significat et exemplar vel schêma in albo propositum, quo utantur litigaturi (“Formelblankett, Formelschema”) … et quod secundum hoc exemplar suppletis nominibus rebusque ibi omissis instructum litigantibus in usu est (“konkrete Streiturkunde”)». Nell’uso della formula rispetto alle legis actiones SCHIAVONE 2005, p. 129 contrappone «la sostanza dei rapporti» con il loro «travestimento simbolico».

177. Virgilio, Aeneis 12.11 sgg. Servio, ad Aeneidem 12.13.

178. Plauto, Aulularia 515; Gaio, Institutiones 3.143; 162; 205; Digesta 19.2.25.8.

179. Lucilio, 747 Marx: «sarcinatorem esse summum, suere centonem optume».

180. Gloss.v.521.16 cento: velum de multis pannis. Cfr. 494.22; 564.59.

181. Cosí come si possono concipere i verba, «connettendoli fra loro» per formare un determinato enunciato, si possono concipere le litterae «connettendole fra loro» per formare una data sillaba: Carisio, Gramm. Lat. I.11: «syllabae litteras concipiunt atque connectunt».

182. Non possiamo perciò condividere le affermazioni della MEYER 2004, p. 67, secondo cui «the results of this type of adjustment – a modernization of spelling or verbal form (e.g. fecit for faxit), or even a deviation from a pattern or form previously used – were called by the Romans concepta verba, whereas the oldest, most fixed form was called certa verba». Come abbiamo visto con concepta verba si indica un tipo di espressione verbale assai piú complesso di semplici verba modernizzati nello spelling o modificati (oltretutto, fecit, perfetto indicativo, non può costituire una modernizzazione di faxit, che è invece congiuntivo o futuro). NORDEN 1995 aveva sostenuto che i concepta verba costituissero una sorta di «natürliche Kunstprosa» romana, regolata dalle stesse norme parallelistiche che sono riscontrabili in altre formule dell’area germanica e italica.

183. Plauto, Pseudolus 351 sgg.

184. Per l’uso di conceptis verbis nel giuramento cfr. p. es. Plauto, Bacchides 1026 sgg.: «ego ius iurandum verbis conceptis dedi, / daturum id me hodie mulieri ante vesperum, / prius quam a me abiret» (segmenti di enunciato «cuciti» assieme in una formula complessiva).

185. Gaio, Institutiones 4.30.

186. Gaio, Institutiones 4.39 sgg. ARANGIO-RUIZ 2012, pp. 127 sg.

187. Gaio, Institutiones 4.116-116b. Si tratta in questo caso di una formula in ius concepta: cfr. PACCHIONI 1918, p. 63. Cfr. Paolo, Digesta, 2.14.4.3: «Consultato anche per un caso concreto, in cui si era convenuto di non richiedere la somma capitale, finché fossero pagati gli interessi <ha espresso il parere che> sebbene la stipulazione fosse stata formulata senza condizione, la condizione inerisca alla stipulazione, come se ciò fosse stato espressamente convenuto».

188. Codex Iustiniani 2.57.1: «le formule giuridiche che negli atti tendono insidie a tutti con la loro “caccia alle sillabe” (sottigliezze verbali) siano completamente eliminate».

189. Cfr. infra cap. V, par. 2. Livio, Ab urbe condita 1.32.8 descrive in questo modo il comportamento del legatus che si reca a dichiarare guerra: superati i confini, a ogni uomo che incontra, varcata la porta, entrato nel foro, egli ripete la propria invocazione a Iuppiter «mutate poche parole della formula (carmen) e del giuramento da concipere». Lo ius iurandum viene conceptum, «cucito», diversamente a seconda delle singole situazioni contestuali in cui il legatus si trova ad agire.

190. Cfr. Seneca, Consolatio ad Helviam matrem 13.1: «Pulvillus … pontificii carminis verba concepit» (rituale della dedica di un tempio).

Capitolo quinto.

1. Cfr. infra cap. V, par. 1.

2. Riguardo al tema delle rappresentazioni del destino in Grecia posso rimandare alla discussione, assai piú articolata, che conduco in BETTINI 2022 (c.d.s.).

3. Fra Otto e Novecento alcuni studiosi, fra cui F. Otto e G. Wissowa, hanno sostenuto che la nozione di fatum non fosse propria della religione romana: cfr. la discussione in PÖTSCHER 1978. DUMÉZIL 2001, pp. 431-33 inseriva la nozione di destino fra le «novità ideologiche» introdotte a Roma per influenza greca.

4. Il verbo ha uso sia attivo sia passivo: cfr. ThLL s.v. «fari» (VI.1.1029.16 sgg.). Varrone, De lingua latina 6.52: «ab hoc (sc. fari), tempora quod tum pueris constituant Parcae fando, dictum fatum et res fatales»; Frontone, Epistulae, p. 236.8 Van den Hout: «fata a fando appellata aiunt»; Servio, ad Aeneidem 4.450: «fatis … a verbo “for, faris”»; Prisciano, Gramm. Lat. III.486.13; etc.

5. Seneca, Naturales quaestiones 2.38.2.

6. Un (falso) parallelo greco per il fatum «parola» dei Romani parrebbe essere costituito dall’aggettivo thésphatos, normalmente inteso come «decretato dalla voce degli dèi» (ossia dalla loro «parola»: thes- < theós e -phatos < phe). In realtà, come ha mostrato BENVENISTE 1976, vol. 2, pp. 389 sg., l’elemento thes- deve essere piuttosto riconnesso alla radice di títhemi come «ciò che è posto», «limite» (nel senso ancor piú specifico di «troncamento» di un’esistenza, «evento mortale»): se non si intende thes- come «limite», infatti, diviene inspiegabile l’uso di athésphatos nel senso di «illimitato, infinito». Quanto a -phatos, la «parola» che viene evocata nel composto non è quella del dio, ma quella di un oracolo: come mostra facilmente un’analisi condotta sulle attestazioni presenti nel Thesaurus Linguae Graecae. Dunque thésphatos «limite (mortale) preannunziato/imposto da un oracolo».

7. DELL s.v. «for»; BENVENISTE 1976, vol. 2, p. 389.

8. Su diverse modalità del «dire» in latino (cano, loquor, dico, canto, ma non fari) cfr. HABINEK 2005, pp. 59-74.

9. Per Cicerone, De oratore 3.153, effari è un verbo dal sapore antico; secondo la classica definizione di J. L. AUSTIN 2002, pp. 82-97: «ciò che otteniamo o riusciamo a fare col dire qualcosa »

10. BETTINI 2008.

11. Ennio, Annales 16 Skutsch: «fari donavit, divinum pectus habere».

12. Ennio, Annales 46 Skutsch. Allo stesso modo Cicerone, De legibus 2.20, parla degli «arcani vaticini (effata) dei profeti e dei vati».

13. Seneca, Oedipus 291 sg., 328 sg.

14. Cfr. Lucrezio, De rerum natura 5.112; Silio Italico, Punica 1.124; etc. ThLL s.v. «profor» (X.2.1732.43). Cfr. infra cap. VI, par. 2.

15. HOFMANN e SZANTYR 1972, pp. 270 sgg.; sul valore di pro- posso rimandare a BETTINI 1998, pp. 170-75.

16. Varrone, De lingua latina 7.36; cfr Servio, ad Georgica 1.11; ad Aeneidem 6.775; 7.47; 8.314; ad Eclogas 6.27; etc. Ennio, Annales, 206 sg. Skutsch; Festo, De verborum significatu, pp. 432.13 sgg. Lindsay. Cfr. BADER 1978. Cfr. G. WISSOWA, Faunus, in Roscher I.2, coll. 1454-56, in cui sono raccolte anche le testimonianze sugli oracoli di Fauno.

17. Paolo Diacono, Epitome, pp. 78.6 sg. Lindsay: la glossa propone la derivazione di fanum da fando. Cfr. Seneca, Consolatio ad Helviam matrem 13.1.

18. Supra cap. IV, par. 9.

19. De lingua latina 6.4.30: «dies fasti, per quos praetoribus omnia verba sine piaculo licet fari … contrarii horum vocantur dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem “do”, “dico”, “addico”. Itaque non potest agi: necesse est aliquo eorum uti verbo, cum lege quid peragitur»; 6.53: «hinc fasti dies, quibus verba certa legitima sine piaculo praetoribus licet fari». Ovidio, Fastorum libri 1.47 sg.; Macrobio, Saturnalia 1.16.14: «fasti sunt quibus licet fari praetori tria verba sollemnia, do dico addico». Sappiamo che il magistrato, per esercitare la propria funzione, poteva ricorrere anche a formule diverse dai tria verba: NICOSIA 2012, pp. 53 sgg.

20. NICOSIA 2012, pp. 68 sgg.

21. Varrone, De lingua latina 6.4.30; Macrobio, Saturnalia 1.16.30.

22. Infra cap. V, par. 2.

23. Cfr. ThLL, s.v. «affor» (I.1245.47 sg): «primum de dis heroibus, de hominum oratione ad deos, post liberius», con ampia raccolta di passi.

24. Cicerone, De divinatione 2.50. Interessante anche il caso di Mitridate che, signore di ventiquattro popoli, allorché pronunziava le sue sentenze davanti all’assemblea, adfatus est in altrettante lingue senza bisogno di interprete (Plinio il Vecchio, Naturalis historia 7.88).

25. BENVENISTE 1990, pp. 157 sgg., proposito del preverbio prae-.

26. Livio, Ab urbe condita 5.41.3.

27. Per la devotio cfr. Livio, Ab urbe condita 8.9.4 sgg.; 10.28.13; etc. FERRI 2010.

28. Catone, De agricultura 134.1.

29. Catone, De agricultura 134.3: «postea porcam praecidaneam immolato».

30. Di praefatio sacrorum parlava a questo proposito WISSOWA 1971, p. 412.

31. Ibidem: «der eigentlich Empfänger des Opfers». Si tratta dello stesso schema rituale che ritroviamo quando Catone (De agricultura 141.2) enuncia i precetti relativi alla lustratio agri, in occasione dei Suovetaurilia: «Ianum Iovemque vino praefamino»; Livio, Ab urbe condita 39.15 (l’affare di Hispala Fecennia): «consules … cum sollemne carmen precationis, quod praefari … magistratus solent»; Macrobio, Saturnalia 1. 16.25: «Fabius Maximus Servilianus Pontifex … negat oportere atro die parentare, quia tunc quoque Ianum Iovemque praefari necesse est».

32. Cicerone, De divinatione 1.102.

33. Servio, ad Aeneidem 6.197: «proprie effata sunt augurum preces, unde ager post pomoeria, ubi captabantur auguria, dicebatur effatus»; 1.446: «antiqui enim aedes sacras ita templa faciebant, ut prius per augures locus liberaretur effareturque, tum demum a pontificibus consecraretur, ac post ibidem sacra edicerentur». Cicerone, De natura deorum 3.52 (augurum precationes); Festo, De verborum significatu, p. 476, 21 Lindsay (precatio auguralis).

34. Festo, De verborum significatu, p. 146 Lindsay: «itaque templum est locus ita effatus aut ita septus ut ex una parte pateat, angulosque adfixos habeat ad terram».

35. Varrone, De lingua latina 6.53; cfr. Servio, ad Aeneidem 1.446; 2.692: «fatus erat: proprietatem disciplinae secutus, quod augurum “effata” dicuntur»; 6.197; cfr. anche Cicerone, Epistulae ad Atticum 13.42; De legibus 2.8.20; Gellio, Noctes Atticae 13.14; etc.

36. Il qui del testo varroniano è uno strumentale: cfr. NORDEN 1995, p. 32 n. 1.

37. Sul carattere «delimitato» del luogo effatus cfr. ST. WEINSTOCK s.v. «Templum», in Pauly-Wissowa VA.1 (1934), coll. 483 sg.; NORDEN 1995, p. 32 n. 1.

38. NORDEN 1995, p. 32 n. 1. La formula ha qui carattere puramente «istruzionale» e non contiene né invocazioni alla divinità né altro: di conseguenza si presenta diversa da quelle studiate p. es. da FISHER 2014.

39. Norden 1995, p. 51.

40. Varrone, De lingua latina 7.7 sgg. NORDEN 1995, p. 97; la divisione ritmica è sostanzialmente quella già proposta da THULIN 1906, pp. 66 sg. Il testo di Varrone è quello di TRAGLIA 1996, pp. 246 sgg. Secondo PASQUALI 1981, p. 153, il testo della formula «dà l’impressione di essere stato riprodotto da Varrone con scrupolosa fedeltà, ma di Varrone è qui corrotta la tradizione sin quasi all’incomprensibilità» (si tratta comunque di un’affermazione anteriore [ed. or. 1936] all’uscita del lavoro di NORDEN 1995 citato [ed. or. 1939]).

41. Cfr. NORDEN 1995, p. 27 (geniale il riscontro con Virgilio, Aeneis 8.347 sgg.); MAGDELAIN 1969.

42. Su questo vedi soprattutto MAGDELAIN 1969, pp. 204 sg.

43. Sulla definizione linguistica di templa e tesca, cfr. soprattutto NORDEN 1995, pp. 16 sgg. (templum) e 20 sgg. (tescum).

44. Che si tratti di separare «fra loro» templa e tesca lo ha spiegato MAGDELAIN 1969, sviluppando l’analisi di NORDEN 1995, p. 42: il quale aveva già chiarito che i nessi «templa tescaque m(eae) fines», e «templum tescumque m(ea) f(inis)», sarebbero «costruzioni paratattiche appositive», e come tali corrispondenti a «templorum tescorumque meae fines», «templi tescique mea finis». Dunque, per Magdelain, «i miei confini fra …».

45. Si vedano p. es. le parole di Romolo allorché dedica il tempio a Iuppiter Feretrius (Livio, Ab urbe condita 1. 10.6): «templumque his regionibus, quas modo animo metatus sum …»; la stessa sottolineatura «virtuale» dell’atto augurale anche nella descrizione della auguratio che precede l’elezione a re di Numa Pompilio (Livio Ab urbe condita 1. 18.8): «signum contra, quod longissime conspectum oculi ferebant, animo finivit». Cfr. NORDEN 1995, pp. 85 sgg. (ma in direzione differente).

46. Questa ancora l’interpretazione di MAGDELAIN 1969.

47. Come spiega Gaio, «nuncupare significa nominare apertamente, diffusamente», lo stesso significato che ha nel rituale della devotio. Gaio, Institutiones 2.104; Cincio Alimento, Gramm. Rom. fr. 12 Funaioli, spiegava l’espressione nuncupata pecunia con «danaro indicato con designazione appropriata». L’espressione lingua nuncupare risale già alle XII Tavole (tab. VI.1): su nuncupare cfr. anche Festo, De verborum significatu, pp. 176.3 sgg. Lindsay, che contiene svariate preziose citazioni (Leges duodecim tabularum, tab. VI.1 [FIRA I2, p. 43]; Santra, Gramm. Rom. Fr. 1 Funaioli); vedi anche Varrone, De lingua Latina 6.60; Cicerone, De oratore 1.245; De officiis 3.65. Ci riferiamo p. es. alla celebre devotio del console Publio Decio Mure (Livio, Ab urbe condita 8.9.4 sgg.), il quale dichiara di «consacrare» alla morte se stesso e i nemici sicut verbis nuncupavi, «in conformità con quanto ho indicato con le mie parole»: formula che giunge al termine di un lungo e dettagliatissimo elenco degli dèi a cui si rivolge e una spiegazione assai circostanziata di ciò che chiede loro. NORDEN 1995, p. 45 n. 1 (p. 48) sosteneva che questo passaggio della formula della devotio appartenesse alla fase «piú recente» del testo. Infatti qui verbis sarebbe «tautologisch», perché «con le parole» sta già nel verbo nuncupare. Ci pare un eccesso di sottigliezza.

48. Supra cap. IV, par. 10.

49. Cfr. p. es. Gaio, Institutiones 4.131; Varrone, fr. 23.2 Mirsch: «M. Terentio, quando citatus neque respondit neque excusatus est, ego ei unum ovem multam dico».

50. Macrobio, Saturnalia 3.9.10 sgg. Ancora NORDEN 1995, p. 55 n. 2, ricorda che la formula quem (quos) ego me sentio dicere ricorre di frequente anche negli Acta fratrum Arvalium.

51. Cosí la nostra fonte, Macrobio, Saturnalia 3.9.7 sgg., introduce questa e la formula precedente, relativa all’evocazione degli dèi: cum oppugnatione civitas cingitur, «quando si stringe d’assedio una città».

52. Un atteggiamento simile si riscontra nel caso del battesimo cristiano, in cui sia il Codice di Diritto Canonico sia il Catechismo della Chiesa Cattolica riconoscono la validità del sacramento in relazione alla «intenzione» del ministrante. In questo modo le ragioni dell’efficacia rituale vengono spostate dalle circostanze contestuali, codificate, al foro interno del celebrante, che peraltro può anche non essere un sacerdote (Codice di diritto canonico 861.2; 869.2; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1256).

53. Varrone, De lingua latina 6.52. Secondo Macrobio, Saturnalia 1.12.19-22, Maia, ossia la terra «[viene detta] Fatua dal parlare (fari) perché … i bambini (infantes) appena partoriti non hanno voce prima di aver toccato terra». Cfr. anche 1.12.20.

54. Cfr. p. es. Ulpiano, Digesta 25.4.1.10; etc. Le testimonianze sono numerose, raccolte in ThLL, s.v. «for» (VI.1.1031.32 sgg.).

55. Gellio, Noctes Atticae 16.17.2; Varrone, fr. 107 Cardauns = Gramm. Rom. Fr. 144 Funaioli; Agostino, De civitate Dei 4.8; cfr. 11.21.

56. Varrone, Catus sive de liberis ducandis fr. 13 Bolisani = Nonio Marcello, De compendiosa doctrina, p. 853 Lindsay: «cum primo fari incipiebant, sacrificabant divo Fabulino».

57. Tertulliano, Ad nationes 2.11.7: «et ab effatu Farinus, et alius a lo<quendo>» (p. 59 Borleffs).

58. A riprova dell’importanza attribuita alla prima parola dotata di senso pronunziata dal bambino (il suo iam fatur) possiamo ricordare che essa poteva anche provocare effetti di carattere eccezionale. Racconta Svetonio (Augustus 94) che il piccolo Ottaviano, futuro Augusto, «quando cominciò a parlare per la prima volta (cum primum fari coepisset), nella villa suburbana della sua famiglia, dette ordine di tacere alle rane che gracidavano: per questo motivo si dice che da quelle parti le rane non gracidano piú». Cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 4.22; Solino, Collectanea rerum memorabilium 2.40: BRILLANTE 1991, pp. 132 sgg; Ambrogio, De virginibus 3.14: BORCA 1997, pp. 151-76.

59. Gramm. Lat. VII.523.1: «fama vel commendat vel destruit». Sulla derivazione di questo vocabolo Festo (De significatu verborum, p. 76 Lindsay) non aveva dubbi: «fama deriva da fari (a fando dicta), cosí presso i Greci phéme deriva da phásis». Dal punto di vista morfologico fama è un derivato dalla radice fa- attraverso un suffisso -ma che in latino è abbastanza produttivo: LEUMANN 1977, pp. 34, 319.

60. Digesta 3.2.1 sgg.

61. Virgilio, Aeneis 4.173 sgg. Che la phéme fosse una dea lo affermava già Esiodo, Opera et dies 763 sg. DETIENNE 1990.

62. Ovidio, Metamorphoses 12.39 sgg. «La sua casa sorge sulla cima di una vetta. Vi ha praticato innumerevoli passaggi e mille aperture e nessuna porta chiude le soglie: resta spalancata notte e giorno, ed è tutta di bronzo risonante, freme tutta a ogni voce che percepisce e la rinvia».

63. Quintiliano, Institutio oratoria 5.3.1.

64. Sull’importanza del consensus cfr. Cicerone, Tusculanae disputationes 1.35, secondo cui esso corrisponde addirittura alla «naturalità»: «se il consenso di tutti è la voce della natura, e tutti consentono che qualcosa esiste … anche noi dobbiamo far nostra la stessa opinione». Quintiliano (Institutio oratoria 4.1.5), spiegando ai principianti in che modo dovessero redigere il proemio di un’orazione da tenersi in tribunale: «aggiungo anche questo consiglio: chi si accinge a parlare consideri bene a chi, presso chi, in favore di chi, in quale circostanza, in qual luogo, in quale situazione, di fronte a quale fama popolare si accinga a parlare».

65. Seneca il Vecchio, Controversiae 1.1: «sacra populi lingua est». Se la fama/dea dell’epica ha il potere di «mettere tutti in movimento e di scuotere le città con la lingua» (Valerio Flacco, Argonautica 2.122), è ancora sulla fama che si fondano le regole di comportamento piú venerabili della vita civile, come quella secondo cui è dovere dei governanti che «coloro i quali si trovano sottoposti alla loro autorità, siano il piú felici possibile». Questa massima Quinto, il fratello di Cicerone, l’aveva appresa in Asia constanti fama atque omnium sermone, «tutti lo dicevano» (Cicerone, Epistulae ad Quintum fratrem 1.1.24).

66. Testimoniatoci per la prima volta da Alcuino (VIII secolo). La documentazione in TOSI 1991, nr. 1. Come c’era da aspettarsi il proverbio poteva anche essere rovesciato. La tradizione portoghese infatti, accanto a «Voz de povo é voz de Deus» registrava anche «Voz de povo é voz do diabo»: HERCULANO 1858, p. 247.

67. LEUMANN 1977, p. 314. Del suffisso esiste anche una variante neutra, tribulum frangibulum, stabulum, etc.: LEUMANN 1977, ibidem.

68. JAKOBSON e WAUGH 1984, pp. 209 sgg. Si veda la ricerca di FERRO 2006.

69. Cfr. p. es. Plauto, Miles gloriosus 293; Terenzio, Phormio 877; Catullo, Carmina 69.5; etc.

70. Stazio, Thebais 8.236; Tacito, Annales 6.5; Apuleio, Metamorphoses 1.26; etc.; Porfirione a Orazio, Saturae 1.7.3 (II.142.4 Hauthal).

71. Sono fabulae infatti i miti raccolti da Igino nella sua opera omonima; cosí come per il Balbo di Cicerone sono fabulae i racconti mitologici greci da cui il filosofo deve prendere le distanze (Cicerone, De natura deorum 2.28.70).

72. Livio, Ab urbe condita 1.4.7: «inde locum fabulae ac miraculo datum». È pure definito fabula (Livio, Ab urbe condita 5.21.8: «inseritur huic loco fabula») l’episodio dei soldati Romani che erompono dal cunicolo scavato sotto Veio non appena udite le fatidiche parole dell’aruspice – «colui che consumerà le viscere di questa vittima, avrà la vittoria» – per impadronirsi degli exta e portarli a Camillo. Un racconto che Plutarco (Camillus 5) definisce per parte sua mýtheuma.

73. Livio, Ab urbe condita 5.22.6: «inde fabulae adiectum est …»; per la fabula di Tarpea (11.5-9) cfr. OGILVIE 1965, p. 675 ad 5.21.8. Fabulae sono poi definiti gli apologhi di carattere esopico, quelli in cui animali e oggetti sono dotati di parola, proprio come in greco essi sono chiamati mŷthoi (Prisciano, Rhetores Latini minores I.1). Ancora, vengono definiti fabulae i componimenti per il teatro, che mettono in scena vicende a carattere di finzione, per quanto verisimili (Varrone, De lingua latina 7.55).

74. Macrobio, Commentarius in Somnium Scipionis 1.2.7.

75. Isidoro, Etymologiae 1.40.1; sulla teorizzazione Ciceroniana della fabula come indicante «cose né vere né verisimili» e i suoi antecedenti greci, vedi BETTINI 2002.

76. Seneca, Epistulae ad Lucilium 24.6: «decantatae … fabulae».

77. Cosí come racconti tradizionali sono anche, verisimilmente, quelle fabulae di «vecchierelle» in cui possiamo riconoscere gli antecedenti di ciò che anche noi definiamo oggi «favole», ossia i racconti di folclore: Tibullo, Carmina 1. 3; Apuleio, Metamorphoses 27; etc.

78. Livio, Ab urbe condita, Praef. 1 sgg. Cfr. supra cap. III. Per un’analisi piú approfondita di questo tema cfr. BETTINI 2002.

79. Varrone, De lingua latina 6.7.52: «ab hac eadem voce qui facile fantur facundi dicti»; cfr. Isidoro, Etymologiae 10.95.

80. Plauto, Captivi 963 sgg.: «[Stal.] Eia, credo ego imperito plagas minitaris mihi! / tandem ista<ec> aufer, dic quid fers, ut feras hinc quod petis. / [Heg.] Satis facundu’s. Sed iam fieri dicta compendi volo».

81. Tacito, Historiae 2.80.2: «satis decorus etiam Graeca facundia»; cfr. Sallustio, Bellum Iugurthinum 63.3; Gellio, Noctes Atticae 9.2.1; 9.12.7; etc.

82. Sallustio, Historiae fr. 43 Maurenbrecher: «loquax magis quam facundus»; cfr. Gellio, Noctes Atticae 1.15.13; Quintiliano, Institutio oratoria 4.2.2.

83. Gellio, Noctes Atticae 1.15.20.

84. Gellio, Noctes Atticae 1.15.3; cfr. Omero, Ilias 3.221. Ulisse è spesso definito facundus nei testi latini: cfr. p. es. Ovidio, Heroides 3.129; Metamorphoses 13.92; Quintiliano, Institutio oratoria 10.54.6; etc.

85. Cosí Tacito, Historiae 4.68.5, attribuisce a Giulio Valentino una vaecors facundia, «una abilità di parola scriteriata».

86. Per il rapporto che intercorre fra la facundia (capacità naturale) e l’eloquentia (abilità conquistata con l’arte) cfr. Svetonio, Caligula 53; Seneca, Epistulae ad Lucilium 79.9. Quintiliano (Institutio oratoria 1.23) concepisce l’eloquentia come una disciplina il cui compito è quello di «sviluppare» la facundia. Queste due sfere del dire ricoprono entrambe quella del parlar bene: però la facundia sta dalla parte della natura, è una risorsa data e spontanea, mentre l’eloquentia sta dalla parte della cultura, la si apprende.

87. LEUMANN 1977, p. 332. Un’ipotesi sull’origine del suffisso -cundus (con particolare riferimento a fecundus) in BENVENISTE 1973, p. 141.

88. Ennio, 43 Ribbeck3; Virgilio, Georgica 457. Cfr. anche Id., Aeneis 6.321: «olli sic breviter fata est longaeva sacerdos» (la Sibylla: segue il vaticinio [cfr. 6.398]); etc.

89. I fata possono dunque corrispondere alle parole di un vate ispirato, ovvero, altre volte, agli oracula contenuti in particolare nei Libri Sibillini. Per designarli infatti Cicerone usa direttamente l’espressione fata sibyllina (In Catilinam 3.9). Allo stesso modo il Publio Decio Mure di Livio parla di «carminum Sibyllae ac fatorum populi huius interpretes», identificando direttamente i fata con il testo dei celebri oracoli (Livio, Ab urbe condita 10.8). Carmina Marciana 1.8 Morel.

90. Ampia documentazione in ThLL, s.v. «fatum» (VI.1.356.24-357.7).

91. Cfr. supra cap. V, par. 1 e n. 68.

92. Plauto, Bacchides 953 sgg. I tre eventi trovano scarsa corrispondenza nelle testimonianze greche, cfr. JOCELYN 1969, p. 140 n. 30.

93. BAYET 1971, pp. 73-88.

94. Sofocle, Philoctetes 604 sgg., 1337 sgg.; Apollodoro, Epitome 5.10 (secondo il quale i tre eventi consistevano nel trasferimento a Troia delle ossa di Pelope, nella venuta di Neottolemo a Troia e nel furto del Palladio); Conone di Lampsaco, Narrationes 34 (secondo cui gli eventi fatali sarebbero stati il cavallo di legno e il furto del Palladio); Servio, ad Aeneidem 2.13 (che deriva da Plauto, sia pure in modo poco chiaro); Tzetzes, Posthomerica 571 sgg. (ossa di Pelope e venuta di Neottolemo).

95. Supra cap. IV, par. 9.

96. Plinio il Vecchio, Naturalis historia 28.10 e 15: sembra probabile che gli Annales cui Plinio si riferisce siano non le opere degli annalisti romani, ma i resoconti ufficiali dei magistrati.

97. Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae 4.59 sg. Avverto che alcune traduzioni moderne fraintendono il testo, suggerendo che la «domanda» sia quella che i Romani rivolgeranno al vate, non quella che il vate rivolgerà loro: come nei fatti invece avverrà, e sarà proprio questa la «domanda» che avrebbe potuto far cadere in trappola i Romani. Cfr. anche Cassio Dione, Historia Romana 11.2.

98. Varrone, De lingua latina 7.7: «le parti di questa specie di templum [quello sulla terra] sono quattro, e si chiamano: sinistra a est, destra a ovest, anteriore a sud, posteriore a nord». Cfr. supra cap. V, par. 2.

99. Plinio il Vecchio, Naturalis historia 28.15.

100. Con deittici intendiamo «quei termini i quali implicano un gesto che designa l’oggetto, compiuto nello stesso momento in cui viene pronunziato il termine linguistico»: MANETTI 2008, pp. 28 sg.; per una piú ampia teoria del deittico (come elemento il cui significato è necessariamente acquisito tramite il ricorso a elementi extralinguistici), pp. 47 sgg.; HANKS 2006.

101. Gellio, Noctes Atticae 1.6.29. Gli schiavi di Tremellius avevano catturato e ucciso la scrofa del vicino. Quando costui venne a reclamarla Tremellius prima fece nascondere il corpo dell’animale sotto il materasso su cui giaceva sua moglie; poi, dopo aver permesso al vicino di fare la sua quaestio, pronunziò la formula del giuramento (verba iurationis concipit) indicando il letto e dicendo: giuro che in casa mia non c’è nessuna scrofa «se non questa (istam) che giace fra le coltri».

102. Come nel caso, ugualmente tradizionale, dei soldati Romani a Veio che, non appena udite le fatidiche parole dell’aruspice – «colui che consumerà le viscere di questa vittima, avrà la vittoria» – si impadroniscono degli exta e li portano a Camillo: supra cap. V, par. 3. Anche in questo caso il fatum viene ri-orientato impadronendosi direttamente del «segno» che lo esprime.

Capitolo sesto.

1. Servio, ad Aeneidem 2.777: «“fata” sunt quae dii fantur»; 2.54: «modo participium, hoc est, quae dii loquuntur»; 4.614: «fata: dicta, id est Iovis voluntas»; 7.50: «dii id fantur quod sentiunt»; 10.628: «vox enim Iovis fatum est»; 12.808: «Iuno, sciens fatum esse quidquid Iuppiter dixit»; Isidoro, Etymologiae 8.11.90: «fatum … dicunt esse, quidquid dii fantur, quidquid Iuppiter fatur»; Minucio Felice, Octavius 36.2: «quid … aliud est fatum quam quod de unoquoque nostrum deus fatus est?» Utile W. F. OTTO s.v. «Fatum», in Pauly-Wissowa VI.2 (1949), coll. 2047-51; BAILEY 1935, pp. 220 sgg.; sia pure in una prospettiva molto diversa dalla nostra, alcune interessanti intuizioni già in SEPPILLI 1971, pp. 19-24.

2. Supra cap. V, par. 4.

3. Virgilio, Aeneis 1.261. Che in questo passo Virgilio atteggi Iuppiter a una sorta di «prophet to the other gods» è ipotesi abbastanza bizzarra di BAILEY 1935, p. 206 (peraltro in contraddizione con quanto egli stesso scrive sopra, a p. 205, ossia che per Virgilio fatum implica la nozione originaria di «spoken word», in particolare «pronunziata» da Iuppiter).

4. Che questo episodio riveli la connessione fra fari e fatum è esplicitamente rilevato anche da R. H. AUSTIN 1971, pp. 101 sg. ad loc.; cfr. BAILEY 1935, p. 205. Austin pensa a volvens come possibile metafora «from the unrolling of a book», ovvero come «no more than “turning over” in the mind». In realtà è impossibile sfuggire al parallelo con Aeneis 3.375 sg., oltretutto all’interno di una struttura sintattica e contestuale del tutto identica, ossia fra parentesi e ugualmente in apertura di una rivelazione profetica (l’indovino Eleno rivolto a Enea): «… sic fata deum rex / sortitur voluitque vices, is vertitur ordo». Iuppiter è visto come colui che «fa svolgere gli eventi», «li dispiega nel loro corso». Cfr. A. TRAINA, Volvo, in EV V.1 (1990), pp. 625 sg. Quanto a movebo, ancora Austin lo interpreta come «I shall start up», i. e. «I shall put into words» ciò che non è stato ancora detto. Ma davvero Iuppiter ha bisogno di dire due volte che sta per parlare? In realtà il suggerimento di CONINGTON 1863, p. 58 («the notion in movebo is that of quieta movere») resta di gran lunga il piú ragionevole.

5. BAILEY 1935, pp. 221 sgg.

6. Stazio, Thebais 1.212 sg.

7. Sulle diverse accezioni di fatum, e i diversi contesti in cui questa espressione è usata, vedi in particolare PÖTSCHER 1978.

8. Servio, ad Aeneidem 4.614: «fata Iovis poscunt: “fata” dicta, id est Iovis voluntas: hic ergo participium est, non nomen».

9. Servio, ibidem; cfr. anche ad 6.640. Ovidio, Fastorum libri 5.624 sgg.: «fama vetus, tum cum Saturnia terra vocata est, / talia fatidici dicta fuisse Iovis: / “falcifero libata seni duo corpora gentis …”»; cfr. Isidoro, Etymologiae 8.11.90: «fatum autem dicunt esse quidquid dii fantur, quidquid Iuppiter fatur»; cfr. TELS DE JONG 1960, pp. 86 sg.

10. La stessa ambiguità in Cicerone De fato 30: «at si ita fatum est: “nascetur Oedipus Laio” …» («se è destino che …» oppure «se è stato detto che …»?)

11. La scena virgiliana e quella descrittaci da Stazio ne riecheggiano una che sta nell’Iliade (8.454 sgg.). Ma lo scarto culturale che le separa è forte. Era e Atena sono sdegnate per la strage che i Troiani stanno compiendo sugli Achei, e vorrebbero che Zeus la interrompesse. Ma il sommo dio ha preso una decisione contraria e minaccia le due divinità rivelando loro in che modo le avrebbe punite: «cosí parlerò e la mia parola si sarebbe compiuta (ôde gàr exeréo, tò de ken tetelesménon êen): colpite dal fulmine sul vostro stesso carro non sareste tornate sull’Olimpo, dov’è la casa degli immortali». Qualora le due dee avessero trasgredito il volere di Zeus, sarebbero state folgorate. Zeus, come lo Iuppiter di Virgilio e di Stazio, «parla», e dichiara che alle sue parole farà seguito un «compimento». Solo che fra il parlare della divinità, espresso attraverso un normale verbo del dire (exeréo), e il «compimento» delle sue parole, ossia ciò che è destinato ad avvenire (tetelesménon), non c’è nessun rapporto di identificazione. L’effetto del «parlare» divino corrisponde semplicemente al raggiungimento di un télos, le parole andranno a buon fine: questo però non implica, come accade invece nel caso romano, che queste parole siano esse stesse il proprio compimento. Lo Zeus omerico «parla» e le sue parole «vanno ad effetto»: lo Iuppiter di Virgilio e di Stazio parla (alla maniera del fari) e le sue parole sono l’effetto (fatum).

12. Varrone, De lingua latina 6.7.52.

13. Orazio, Carmen saeculare 25 sg.

14. Al contrario le Parcae di Orazio, Carmina 2.3.15, «filano».

15. Catullo, Carmina 64.321 sg., 382 sg. Il «canto» profetico delle Parcae viene evocato anche a 306 (veridicos … cantus), mentre a 325 sg. si parla addirittura di veridicum oraclum; cfr. COLAFRANCESCO 2004, pp. 16-26.

16. Unica eccezione il canto delle Moîrai in Platone, Respublica 617c; nella mitologia le Moîrai esercitano capacità profetica solo a proposito di Meleagro nella versione di Apollodoro, Bibliotheca 1.8.1: cfr. COLAFRANCESCO 2004, p. 19 n. 28.

17. Varrone, Gramm. Rom. Fr. 132 Funaioli = Gellio, Noctes Atticae 3.16.9.

18. A rigore il testo di Gellio non permette di stabilire con certezza se la designazione tria Fata per le divinità del destino fosse già di Varrone o debba invece essere attribuita al solo Gellio. La citazione verbatim di Varrone (segnalata dalla presenza di inquit) inizia infatti dopo la frase in questione.

19. BETTINI 2014a, pp. 65-101; ID. 2015c, pp. 96-113; ID. 2017.

20. Curiosamente DE BERNARDO STEMPEL 2006, pp. 43 sg. ritiene questo fenomeno assolutamente sconosciuto alla religione greca e romana, a eccezione della coppia Liberus/Libera (?); mentre lo ritiene tipico della religione celtica.

21. La derivazione varroniana è accettata anche dagli studiosi moderni: cfr. DELL, s.v. «Parca» (Parca altro non è che Parica, da pario). In Tertulliano, De anima 37.1 la Parca di Varrone appare sostituita da una ancor piú esplicita Partula.

22. Servio, ad Georgica 1.21: «nomina numinibus ex officiis constat imposita».

23. Per il mondo mesopotamico cfr. FRANK 2011; per quello egizio SPIESER 2011; cfr. anche BETTINI 2018a, pp. 14-27.

24. Infra n. 36, 46 e 47.

25. Fr. 25 Mariotti: cfr. infra cap. VI, par. 2.

26. Cfr. infra n. 39.

27. Tertulliano, De anima 37.1; Varrone, fr. 98 Cardauns.

28. Cfr. CARDAUNS 1976, vol. 2, pp. 194-96.

29. PERFIGLI 2004; BETTINI 2019.

30. DUMÉZIL 2001, pp. 195 sgg. (a proposito del presunto «Marte agrario»), partic. 209. Sulla «flessibilità» del politeismo cfr. BETTINI 2016a.

31. Agostino, De civitate Dei 4.9 (= Varrone, fr. 104 Cardauns); Plutarco, Romulus 21.2 (cfr. Quaestiones Romanae 56); Tertulliano, Ad nationes 2.11.6; forse Fasti Praenestini (CIL I2.11, p. 231). Sulla complessa figura delle Carmentes, Carmentis o Carmenta cfr. TELS-DE JONG 1960, pp. 21 sgg.; RADKE 1979, pp. 81 sgg.; HABINEK 2005, pp. 238-40.

32. Gellio, Noctes Atticae 16.16.2 sgg. (= Varrone, fr. 103 Cardauns).

33. CIL I2.2844-46. GUARDUCCI 1946-48; EAD. 1955, pp. 126 sg.; WEINSTOCK 1960; TELS-DE JONG 1960, pp. 93 sgg. (esposizione molto confusa); ulteriore discussione, particolarmente a proposito dell’interpretazione di Weinstock, in GUARDUCCI 1983; R. SCHILLING, Cippo di Tor Tignosa, in EV I (1984), pp. 787 sg.; PÖTSCHER 1978. Schilling ha proposto una data di qualche decennio posteriore a quella suggerita dalla Guarducci. Per la tipologia dei supporti: NONNIS 2012b.

34. Dativi in , come sviluppo secondario da -āi: LEUMANN 1977, pp. 419 sg.

35. CIL I2.2813 (= EDR106691); discussione in R. SCHILLING, Cippo di Tor Tignosa, in EV I (1984), pp. 787-89; NONNIS 2012a.

36. NONNIS 2012b, pp. 164 sg.

37. LEUMANN 1977, pp. 46, 71, 487.

38. Cosí ad esempio A. Degrassi nel commento al CIL I2.2.4.2844, p. 865, in una nota in verità molto confusa.

39. Per la derivazione di Maurtia da Mavors LEUMANN 1977, p. 121; per Neuna > Nona si veda ibidem, pp. 71, 133, 492 sg. Per la difficoltà di derivare Morta da Maurtia cfr. TELS-DE JONG 1960; SARULLO 2014b. BALLESTRA-PUECH 1999 ha segnalato questa curiosa coincidenza: Lelio Giraldi Cinzio, nel suo De Deis Gentium varia & multiplex Historia, in qua simul de eorum imaginibus & cognominibus agitur, Oporin, Basilea 1548, p. 285, ricorda che secondo Marsilio Ficino e Socinus Bentius le Parche avrebbero avuto nome Vesta, Minerva e Martia (o Mars).

40. Supra n. 36 e infra n. 46.

41. Una relazione fra queste due testimonianze cerca invece BALLESTRA-PUECH 1999, p. 46.

42. Cfr. VON BLUMENTHAL 1941, partic. pp. 325-29. Supra cap.1, par. 1, n. 9. A questo elenco si può forse aggiungere la dea Fenta: VON BLUMENTHAL, ibidem; BADER 1978, p. 32.

43. Supra. Per le dee Stata, Tacita, Genita, Moneta cfr. RADKE 1979, pp. 138, 221 sg., 291 sg., 295 sg. Per Tacita BETTINI 2006.

44. GRANINO CECERE 1992; NONNIS 2012b, p. 165; F. CASTAGNOLI, s.v. Albula e Albunea, in EV I (1984), pp. 84 sg.; POCCETTI 1998, p. 84.

45. Varrone, De lingua latina 6.7.52.

46. Livio Andronico, Odyssea, fr. 25 Mariotti. Cfr. p. es. Omero, Odyssea 12.99; 3.237; etc.: eis hóte kén min / moîr’ oloè kathéleisi tanelegéos thanátoio (cfr. MARIOTTI 1986, pp. 20, 28 n. 36). Non penso che il pro- anteposto a fari in profata voglia indicare specificamente l’anteriorità del «dire prima», tipica del vaticinio. Come ben sappiamo, fari possiede già di per sé il senso di «vaticinare», mentre pro-, in composizione con i verbi del dire, indica piuttosto il «dire davanti a tutti» «solennemente»: proloquor, profiteor, pronuntio etc. Su questo valore di pro- in composizione cfr. KRANZ 1907, pp. 19 sgg. Anche in Lucrezio, De rerum natura 1.749 e Petronio, Satyricon 89, dove l’atto del profari descrive l’attività profetica, quel pro- sottolineerà ugualmente la solennità della dichiarazione profetica.

47. Cfr. MARIOTTI 1986, pp. 20, 28 n. 36. TRAINA 1970, pp. 14 sg. Verisimilmente Andronico rende con Morta la moîra omerica per mantenere un’equivalenza fonica con il testo originale, come nel caso di insece/énnepe del fr. 1 Mariotti; e soprattutto per mettere in risalto l’idea di «morte» che la moîra greca portava con sé.

Capitolo settimo.

1. Supra cap. VI.

2. Servio, ad Georgica 1.21: «nomina numinibus ex officiis constat imposita»

3. BETTINI 2014a.

4. Properzio, Elegiae 4.7.51 sg. Cfr. COLAFRANCESCO 2004, pp. 52 sg.

5. CIL VI.30975 = ILS 309. Cfr. PALMER 1990, partic. pp. 23 sg. CIL V.3143; CLE 1169; EDR080281.

6. Cfr. F. ZEVI, s.v. «Tria Fata», in LTUR V (1989), pp. 85 sg.

7. CLE 1169; Cfr. anche EDR080281: «crudele Lachesis e voi, altri (cetera) Fata crudeli …».

8. WILPERT 1903, pp. 392 sg.; VAN DER HORST 1943; S. SORDA, s.v. «Fata, Fatum», in LIMC Supplementum (1997) VIII.1, pp. 581 sg.; VIII.2, p. 362. PALMER 1990, pp. 23 sg. Il testo completo delle iscrizioni (CIL VI.142 = ILS 3961) è il seguente: «Dis Pater, Aeracura, Fata Divina, Mercurius Nuntius, Vibia, Alcestis, abreptio Vibies et discensio, septe(m) pii sacerdotes …, bonorum iudicio iudicati, Vibia, angelus bonus, inductio Vibies». Ampia discussione in VUAT 2020, pp. 96 sgg., le cui ricerche ci sono risultate di grande aiuto nel presente lavoro.

9. WILPERT 1903, p. 392 n. 3 ha chiarito che, contrariamente all’errata opinione di Garrucci, ripresa dubitativamente da MAASS 1895, pp. 220 sgg., e da PALMER 1990, pp. 23 sg., la figura centrale del trio non ha la barba, e dunque non rappresenta un personaggio maschile.

10. S. SORDA, in LIMC Supplementum VIII.1 (1997), p. 581. Di Fata … victricia parla anche Claudiano, De consulatu Stilichonis 3.135 sg.

11. CIL II.3727, da CORELL VICENT 2002, p. 46. Corrisponde al nr. 6 citato dal LIMC, s.v. «Fata, fatum», di cui però non si riporta l’immagine (p. 582). È descritto come «cippo sepolcrale», ma l’espressione «ex voto» dell’iscrizione spinge a ipotizzare che si tratti di una dedica alla divinità: ex voto = ex voto (suscepto), «in seguito al voto fatto». Cfr. VUAT 2020, pp. 89 sgg.

12. CIL III.4151 (prima metà del I sec.) = EDCS-26600326. Cfr. VUAT 2020, pp. 90 sgg. S. SORDA, s.v. «Fata, fatum», in LIMC Supplementum VIII.1 [1997], p. 581, nr. 3; lo stesso dubbio a proposito di un’ara conservata ancora nel Museo Calvet, in cui all’iscrizione «Fatis votum solvit libens merito» (CIL XII.3045) si accompagna la rappresentazione di tre figure femminili, senza attributi, che G. BAUCHHENS, s.v. «Matres, matronae», in LIMC Supplementum VIII.1 (1997), pp. 808-16, nr. 59, identifica piuttosto con una raffigurazione delle Matres.

13. CIL V.4209, p. 1079, Regio X, Venetia et Histria; EDCS-33500211, Regio X, Venetia et Histria (II sec.). In ThLL 5.1.41 s.v. dator il lemma datrix è seguito da due sole attestazioni che ne indicano chiaramente il genere femminile.

14. CIL 2.89 (Hispania).

15. Raccolte in G. BAUCHHENS, s.v. «Matres, matronae», in LIMC Supplementum VIII.1 (1997), pp. 808-816; cfr. DASEN 2011, partic. pp. 132 sgg.; MIEDICO 2016.

16. CIL V.4208 (da Cavalzesio presso Brescia); V.5791 (da Dervo presso Milano). Cfr. GIRARDI 2017; MIGLIORATI 2008; P. DE BERNARDO STEMPEL 2006; EAD. 2013, partic. 88 (contro Migliorati).

17. Il legame fra le Dervones o Dervonnae e la quercia è reso visibile dal loro stesso nome, riconducibile alla radice indoeuropea *deru-, *dru- (cfr. il greco drŷs): HOFENEDER 2005, pp. 112 sg.

18. CIL V.5002 = EDR 091095. GIRARDI 2015.

19. R. PETER, s.v. «Fatus, Fata», in Roscher I (1886), col. 1452.

20. Per fatus nelle iscrizioni cfr. p. es. CIL VI.4379; 6932; 2503; XI.592; etc. La formula ricorrente è costituita da hoc voluit fatus meus. Cfr. Petronio, Satyricon 42 («medici illum perdiderunt, immo magis malus fatus»); 71 («et servi homines sunt … etiam si illos malus fatus oppresserit»); 77 («hoc mihi dicit fatus meus»); per vinus cfr. ibidem, 41 («vinus mihi in cerebrum abiit»); per monumentus CIL II.266; VI.2530; VIII.0.1461; 308931; 10959; 35595; etc. Cfr. ThLL s.v. «monumentum» (VIII.1461.28 sgg.); per la scomparsa del neutro nel latino volgare LEUMANN 1977, p. 404; HOFMANN e SZANTYR 1972, pp. 10-12.

21. CIL V.775.

22. EDCS-12400032. Il testo dell’iscrizione è piuttosto corrotto: cfr. VUAT 2020, pp. 72 sg.

23. CIL V.5002 (Castel Toblino [Trento], Regio X, Venetia et Histria); 8802 (Belluno).

24. Servio, ad Aeneidem 2.351. L’idea di un Genius femminile suonava «strana» a DUMÉZIL 2001, p. 54 n. 10. Ma nel contesto che stiamo descrivendo, questa stranezza non sussiste.

25. BETTINI 2017b.

26. Su queste «coppie» divine vedi in particolare USENER 2008, pp. 73 sgg.; GUITTARD 2002, pp. 39 sg., 46 sgg. (con ampia discussione).

27. HOLLAND 2010-11.

28. Supra cap. VI, par. 1.

29. BETTINI 2017b.

30. Burcardo di Worms, Decretorum libri 19 (Migne, PL CXL.971). Cfr. HARF-LANCNER 1989, pp. 11 sgg.; USENER 1993, pp. 43 sgg. (il quale non si rassegnava all’idea che le tre donne soprannaturali fossero una semplice eco dalle Moire greche); HENNARD DUTHEIL DE LA ROCHÈRE e DASEN 2011 (ma il titolo promette molto di piú di quanto i saggi non mantengano). Altre possibili candidate per il futuro ruolo di «fate» sono le Fatuae citate da Donato nel commento all’Eunuchus di Terenzio (ad 1079, I.493.5 Wessner) e da Marziano Capella, Philologia 2.167: HARF-LANCNER 1989, pp. 11 sgg.

31. HARF-LANCNER 1989, pp. 35 sgg.

32. Secondo GEERTZ 1990, la contrapposizione tra struttura e divenire («Being and Becoming») sulla quale tanto a lungo si è discusso fra storici e antropologi, altro non sarebbe che l’espressione di una delle grandi dicotomie costruite in età moderna dalla metafisica occidentale; SAHLINS 1986, pp. 119-37.