Capitolo sesto

Parola della divinità

Se a pronunziare il fatum o i fata sono spesso dei vates, altre volte però a compiere questa funzione (e qui il discorso si fa piú interessante) non sono degli uomini, sia pure ispirati, ma direttamente delle divinità. Come spiega Servio, che torna anzi piú volte a ribadire questo concetto, «i fata sono ciò che gli dèi dicono (fantur)». E Virgilio stesso usa piú volte l’espressione fata deum per definire il destino in quanto «parola» degli dèi1. In questa prospettiva i fata si presentano nella forma di «detti» che promanano direttamente dalla bocca della divinità. Gli dèi dunque parlano, pronunziano parole che – in quanto escono dalla loro bocca – sono potenti, e il loro dire segna inappellabilmente il destino e la vita degli uomini. A Roma però questa funzione sembra riservata in particolare ad alcune divinità, che è giunto il momento di osservare piú da vicino. Sopra abbiamo già visto come, nella profezia di Marcius, fosse stato Iuppiter in persona a «pronunziare» – nella modalità del fari – quale sarà la disastrosa sorte dell’esercito romano a Canne (fatus est)2. Osserviamo adesso lo Iuppiter di Virgilio al momento in cui si accinge a rivelare a Venus il destino che attende i Troiani in Italia: ossia la guerra con i popoli del Lazio e la vittoria, il breve regno di Enea, il passaggio dello scettro ad Ascanio, la fondazione di Alba – e cosí via, fino all’avvento di Romolo e la fondazione di Roma, al cui impero Iuppiter non metterà alcun limite.

1. Iuppiter, le Parcae, le Carmentes.

La rivelazione di Iuppiter è introdotta da questo breve preambolo3:

Parlerò a lungo (fabor … longius) … e svolgendoli (volvens) metterò in movimento (movebo) gli arcani dei fati (arcana fatorum).

Nella bocca autorevole di Iuppiter il fari profetico, che definisce e rivela quali saranno i destini del Lazio, corrisponde direttamente alla realizzazione dell’enunciato: la parola del dio da un lato rivela (fabor) eventi ancora nascosti, dall’altro determina la loro realizzazione, «mettendoli in moto nel loro svolgimento»4. In effetti sappiamo che nella visione di Virgilio i fata corrispondono in primo luogo ai fata di Iuppiter, il destino individuale o collettivo promana dal volere del sommo dio: proprio come da lui promanano le «parole» che lo definiscono5. Su questo punto Stazio, riprendendo Virgilio, è ancora piú esplicito del suo modello. Ecco che Iuppiter, irritato per il cattivo comportamento degli uomini, si accinge a parlare agli dèi6: «le parole (verba) di Iuppiter hanno un peso grave e immutabile, alla sua voce fa seguito il destino (fata)». È Iuppiter che «parla» il destino, la sua voce esprime una parola – un fatum – che, a un tempo, enuncia e decide la sorte individuale7. In questo tipo di rappresentazione il locutore del fatum, colui che pronunzia la parola determinante, è dunque Iuppiter. Non a caso il commentatore di Virgilio, Servio, interpretava le parole di Didone et sic fata Iovis poscunt «cosí esigono i destini (decisi) da Iuppiter», come se significassero «cosí esigono le parole (pronunciate) da Iuppiter»8. In effetti, come si fa a dire se i fata di Iuppiter sono «parole» o sono «destini»? Sulle labbra del padre degli uomini e degli dèi parola e destino si confondono. Servio, da buon erudito, la buttava in grammatica9: «qui fata è participio» spiegava (nel senso di participio passato del verbo fari), «non sostantivo»10. E forse non aveva torto11.

Anche l’antiquaria religiosa, però, oltre alla mitologia poetica, ha qualcosa di molto interessante da dirci sull’identità del locutore fatidico. A proposito della parola/fatum, infatti, Varrone ci mette di fronte non a un solo locutore, ma a un gruppo di locutrici, le Parcae12:

Dato che le Parcae stabiliscono (constituant) con la parola (fando) ai fanciulli il tempo [della loro vita], si dice «fato» (fatum) e «avvenimenti fatali» (res fatales).

Dunque sono le Parche a pronunziare la «parola» potente che definisce la durata vitale assegnata ai nuovi nati. È come se il loro fari possedesse il potere di «costruire», di «delimitare» (constituant) il tempo che toccherà in sorte a chi viene al mondo: allo stesso modo in cui l’effari dell’augure ha il potere di «delimitare» la porzione di terreno destinata al templum.

Orazio, come Varrone, indica ugualmente nelle Parcae le locutrici del fatum, legando indissolubilmente il «destino» con l’efficacia della «parola» pronunziata. Quando invoca queste divinità nel Carmen saeculare (del resto proprio a loro era dedicato il sacrificio della prima notte) egli descrive in questo modo le virtú fatidiche da esse possedute13:

E voi Parche che profetate (cecinisse) il vero – [ossia] ciò che una volta è stato detto (quod semel dictum est) e che lo stabile confine delle cose possa mantenere – aggiungete destini (fata) fausti a quelli già conclusi.

Lo stile di Orazio è complesso, arduo, ma il messaggio è chiaro. La Parcae sono divinità che «cantano»/«profetizzano» (cecinisse) i responsi fatali: e il destino di Roma risiede in ciò che un dí «è stato detto». A differenza di altre Parcae poetiche queste sono dee romane a tutti gli effetti, che determinano i fata non filando, alla maniera delle Moîrai, ma servendosi della voce e della parola pronunziata14. Va detto comunque che, nella rappresentazione poetica di queste divinità, anche quando a esse viene attribuita la «filatura» propria delle Moîrai greche, la loro parola profetica resta in primo piano. È ciò che accade ad esempio nel lungo excursus che Catullo dedica alle Parcae nel carme 64. Se esse sono colte nell’atto di «filare» il destino di Peleo, contestualmente però l’attenzione si concentra sul loro «canto» profetico. All’inizio dell’episodio le divinità sono infatti rappresentate nell’atto di «effondere il destino (fata) con un canto profetico (divino carmine) che nessuna età potrà mai smentire»; lo stesso tema si ripresenta con forza alla conclusione, espresso questa volta direttamente attraverso il verbo praefari: «tali canti felici cantarono (cecinisse) un tempo a Peleo le Parche, vaticinando (praefantes) con profetico petto»15. Possiamo dunque notare che fra le Parcae romane e le Moîrai greche comincia a delinearsi uno scarto che nel seguito vedremo emergere ancor piú nettamente: le divinità greche non sono legate alla profezia e alla parola efficace16; quelle romane invece, anche quando assumono tratti propri delle loro corrispondenti greche, continuano a caratterizzarsi in base alla loro capacità di «parola».

Soprattutto, però, è ancora Varrone – stavolta attraverso la mediazione di Aulo Gellio – a fornirci ulteriori, fondamentali informazioni riguardo alle Parcae. Sempre da lui, infatti, apprendiamo sia come si chiamavano, ossia Nona, Decuma e Parca rispettivamente, sia la spiegazione dei loro nomi, sia qual era il loro numero17:

Varrone dice che gli antichi Romani … ai Tria Fata diedero dei nomi derivanti dal partorire e dal nono e decimo mese. «Infatti Parca», dice, «deriva da partus con il mutamento di una lettera, Nona e Decuma derivano dal parto che avviene al tempo giusto».

Se dunque mettiamo insieme le due testimonianze varroniane, possiamo ricavare quanto segue: le divinità romane del destino avevano rispettivamente nome Nona, Decuma e Parca, ma quest’ultimo termine poteva ugualmente essere utilizzato, al plurale, per indicarle tutte e tre, Parcae. Inoltre le stesse divinità potevano essere indicate anche come Tria Fata18. Si potrebbe restare colpiti dal fatto che uno stesso nome divino possa essere usato sia al plurale sia al singolare (Parcae nella prima testimonianza varroniana, Parca nella seconda). In realtà questa oscillazione costituisce un fenomeno tutt’altro che raro nel politeismo romano: basta pensare a casi come Camena vs. Camenae, Carmentis vs. Carmentes, Silvanus vs. Silvani, e cosí via. Che anzi, pure le divinità maggiori possono presentare la stessa oscillazione fra singolare e plurale, come accade quando Venus si presenta in forma di Veneres, Vertumnus in forma di Vertumni, Iuno si moltiplica nelle varie Iunones, il Lar diventa Lares, e cosí via. È questa la ragione per cui, nella religione di Roma, una stessa divinità poteva essere presente in piú comunità identificata sotto epiteti diversi, ovvero assimilata (per taluni aspetti) a un’altra divinità, appartenente a un pantheon straniero; e cosí via19. Gli dèi del politeismo romano sono «potenze», non «persone» dotate di un’identità individuale, e come tali possono sfuggire anche alle normali leggi che regolano la struttura del linguaggio, ossia il numero grammaticale. Piú avanti dovremo anzi vedere che esse si comportano in modo ugualmente libero, e in base allo stesso principio, anche quando è in gioco il «genere» grammaticale20.

Come si sarà inoltre notato, attraverso i loro nomi queste tre divinità appaiono direttamente legate al momento del parto e della nascita: le prime due, Nona e Decuma, sono dette cosí perché il corso del nono e del decimo mese, rispettivamente, erano ritenuti i periodi piú naturali per la conclusione di una gravidanza; la terza, Parca, perché il suo nome conteneva la radice di pario, «partorisco»21. In generale, il fatto che le divinità prendano il loro nome dalla sfera di influenza che occupano non è un fatto eccezionale ma (come ben sappiamo) costituisce piuttosto la norma nella religione romana. Come dice Servio22,

si sa che le divinità (numina) ricevono i loro nomi (nomina) dagli officia che svolgono.

Basta pensare al numen che ha come officium la robigo, la «ruggine» del grano, e che ha per nomen appunto Robigo: la stessa cosa che accade con tanti altri dèi minori del politeismo romano, da Vitumnus e Sentinus, le divinità che rappresentano «vita e sentire nel feto», a Carna, quella che cura la «carne» dei visceri interni: altri esempi stiamo anzi per vederne fra un momento. Non dimentichiamo comunque che lo stesso principio può essere applicato anche fra gli dèi cosiddetti maggiori: il numen che ha per officium la «grazia», il «piacere», ossia la venia, porta infatti il nome di Venus; mentre quello che ha per officium il commercio, la merx, si chiama Mercurius. Tornando alle tre Parcae, dunque, sia l’esplicita testimonianza di Varrone, sia i nomi stessi portati da queste divinità, ci rendono certi del fatto che esse proferivano la loro parola/destino al momento della nascita del bambino: secondo un modello culturale del resto estremamente diffuso in tutto il mondo antico, che lega l’evento del parto con quello della decisione relativa alla sorte che tocca al nuovo nato, come avviene nel caso delle Moîrai greche23. Dobbiamo infine aggiungere che in questo stesso passo di Aulo Gellio viene citata di seguito anche l’opinione di Cesellio Vindice (II secolo d.C.), secondo cui i nomi delle tre Parcae sarebbero stati non Parca, Nona e Decuma, come sosteneva Varrone, ma Nona, Decuma e Morta24:

Ma Cesellio Vindice nelle sue antiche spiegazioni afferma: «Tre sono i nomi delle parche, Nona, Decima e Morta», e cita questo verso dall’Odissea di Livio, antichissimo poeta: «quando verrà il giorno, che Morta ha pronunziato (profata)». Questo brav’uomo di Cesellio ha preso però Morta come se fosse il nome (della dea), mentre avrebbe dovuto intenderlo piuttosto come la Moira.

In realtà si tratta di una testimonianza poco affidabile. Verisimilmente infatti Cesellio era stato tratto in inganno dal verso di Livio Andronico (su cui dovremo ritornare) che egli citava a sostegno della propria tesi: quando dies adveniet quem profata Morta est, «quando giungerà il giorno che Morta ha profetizzato»25. Nel testo di Andronico, però, Morta non costituiva affatto uno dei nomi delle Parcae, ma quello che il poeta, traducendo l’Odissea, aveva deciso di attribuire alla Moîra greca. Lo stesso Gellio, del resto, non sembrava prendere molto sul serio questa interpretazione, visto che definisce Cesellio homo minime malus («quel brav’uomo») e fa rilevare come Morta in Andronico fosse semplicemente una traduzione del termine greco Moîra26.

Avviciniamo adesso l’obiettivo al legame che intercorreva fra le Parche da un lato e la nascita del bambino dall’altro, cosí come Varrone lo mette in evidenza. In realtà, che questo momento costituisse la specifica provincia divina occupata dalle dee del destino ci viene ulteriormente confermato da una preziosa testimonianza di Tertulliano, la quale ci permette anzi di ampliare ulteriormente l’orizzonte religioso della nostra ricerca. L’apologeta sta dicendo che all’inseminazione e formazione dell’homo nell’utero materno presiede certo una potenza divina, che i cristiani attribuiscono agli angeli, mentre la superstitio dei Romani ha immaginato a questo scopo l’esistenza di alcune divinità, quali27:

Alemona, colei che nutre (alo) il feto nell’utero, Nona e Decima, dai mesi delle doglie (a sollicitioribus mensibus), Partula, colei che governa il parto, e Lucina, colei che porta alla luce il bambino.

Tertulliano si appoggia qui alle ricerche di Varrone28: i nomi di tre fra le divinità citate – Nona, Decima, Partula – coincidono infatti con quelli tramandatici da Gellio, se si esclude il piccolo scarto fra Parca e Partula. La differenza piú rilevante però ci sembra un’altra: in questo caso le nostre tre dee figurano non come divinità del destino ma, alla stessa stregua delle altre dee ricordate nel testo, come operatrici divine incaricate di rappresentare – sotto specie religiosa – le diverse fasi cui il corpo femminile, e il feto che esso ospita, vanno soggetti: le doglie che caratterizzano il nono e decimo mese, la fase finale del parto. In altre parole, quelle che siamo soliti pensare come «le tre Parche» – dee del destino isolate nella loro triade, perché cosí ce le mostrano spesso le testimonianze antiche – adesso invece ci si presentano inserite in una serie di cui, allo stesso titolo, fanno parte anche altre divinità: Alemona – l’operatrice divina che dà nutrimento al feto – e Lucina – l’operatrice divina che lo porta alla luce. Altrettante dee cioè, alle quali potremmo aggiungere, attingendo alla stessa filiera, anche Consevius, il dio della «emissione del seme» (maschile, talora anche femminile); Fluvionia o Fluonia, Mena, divinità che rappresentano il «flusso mestruale che si blocca al momento della concezione»; Ossipagina, la divinità che «consolida le ossa nel feto»; Vitumnus e Sentinus, gli dèi che danno «vita e sentire al feto»; Antevorta Porrima Prorsa da un lato, Postverta dall’altro, divinità che regolano rispettivamente la «posizione del feto» (testa in avanti / piedi in avanti) nel grembo materno; Numeria, colei che rappresenta il «giusto tempo nel parto»; Genita Mana la divinità della «nascita favorevole»29.

Questa nuova prospettiva in cui le Parcae ci vengono presentate, ossia come presenze divine inserite in una piú ampia filiera di dee del corpo femminile, non deve però sconcertarci. Per dare ragione di quella che – a noi – potrebbe sembrare solo una contraddizione (o peggio una confusione testuale) basta ricordare che il politeismo romano non è un sistema rigido, ma un organismo flessibile, nel quale le divinità non sono imprigionate in «ambienti» univocamente definiti ma possono «esercitare la loro parte» – per usare la celebre distinzione di Georges Dumézil – in sfere d’azione di volta in volta differenti30. Proviamo dunque a pensare le Parcae sia come dee che definiscono il destino dei nuovi nati sia, contemporaneamente, come interne alla filiera occupata dagli dei minuti che presiedono alla formazione e nascita del feto. In questo modo davanti ai nostri occhi si apre un orizzonte fisiologico e religioso all’interno del quale la formazione dell’homo, come la chiama Tertulliano, si muove lungo un percorso duplice: che consta sia della propria costituzione fisica, sia dell’attribuzione di un destino che lo accompagnerà per il resto dei suoi giorni. Nel bambino che nasce, corpo e fatum fanno parte dello stesso processo, per questo sono amministrati dalle medesime divinità.

Per la verità, il panorama religioso dei Romani ci presenta un ulteriore caso di dee del destino che, contemporaneamente, agiscono anche come operatrici nei processi interni al corpo femminile. Poche e scarne parole di Agostino, infatti, ci documentano l’esistenza di «dee che cantano il destino a chi nasce (fata nascentibus canunt) e sono dette Carmentes». Ci troviamo dunque di fronte a una sorta di replica delle Parche: la sfera di influenza propria delle nostre divinità (nascita, destino) appare adesso realizzata attraverso personalità divine ancora differenti. La cosa non ci stupisce, naturalmente, conosciamo la ricchezza e la flessibilità tipica del politeismo romano. Anche Plutarco menziona una Carmenta intesa come «la Moira che presiede alla generazione degli uomini», dunque sulla sfera d’azione ricoperta da questa divinità (nascita, destino) non sembrano esserci dubbi31. Sarà utile notare inoltre che le Carmentes, dee del vaticinio, traggono il proprio nome dal carmen, inteso come il canto profetico, in base al principio generale, enunciato da Servio, che ci è ormai noto (il nomen dei numina deriva dall’officium svolto). Interessante infine il fatto che il carmen evocato nel nome di queste divinità, cosí come il canere che caratterizza la loro sfera di azione, richiami il medesimo carmen e il medesimo canere – intesi come attività profetica – che Catullo e Orazio (secondo quanto abbiamo visto sopra) enunciano come caratteristico anche delle Parcae.

È facile vedere, insomma, che Carmentes e Parcae condividono una medesima agency divina: ossia quella, tipicamente romana, che configura il destino come un prodotto della «voce», un verdetto proferito, si tratti di un fatum pronunziato nella modalità del fari o di un carmen che rimanda alla sfera del canere. Questa medesima agency profetica ci si presenta articolata secondo due identità divine differenti, sia sotto forma di Parcae sia sotto forma di Carmentes. Solo che le competenze divine delle Carmentes non sono limitate alla definizione del destino che attende i nuovi nati. Varrone ci informa infatti che «a Roma sorgono are erette alle due Carmentes, delle quali una si chiama Postverta e l’altra Prorsa, dette cosí dal nome e dalla potestà che esercitano sul parto dritto o rovesciato»32. Conosciamo già Postverta e Prorsa come due fra le dee che agiscono in qualità di operatrici divine attive nel grembo materno. Varrone specifica però che esse portano anche il nome di Carmentes: dunque le stesse divinità che hanno per officium lo spostamento del feto nell’utero materno ricoprono anche quello di «cantare il destino a coloro che nascono», come dice Agostino. In altre parole la situazione si presenta identica a quella in cui si trovano le Parcae (se si esclude che le Carmentes sono due, e non tre): anche le Carmentes agiscono sia come divinità profetiche, che al momento della nascita di un bambino ne pronunziano il destino, sia come operatrici divine attive nel grembo della gestante. Ancora una volta, insomma, per quanto riguarda la agency divina il processo fisico della nascita fa tutt’uno con quello, piú astratto, relativo alla determinazione del fato: a rappresentare questi due processi sono le medesime divinità.

2. La dea «Fata» e la Moira che parla.

Come Varrone ci ha mostrato all’inizio, nella sfera religiosa amministrata dalle Parcae la parola efficace – quella che si manifesta sotto forma di fatum – svolge un ruolo determinante: è infatti attraverso il loro fari che esse «costituiscono» il destino del bambino al momento della sua nascita. In realtà, l’importanza del ruolo svolto dal fari nella provincia di queste divinità ci viene ulteriormente confermata da una importante (e notissima) scoperta epigrafica, avvenuta verso la metà del secolo scorso.

Si tratta di tre cippi iscritti rinvenuti nel Lazio in località Tor Tignosa e attualmente conservati al Museo Nazionale delle Terme di Diocleziano. Margherita Guarducci, la prima a prendere in esame queste preziose iscrizioni, le ha datate alla fine IV - inizi III secolo a.C.33. In esse si legge rispettivamente: Neuna Fata; Neuna dono; Parca Maurtia | dono. Si tratta dunque di tre dediche (dono = donum) a divinità femminili dal nome, rispettivamente, di Neuna Fata, Parca Maurtia e Neuna (senza epiclesi): in quanto dedicatarie dell’offerta, i loro appellativi figurano al dativo34. Com’è facile immaginare l’interpretazione di queste iscrizioni ha dato origine a molteplici discussioni, tanto piú che alcuni anni dopo nella stessa area ne è stata trovata un’altra, morfologicamente simile alle precedenti, contenente una dedica al Lar Aeneia (se cosí si deve leggere e ricostruire il testo dell’iscrizione)35. La presenza di questo ulteriore cippo, assieme ad altro materiale archeologico proveniente dallo stesso contesto, ha fatto pensare a un complesso unitario di donari pertinenti a un santuario, frequentato presumibilmente a partire dall’età tardo-arcaica36. Ma torniamo alle tre iscrizioni che ci interessano piú direttamente.

Non v’è dubbio infatti che i nomi divini in esse registrati manifestino una notevole aria di famiglia con le testimonianze forniteci da Varrone: se infatti Parca corrisponde a Parca, Neuna corrisponde a Nona (< Nouna < Neuna)37. In questo caso, però, i nomi delle due divinità appaiono rispettivamente accompagnati da epiclesi: Parca infatti è definita Maurtia, mentre Neuna è definita Fata. Per quanto riguarda Maurtia, benché si sia cercato di identificarla con la Morta citata da Cesellio come nome alternativo a Parca38, la linguistica storica invita a escludere decisamente questa possibilità. Che il sostantivo Morta possa derivare da Maurtia è infatti foneticamente molto improbabile: al contrario Maurtia si presenta chiaramente come un derivato dal nome del dio Mars (Mavors)39. Ricordiamo inoltre che la testimonianza di Cesellio – secondo cui Morta sarebbe stato il nome di una delle Parcae – è di per sé assai poco attendibile40. Inutile dire però che, per quanto ci riguarda, l’epiclesi piú interessante è certamente costituita da Fata. A prima vista questo appellativo potrebbe richiamare il nome collettivo, tria Fata, che Varrone (o Gellio) documenta come alternativo a quello di Parcae. Ma non lasciamoci ingannare dalle apparenze41. Anche se dei Fata dovremo occuparci a lungo nelle pagine che seguono, infatti, una cosa appare chiara fin da subito: la testimonianza tramandata in Gellio ci presenta un neutro plurale, (i) Fata, derivati da Fatum; mentre l’iscrizione di Tor Tignosa ci mette di fronte a un femminile, (la) Fata. La differenza non è di poco conto. Come dobbiamo interpretare dunque questo nome divino?

Conviene senz’altro partire dalla riflessione linguistica, ossia dalla specifica morfologia di Fata. La religione romana arcaica, infatti, comprende altre divinità femminili i cui nomi manifestano una formazione del tutto analoga. È questo il caso di Stata (Stata mater), la dea che arresta gli incendi; della già citata Genita (Genita Mana), dea della buona nascita; di Tacita, la dea che impone il silenzio o lo rappresenta; di Moneta, la dea che fa ricordare42. Notiamo anzi che Moneta, proprio come Fata (Neuna Fata), può funzionare anche come epiclesi di un altro nome divino, Iuno (Iuno Moneta). Come si vede tutti questi nomi sono tratti da una radice verbale tramite un suffisso -ta: Sta-ta < sta- / stare, Geni-ta < gen-e- / gignere, Taci-ta < tac-e- / taceo, Mone-ta < mone- / moneo. Designazioni di questo tipo esprimono l’azione contenuta in ciascuno di questi verbi sotto la forma di una rappresentazione divina – in altre parole lo stare, il generare, il tacere, il far ricordare, divengono altrettante divinità. In questi casi il modello (insieme linguistico e religioso) che viene messo in azione è ancora una volta quello che conosciamo: il nome di un dio o di una dea viene espresso direttamente tramite l’officium che è loro proprio43. Basandoci sul paradigma morfologico e religioso che abbiamo individuato, quello costituito da Sta-ta, Geni-ta, Taci-ta e Mone-ta, possiamo dunque interpretare Fata come, appunto, Fa-ta: ossia un nome derivato direttamente da fa-ri attraverso lo stesso suffisso -ta che abbiamo visto agire negli altri casi. Conseguentemente possiamo vedere nella Fata di Tor Tignosa la divinità che «parla» alla maniera del fari – il «dire» potente ed efficace che conosciamo –, la dea che lo «rappresenta» e lo «mette in azione»: cosí come Tacita rappresenta o impone l’opposto del «parlare», ossia il «tacere». Il fatto che Fata si trovi in compagnia di altre due figure che si presentano come dee del destino, Neuna/Nona e Parca, conferma il fatto che anche Fata agiva verosimilmente nel medesimo ambito, quello della profezia, come del resto il suo stesso nome è già in grado di dirci. Il carattere oracolare di questo culto potrebbe anzi essere confermato dal fatto che l’area in questione dista appena un chilometro da una zona ricca di sorgenti sulfuree (bacino della Solforata), da identificare forse con la Silva Albunea in cui Virgilio collocava l’oracolo di Fauno44.

Torniamo adesso al fatum dei Romani e al suo rapporto con la parola efficace: ossia il destino rappresentato come un «detto» pronunziato nella modalità del fari. La testimonianza di Varrone, rafforzata dalla Fata di Tor Tignosa, non potrebbe essere piú esplicita. È la parola/fari delle Parche – quella che stabilisce la durata della vita – ciò che determina automaticamente il fatum del nuovo nato45:

dato che le Parche stabiliscono con la parola (fando) ai fanciulli il tempo [della loro vita], si dice «fato» (fatum) e «avvenimenti fatali» (res fatales).

Dopo quanto abbiamo accennato sopra, parlando del destino greco, il confronto con la situazione romana diventa davvero illuminante. Non c’è dubbio che le tre Parcae ricoprano lo stesso ruolo che hanno le Moîrai in Grecia: si presentano anche nello stesso numero, sono tre, e il loro intervento si colloca ugualmente al momento della nascita. Di certo, come si è sempre supposto, la rappresentazione delle Parcae romane è stata variamente influenzata da quella delle Moîrai greche. La differenza che corre fra queste due configurazioni culturali, però, non potrebbe essere piú netta. Se infatti in Grecia le divinità del destino «filano», per assegnare a ciascun nuovo nato la parte di «filato» che rappresenta la sua vita, a Roma invece le Parcae «parlano»: fantur. Le divinità del destino esplicano il proprio potere attraverso lo strumento della parola efficace. Per la verità, si tratta di un contrasto che già Livio Andronico metteva chiaramente in luce nella sua traduzione dell’Odissea allorché, come abbiamo in parte anticipato, rendeva in questo modo uno dei tanti luoghi omerici in cui viene evocata la Moîra di morte46: quando dies adveniet quem profata Morta est, «quando giungerà il giorno che la Morta ha pronunziato (profata)». Anche Andronico dunque aveva in mente un’immagine «parlante», anzi profans, della divinità del destino. Una volta trasferita a Roma sotto il nome di Morta47, la Moîra di Omero ha ricevuto la facoltà del fari, anzi del profari. Non fila piú, adesso «parla», ovviamente in modo determinante. La Morta/Moîra ha «pronunziato» (alla maniera del fari) e «deciso» il giorno della morte: è il suo pro-fari che ha determinato il destino rispetto a qualcuno. Ribadiamolo, al momento della propria nascita l’uomo romano non riceve del filo filato, o un tizzone, ma un verdetto: il suo destino si gioca sul filo della «parola».