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Sulle verdi piane tra i grandi corsi d’acqua del Suðurland grava una strana cupezza. Ogni occhio è velato da nubi che impediscono la vista del sole, ogni voce è smorzata come il cinguettio di un uccello in fuga, ogni minimo movimento è torpido, un bambino non può ridere, non si deve attirare l’attenzione sulla propria esistenza, né infastidire a cuor leggero le supreme potenze, ma solo aggirarsi discreti, cheti, furtivi, nell’eventualità che la divinità non abbia finito di colpire, che da qualche parte si celi un peccato non ancora espiato o un verme da schiacciare.
Il cuore dell’economia locale, testa e trofeo della vita nazionale, il seggio di Skálholt, era sull’orlo del crollo. La gente del Suðurland era più o meno bendisposta verso il vescovado a seconda di chi l’occupava, ma questa era a ogni modo la sede episcopale, e non perdeva la sua importanza nemmeno con il crescere del potere regio: era qui che si trovava la scuola, focolare di sapienza e di eruditi, era qui che si pagavano le decime, era qui che si faceva l’elemosina ai girovaghi, ammesso che riuscissero a farsi traghettare di qua dai fiumi. Perfino quando una vescovessa aveva fatto abbattere l’arco di roccia che faceva da ponte sul Hvítá, poverelli e vagabondi erano morti sulla riva orientale nella convinzione che su quella occidentale risplendesse un faro della cristianità.
Ma ormai i peccati della nazione erano tali da non risparmiare neppure questo luogo. Nella sua collera il Signore aveva colpito anche il soglio episcopale. Il fatto che i semplici dovessero piegare la testa sotto la falce del castigo non trascendeva certo l’umana comprensione. Ma ora che venivano repentinamente falciati anche ecclesiastici, dotti della scuola, allievi promettenti e virtuose vergini, nonché lo stesso patriarca della cristianità – il vescovo – e che poi la sua consorte, profumo e onore della nostra nazione, che in sé raccoglieva tutte le migliori ascendenze d’Islanda, era spirata nel fiore degli anni, divenne chiaro che questa grandine colpiva tanto il filo d’erba quanto la rosa; e tutto ciò che il clero aveva sommamente insegnato sul peccato umano e sulla collera di Dio si era rivelato profetico.
Il prevosto Sigurður Sveinsson, nominato vicario del vescovo durante un sinodo dei pastori ancora in vita nella diocesi, fece trasferire nel vescovado i suoi libri e altri effetti personali che teneva nella sua gelida stanzetta sul retro dei quartieri della servitù; ora il brutto crocifisso troneggiava sulle pareti verdi della Sala Maggiore.
Quell’autunno ci furono giornate serene, ma con gelate notturne. Un giorno un gruppo di cavalli sbuffanti si ferma sul lastricato asciutto del vescovado. Impazienti, mordono i freni strofinando la briglia contro la zampa mentre chi li cavalca scende a terra, lasciando penzolare le redini. Nessuno bussa alla porta. L’ospite non è di quelli che fanno tante cerimonie. L’uscio viene scosso come da un vento improvviso; passi lievi nell’ingresso; la porta della Sala Verde si spalanca di colpo.
«Buondì.»
Si ferma sulla soglia, magra ed eretta, in un soprabito nero su cui sono rimasti impigliati crini di cavallo, un po’ inzaccherato sui lembi inferiori, il frustino in mano. Certo, il viso ha perso la consistenza floreale che aveva in gioventù, e i denti sono troppo grandi perché si possa dire che la bocca sia graziosa; ma la postura ha acquisito quella nobiltà che emerge quando l’individuale cede il passo all’universale. E oggi come allora, c’è tutta un’altra luce là dove brillano i suoi occhi.
L’ electus alzò lo sguardo dai propri libri e lo puntò su di lei. Poi le andò incontro e la salutò con solennità. «Quali bona auguria …?» chiese.
Lei spiegò che la settimana prima era andata a Hjálmholt dietro invito dell’anziano prefetto Vigfús Þórarinsson, e che adesso era di ritorno all’ovest, alla sua casa sul Breiðafjörður; essendo di strada, le era saltato il ticchio di fare un saluto a un vecchio amico nonché pretendente. «E poi», aggiunse, «avrei una cosuccia da discutere con voi, caro reverendo Sigurður.»
Lui dichiarò che sarebbe stato il giorno più felice di tutti, quello in cui lei avesse trovato qualche utilità nei suoi servigi, poi le chiese come stesse di salute nel corpo e nell’anima, e le porse le sue condoglianze per la vedovanza, dato che l’estate precedente era giunta in Islanda la notizia che il suo vecchio compagno di studi e buon amico, lo sventuratissimo Magnús, era mancato a Copenaghen poco dopo aver vinto la sua causa legale.
Lei sorrise. «In quella causa c’è stato senz’altro uno sconfitto», disse. «Ma con i tempi che corrono non vale la pena di discutere di inezie. Ecco perché non mi sono presa il disturbo di procurarmi testimoni, né di farmi accordare il diritto di giurare in tribunale per respingere le accuse a mio carico contenute nella sentenza della Corte Suprema. E voi, caro reverendo Sigurður, davanti alla mia vergogna, non mi degnate neppure d’incriminarmi secondo le leggi ecclesiastiche e farmi annegare nell’Öxará.»
«Le mancanze seguite da pentimento cessano di esistere», disse il vicario del vescovo. «È vano punirle con un castigo umano, poiché il Signore le ha cancellate dal Suo libro.»
«Ciò che è vano lasciamolo da parte», disse lei. «D’altro canto c’è almeno un motivo di spasso che ho ricavato da quest’avversità: la fattoria di Bræðratunga qui al di là del fiume è stata sottratta dalle mani del re, con tanto di zappe e zangole. Il vecchio Fúsi me ne ha appena procurato un attestato.»
«La disfatta delle forze che operano di concerto con il Signore non è che una nube passeggera», disse il vicario del vescovo. «Il caso ha indubbiamente preso una piega più conforme al volere di Dio. Può anche darsi che la misura destinata dal Signore a questa misera nazione sia ormai colma e stracolma.»
«Senza dubbio», disse lei, «se di tutta la mia famiglia sono io a sopravvivere, la degenerata.»
«Un certo poeta errante celava una verginella nella sua arpa», disse il vicario del vescovo. «La nobile stirpe di lei era stata spazzata via. Quando la fanciulla piangeva, il poeta errante pizzicava l’arpa. Sapeva che toccava a lei mantenere saldo l’onore della propria famiglia.» 37
«Spero solo che non sia una vecchia vedova sfregiata dal vaiolo e per giunta adultera quella che voi tenete nella vostra personale arpa latina, caro reverendo Sigurður.»
«Il vero poeta ama la rosa delle rose, la vergine delle vergini. Quella che il mio maestro Lutero non riusciva a contemplare né nella veglia, né in sogno, né in visione, è quella – e quella sola – che il poeta ama: l’eterna rosa rosarum e virgo virginum , che è virgo ante partum, in partu, post partum ; e che Iddio m’aiuti, nel nome di Gesù.»
L’ospite disse: «Da tempo so che non c’è materia più sconcia della teologia, se insegnata come si deve: vergine prima del parto, vergine durante, vergine dopo. Arrossisco io, vecchia vedova. Nel nome di Gesù, aiutatemi a ridiscendere in terra, amabile reverendo Sigurður.»
Lui cominciò a camminare avanti e indietro, a mani giunte, con quei suoi ardenti occhi neri.
Fu lei a riprendere la parola: «Una volta siete venuto a trovarmi a est del fiume, reverendo Sigurður, è stato poco più di tre anni fa, e mi avete detto parole alle quali non ho fatto caso nel momento in cui venivano pronunciate; ma dopo di allora sono accadute cose che confermano una volta di più il vecchio detto secondo cui le esagerazioni sono sempre quelle che più si avvicinano al vero. Avevate detto di sapere per certo che mio padre sarebbe stato spogliato dell’onore e delle proprietà. Io risi. E allora voi pronunciaste quelle parole.»
Lui chiese quali parole.
«“Io vi offro il mio denaro e la mia vita. Il mio ultimo terreno da centoventi pezzi d’argento”, mi diceste.»
«Cosa volete da me?» domandò il pastore.
«Sono a corto di soldi», rispose lei. «Contanti; argento; oro.»
«Per cosa?» chiese lui.
«Non pensavo che un amico avesse bisogno di chiederlo. Men che meno un amico di mio padre.»
«Mi era parso di capire che aveste denaro vostro.»
«Avevo un pochetto d’argento in monete. Quando è giunta la notizia della morte di Magnús, e del fatto che avesse vinto la causa, è arrivata gente da ogni dove a chiedermi conto dei suoi debiti. Ho pagato tutte le somme richieste. Già ammontavano a parecchio, ma ancora continuano a saltar fuori creditori del mio defunto marito.»
«È un inveterato costume, quando si sa che una donna è senza difese, cercare di spennarla», disse il vicario del vescovo. «Queste richieste di pagamento andavano vagliate per via ufficiale. Dovevate contattarmi prima. Francamente dubito che spetti a voi estinguere i debiti contratti dal defunto Magnús.»
Di questa faccenda lei non voleva parlare, disse di dover onorare debiti al cui confronto quelli non erano nulla. E arrivò con ciò al motivo della sua visita.
Voleva che fosse riaperto il caso di suo padre e condotta una nuova indagine sui cosiddetti «processi degli orrori», quelli dei vagabondi e dei briganti che suo padre era stato condannato per aver giudicato con troppa severità. Ora, quasi tutti questi uomini, ammesso che non fossero ancora morti, erano talmente insignificanti che non valeva la pena di processarli daccapo, tranne uno, l’assassino Jón Hreggviðsson, la cui vicenda aveva avuto tanto peso nella condanna del magistrato Eydalín. Disse che alcuni esperti di legge le avevano assicurato che non c’erano mai stati dubbi sulla colpevolezza dell’imputato, tuttavia c’erano stati brogli, e se ora ci fosse stata la possibilità di un regolare processo, quantunque tardivo, questa sarebbe stata una valida ragione per riaprire il caso del magistrato Eydalín. Informò quindi l’ electus che la primavera passata, con notevoli sforzi finanziari, era riuscita a convincere le autorità nazionali a interrogare l’uomo, il quale ovviamente era sfuggito alle loro grinfie, come già in precedenza, prima di essere ascoltato in aula. Per amor di prassi era stata comunque formulata una sentenza, con condanna ai lavori forzati a Bremerholm. «Ma com’era da aspettarsi», disse, «quell’orrida conventicola di beoni non è riuscita a stilare un atto ufficiale del verdetto, così, quando il condannato è stato portato alla nave, i danesi hanno dedotto dai suoi documenti che si trovasse lì per un viaggio di piacere. Dopo una trattativa con le autorità dello Snæfell, la notte ho cavalcato fino a Ólafsvík», continuò, «e là mi è toccato versare una tangente ai danesi per far portare via il vecchio.»
Poi riferì al vicario del vescovo le ultime informazioni che aveva ricevuto su quell’uomo, arrivate con la nave dell’autunno. A Copenaghen, oggi come allora, potenti forze operavano al fine di scagionare quel vecchio delinquente che suo padre aveva trattato con una clemenza che era costata l’onore a lui e all’Islanda. Jón Hreggviðsson era rimasto solo poche notti alla fortezza di Bremerholm, perché questi individui erano riusciti a farlo scarcerare, e le notizie più recenti lo davano in mezzo agli agi in un noto palazzo gentilizio di Copenaghen. Tutti gli sforzi che lei aveva compiuto per intervenire in questa faccenda erano stati vani. Coloro che volevano la condanna di suo padre e il proscioglimento di Jón Hreggviðsson erano più forti.
Per farla breve, era sua intenzione partire per la Danimarca alla prima occasione, per conferire con colui che il re aveva nominato signore d’Islanda, «e che credo sia stato nostro amico, e pregarlo d’intercedere presso il sovrano affinché il processo all’onore del magistrato Eydalín sia riaperto in un tribunale valido. Ma», disse, «mi manca la moneta per una tanto dispendiosa spedizione.»
Il vicario del vescovo rimase a capo chino mentre lei parlava. Solo un paio di volte alzò gli occhi dal pavimento, risalendo con lo sguardo la figura dell’interlocutrice, ma mai al di sopra del ginocchio. Ebbe ripetute contrazioni involontarie alla bocca e al naso. E stringeva le dita con tanta forza che le nocche nelle mani livide sbiancarono.
Quando lei concluse il discorso, lui si schiarì la gola, serissimo, disgiunse le mani e subito le giunse di nuovo. Con occhi ardenti le lanciò uno sguardo fulmineo al viso ed ebbe un fremito al volto, come una bestia sul punto di lanciare un ululato. Ma quando prese la parola lo fece in tono posato e cortese, con quell’immensa gravità che si addice unicamente ai ragionamenti più sottili.
«Perdonatemi», disse, «se l’immutabile amante della salute della vostra anima dinanzi al santo nome di nostro Signore Iddio premette una certa domanda a ogni altra: avete mai, in vita vostra, baciato Arnas Arnæus con il cosiddetto Terzo Bacio, il bacio che gli autori chiamavano savium 38
Lei lo guardò con la rassegnazione di chi, dopo una lunga marcia su distese sabbiose, incrocia infine un fiume dall’odore nauseante. Si mordicchiò un labbro e si voltò verso la finestra, a guardare i suoi accompagnatori che trattenevano i cavalli sul lastricato mentre l’attendevano. Infine si voltò nuovamente verso l’interno della stanza e sorrise al vicario del vescovo. «Prego Vostra Devozione di non interpretarmi come se io intendessi scagionare la mia misera carne», disse. «Pochi giorni, poche notti… e questa polvere cesserà di fluttuare al vento. Però, mio caro reverendo Sigurður, essendo voi l’amante della mia anima, ed essendo l’anima priva di labbra, poco conta che la polvere venga baciata con il primo bacio, il secondo o il terzo.»
«Vi metto nuovamente in guardia, anima amata, dal rispondere in modo che la risposta abbia in sé maggior peccato di quello che voi volete negare, per quanto veritiera», disse lui.
«Ci si trasforma subito in demonietti unghiuti a discorrere con un sant’uomo come Vostra Devozione, reverendo Sigurður», disse lei. «Da tempo so che, più parole scambio con voi, più gradini scendo verso l’abisso dell’inferno. Nondimeno vengo a voi.»
«L’affetto che vi porto è e resta immutato», disse il vicario del vescovo.
«Vengo a voi perché nessuno più del miserrimo figlio dell’inferno trova rifugio sicuro nel vostro Cristo perforato. Se io ho mai detto, in vostra presenza, qualcosa di offensivo sul vostro idolo, non è perché manchi di ravvisarne la potenza. Ed è mia convinzione, mia intima fede, che se c’è un luogo sulla nostra terra in cui vive questo tremendo redentore è in petto a voi.»
«Voi vi siete messa in combutta con tutto ciò che mi è avverso», disse il pastore, stringendo le mani giunte con tutte le sue forze. «I fiori del campo li avete legati a un giuramento contro di me. Perfino il sole, quando splende nel cielo sereno, l’avete trasformato in un nemico della mia anima.»
«Perdonatemi, reverendo Sigurður. Credevo che foste amico di mio padre e aveste pronunciato in piena sincerità le parole che citavo poco fa. Ora vedo che mi sbagliavo. Non faccio altro che mettervi in collera. Riparto subito. E mettiamo una pietra sopra tutto quanto.»
Lui le si parò davanti e disse: «Quale istante avrei atteso per tutti questi anni, se non quello in cui la donna più nobile d’Islanda sarebbe venuta da questo povero eremita?»
«La più misera d’Islanda», disse lei, «la vera immagine della donna misera: la femmina avversata da tutta la vostra teologia. Ora dovreste permettere a questo rifiuto di proseguire il suo viaggio, mio amabile reverendo Sigurður.»
«Sta… Stanno in un barilotto nel muro», mormorò lui, sbarrandole il passaggio, con le braccia sollevate e le mani disgiunte, «e oltre a quelli ce n’è un pochino in uno scomparto di un baule, su in soffitta; ecco le chiavi. E duecento talleri in quel comò. Prendi queste particole di Satana, queste fæces diaboli che da troppo tempo mi pesano sulla coscienza, usale per pagarti il viaggio a sud, nel mondo, a far visita al tuo amante. Se c’è qualcuno che è perduto, sia che agisca bene, sia che agisca male, quello sono io.»
37 Allusione a un episodio della Saga dei Volsunghi .
38 Ossia, non un osculum né un basium , ma un bacio da amanti. È attestata anche la forma suavium . Per «autori» il reverendo intende gli scrittori della latinità.