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L’indomani era una giornata serena e senza vento e la gente si affaccendava in terra e in mare, ma Jón Hreggviðsson era disteso a faccia in giù su un giaciglio, a imprecare contro la moglie e a implorare il Signore, gemendo dolorosamente, di dargli tabacco, acquavite e tre sgualdrine. Il demente, seduto per terra a cardare lana, rideva forte. Il fetore delle lebbrose sovrastava tutti gli altri fetori della casa.
D’un tratto il cane salì sul tetto e si mise a fare un gran baccano; fuori si udì un martellare di zoccoli di cavalli, poi uno schiocco di redini e un vociare davanti alla porta. Un uomo ordinò in toni imperiosi agli stallieri di mettersi al lavoro. Jón Hreggviðsson non si mosse. La moglie rientrò di corsa, tutta ansante, dicendo: «Signore Gesù aiutaci, arrivano i signori.»
«Signori?» disse Jón Hreggviðsson. «Non mi hanno già scorticato abbastanza? Cos’altro vogliono?»
Ma non ci fu tempo per dilungarsi sulla questione; il fruscio delle vesti, i passi e le voci erano già nell’ingresso. Gli ospiti erano entrati senza neppure bussare.
Il primo a varcare la soglia di Jón Hreggviðsson fu un gentiluomo robusto e rubicondo, con un ampio mantello, un cappello allacciato sotto il mento, un massiccio anello d’oro, una catenina con una croce d’argento e un frustino costoso. Lo seguì a ruota una donna con un copricapo giallo alto e puntuto, un tabarro nero che scendeva fino alle scarpe e un foulard di seta rossa, in quella mezz’età in cui le guance sono ancora rosate ma il vigore del portamento della giovinezza comincia a declinare, la figura a prender peso e il viso a lasciarsi modellare dalla realtà di questo mondo. Dietro di lei veniva una seconda donna, molto giovane. Era un’immagine poetica della precedente, non avendo ancora fatto esperienza di quelle cose che l’avrebbero resa donna. Aveva il capo scoperto, i capelli sciolti e luminosi. La flessuosità del suo corpo magro rivelava una morbidezza infantile, gli oc
chi erano ultraterreni quanto l’azzurro dei cieli.
Aveva ricevuto in dono la bellezza delle cose ma non ancora la capacità di usarle, perciò il sorriso che fece mentre entrava in quella casa era irrelato all’esistenza umana.
Il tabarro color indaco, con un fermaglio d’argento al colletto, era attillato in vita, e lei lo teneva stretto con le dita sottili, sollevandolo in modo da mostrare le soprascarpe a righe rosse.
Chiudeva questo imponente seguito un nobiluomo dal contegno imperturbabile, meditabondo e sicuro di sé. Aveva una bella presenza e un’età indefinibile, volto liscio, naso dritto, un sorriso delicato e triste al tempo stesso, con un che di femmineo ma senza alcuna volubilità. Il suo portamento misurato attestava un lungo addestramento alla disciplina. Lo sguardo era saldo, eppure gli occhi erano pieni di compassione, grandi e tersi, e davano l’idea di avere un campo visivo più ampio rispetto a quello di altri uomini, a cui ben poco potesse rimanere nascosto. Quegli occhi che coglievano tutto più per natura che per curiosità, più per talento che per impegno, richiamando la calma superficie di un lago, erano il tratto distintivo della sua nobiltà. A conti fatti l’ospite sarebbe parso più un popolano saggio e riflessivo che un signore, se non fosse stato per gli abiti. Comunemente i signori si riconoscono dalle maniere sussiegose, mentre costui si distingueva per il gusto attento ma privo di affettazione. La sua raffinatezza traspariva da ogni cucitura, ogni piega, ogni misura nel taglio delle vesti; gli stivali erano in pregiato cuoio inglese. La parrucca, che portava sotto il cappello a tesa larga perfino lì, tra poveracci e pezzenti, era di ottima fattura e acconciata con cura, come se fosse stato diretto a un’udienza con il re.
Questa distinta combriccola fu seguita, a una certa distanza, dal custode dell’anima di Jón Hreggviðsson, il parroco di Garðar, accompagnato dal suo cane da pastore, con la coda arricciata e il muso intento ad annusare. Di fronte a una tale calca di notabili, la moglie di Jón Hreggviðsson tirò il demente su un letto per far loro spazio.
«Bene bene, mio caro Jón Hreggviðsson di Rein, ecco cosa ti riservava la sorte», esordì il parroco. «Abbiamo qui il vescovo di Skálholt in persona, insieme a sua moglie – madama Jórunn – e la di lei sorella, il fiore delle fanciulle, damigella Snæfríður, figlie del magistrato Eydalín; e infine nientemeno che il fidato emissario del nostro Graziosissimo Sovrano e Re Ereditario, Arnas Arnæus, professore all’Università di Copenaghen – tutti raccolti qui in casa tua.»
Jón Hreggviðsson emise un piccolo sbuffo dalle narici, niente più.
«Il bifolco è malato?» domandò il vescovo, unico tra gli ospiti a tendere la mano, quella con il massiccio anello d’oro.
«Non esattamente», rispose Jón Hreggviðsson. «Ieri sono stato fustigato.»
«Sta mentendo, è stato fustigato il giorno prima. Ieri, in compenso, ha ucciso un uomo, il disgraziato», intervenne la moglie con voce stridula, e si affrettò a sgattaiolare fuori dalla porta alle spalle dei nuovi arrivati.
Al che Jón Hreggviðsson disse: «Pregherei le eminenti signorie vostre di non far caso a quella femmina, ché per giudicarla basta guardare il citrullo che sta lì sul letto… E levati di torno, idiota, non farti vedere dalla gente per bene. Gunna, tesoro! Gunna! Dov’è la mia Gunna, che almeno ha preso gli occhi da me?»
Ma la ragazza ignorò i suoi richiami e il vescovo si rivolse al parroco domandandogli se a quelle povere anime fosse stato accordato qualche
beneficium paupertatis
, sentendosi rispondere che non l’avevano mai richiesto. La moglie del vescovo afferrò il braccio del marito e si sorresse a lui. Snæfríður Eydalín guardò il suo placido compagno di viaggio e il sorriso spontaneo le smorì tramutandosi in sgomento.
Il vescovo pregò il reverendo Þorsteinn di comunicare il motivo della visita dell’emissario regio e di radunare poi tutta la gente di casa, perché desiderava imporre loro la sua benedizione.
Il reverendo Þorsteinn prese allora la parola e ripeté per filo e per segno che l’uomo appena arrivato era un erudito della grande città di Copenaghen, Arnas Arnæus, amico del re, compare di conti e di baroni e orgoglio di questo nostro Paese tanto povero fra le nazioni. Era sua intenzione acquistare ogni sorta di brandello scritto dell’antichità, tanto in pergamena quanto in carta, volumi laceri, vecchi rotoli, frammenti, qualunque cosa somigliasse a una lettera o a un libro che stava rapidamente marcendo nelle mani dei miseri e disgraziati abitanti di questa povera terra, che non avevano più alcun intendimento di certe cose per via della fame e degli altri flagelli divini che si abbattono sugli impenitenti che perseverano nell’ingratitudine verso il Cristo. Il parroco disse che l’uomo avrebbe trovato una collocazione a tutta quella libraglia all’interno del suo grande palazzo, nella città di Copenaghen, affinché si conservasse per l’eternità e i dotti di tutto il mondo potessero convincersi del fatto che in Islanda, un tempo, fosse vissuta gente di vaglia, come Gunnar di Hlíðarendi e il grande Njáll
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con i suoi figli. Il reverendo Þorsteinn spiegò quindi che il suo signore, grazie alla vena profetica che solo gli eruditi testimoni dei doni divini hanno ricevuto, aveva appreso che l’incolto Jón Hreggviðsson di Rein era in possesso di certi antichi frammenti pergamenacei contenenti testi dell’era papista, ed era per questo che l’eminente compagnia partita dall’Eydalur di Ponente per dirigersi a Skálholt aveva deviato dal tragitto, passando da Akranes, per conferire con il povero locatario di padron Gesù che ora sonnecchiava, fresco di scudisciata, sul suo giaciglio. L’emissario teneva molto a vedere quei frammenti, se esistevano ancora; a farseli prestare, se erano disponibili per il prestito; o ad acquistarli, se erano in vendita.
Jón Hreggviðsson non era al corrente di alcun brandello pergamenaceo tra le sue proprietà, né di lacerti o frammenti che preservassero la memoria degli antichi, purtroppo, e si rammaricava che una compagnia tanto esimia avesse fatto tutta quella strada per nulla. Nella sua abitazione non c’erano libri all’infuori dei resti di un innario e dei
Salmi della Scuola della Croce
ad assonanza interna composti dal reverendo Halldór di Presthólar, salmi che non sarebbero mai potuti uscire dalla penna di uno come Gunnar di Hlíðarendi. Alla fattoria non c’era nessuno che sapesse leggere correntemente, eccezion fatta per la madre di Jón Hreggviðsson, introdotta a quel sacro mistero dal padre, legatore presso la buonanima del reverendo Guðmundur di Holt, a ovest, e dedito a cucire quinterni fino al giorno della sua morte. Quanto a Jón Hreggviðsson stesso, lui leggeva solo se strettamente necessario, pur avendo imparato dalla madre tutte le saghe e le
rímur
basilari, oltre alle antiche genealogie, in base alle quali sosteneva di discendere per parte di padre dal re danese Araldo Dente di guerra. Disse che non avrebbe mai dimenticato gli illustri antichi come Gunnar di Hlíðarendi, re Pontus e Oddr l’Arciere,
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che raggiungevano i dodici cubiti di statura e sarebbero vissuti trecento anni se non fossero incorsi in disgrazie, e nel caso in cui lui avesse posseduto un libro del genere l’avrebbe spedito senza indugio al re e ai conti, gratuitamente, a dimostrazione del fatto che lì in Islanda un tempo c’erano state persone di valore. Per contro, riteneva che non fosse stata l’impenitenza a trascinare in seguito gli islandesi nella miseria, perché quando mai si era pentito Gunnar di Hlíðarendi? Mai. Disse che sua madre non si stancava mai di cantare i salmi penitenziali del reverendo Halldór di Presthólar, ma la cosa aveva sortito ben scarsi effetti. La penuria di attrezzature da pesca aveva arrecato agli islandesi assai più danno dell’impenitenza, tanto che anche le sue disgrazie avevano origine nel fatto di essersi lasciato tentare da una lenza. Nessuno doveva dunque credere, men che meno il buon signor vescovo, che lui fosse ingrato verso il Cristo o che avesse mai dissipato il Suo patrimonio, al contrario, il celeste proprietario terriero era sempre stato indulgente e misericordioso verso il Suo povero locatario, e i due erano sempre rimasti in buoni termini.
Mentre il padrone di casa parlava, entrarono altre persone, venute a chiedere la benedizione del vescovo di Skálholt: la zia artritica con le falangi scarnificate e la sorella ulcerosa dal volto smangiato non ebbero pace finché non si furono fatte largo fino a ritrovarsi faccia a faccia con il patriziato del mondo. Gli sfigurati, specialmente i lebbrosi, sono inclini a ostentare le loro disgrazie, soprattutto davanti a chi detiene qualche potere, spesso con un’indisponenza che disarmerebbe anche i più ardimentosi e farebbe vergognare del proprio aspetto i più avvenenti: «Guardate che sorte mi ha riservato il Signore, nella Sua grazia», «Ecco la gratificazione che Iddio mi ha dato», dicono questi figuri, e al tempo stesso domandano: «Qual è la gratificazione tua? Cos’ha donato a te, il Signore?» o addirittura: «Iddio mi ha inferto queste piaghe per causa tua.»
Il demente, che era sempre stato in competizione con le due lebbrose, si offese a vederle in prima fila davanti a un così grande evento, perciò prese a punzecchiarle e tormentarle a più non posso, con calci, pizzicotti e sputi, costringendo Jón Hreggviðsson a gridargli più volte di levarsi di torno. Il cane del reverendo Þorsteinn se ne andò con la coda fra le gambe. La moglie del vescovo azzardò un sorriso affabile verso le due lebbrose, che rivolsero a lei i loro volti anneriti, mentre la damigella Snæfríður distolse lo sguardo da quella vista con un grido, si afferrò d’impulso alle spalle di Arnæus, che era al suo fianco, e nascose di scatto il viso tremante contro il suo petto, poi si distaccò, cercò di ricomporsi e sforzandosi di controllare la voce disse cupa: «Amico mio, perché mi trascini in questa casa spaventevole?»
Intanto al gruppo di chi chiedeva una benedizione si era aggiunto il resto della gente di casa: la madre, la figlia e la moglie. La vecchia madre cadde in ginocchio davanti al vescovo e gli baciò l’anello, secondo l’antica usanza, e Sua Eccellenza l’aiutò a rialzarsi. Gli occhi scuri e atterriti della fanciulla, sporgenti e luccicanti, erano i gioielli di casa. La moglie rimase sulla soglia, con il suo naso puntuto e la voce stridula, pronta a dileguarsi all’occorrenza.
«Sembra proprio, come ho più volte ripetuto a Vostra Eccellenza, che qui non ci siano grandi tesori da cercare», disse il reverendo Þorsteinn. «Perfino la misericordia del Signore è ben più lontana da questa casa che da altre della parrocchia.»
Una sola persona di quell’illustre compagnia non si scomponeva davanti ad alcuna bruttura, non si lasciava cogliere alla sprovvista da nulla, né lì né altrove, e mai perdeva il suo contegno aristocratico. Niente, nel comportamento di Arnas Arnæus, faceva sospettare che non si trovasse perfettamente a suo agio in quella casa. Aveva attaccato bottone con la vecchia, parlando lentamente, con umiltà, senza affettazioni, come un rustico avvezzo alle meditazioni solitarie. La morbidezza della sua voce profonda era più affine al velluto che alle piume di edredone. Perciò fu sorprendente scoprire che lui, confidente del re, commensale di conti e orgoglio d’Islanda fra le nazioni, uomo di mondo venuto da lontano, che nessuno avrebbe preso per islandese se non in sogno o in una fiaba, conosceva a menadito la genealogia e le origini di quella misera vecchia, sapeva snocciolare le sue parentele di Ponente e con un sorriso placido le diceva che più d’una volta aveva maneggiato libriccini rilegati da suo padre per conto di tal reverendo Guðmundur, defunto da cent’anni.
«Purtroppo», aggiunse, rivolto al vescovo, «purtroppo il reverendo Guðmundur di Holt, buonanima, aveva il vizio di far sfasciare antichi manoscritti di celebri saghe, dei quali ogni pagina, o anche solo mezza pagina, o perfino un minimo brandello erano
auro carior
– per certuni non sarebbe stato esagerato valutarli al pari di una grossa proprietà terriera. Quella pergamena era da lui riutilizzata per copertine e
involucra
di libri di preghiere e innari, che gli venivano consegnati non ancora rilegati dalla stamperia di Hólar, e che poi vendeva ai parrocchiani facendosi pagare in pesce.»
Quindi tornò a rivolgersi all’anziana.
«Vorrei dunque chiedervi, cara vecchia madre, se non potreste mostrarmi gli angoli – sotto il letto, in cucina, in dispensa o in soffitta – dove talvolta si abbandonano i calzoni rappezzati o le scarpe consunte, oppure il rivestimento esterno del capanno di cui a volte si tappano le fessure, d’inverno, usando vecchi stracci perché non vi nevichi dentro, e se magari ci fosse qualche vecchio sacco o una cassa di ciarpame in cui frugare un pochino, nell’eventualità di trovarvi un misero brandello di rilegatura dell’epoca del reverendo Guðmundur di Holt.»
Ma in quella baracca non c’erano sacchi né casse di ciarpame e neppure una soffitta. L’emissario non accennò comunque a darsi per vinto, e benché il vescovo si fosse fatto un poco irrequieto e desiderasse concludere l’imposizione delle benedizioni, l’amico del re continuò a sorridere affabilmente alla gente di casa.
«Se qualcosa c’è, è nel materasso di mia madre», disse Jón Hreggviðsson.
«Ah, giusto. Su cosa non si coricano le nostre brave vecchiette!» disse l’emissario, prendendo un pizzico di tabacco da fiuto dalla sacchetta e offrendone a tutti, perfino al demente e alle due lebbrose.
Dopo che Jón Hreggviðsson ebbe fiutato quell’ottimo tabacco, gli tornò in mente che da qualche parte dovevano pur essere finiti quei vecchi brandelli di cartapecora che l’anno passato si era deciso a non usare più neppure per rappezzarsi le brache.
Polvere e vapori tossici si levarono dal giaciglio dell’anziana quando si cominciò a frugare tra la paglia vecchia e l’asse piena di muffa del letto. Lì in mezzo c’era ogni sorta di spazzatura: tomaie, pezze da scarpe, vecchie calze sfondate, panni di lana infeltriti e marci, avanzi di corda, schegge di zoccolo di cavallo, di corno, d’osso, branchie e code di pesce rigide come vetro, scarti di legno di vario tipo, pesi da telaio, conchiglie, gusci di molluschi e stelle marine. E c’era ancora abbastanza spazio perché potesse saltare fuori qualcosa di utile o di sorprendente, come un fermaglio di rame, un talismano per facilitare il parto, impugnature di frusta e monetine antiche.
Lo stesso Jón Hreggviðsson si era trascinato fino al letto della madre per aiutare il
professor antiquitatum
a perquisirlo. Le belle donne erano uscite all’aperto, mentre le lebbrose erano rimaste accanto al vescovo. La vecchia se ne stava in disparte. Sulle gote vizze era affiorato un rossore quando si erano messi a frugare sul fondo del suo giaciglio, le pupille si erano dilatate, e più oggetti trovavano, più nervi toccavano in lei, al punto che cominciò a tremare. Alla fine sollevò la gonna fino a coprirsi il viso e pianse in silenzio. Il vescovo di Skálholt assisteva alla scena guardando con occhio scettico il comportamento dell’emissario, e quando si accorse che la vecchia era scoppiata a piangere le accarezzò con cristiana pietà la guancia umida e incartapecorita, tentando di convincerla che non l’avrebbero privata di nulla a cui lei tenesse.
Dopo una lunga e meticolosa ricerca andò a finire che l’eminente ospite pescò dal groviglio di paglia alcuni brandelli di pergamena accartocciati, talmente gualciti, rinsecchiti e induriti dagli anni che non c’era verso di spianarli.
Il cortese sorriso di discolpa che il gentiluomo pacato aveva avuto negli occhi mentre rovistava nel pattume era mutato nella grave abnegazione di chi è ligio al dovere, ora che reggeva quel tesoro alla luce morbida della finestra sul tetto. Soffiò sulla pergamena e la esaminò, prese dal taschino un fazzoletto di seta e lo usò per ripulirla delicatamente dalla polvere.
«
Membrana
», disse infine, lanciando un’occhiata fugace all’amico vescovo, e la osservarono entrambi: erano diversi fogli di cartapecora cuciti lungo un margine, ma il filo si era strappato o era marcito; benché la superficie fosse scurita e lurida, si riusciva facilmente a discernere un testo a lettere gotiche. Il loro interesse si fece quasi religioso, maneggiavano quei brandelli rinsecchiti con la stessa delicatezza che avrebbero riservato a un feto senza pelle, borbottando a mezza bocca parole latine come
pretiosissima
,
thesaurus
e
cimelium
.
«La scrittura è trecentesca», disse Arnas Arnæus. «Se l’occhio non m’inganna, sono pagine della
Skálda
, nientemeno.»
Poi si voltò verso la vecchia, disse che quelle erano sei pagine di un antico manoscritto e chiese quante ce ne fossero state in origine.
Lei smise di piangere non appena capì che dal suo giaciglio non avrebbero portato via nulla di prezioso, e rispose che ce n’era solo una in più. Le pareva di ricordare di aver messo in ammollo quel groviglio rinsecchito, tanto tempo prima, e di averne strappato un foglio per rappezzare i calzoni del suo Jón, ma non era servito a nulla, perché la toppa non reggeva il filo. E quando l’ospite le chiese che fine avesse fatto quella pagina, lì per lì la donna rispose che non aveva mai avuto l’abitudine di gettare via nulla che fosse ancora utilizzabile, men che meno un frammento di pergamena, con la penuria di calzature che aveva dovuto sopportare per tutta la vita, e tanti piedi a cui provvedere in casa, ma quella era proprio una pessima pergamena che non poteva servire più a nulla, neppure nelle annate difficili, quando molti si mangiavano le scarpe e se anche ne rimaneva appena un laccetto lo si dava ai bambini perché vi allenassero i denti. Che i signori non credessero che lei non avesse fatto di tutto pur di trarre la massima utilità da quel brandello.
Entrambi guardarono la vecchia, che si tergeva le lacrime singhiozzando. Poi Arnas Arnæus disse sottovoce al vescovo: «È da sette anni che faccio ricerche e interrogo la gente di tutta l’Islanda, chiedendo se esista da qualche parte un frammento o anche solo una
minutissima particula
delle quattordici pagine mancanti dalla
Skálda
, un manoscritto unico nel suo genere, che raccoglie le poesie più belle di tutto l’emisfero boreale. Qui ce ne sono sei, accartocciate e scarsamente leggibili, certo, ma
sine exemplo
.»
Il vescovo si congratulò con l’amico con una stretta di mano.
Arnas Arnæus rialzò la voce e si rivolse alla vecchia. «Li prendo io, questi miseri frammenti», disse. «Non vanno bene come pezze da calzoni, né come suole di scarpa; e non è verosimile che l’Islanda sia colpita da una tale carestia da considerarli commestibili. Ma avrai da me un tallero d’argento per il disturbo, brava donna.»
Avvolse nel fazzoletto di seta i brandelli di pergamena e se li nascose in petto, rivolgendosi al reverendo Þorsteinn con la cordiale spensieratezza di chi dà inizio a una piacevole chiacchierata con un compagno di viaggio al quale è legato unicamente dalla momentanea contingenza: «Si è dunque giunti al punto, caro reverendo Þorsteinn, che chi possiede fin dall’
antiquitas
le
litteræ
più rimarchevoli dell’emisfero settentrionale di questo mondo preferisce usare la pergamena per camminarci sopra, o per mangiarla, anziché per leggervi gli antichi scritti.»
Dopodiché il vescovo impartì la propria benedizione alla gente di casa.
Le dame, che avevano atteso al rosso della sera i loro cavalieri, li raggiunsero ora sorridendo. Decine di cavalli brucavano liberi, con zelo e sbuffi, nel prato accanto alla fattoria. Gli stallieri ne condussero quattro nel cortile. Gli illustri viaggiatori montarono in sella e partirono al galoppo lungo il sentiero sassoso, in un fiammeggiare di zoccoli.
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Eroe della
Saga di Njáll
insieme a Gunnar di Hlíðarendi.
5
Protagonista della
Saga di Oddr l’Arciere
, una delle cosiddette saghe del tempo antico.