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La pregò di sedersi.
Lei si sedette di fronte a lui, con le mani giunte in grembo, guardandolo come da lontano; aveva ancora un atteggiamento misurato. «Non avevo in programma di venire qui, benché un vecchio me ne avesse pregata», esordì. «Ho detto al vecchio: “Non è affar mio.” E invece eccomi da voi, per via di questa faccenda. Non crediate che sia venuta per altri motivi.»
«Benvenuta, Snæfríður», disse lui, per la seconda o terza volta.
«Sì», disse lei, «so che vi sono proprie tutte le cortesie del mondo. Ma come dicevo, non potevo fare altrimenti: quel vecchio che non conosco e che non ha nulla a che fare con me, è come se l’avessi sempre conosciuto e avesse a che fare con me. Si chiama Jón Hreggviðsson.»
«Ah, il vecchio Jón Hreggviðsson», disse Arnæus. «Sua madre era in possesso del tesoro più prezioso della Scandinavia.»
«Già», disse Snæfríður, «il suo cuore…»
«No, alcuni antichi fogli di pergamena», la interruppe Arnas Arnæus.
«Prego?»
«Tutti noi abbiamo un debito di gratitudine con Jón Hreggviðsson, per via di sua madre», disse Arnas Arnæus. «Ecco perché quando lui mi ha portato l’anello, Snæfríður, io gliel’ho ridato, affinché potesse farne qualcosa di buono per se stesso.»
«Ah, non tirate fuori questa sciocchezzuola, dopo quindici anni», disse Snæfríður. «Viene da ridere e arrossire allo stesso tempo, a ripensare alla propria giovinezza.»
Lui si appoggiò all’indietro alla scrivania. Alle sue spalle c’erano grossi volumi e fasci di carte legati da nastri a croce, più qualche foglio volante. Portava un’ampia veste nera dai polsini bianchi. Agganciò insieme gli indici. E lei lo sentì riprendere a parlare. «Quando me ne sono andato e non sono tornato più, nonostante la promessa fatta, perché il destino è più forte del volere dell’uomo, come si legge nelle Saghe degli Islandesi, ho trovato conforto nel pensiero che la bionda donzella, la volta successiva che l’avessi vista, sarebbe stata un’altra donna – sparite la sua giovinezza e la beltà che della giovinezza è il dono. I pensatori dell’antichità insegnano che l’infedeltà in amore è l’unico tradimento al quale gli dei guardino con clemenza:
Venus hæc periuria ridet
. Ieri sera, quando siete entrata nella sala, dopo tutti questi anni, ho visto che non mi occorre che Lofn
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mi rivolga il suo benevolo sorriso.»
«Vi prego di lasciar perdere queste inutili sciocchezze,
assessor
», disse lei, disgiungendo le mani e levandole di scatto, come per schermirsi. «Per amor di Dio.»
«Allo stesso modo in cui da giovani sono tutti poeti, e poi non più, così da giovani sono tutti belli, per un istante; la giovinezza sta appunto in questo», continuò lui. «Ma ad alcuni gli dei concedono tali doni con la particolare grazia di conservarli dalla culla alla tomba, per tanti o pochi che siano i loro anni.»
«Voi siete senz’altro un poeta,
assessor
», disse lei.
«Vorrei che quanto ho appena detto servisse da premessa a tutte le cose di cui dobbiamo ancora discutere», disse lui.
Lei rimase con lo sguardo perso, come se si fosse scordata per quale motivo era venuta. Nel suo volto regnava quella solenne e indolente placidità che è più accomunabile al cielo che alla terra. Ma alla fine abbassò gli occhi in grembo. «Jón Hreggviðsson…» disse. «È di lui che voglio parlarvi. Si dice che chi fa l’elemosina diventi debitore del suo accattone. Ciò che si è fatto una volta continua a esistere. Ora, dopo quindici anni, questo Jón Hreggviðsson viene a darmi ordini.»
«Vi credevo fiera di aver salvato la testa al vecchio Jón Hreggviðsson, che ha ucciso il boia reale.»
«Mio padre non meritava certo di vedermi strappargli dalle grinfie un criminale», disse lei. «Non mi ha mai voluto altro che bene. E voi, amico del nostro sovrano, sarete in collera con me per conto di Sua Maestà, dato che, come dite, lui ha ucciso un uomo, un uomo del re.»
«Senza dubbio l’ha fatto», disse Arnas Arnæus. «Ma noi due, tendendogli una mano, non abbiamo commesso alcunché di riprovevole nei confronti del nostro re. A conti fatti, non c’erano prove contro di lui.»
«Mio padre non pronuncia sentenze ingiuste», disse lei.
«Come fate a saperlo?»
«Sono parte di lui. Lui è in me. Mi sento come se fossi stata io a condannare quel criminale, e a pieno diritto. Ecco perché la mia coscienza m’incolpa, per averlo liberato.»
«La coscienza umana è troppo instabile per essere giudice del giusto e dello sbagliato», disse lui. «È solo un cane che sta dentro di noi, più o meno addestrato, e obbedisce al padrone, cioè la norma vigente nel suo ambiente. Può avere un padrone buono o cattivo, a seconda delle circostanze. Può averne uno che è lui stesso un manigoldo. Non curatevi delle accuse della coscienza a proposito della testa di Jón Hreggviðsson. Voi non siete infallibile, pertanto non lo è neppure vostro padre. Presumete che abbia fallito il tribunale, fino a prova contraria.»
«Se avesse fallito il tribunale, e Jón
Hreggviðsson
fosse innocente, la giustizia non varrebbe più della testa di uno straccione? Fermo restando che anch’essa può sbagliarsi, di tanto in tanto.»
«Se il tribunale riesce a dimostrare la colpa di un uomo, costui va privato della testa… anche se non ha mai commesso il fatto. È un principio impietoso, ma senza di esso non avremmo giustizia. Ed è qui che il tribunale pare essersi sbagliato, nel caso di Jón Hreggviðsson; e del resto anche in quelli di molti altri presunti criminali di questa nazione – troppi.»
«Sarà», disse lei. «Ma non ho mai sentito nessuno dubitare che Jón Hreggviðsson avesse ucciso quell’uomo. Lo dite voi stesso. Non temerebbe il processo se avesse la coscienza pulita.»
«Non sarebbe un problema catturare Jón Hreggviðsson e decapitarlo, visto che da dieci o vent’anni se ne sta a casa sua, a Rein, sotto il naso delle autorità. E invece nessuno gli ha torto un capello.»
«Mio padre non giudica due volte un uomo per lo stesso delitto. Oltretutto, quell’uomo è tornato in Islanda con una specie di lettera del re, o qualcosa del genere.»
«Non una patente di vita eterna, purtroppo», disse Arnas Arnæus, sorridendo.
«Di protezione.»
«Di riapertura del caso. Mai presentata in tribunale. E il caso non è stato riaperto.»
«Mio padre non fa sparire i documenti», disse lei. «Ma è un uomo misericordioso, probabilmente ha avuto pietà di quel poveraccio.»
«È giusto essere misericordiosi?» chiese Arnas Arnæus, continuando a sorridere.
«So di essere sciocca», disse lei. «So di essere così sciocca che dinanzi a voi sono come un minuscolo insetto che si è rovesciato sul dorso e non riesce a rimettere le zampe a terra per volare via.»
«Le vostre labbra sono come una volta: due crisalidi», disse lui.
«Sono convinta che Jón Hreggviðsson sia un assassino», disse lei.
«L’avete mandato da me per affidarmelo.»
«Una civetteria. Avevo diciassette anni.»
«Mi ha detto che sua madre è venuta fin da voi a piedi», disse Arnas Arnæus.
«Fa lo stesso», disse lei. «Io non ho un cuore.»
«Mi fate sentire?» chiese lui.
«No», disse lei.
«Però siete arrossita.»
«So di essere ridicola. Ma non c’è bisogno che me lo rinfacciate, messere.»
«Snæfríður…»
«No. Fatemi il favore di non pronunciare il mio nome. E ditemi solo una cosa: se proprio bisogna riaprire questa faccenda, è davvero importante quel che ne sarà di Jón
Hreggviðsson
?»
Lui smise di sorridere e diede la risposta evasiva e impersonale che si addiceva alla sua carica: «Non è stata presa alcuna decisione. Ma diversi vecchi casi richiedono una revisione. È il volere del re. L’altro giorno Jón Hreggviðsson è venuto qui, e abbiamo parlato per un’oretta. La sua situazione non promette bene. A ogni modo, comunque gli vadano le cose, credo che un riesame del suo caso gioverà al futuro del popolo d’Islanda.»
«E se risultasse colpevole… dopo tutti questi anni?»
«Non sarà più colpevole di quanto non fosse secondo la vecchia sentenza.»
«E se fosse innocente?»
«Mmh… Cosa voleva da voi Jón Hreggviðsson?»
Lei ignorò domanda, ma guardò dritto negli occhi l’emissario del re e gli chiese: «Il re è nemico di mio padre?»
«Penso di poter affermare con sicurezza di no», rispose Arnæus. «Credo che il nostro benevolissimo sovrano e il mio nobilissimo amico magistrato siano entrambi grandissimi amici della giustizia.»
Lei si alzò. «Vi ringrazio», disse. «Voi parlate come si conviene a un uomo del re: non vi sbottonate, e all’occorrenza ammannite storie accattivanti come quelle di Roma che ci avete raccontato oggi.»
«Snæfríður», disse lui, mentre lei si voltava per andarsene, e all’improvviso le era molto vicino. «Cos’altro potevo fare, se non ridare l’anello a Jón Hreggviðsson?»
«Niente,
assessor
», rispose lei.
«Non ero libero. Ero legato al mio compito. Ero proprietà dell’Islanda. Quegli antichi libri che custodivo a Copenaghen – il loro demone era il mio, la loro Islanda era l’Islanda, non ne esisteva un’altra. Se fossi tornato a primavera con la nave di Eyrarbakki, come avevo promesso, avrei venduto l’Islanda. Ogni mio libro, ogni foglio, ogni documento sarebbe caduto in mano agli usurai miei creditori. Ci saremmo ritrovati in una fattoria in rovina, due accattoni di nobile schiatta, io mi sarei dato al bere e ti avrei venduta per un po’ d’acquavite, forse ti avrei perfino accoppata…»
Lei si voltò a guardarlo, poi di scatto gli afferrò il busto, per un istante gli posò il viso sul petto e mormorò: «Árni.»
Non disse altro, e lui accarezzò una sola volta la sua magnifica chioma bionda, poi la lasciò uscire, come lei si stava apprestando a fare.
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Dea nordica, protettrice degli amanti.