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Corse per tutto il giorno e anche la notte, bevendo molta acqua, dato che la Tvídægra contiene più laghi che tutto il resto d’Islanda. Continuò a evitare le vie più battute, ma s’ingegnò a mantenere la direzione presa dall’Ok, verso il mare a nord. Era una giornata quieta, a parte il baccano dei cigni, e un po’ ovunque si vedevano stormi di quelle bestiacce, più numerosi di greggi di pecore. A sera tarda riapparve il sole. Lui correva. A un certo punto le gambe cedettero. Non si era accorto di essere stanco ed ecco che cadde. Si trovava in una zona brulla di tiepida terra rossa e non riusciva a rialzarsi. Dormì fino a tardi, d’un sonno regolare, prima a faccia in giù, poi rigirandosi supino, mentre il sole continuava a splendere e la terra brulla a scaldarsi. Si svegliò quando il sole era ormai alto. Gli si erano raccolti intorno alcuni corvi, palesemente intenzionati a cavargli gli occhi, credendolo privo di sensi o magari morto. Era un po’ malconcio e non aveva voglia di bere, ma rimpiangeva di non aver preso un’altra porzione di squalo fermentato a Húsafell. Durante il suo sonno la landa non si era certo fatta meno vasta.
Non aveva più il passo svelto come prima di addormentarsi. La brughiera che aveva visto dall’alto il giorno prima sembrava ora non finire mai, e il settentrione pareva allontanarsi via via che lui avanzava.
Tutt’a un tratto incrociarono la sua strada tre uomini barbuti con ceste da pesca piene di trote. Quello che guidava la fila era un proprietario terriero del Borgarfjörður di ritorno da una battuta di pesca sull’Arnarvatnsheiði. Smontarono da cavallo e l’uomo del Borgarfjörður chiese a Jón Hreggviðsson chi fosse e se avesse natura interamente umana. I suoi due servitori, in un primo momento, non si arrischiarono ad avvicinarsi, ma Jón Hreggviðsson baciò tutti quanti, piangendo. Disse di essere un mendicante del nord, condannato alla marchiatura a fuoco per certe ruberie, giù nelle Biskupstungur, e di essere evaso. Sparse fiumi di lacrime e di preghiere a Dio, implorando i tre uomini di mostrargli misericordia, in nome della Santissima Trinità. Quelli gli diedero un boccone. Quando fu sazio, fece per riprendere le preghiere a Dio, in segno di gratitudine, ma il padrone disse: «Bah, chiudi il becco, Jón Hreggviðsson.»
Jón Hreggviðsson interruppe di colpo il pianto e le preghiere e alzò lo sguardo sui tre. «Eh?»
«Credi forse che noi del Borgarfjörður non riconosciamo quelli che abbiamo fustigato?» disse il padrone. «Non foss’altro che per come ti sei comportato. Pochi sarebbero stati in grado di fare di meglio.»
A quest’ultima notizia, d’istinto i due servitori si drizzarono in piedi. Jón Hreggviðsson fece altrettanto.
«Avete voglia di misurarvi con lui, dico bene, ragazzi?» chiese il padrone.
«È quello che ha ucciso il boia di Bessastaðir?» chiesero i due.
«Sì», rispose il padrone. «Ha ucciso il boia reale. E voi giovanotti avete l’occasione di vendicarne la morte.»
I due si scambiarono un’occhiata. Poi uno disse: «Io non provo pena per un re che deve trovarsi un nuovo boia.»
E l’altro aggiunse: «Io non ci vado di certo, a fare il boia reale.»
Il terzo, cioè il padrone, appianò formalmente la questione nei seguenti termini: dal momento che il loro incontro aveva luogo in regioni disabitate, dove non vigevano leggi né statuti, e neppure i Dieci comandamenti, la cosa migliore era che tutti si sedessero a bere un sorso di acquavite. Lui e i suoi servitori si riaccomodarono. E così fece anche Jón Hreggviðsson. Non piangeva più, né recitava preghiere, ma si guardava i piedi scalzi, poiché le scarpe rotte della vecchia erano ormai inservibili, e cominciò a ripulirsi i graffi con la saliva.
Poco dopo che ebbe preso commiato dagli uomini del Borgarfjörður, da nord si addensarono nubi temporalesche, a conclusione di una giornata molto calda. Di lì a poco lo investì un acquazzone gelido, con una nebbia che invase la brughiera procedendo a gran velocità verso sud, come un’armata assassina, dapprima rossa come il fumo di una fucina rovente, ma poi sempre più nera, fino a spegnere il sole e ad avvolgere lui, una nube così scura da inghiottire i profili dell’altura più vicina. In un primo momento Jón Hreggviðsson proseguì nella direzione da cui gli era parso di veder arrivare la perturbazione, ma all’improvviso la nebbia smise di muoversi, e quando arrivò per la terza volta allo stesso ometto segnavia eretto su una roccia piatta, si rese conto del frangente in cui si trovava. Si sedette in quel punto per riflettere sul da farsi.
Rimase lì a lungo e sulla pianura calò il crepuscolo. Fradicio fino all’osso, recitò una strofa delle Rímur di Pontus anteriori , e quando l’ebbe finita vi aggiunse un verso, «Geleranno stanotte sul figlio di Hreggviður i pidocchi di Bessastaðir», rise, imprecò, si alzò, si percosse per riscaldarsi e tornò a sedersi, appoggiando la schiena al segnavia. E dopo essere rimasto lì fermo per un tempo tutt’altro che breve per la seconda volta, ecco che gli parve di vedere una sagoma piuttosto grande provenire dalla vastità della brughiera e avanzare piano verso di lui, simile a un uomo in groppa a un cavallo nero. Jón Hreggviðsson l’osservò per qualche istante, poi si alzò in piedi e dalla roccia piatta scese tra i radi ciuffi d’erba, benché con una certa riluttanza perché quella situazione non gli andava per niente a genio. La sagoma si ingrandiva via via che si avvicinava. Jón Hreggviðsson si fermò e fece per dar di voce al nuovo arrivato, ma nel momento stesso in cui aprì bocca fu preso da un’inquietudine, perciò tacque e restò immobile sul terreno torboso, a bocca aperta, scrutando nella nebbia. La sagoma continuò ad avvicinarsi e a crescere di dimensioni e alla fine fu abbastanza vicina da permettergli di coglierne i contorni nella nebbia, ed erano quelli di un’orchessa. Non riusciva a capire se fosse la madre del curato di Húsafell oppure la figlia, ma una cosa era certa: la famiglia era quella. Il volto era largo un cubito e la chiostra dei denti aveva suppergiù la stessa estensione, portava brache corte da cui spuntavano grossi tronchi di gambe e cosce come quelle di un cavallo da tiro che ha passato l’estate intera alla pastura. Teneva i pugni sui fianchi e i gomiti in fuori, e puntava gli occhi sul bifolco con aria tutt’altro che mite. Gli diede l’impressione che, se lui avesse provato a fuggire, lei l’avrebbe subito riacciuffato e messo a terra, spaccandogli la schiena contro una roccia, per poi strappargli gli arti e scarnificarlo a morsi. E la storia di Jón Hreggviðsson si sarebbe interrotta lì.
Ma mentre se ne stava fermo davanti a lei, sentì crescere dentro di sé più forza e più coraggio che mai, proprio come se fosse diventato un berserkur , 15 e udì se stesso pronunciare queste parole: «Sarà pur vero che in Islanda esistono ancora donne, ma adesso ti faccio vedere io, brutta strega, che in Islanda esistono anche uomini.»
In men che non si dica si gettò sull’orchessa e la lotta ebbe inizio. Fu un gran putiferio, nessuno dei due si risparmiò, e lui ebbe modo di appurare che la strega aveva più forza fisica, ma non altrettanta scioltezza di membra, né prontezza di riflessi. Si fece inseguire da lei per tutta la landa, tra gli schizzi di terra alzati dai loro piedi, e il duello proseguì fino a tarda notte, con violenti strattoni, gran pugni in faccia, graffi e strette, finché Jón Hreggviðsson non riuscì ad afferrarle saldamente il busto. A quel punto lei cadde a terra con un forte schianto, e lui le stramazzò addosso. L’orchessa emise un tremendo grugnito accanto al suo orecchio e lo provocò dicendo: «Approfittane, Jón Hreggviðsson, se sei uomo.»
Quando si fu riavuto, si alzò un vento da sud che risospinse la nebbia a monte della landa. Allora vide il Hrútafjörður spalancare le sue lunghe e strette fauci verso il Húnaflói, e i monti delle Strandir azzurreggiare all’orizzonte. La situazione gli parve già migliore rispetto a prima.
Non fece più soste finché non ebbe raggiunto le Strandir, su a nord, e a passo costante attraversò piane e sentieri montani, sempre mentendo sul proprio nome e sul motivo del suo viaggio. Non gli giunse alcuna notizia di olandesi finché non fu arrivato ancora più a nord, a Trékyllisvík.
Nessun crimine comportava pene più severe del commercio con le navi olandesi, e questo rendeva ancor più difficile conquistarsi la fiducia degli estranei che si dedicavano a quel genere di affari. Quando li s’interrogava in proposito, loro indicavano le vele tinte con bollitura di corteccia che quel popolo proibito aveva issato al largo della costa, e quando lui spiegava il motivo del suo viaggio lassù al nord si sentiva dire che il suo era un caso senza speranza, le navi olandesi non accettavano passeggeri, a parte qualche occasionale bambino che compravano dagli islandesi per darlo in adozione – almeno così dicevano – preferibilmente maschietti dai capelli rossi. Solo quando gli abitanti di Trékyllisvík ebbero saputo da fonte certa tutti i dettagli della situazione di Jón Hreggviðsson, e che razza d’inveterato delinquente fosse, valutarono l’opportunità di offrirgli un aiuto. E così, una notte in cui gli olandesi erano alla fonda, un contadino del luogo caricò in barca il condannato e lo portò da loro. Il comandante guardò storto lo straccione tutto nero, tanto malconcio dopo la permanenza a Bessastaðir da non esser buono neppure come esca per gli squali. Ma non appena l’uomo di Trékyllisvík rivelò che il suo passeggero aveva ucciso il boia reale, la notizia si sparse per tutta la nave, l’equipaggio lanciò grida di gioia e accolse Jón Hreggviðsson con abbracci e baci. Si dava il caso che il re danese avesse preso il vizio d’inviare in Islanda navi da guerra con l’ordine di approfittare di ogni minima occasione per affondare le imbarcazioni olandesi, o prenderle in custodia per sospetto contrabbando, così che a bordo si detestava quel sovrano più di chiunque altro.
Accolsero l’uomo, gli procurarono una lenza e lo misero a pescare. Il vascello era già ben carico. Jón Hreggviðsson non capiva una parola della loro lingua, ma quando gli porsero una ciotola colma di cibo vi affondò avidamente la faccia, vuotandola fino al fondo. La sera gli portarono un secchiello d’acqua di mare e glielo posarono davanti, ma lui, credendo che lo stessero prendendo in giro, si offese e lo rovesciò con un calcio. Allora gli balzarono addosso, gli legarono mani e piedi, gli strapparono via i vestiti, gli rasarono capelli e barba e gli unsero la testa con qualcosa che pareva catrame, dopodiché innaffiarono più volte con acqua di mare il suo corpo nudo, facendo un gran baccano, mentre due giovani in zoccoli gli ballavano intorno e un terzo suonava un flauto. In seguito Jón Hreggviðsson avrebbe raccontato che in quel momento era sicuro che fosse giunta la sua ora. E invece, al termine di quel lungo trattamento, lo slegarono e gli diedero di che asciugarsi. Poi gli porsero sottobrache, pantaloni di lana, un maglione e un paio di zoccoli, ma niente calze. Gli ficcarono in bocca una pipa di legno carica di tabacco e lo fecero fumare. Lui cominciò a declamare le Rímur di Pontus anteriori .
L’indomani Jón Hreggviðsson si accorse che erano salpati, perché vedeva le creste delle onde a filo delle cime dei monti. Maledisse quella terra e pregò il demonio di sprofondarla.
Poi riprese a cantare le Rímur di Pontus anteriori .
15 Feroci guerrieri dell’antica tradizione norrena che spesso compaiono nelle saghe. Prestavano giuramento al dio Odino e prima della battaglia entravano in uno stato di furia che li rendeva particolarmente sanguinari e insensibili al dolore.