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«Bambina», esclama il magistrato Eydalín alzando lo sguardo con la stessa aria stupefatta dei suoi compagni di bevute, quando la damigella Snæfríður si presenta in abiti da viaggio nel suo alloggio presso l’Alþingi in una notte chiara al termine dell’assemblea. Tutti restano seduti in silenzio. «Sii la benvenuta, bambina – ma qual buon vento ti porta? Cos’è accaduto?» Si alza, a passo non troppo sicuro le va incontro e le dà un bacio. «Cos’è accaduto, bambina cara?»
«Dov’è mia sorella Jórunn?»
«Il vescovo e sua moglie sono andati a ovest, da tua madre. Mi hanno portato i tuoi saluti, e la notizia che quest’estate non ti saresti mossa da Skálholt. Mi hanno detto di averti lasciata alla buona guida del maestro e della sua consorte. Cos’è accaduto?»
«Cos’è accaduto? Me lo chiedi tre volte di fila, padre mio? Se fosse accaduto qualcosa non sarei qui. Ma non è accaduto niente, ed è appunto per questo che sono qui. Per quale motivo non posso partecipare alle assemblee? Hallgerður Bracalunga
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lo faceva.»
«Hallgerður Bracalunga? Non ti capisco, bambina.»
«Non sono un essere umano, padre mio?»
«Sai che tua madre non apprezza il libero pensiero nelle fanciulle.»
«E se io avessi cambiato idea? Se fosse intervenuto un certo fatto…?»
«Cos’è intervenuto?»
«… o per meglio dire, se
non
fosse intervenuto? E se tutt’a un tratto mi fosse venuta nostalgia di casa, e di mio padre? Sono pur sempre una bambina. O non lo sono più?»
«Bambina, dove posso acquartierarti? Qui non ci sono alloggi femminili. L’assemblea volge al termine e io sto vegliando insieme ad alcuni bravi signori fino al sorgere del sole, quando dovremo presenziare all’esecuzione di certuni delinquenti. Dopodiché partirò per il sud, alla volta di Bessastaðir. Cosa credi che direbbe tua madre…?»
Un cavaliere in stivali alti con gli speroni, con lungo pizzetto e parrucca che ricadeva fino alla gorgiera, una spada al fianco, si alzò con le movenze solenni e compiaciute di chi si è ubriacato alquanto, avanzò verso l’ingresso dell’alloggio e batté i tacchi alla maniera tedesca, fece un profondo inchino alla damigella, le prese una mano, se la portò alle labbra e le si rivolse nella lingua delle Germanie: dovendo restare insieme al nobilissimo padre di Sua grazia la damigella fino al termine del loro compito, al mattino, invitava di tutto cuore Sua grazia la damigella a far proprio il suo alloggio con tutto ciò che conteneva, e si offriva di svegliare il suo cuoco e il suo valletto affinché le prestassero servizio. Lui stesso, governatore generale del re a Bessastaðir, era un umilissimo servitore di madamigella. Lei gli rivolse un sorriso e lui disse che la notte rendeva onore ai suoi occhi, chinandosi nuovamente a baciarle la mano.
«Vorrei vedere la Pozza delle Annegate», disse la fanciulla quando fu all’aria aperta con il padre, diretta verso il suo alloggio notturno. Lui non riteneva necessario fare deviazioni, ma lei insisté e quando gliene fu chiesta la ragione rispose che aveva sempre desiderato ardentemente vedere il luogo in cui era costume annegare le condannate. Alla fine l’ebbe vinta. Da un punto imprecisato della faglia si sentì un martellare a cui le rocce conferivano un suono musicale. Quando raggiunsero la pozza, la fanciulla disse: «Ma guarda, c’è dell’oro sul fondo. Guarda come luccica.»
«È la luna», disse il padre.
«Verrei annegata qui se fossi condannata?»
«Non scherzare sulla giustizia, bambina.»
«Dio non è misericordioso?» domandò lei.
«Sì, bambina cara, allo stesso modo della luna nella Pozza delle Annegate», rispose il magistrato. «E adesso andiamocene.»
«Mostrami il patibolo, padre mio», disse lei.
«Non sono cose per giovinette. E non dovrei trascurare troppo a lungo i miei ospiti.»
«Oh, papà mio», continuò a tormentarlo la fanciulla, prendendolo a braccetto e reggendosi a lui. «Sono così curiosa di veder uccidere degli uomini.»
«Ah, ma allora non hai fatto alcun progresso a Skálholt, povera bambina», disse lui.
«Oh, ti prego, lasciami veder uccidere degli uomini, papà mio», piagnucolò la fanciulla. «Oppure non t’importa di me?»
Il padre si lasciò convincere a mostrarle il patibolo, a patto che poi lei andasse subito a dormire. Attraversarono la faglia dell’Almannagjá nella quiete della notte fino ad arrivare a uno spazio aperto e verdeggiante, racchiuso tra scoscese pareti di roccia, dove una trave era stata incastrata fra due dirupi al di sopra di un palchetto non fissato al terreno. Dalla trave pendevano due cappi di corda appena intrecciata.
«Ma che belle quelle corde», disse la fanciulla. «Si dice sempre che in Islanda c’è penuria di corde… Chi è che verrà impiccato?»
«Eh, due delinquenti», rispose il magistrato.
«Li hai condannati tu?» chiese lei.
«Li ha condannati il loro distretto. E l’Alþingi ha confermato la sentenza.»
«E a cosa serve quel ciocco là, su quel rialzo erboso?»
«Ciocco?» disse il magistrato. «Non è un ciocco. Quello è il ceppo, bambina mia.»
«Per decapitare chi?»
«Eh, un tale della penisola di Akranes.»
«Non sarà quello che ha ucciso il boia?» disse la fanciulla. «L’ho sempre trovata una storia spassosissima.»
«Ma cos’hai imparato a Skálholt, quest’inverno, bambina?» disse il magistrato.
«
Amo
,
amas
,
amat
», rispose lei. «
Amamus
,
amatis
,
amant
. E cosa sono questi colpi tanto fitti, che fanno un’eco così strana nel silenzio?»
«Non sei proprio capace di concentrare l’attenzione su una cosa alla volta, bambina mia?» disse lui. «I dotti sono ricercati nel parlare, e lo stesso dicasi delle signore beneducate. Stanno tagliando legna.»
«Ricordami un po’ di cosa stavamo parlando», disse lei. «Non parlavamo di omicidi?»
«Che sciocchezze sono queste? Parlavamo di ciò che hai imparato a Skálholt.»
«Mi faresti decapitare, papà mio, se fossi stata io a uccidere il boia?» chiese la fanciulla.
«La figlia del magistrato non uccide nessuno», rispose lui.
«No, ma magari commette atti impuri.»
Il magistrato si fermò di colpo e la guardò. La sbornia gli era passata alla presenza di quella giovane donna sconosciuta e la scrutò, smagrita com’era, con quei capelli lucenti e gli occhi di una bambina di sette anni. Fece per dire qualcosa, ma tacque.
«Perché non mi rispondi?» disse lei.
«Ci sono giovinette che gettano nell’incertezza ogni cosa intorno a sé, l’aria, la terra e l’acqua», disse lui, tentando di sorridere.
«È perché hanno dentro il fuoco, papà mio», rispose lei all’istante. «E null’altro che quello.»
«Ssst», disse il padre. «Niente sciocchezze!»
«Non smetterò finché non mi avrai risposto, padre mio.»
In silenzio avanzarono insieme di qualche altro passo, poi lui si schiarì la gola. «Gli atti impuri in sé e per sé, bambina cara», disse, nel tono compassato che competeva alla sua carica, «gli atti impuri in sé e per sé sono principalmente una questione fra l’uomo e la sua coscienza. Nondimeno, un atto impuro è spesso preludio e cagione di altri misfatti. Misfatti che le figlie dei magistrati non commettono.»
«E quand’anche fosse, i magistrati loro padri sarebbero lesti a scagionarle.»
«La giustizia non fa sconti a nessuno.»
«Dunque tu non mi scagioneresti, padre mio?»
«Non capisco dove tu voglia arrivare, bambina. Non si fanno sconti a nessuno.»
«Pretenderesti che io giurassi il falso, come pretese il vescovo Brynjólfur da sua figlia?»
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«L’errore del vescovo Brynjólfur è stato quello di considerare la figlia alla stessa stregua di una popolana. Nel nostro ceto non accadono certi fatti…»
«… neppure quando accadono», aggiunse la fanciulla.
«Già, bambina mia», disse lui. «Neppure quando accadono. Tu discendi da una delle migliori stirpi d’Islanda. Tu e tua sorella siete le uniche persone, in questa terra, ad avere un lignaggio superiore al mio.»
«Allora il vescovo Brynjólfur ha frainteso il concetto di giustizia», disse la fanciulla. «Ha creduto che valesse per tutti.»
«Guardati dalla vena poetica della tua ascendenza materna», disse il magistrato.
«Padre mio, non riesco a camminare da sola, lascia che mi regga a te.»
Si diressero verso l’alloggio del governatore generale. Lui robusto e rubicondo, con l’ampio manto e le piccole mani bianche da nobiluomo che sporgevano dalle maniche; lei trotterellante e magra, con il soprabito da viaggio e l’alto copricapo, appoggiata al suo braccio e china in avanti. Accanto a loro si ergeva scoscesa la parete rocciosa.
«Il boschetto che vedi», disse il magistrato, «si chiama Bláskógar, o
Bláskógaheiði
. Il monte vicino, appena dietro, è il Hrafnabjörg, e si dice che proietti una bella ombra. Poi ci sono altre montagne. L’ultima appare come un rilievo modesto nella lontananza, ma è lo
Skjaldbreiður
, la cima più alta di tutte, perfino più delle Botnssúlur, che troneggiano laggiù a ovest dell’Ármannsfell, perché…»
«Oh, padre mio», disse la fanciulla.
«Cosa ti cruccia, bambina cara?»
«Queste rocce mi fanno paura.»
«Ah, già, dimenticavo di dirti il nome del posto in cui ci troviamo: si chiama Almannagjá.»
«Come mai c’è questo silenzio terrificante?»
«Silenzio? Non senti che ti sto parlando, bambina?»
«No.»
«Dicevo, bambina, che quando si guardano le Botnssúlur, sembrano spaventosamente alte perché si trovano vicinissime a noi, ma se poi si guarda verso lo Skjaldbreiður…»
«Padre mio, non hai ricevuto una lettera?»
«Una lettera? Ne ho ricevute a centinaia.»
«E senza saluti per me?»
«Mmh… Oh, ma certo. L’emissario Arnæus mi chiede di salutare tua madre e voi sorelle.»
«Non me nello specifico?»
«Mi prega di appurare se per ventura non si sia salvato qualche quinterno degli antichi libri del monastero di Helgafell, che sono stati sfasciati e gettati.»
«Non dice altro?»
«Dice che quei libri avevano più valore di tutte le terre fertili del Breiðafjörður.»
«Non dice niente di sé? Perché ha desistito dal tornare in Islanda con la nave di Eyrarbakki, come aveva programmato lo scorso autunno?»
«Parla di pessime prospettive e svariate
curæ
.»
«
Curæ
? Lui?»
«So da fonte certa che la sua collezione di libri – manoscritti e stampati – sulla storia antica d’Islanda e Norvegia è in pericolo, da un canto per via del deterioramento causato da un ambiente di conservazione malsano, ma anche perché, dati gli ingenti debiti contratti dall’emissario, corre il rischio di perderla.»
Lei diede uno strappo impaziente al braccio del padre. «Sì ma è amico del re, lui.»
«Ci sono casi di amici del re destituiti dalle loro cariche e gettati in carcere, per via dei debiti. Nessuno ha più nemici degli amici del re.»
Lei ritirò il braccio e si resse ben dritta di fronte al padre sulla via, sollevando lo sguardo su di lui. «Padre mio», disse. «Non abbiamo modo di aiutarlo?»
«Vieni, bambina cara. Adesso non posso più trascurare i miei ospiti.»
«Io possiedo terre.»
«Sì, tu e tua sorella avete avuto in dono qualche piccola fattoria quando avete messo i denti», disse lui, riprendendola a braccetto e proseguendo il cammino.
«Non potrei venderle?» chiese la figlia.
«Per quanto gli islandesi siano ben contenti di mettere le mani su una piccola fattoria, una manciata di terre da centoventi pezzi d’argento è di poco valore all’estero, bambina cara», rispose il magistrato. «La pietra preziosa che un ricco conte di Copenaghen porta sull’anello è più costosa di un intero distretto d’Islanda. Il mio mantello nuovo vale più di quel che ricaverei dalle rendite delle nostre terre in molti e molti anni. Noi islandesi non abbiamo facoltà di commerciare né di navigare, e perciò non abbiamo liquidità. Non siamo soltanto una nazione oppressa, ma anche un popolo in pericolo mortale.»
«Arnas ha dato fondo a tutte le sue proprietà per collezionare libri antichi, in modo che il nome dell’Islanda sopravviva anche se noi soccomberemo. Dovremo dunque vederlo finire in prigione per debiti in un altro Paese per il nome dell’Islanda?»
«L’amore per il prossimo è una bella dottrina, bambina cara. E vera, anche. Ma nel pericolo mortale vige la legge dell’“ognuno per sé”.»
«Allora non possiamo fare niente?»
«Quel che conta per noi, bambina cara, è che il re sia amico mio», disse il magistrato. «Sono circondato da invidiosi che assillano i conti nel tentativo di screditarmi e di impedire che io ottenga una lettera regia che mi confermi in questa posizione di magistrato, che ovviamente è considerata la carica più alta d’Islanda, ma che non è nulla in confronto a quella di uno sguattero della Cancelleria che possa vantare tra i suoi antenati un brigante o un monello di strada tedesco.»
«E dopo cosa succederà, padre mio?»
«A una regia patente per una carica di tal sorta seguono
privilegia
di ogni genere. Potremmo possedere terre più numerose e più vaste. Tu avresti una dote ancora più consistente. Uomini altolocati chiederebbero la tua mano.»
«No, papà mio. Mi prenderebbero i troll; un mostro nelle sembianze di un bell’animale da accarezzare mi attirerebbe nel bosco e mi farebbe a pezzi in una grotta. Hai già dimenticato tutte le fiabe che mi raccontavi?»
«Questa non è una fiaba, ma un brutto sogno», disse lui. «Fra l’altro, tua sorella mi ha raccontato una certa cosa su di te che di certo addolorerebbe tua madre.»
«Ah sì?»
«Ha detto che un uomo eminente ha chiesto la tua mano, quest’inverno, e che tu hai fatto la sostenuta.»
«Il prevosto», disse la fanciulla con una risata gelida.
«Appartiene a una delle migliori famiglie d’Islanda, è un dotto, un poeta, un uomo agiato e con ottime qualità. Non so quale altro partito tu abbia in mente, se non ti consideri onorata dalla sua proposta.»
«Il più splendido di tutti gli islandesi è Arnas Arnæus», disse la damigella Snæfríður. «Su questo concordano tutti. Quando una donna ha conosciuto un uomo splendido, un semplice buon partito le appare ridicolo.»
«Cosa ne sai tu, delle opinioni di una donna, bambina?»
«Al secondo in graduatoria preferisco l’ultimo.»
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Moglie di Gunnar di Hlíðarendi e personaggio della
Saga di Njáll
, famosa per la sua indole indipendente.
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Allusione a Ragnheiður, figlia del vescovo di Skálholt, Brynjólfur Sveinsson (1605-1675). La fanciulla partorì nove mesi dopo aver giurato solennemente di essere vergine.