Come si sarà notato, nel riferire la testimonianza di Varrone relativamente ai nomi delle Parcae Aulo Gellio ci fornisce un’informazione ulteriore riguardo a queste divinità. Egli le chiama infatti con il nome di Tria Fata1:
Varrone dice che gli antichi Romani … ai Tria Fata diedero dei nomi derivanti dal partorire e dal nono e decimo mese.
Le parole di Gellio ci mostrano dunque che il termine tramite cui si designava il «verdetto» pronunziato dalle dee (fatum, fata) poteva costituire direttamente il nome con cui queste divinità erano chiamate (Tria Fata). Evidentemente i fata – i «detti determinanti» pronunziati da una potenza divina – avevano assunto il ruolo e la figura di divinità autonoma. Questo fenomeno ci mette di fronte a un’ennesima applicazione del già citato principio che Servio descrive come tipico della religione romana: «si sa che le divinità (numina) ricevono i loro nomi (nomina) dagli officia che svolgono»2. In base allo stesso modello le divinità che hanno come officium quello di determinare i fata degli uomini, possono assumere direttamente il nomen di Fata. Sotto i nostri occhi vediamo prendere forma una catena di senso che rivela – ancora una volta – l’estrema produttività e flessibilità tipiche del politeismo romano: sempre pronto a creare nuove rappresentazioni religiose reinterpretando quelle già esistenti3.
1. Il genere dei «Fata».
Possiamo essere certi del fatto che questo appellativo delle divinità del destino, alternativo a Parcae, ha goduto di una certa fortuna nella tradizione romana. Già Properzio attribuisce espressamente l’appellativo di Fata a quelle che altrove sono definite Parcae. Ecco infatti come il fantasma di Cinzia riafferma, attraverso un solenne giuramento, la propria fedeltà al poeta4:
Giuro sul non riavvolgibile [ / non revocabile] (nulli revolubile carmen) canto dei Fata …
La metafora è bella, molto properziana nella sua arditezza, ma esplicita. Quel «canto non riavvolgibile», infatti, fonde due tratti tipicamente attribuiti alle divinità del destino, il filare (proprio delle Moire greche) e la parola, la profezia (proprio, come sappiamo, delle Parche romane). Dei Fata troviamo inoltre menzione in una iscrizione scoperta nel 1890 nella zona nord del Campo Marzio – risalente all’1 d.C. e connessa ai Ludi indetti per il ritorno di Augusto – nella quale sono contenute dediche a quindici diverse divinità: fra esse sono ricordati anche i Fata Divina; mentre il teonimo Tria Fata ricorre in varie iscrizioni sepolcrali5. Sappiamo inoltre che con Tria Fata si indicava anche una zona del Foro, presso i Rostra Augusti, di rimpetto alla Curia e non lontano dal tempio di Giano. Vi sorgeva un gruppo statuario raffigurante tre figure femminili, che Plinio definiva però «Sibille»6. Si tratta peraltro di una identificazione (o confusione) che non può sorprenderci, visto che tutte queste figure soprannaturali hanno in comune il carattere fatidico della parola pronunziata. Ciò detto proviamo a chiederci: che cosa si immaginavano, concretamente, i Romani quando parlavano dei Fata o Tria Fata? Di queste divinità conosciamo la vis e l’officium, ossia la specifica capacità di intervento e la provincia sulla quale esercitavano il proprio potere: ossia il destino, il corso che gli eventi avrebbero seguito relativamente a una certa persona o a un certo gruppo. Ma a parte vis e officium, che tipo di rappresentazione era associata a questi Fata o Tria Fata? Piú semplicemente, quando parlavano di Fata o Tria Fata i Romani si immaginavano dei maschi o delle femmine? Di per sé il nome che portano, al neutro plurale, non ci permetterebbe infatti di stabilirlo.
Dato che Gellio con Tria Fata designa le Parcae – Nona, Decima, Parca – è lecito presumere che il corrispettivo figurativo, se possiamo dire cosí, dei Tria Fata nell’immaginario romano, fosse costituito da personaggi femminili. Anche Properzio del resto si immaginava i Fata come creature femminili, visto che dietro la loro menzione cogliamo l’ormai avvenuta fusione fra le Parche romane, divinità profetiche (carmen), e le greche Moire filatrici (revolubile). Si tratta dello stesso immaginario presupposto anche dall’iscrizione posta sulla tomba di Dusmia Nothis:
O Tria Fata divini, che avete in mano i segreti della vita e scorrendo lo stame (staminis … ductu) dividete il tempo, Fata crudeli! Spesso cantate (canitis) cose troppo dolorose.
Non v’è dubbio che il dedicatario di questa iscrizione vedesse i Tria Fata a cui si rivolgeva nella stessa maniera di Properzio: mescolando cioè l’immagine delle Moire greche (staminis … ductu) con quello della Parche profetiche (canitis)7. Che i Fata fossero immaginati come donne, comunque, ce lo conferma soprattutto un affresco che compare nella cosiddetta catacomba di Vibia. Questa raffigurazione fa parte di un complesso, databile alla prima metà del IV secolo d.C., che contiene una serie di preziose testimonianze relative a culti funebri non cristiani. La scena che ci interessa raffigura il giudizio di Vibia, moglie di un sacerdote di Sabazio, e presenta un gruppo di personaggi accompagnati dalle relative scritte identificative. In primo luogo Dis Pater ed Aeracura, entrambe divinità dei morti, sedute e poste su un piedistallo; in basso, alla loro sinistra stanno la defunta, Vibia, insieme ad Alkestis, precedute da Mercurius nuncius, con in mano il caduceo; mentre alla loro destra, in piedi, si vedono tre figure velate, accompagnate dalla scritta Fata Divina8. Osserviamo piú da vicino l’immagine di questi personaggi. Si tratta di tre figure femminili abbigliate allo stesso modo di Vibia, Alkestis e Aeracura: indossano infatti una lunga tunica e una palla, con il cappuccio tirato sul capo9. Allo stesso modo dei Tria Fata ricordati in Gellio, dunque, anche i Fata rappresentati nella catacomba di Vibia erano concepiti come personaggi femminili. Il loro nome – Fata – mantiene il genere neutro originario, ma le figure a cui rimandano sono visibilmente donne.
Un aureo di Diocleziano, 284-86 (fig. 10), rappresenta su un lato la testa dell’imperatore, sull’altro tre figure femminili, drappeggiate e laureate, con indosso una corazza. Tutte e tre reggono una cornucopia nella mano sinistra. Le due affrontate si tengono per mano e contemporaneamente reggono un timone, poggiato a terra. La terza regge ugualmente con la mano destra un timone, sempre poggiato a terra. Se la cornucopia simboleggia l’abbondanza, i timoni evocano la capacità di guidare gli avvenimenti: attributi che si attagliano perfettamente alle figure rappresentate, visto che la scritta da cui sono accompagnate in entrambi i casi recita Fatis Victricibus10. I personaggi che abbiamo di fronte, dunque, sono le nostre divinità del destino. Possiamo immaginare che la scritta, da cui queste immagini sono accompagnate, le designi come Fata victricia, al neutro – ma se invece si trattasse non di Fata ma di Fatae, al femminile, definite come Victrices «vincitrici?» Se cosí fosse, si tratterebbe di una variazione di grande interesse: all’immagine femminile che già conosciamo, infatti, le divinità del destino avrebbero adesso aggiunto anche una denominazione esplicitamente femminile. Vediamo altri esempi.
Un’iscrizione della Gallia Tarraconensis – che suona Fatis / Q(uintus) Fabius Nysus / ex voto – è accompagnata da tre protomi femminili, piuttosto rozze, realizzate su ciascuna delle restanti tre superfici11. Il nome delle divinità dedicatarie è espresso al dativo, ragion per cui (nuovamente) non possiamo sapere se la dedica riguardi dei Fata o non piuttosto, direttamente, delle Fatae. Lo stesso dubbio resta insoluto a proposito di un’altra iscrizione con figure, proveniente stavolta dalla Pannonia Superior (dall’antica Savaria, oggi Szombathely, nell’attuale Ungheria). La dedica è espressa, anche qui, con l’espressione Fatis, e, al di sopra dell’iscrizione, si vedono tre figure femminili velate stanti, allo stesso modo dell’immagine precedente. Nella parte posteriore vi sono altre tre figure simili, cosa che lascia supporre una duplicazione delle tre dedicatarie. Difficile esprimersi anche a proposito di un’ara di pietra conservata al Museo Calvet di Avignone: tre figure femminili affiancate, velate e drappeggiate, in posizione stante, accompagnate da un’iscrizione che recita «Fatis / Cornelivs [Ach]il[l---]»12. Se in tutti questi casi possiamo restare incerti sul genere del nome attribuito alle divinità del destino, è certo però che ci si rivolga a delle Fatae, e non a dei Fata, in una iscrizione come Fatabus / Deico / Biei f(ilius) / v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito), proveniente da Brixia. Il suffisso -abus in luogo del piú normale -is è verisimilmente usato per evitare ogni ambiguità con il dativo neutro del nome: Deicone voleva fosse chiaro che intendeva sciogliere il suo voto alle Fatae, non ai Fata. Altre Fatae incontriamo poi verosimilmente in una dedica rivolta a Fatis Datricibus, sempre proveniente da Brixia, risalente al II secolo13. Nessun dubbio per quanto riguarda l’iscrizione che ricorda una donna di nome Maria Euprepia, a cui le Fatae concessero di vivere quarantacinque anni: quai (= cui) Fatae concesserunt vivere annis XXXXV14. È probabile che nell’Italia settentrionale le dee romane del destino si fossero incontrate con le Matres o Matronae: divinità femminili proprie della cultura celtica, anch’esse in numero di tre, di cui abbiamo numerose testimonianze epigrafiche e iconografiche15. Si vedano queste due iscrizioni praticamente gemelle, provenienti da aree contigue (Brescia e Milano), in cui lo stesso epiteto è riferito sia alle Matronae sia alle Fatae: nella prima si legge infatti Fatis / Dervonibus / v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito) M. Rufinius / Severus; nella seconda invece Matronis / Dervonnis C. Rufinius / Apronius / v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito)16. Il nome Dervones o Dervonnae costituisce verisimilmente la trascrizione latina dei nomi di divinità celtiche legate al culto delle querce: piante che, come sappiamo, godevano di un interesse particolare presso queste popolazioni17.
Altre volte, però, le testimonianze che possediamo ci mettono di fronte a una situazione differente. Un’iscrizione proveniente da Vezzano, nella regione X (Venetia et Histria), contiene una dedica rivolta ai Fatis Masculis, nella quale cioè è messo volutamente in evidenza il genere maschile dei dedicatari18. L’epiteto aggiunto al nome della divinità svolge la stessa funzione attribuita al suffisso -abus presente nell’iscrizione citata sopra, serve a disambiguare il genere: stavolta però in direzione maschile, non femminile. Divinità espressamente definite Fati Masculi hanno tutta l’aria di volersi opporre a delle Fatae. Chi sono questi Fati masculi? Difficile dirlo. Perlomeno però possiamo escludere di trovarci di fronte a una versione plurale del fatus (al maschile) che incontriamo in numerose iscrizioni funebri, generalmente accompagnato dal possessivo (fatus meus) e in espressioni di carattere formulare. In questi casi, infatti, siamo di fronte non a una personificazione maschile del destino personale, come in passato si è voluto credere19; si tratta di un semplice fenomeno linguistico, connesso alla progressiva scomparsa del neutro nel latino volgare. Oltre che nelle iscrizioni, infatti, la forma fatus la troviamo in bocca ai liberti della Cena di Trimalchione, alla stessa stregua di vinus, mentre ancora nelle iscrizioni funebri incontriamo la forma monumentus20. A produrre l’esistenza di fatus è stata l’evoluzione della lingua, non quella della religione.
Possiamo dunque immaginare che i Fati masculi di Vezzano costituissero una particolare configurazione – o forse meglio sarebbe dire declinazione – a carattere maschile delle divinità del destino, Fata o Fatae che fossero, conseguenza di quella flessibilità e di quella continua produttività del politeismo romano che già altre volte abbiamo evocato. Caratteristiche che si fanno particolarmente evidenti in territori periferici, dove vengono a contatto non solo uomini e donne, ma anche divinità, appartenenti a culture diverse. Questo fenomeno si manifesta anzi esplicitamente in dediche come questa, proveniente da Aquileia, che suona: Fatis divin(is) / et barbaric(is) / v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito) / Postumia P(ubli) l(iberta) / Callirhoe21. Postumia Callirhoe intendeva dunque rendere grazie anche ai Fata «degli altri», le divinità del destino onorate da genti che non erano le sue? Prova manifesta del fatto che man mano che ci si allontanava dal centro le divinità romane del destino si incontravano con altre divinità, appartenenti ad altre popolazioni e ad altre culture, con le quali potevano incrociarsi. Se ad Aquileia vi era stato chi intese onorare i Fata barbarica, in Africa Proconsolare, a Mactaris, qualcuno volle invece onorare dei Fata Romana, rivendicando contestualmente la propria origine dalla Itala tellus22. A quel che si vede, i Fata si declinano non solo in base alla distribuzione geografica dei dedicanti ma anche, si direbbe, a quella delle loro esperienze di vita. Tornando al genere dei Fata, notiamo infine che altre volte ci troviamo di fronte a dediche in cui le divinità del destino si configurano sia come maschi sia come femmine, sul tipo di Fatis Fata[bus] ovvero Dis Deab(us) Fatalibus23. In entrambi i casi incontriamo personaggi di genere sia maschile sia femminile, i dedicanti, insomma, dovevano avere in mente un gruppo di divinità miste.
Per quanto abbiano carattere frammentario, le testimonianze che abbiamo esaminato fin qui risultano già abbastanza istruttive per ciò che riguarda l’evoluzione del modo in cui i Fata o Tria Fata vennero concepiti nella cultura diffusa sui territori dell’impero, dove le loro rappresentazioni assumevano forme molteplici. Possiamo infatti essere sicuri che tali divinità, benché designate attraverso un neutro plurale, originariamente erano immaginate come personaggi femminili, i quali, quando veniva dato loro un diverso appellativo, si chiamavano Nona, Decuma e Parca. Esse vennero progressivamente a fondersi (come sappiamo) con le Moire greche, anch’esse di genere femminile. Inoltre abbiamo visto che come persone femminili le divinità del destino erano sentite anche da chi ne volle raffigurata l’immagine nella catacomba di Vibia, benché le divinità conservassero ancora il proprio nome al neutro plurale. Le testimonianze epigrafiche, però, ci rivelano anche l’esistenza di Deae Fatales e di vere e proprie Fatae, ossia divinità la cui denominazione, attraverso il genere grammaticale, viene fatta corrispondere direttamente ai personaggi (femminili) rappresentati. Correlativamente, però, ci viene documentata anche l’esistenza di Fati definiti espressamente masculi, intesi cioè come figure maschili. Infine ci sono testimoniati gruppi divini misti, in cui compaiono insieme sia Fati sia Fatae. Che cosa è accaduto?
Evidentemente la denominazione originaria, Fata, neutro plurale, non aveva retto alla pressione delle diverse rappresentazioni culturali e religiose che circolavano riguardo alle potenze del destino in un territorio culturalmente ed etnicamente sempre piú variegato. Dato che queste divinità venivano immaginate sia sotto forma di personaggi femminili (come probabilmente avveniva nella fase piú antica e come peraltro continuerà ad avvenire), sia sotto forma di personaggi maschili (come è evidentemente accaduto in determinate zone), il loro nome ha finito per assumere anche il genere grammaticale di volta in volta piú confacente al tipo di rappresentazione che di loro si voleva comunicare: Fati o Fatae, non piú il generico Fata. Questa oscillazione fra genere femminile e genere maschile sia nella rappresentazione, sia nel nome stesso attribuito a queste divinità, non deve però stupirci. Sappiamo bene che nel politeismo romano il genere della divinità risulta talora poco rilevante. Ne abbiamo discusso piú dettagliatamente altrove, ricordando sia le testimonianze antiche che attribuiscono entrambi i generi a una stessa divinità; sia l’uso del sostantivo deus per indicare anche divinità femminili; sia infine quello di numen, sostantivo neutro, che come tale ‘neutralizza’ il genere della divinità evocata. In ogni caso, di particolare interesse si presenta una testimonianza di Servio che, citando un clipeus che sarebbe stato consecratus sul Campidoglio, riporta anche l’iscrizione da cui era accompagnato: genio urbis Romae, sive mas sive femina, «al Genius della città di Roma, che sia maschio oppure femmina»24. L’antico commentatore interpreta questa formula alla luce della cautela, usata dai Pontefici, nel non rivelare esattamente il nome delle divinità cittadine, onde evitare che esse fossero exauguratae dai nemici. Non c’è dubbio però che, per quanto riguardava il Genius della città di Roma, il genere (maschile o femminile) non fosse ritenuto pertinente. Anche il fatto che alcune divinità diciamo minori si presentino sia in forma maschile, sia in forma femminile, potrebbe essere ugualmente spiegato sulla base di una scarsa rilevanza del genere nella determinazione del divino: è questo il caso di un Domiducus accanto a una Domiduca, di un Iugatinus e una Iugatina, di un Limentinus a cui fanno riscontro una Lima o dei Limi25. Per quanto riguarda coppie come Faunus e Fauna, Liber e Libera o Fatuus e Fatua, e cosí via26, in linea di principio potremmo interpretare queste «paia» come divinità che lavorano in coppia, alla maniera, appunto, di «coppie» umane, sia nella forma di coppie coniugali, sia in quella di coppie costituite da fratello e sorella o da padre e figlia: come in certi casi i testi potrebbero invitarci a credere, con una proiezione del modello familiare umano sul mondo divino27. Ma che dire del nostro caso, in particolare, in cui le divinità del destino possono presentarsi come Fata, Fati o Fatae? Qui è difficile vedere «coppie» o «famiglie» divine, è molto piú probabile che – nelle diverse rappresentazioni culturali che concorrono a formarne l’immagine – questo tipo di divinità sia poco definito quanto al genere. Tanto piú che, come abbiamo già visto, nella religione romana anche il numero dei nomi divini, non solo il genere, può talora oscillare28. Il fatto è che gli dèi dei Romani, ribadiamolo, non sono persone, dotate di una identità fissa e definita, ma «potenze», la cui rappresentazione è indipendente dai vincoli (anche linguistici e grammaticali) imposti agli umani29.
2. Nel regno di Melusina.
Il cammino culturale percorso dal destino romano, e dalle divinità che lo rappresentano, si presenta dunque estremamente intrecciato, se non intricato. All’inizio troviamo infatti una «parola», fatum o fata, pronunziata da un vate ispirato, o direttamente dalla divinità, che come tale rappresenta il «verdetto» relativo agli eventi che caratterizzeranno la vita di una persona o di una comunità. Questo stesso verdetto, però, può diventare a sua volta il nome stesso che designa direttamente le divinità il cui officium consiste nel determinare il destino: Tria Fata o semplicemente Fata (o Fata Divina), a designare le tre Parcae. Ma ecco che, sotto i nostri occhi, queste divinità si articolano ulteriormente sotto forma di personaggi tanto maschili quanto femminili, i quali possono presentarsi sia separatamente (Fati o Fatae) sia insieme, divinità maschili e femminili che figurano in uno stesso gruppo. Il politeismo romano è una creazione culturale in continuo movimento, lo sappiamo. E le vicende del «destino» e delle divinità che lo rappresentano costituiscono uno dei tanti esempi (anche se certo uno fra i piú interessanti) di tanta flessibilità.
Di fronte a questa denominazione cosí femminile delle divinità del destino, Fatae, è difficile non pensare alle «Fate» che tanta fortuna avranno nel corso del Medioevo. Anche le fate delle fiabe e dei racconti cortesi, infatti, ricopriranno spesso il ruolo di divinità del destino, allo stesso modo cioè delle Fatae che a Maria Euprepia assegnarono la sorte di vivere quarantacinque anni; e alla stessa maniera di Moire e Parche le fate saranno presenti all’atto della nascita per pronosticare, o definire, quale futuro attende il bambino. Ciò che ancora manca alle Fatae romane per essere a pieno titolo delle «fate» medievali, però, è la componente erotica: che pure tanta importanza avrà nelle storie che circoleranno dopo la fine dell’antichità classica. In estrema sintesi, infatti, si può dire che le «fate» del Medioevo siano come delle Moire o delle Parche, però innamorate – capaci alternativamente (ma a volte anche simultaneamente) di fissare il destino di qualcuno ovvero di innamorarsene perdutamente. Perché la complessità di questo affascinante personaggio, la Fata delle fiabe o dei racconti cortesi, si realizzi compiutamente, bisognerà attendere che due figure ben presenti nelle credenze popolari, ma fra loro altrettanto distinte, finiscano a un certo punto per fondersi. Le troviamo entrambe menzionate in una delle testimonianze piú antiche (XI secolo) che possediamo in materia di donne soprannaturali.
Nella sezione De incredulis, posta nel libro XIX della sua vasta compilazione di diritto canonico, Burcardo di Worms enumera una serie di credenze correnti fra il popolo al tempo suo (come il ritenere di buon auspicio una cornacchia che fa udire il suo verso da sinistra o il timore di uscire di casa prima che il gallo abbia cantato); nonché una dettagliata lista di pratiche sessuali femminili ritenute peccaminose, seguite ogni volta dalla penitenza prescritta. Tutta la sezione è organizzata in forma di domande, fra cui queste due:
Hai creduto a quello cui alcuni sogliono credere, ossia in quelle che dal popolo son dette Parcae? Che costoro esistano davvero, e possano fare ciò che si pensa, cioè che quando un uomo nasce esse lo possano indirizzare al modo in cui vogliano? Tanto che, quando costui lo decida, possa trasformarsi in lupo, il «weruvolff» come l’ignoranza del popolo lo definisce, o in qualche altra figura?
E poi subito di seguito:
Hai creduto a quello cui alcuni sogliono credere, ossia che esistono delle donne dei boschi (agrestes feminae), che chiamano sylvaticae? E dicono che hanno natura corporea, e quando lo vogliono si mostrano ai loro amanti, e dicono che si dilettano con loro, e allo stesso modo, quando lo vogliano, si nascondono e svaniscono?
La pena per chi coltivava credenze di questo tipo era sufficientemente lieve, cinque giorni a pane e acqua. Non c’è dubbio comunque che questa testimonianza di Burcardo, benché orientata a fini penitenziali, sia di grande interesse. Attraverso queste domande vediamo infatti delinearsi due tipi folclorici distinti: da un lato le Parcae (i Fata, le Fatae) della tradizione romana, divinità del destino, che la cultura popolare aveva profondamente riplasmato; dall’altro le dame della foresta, le agrestes feminae, che spesso incrociano i propri cammini e la propria vita con quella degli umani30. Progressivamente queste due figure si fonderanno in quella della «Fata» che i romanzi medioevali e le fiabe ci hanno reso familiare: madrina presente al momento in cui un bambino viene alla luce, o amante che intreccerà relazioni sentimentali, o addirittura di matrimonio, con uomini mortali. Sarà soprattutto nel corso del XIII secolo che queste due figure, cosí presenti nella tradizione romanzesca, finiranno spesso per fondersi, dando vita a fate madrine che sono, contemporaneamente, anche fate amanti. Come ad esempio nel romanzo di Cristal e Clarie, in cui si incontra una fanciulla condannata a vivere vicino a una sorgente in fondo alla quale abita un demone. Ella è vittima di un maleficio, procuratale dalla «fata» che – a suo tempo innamorata di suo padre, e da lui respinta – si era ripresentata al momento della sua nascita, dunque in veste di fata madrina: e assieme ad altre due fate l’aveva condannata alla sorte che adesso l’affliggeva31. È molto affascinante vedere le Moire che assisterono un dí alla nascita di Meleagro, le Parcae o Carmentes profetiche di cui ci parla Varrone, i Fata divina dipinti nella Catacomba di Vibia, e cosí via, popolare adesso gli stessi boschi incantati, e gli stessi meravigliosi castelli, in cui si aggirano anche Morgana e Melusina. Questo nuovo scenario ci mette di fronte a uno dei tanti fenomeni culturali in cui la struttura e il tempo – dimensioni non poi cosí inconciliabili fra loro – si combinano per dar vita a credenze, immagini e racconti in cui il passato continua a vivere sotto nuove forme32.