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In un albergo di Nyhavn, il Guldmagerens Hus, una nobildonna in viaggio e la sua cameriera personale si preparano alla partenza in una tarda sera d’inizio autunno. Fuori, agli ormeggi nello stretto canale, navi venute da lontano ondeggiano piano, puntano la prua contro il molo e poi l’allontanano di nuovo. Le donne ripongono in bauli e scrigni il loro bagaglio, gli oggetti di valore e i vestiti, la signora trova un posto a ogni cosa, ma distrattamente, e per un istante addirittura dimentica ciò che sta facendo e si volta a guardare trasognata fuori dalla finestra. Anche l’attempata cameriera interrompe il lavoro e senza farsi notare guarda la padrona con pietà.
Alla fine è tutto nei bauli, tranne una cosa. Sul davanzale interno resta ancora, avvolto in un fazzoletto di seta rosso, un vecchissimo libro in pergamena, screpolato, scurito dalla fuliggine e unto dalle dita di persone morte da talmente tanto tempo che della loro esistenza non resta più nulla al di fuori di queste impronte. Più e più volte la cameriera solleva delicatamente questa antichità, con dita tremanti la libera dalla seta rossa e poi la riavvolge, oppure la sposta per poi rimetterla dov’era prima. La signora non le ha ancora detto dove riporre questo libro, non vi ha neppure fatto cenno. Quando cala la notte e le strade si fanno quiete, cresce il numero dei gabbiani che svolazzano avanti e indietro fra gli alberi delle navi, e la signora è ancora alla finestra a guardare fuori.
Alla fine la cameriera prende la parola: «Non volete che io vada in città, anche se è tardi, a riportare il libro là dove sta di casa?»
«Pensi di sapere dove sta di casa questo libro?» chiese la padrona, in un tono sommesso, dalla cupezza dorata e distante.
«Mi pare proprio che abbiate detto, prima che lasciassimo l’Islanda, che questo libro sta di casa in un solo posto, mmh, da una sola persona.»
«Quella persona ci è più lontana quest’autunno a Copenaghen che non in Islanda la scorsa primavera», disse la signora.
La cameriera tornò alle sue faccende e rispose senza alzare lo sguardo: «La mia defunta padrona, vostra madre, riposi in pace, raccontava spesso a noi servette la storia di una certa vostra antenata che non ha mai baciato nessuno con più affetto che il nemico di suo padre, non ha mai dimostrato a nessuno più generosità che a lui, non ha mai fatto a nessuno regali di commiato più splendidi che a lui, ma non appena è ripartito ha mandato un sicario a ucciderlo.»
Snæfríður non guardò la cameriera, ma rispose trasognata: «Sarà pure che la mia bisnonna, con quell’indole da antiche saghe, abbia fatto regali al nemico di suo padre per poi ucciderlo. Ma non l’ha fatto uccidere per poi mandargli regali.»
«Del resto, la figlia della mia defunta padrona non ha ancora ammazzato nessuno», disse la cameriera. «E adesso ci resta questa sola notte in città, e neppure intera, ormai, e adesso che è arrivato l’autunno ci si può aspettare qualunque tempaccio, e all’alba dovremo navigare su quel mare furioso che ricorda tanto le rapide del Suðurland. Che coliamo a picco o no, questa è l’ultima occasione: se non vi fate forza e non sfruttate le ultime ore notturne, non glielo consegnerete mai, questo vostro libro; anzi, suo.»
«Non so a chi tu alluda», disse la signora, guardando perplessa la cameriera. «Non intenderai per caso il funaiolo che continua a camminare avanti e indietro, avanti e indietro, da tutt’oggi, tutto ieri e tutt’avantieri, tutto il giorno, tutta la notte, nella corderia di là dal canale?»
La cameriera non rispose, ma dopo qualche istante le mancò il respiro mentre stava china su un baule aperto, e quando la signora si voltò le vide scendere le lacrime.
«Sono riuscita a fare in modo che sarà condannato dai miei amici Beyer e Jón Eyjólfsson sull’Öxará a primavera», disse la nobildonna in tono gelido. «Il regio rescritto è lì, nel mio scomparto personale.»
«Non è ancora stato condannato», disse la cameriera. «Il documento è arrivato solo oggi. Lui ne avrà notizia solo dopo che voi sarete partita. Potete consegnargli il regalo stanotte.»
«Sei proprio una bambina, Guðríður cara, pur avendo venticinque anni più di me», disse la nobildonna. «T’illudi che lui non abbia capito tutto del motivo di questo mio viaggio, fin dal momento in cui sono sbarcata quest’estate? Non si lascerà incantare da un regalo di circostanza.»
«Saprete ben voi perché avete portato questo libro dall’Islanda, quest’estate», disse la cameriera.
«Se fossi stata rispedita in Islanda a mani vuote, forse gli avrei dato questo dono», disse la signora. «Ma i vincitori non possono fare regali ai vinti. Per poco non davo il libro a quel demonio di Jón Marteinsson, che oggi, mentre eri fuori, è passato di qui tentando di ricattarmi: diceva che se ho riavuto Bræðratunga devo solo ringraziare lui.»
«Dio ci scampi, chissà cos’avrebbe detto vostra madre, riposi in pace!» esclamò la cameriera, tergendosi le lacrime. «Ci mancherebbe pure che faceste regali a quel mascalzone, che ha falsificato la vostra firma su chissà quanti documenti qui a Copenaghen, con grandi risate dei danesi.»
«E lasciamoli ridere, i danesi, Guðríður cara. Adesso infila quel vecchio libro sotto il coperchio di quel baule e schiaccia per bene. È ora che le viaggiatrici si corichino.»
La fiammella della lampada si era fatta fioca, ma non valeva la pena di allungare lo stoppino: di lì a poco l’avrebbero spenta e sarebbero andate a dormire, poi al mattino sarebbero partite. L’alloggio consisteva in due stanze, quella più esterna aveva pareti rivestite nella metà inferiore di legno dipinto di verde, e imbiancate in quella superiore, sulla quale erano appese ciotole di rame con immagini sbalzate, piatti smaltati con motivi decorativi astratti e due acqueforti, l’una raffigurante divinità romane, l’altra la basilica di san Marco a Venezia; sui ripiani di un pensile dipinto a pennello c’erano i piatti, le scodelle, le brocche e le altre stoviglie, dato che la signora si faceva servire i pasti in camera, senza sedere alla tavola del locandiere. La stanza interna era quella per dormire: il letto della signora era sotto la finestra, con lenzuola candide come neve, mentre la cameriera si coricava su una panca di fianco alla porta.
La signora aveva detto che era ora di andare a dormire, eppure restava alla finestra, pensierosa, e la cameriera s’inventava faccende a cui dedicarsi per non coricarsi prima di lei. Era notte fonda. Con tutto quel silenzio trasalirono ancora di più quando sentirono bussare alla porta e il guardiano dell’albergo, con occhi assonnati, annunciò che dabbasso c’era un nobiluomo straniero che desiderava conferire con Sua Eccellenza.
Lei impallidì e le pupille si dilatarono. «Accertati che stia cercando proprio me», disse, «e se è così, conducilo qui.»
L’uomo comparve alla sua porta, in quell’albergo di Copenaghen, la sera prima della partenza, dopo tante assenze e tanti rivolgimenti, con la stessa naturalezza che avrebbe avuto se avesse lasciato quella stanza solo poco prima per una gradevole passeggiata nei giardini del re, con quel bel tempo.
«Buonasera», disse.
Teneva il cappello in mano. L’abbigliamento aveva il taglio elegante di un tempo, ma la figura si era appesantita e i tratti del viso si erano accentuati, la luce degli occhi velata dalla stanchezza. C’era un luccichio nella parrucca argentea acconciata con cura.
Ancora immobile davanti alla finestra, lei non ricambiò subito il saluto dell’ospite, ma lanciò una rapida occhiata alla cameriera e disse: «Scendi a salutare la tua amica cuoca.»
Lui rimase fuori finché la cameriera non gli passò accanto uscendo, poi varcò la soglia ed entrò nella camera. Lei andò alla porta e la chiuse, fece un passo verso l’ospite e lo salutò con un bacio prima ancora di rivolgergli la parola; lo cinse con entrambe le braccia e posò il viso sulla sua guancia. Lui passò il palmo della mano sulla folta chioma lucente che cominciava a perdere colore. Lei affondò il viso nel petto di lui per qualche istante, poi sollevò gli occhi e lo guardò.
«Non credevo che venissi, Árni», disse. «Eppure sapevo che saresti venuto.»
«C’è chi tarda, ma arriva», disse lui.
«Ti ho portato un libro.»
«È proprio da te.»
Lei lo pregò di sedersi sulla panca. Poi aprì il baule sotto il cui coperchio c’era il libro avvolto nella seta rossa, e glielo porse.
«È quello a cui mio padre, riposi in pace, teneva di più», disse.
Lui svolse delicatamente la seta, indugiando, e lei attese con ansia di rivedere nei suoi occhi quel luccichio che un libro antico gli accendeva sempre un tempo. D’un tratto lui s’interruppe, alzò lo sguardo, sorrise e disse: «Io l’ho perso, il libro a cui tenevo di più.»
«Quale?» chiese lei.
«Il libro che abbiamo trovato insieme», disse lui, «in casa di Jón Hreggviðsson.»
Poi le spiegò in parole semplici e in tono pacato come era sparita la Skálda .
«È una gran perdita», disse lei.
«Il peggio è perdere l’amore che si provava per un libro prezioso.»
«Ma io credevo che si amasse un oggetto prezioso finché se ne sentisse la mancanza.»
«Non si ha coscienza dell’istante in cui si cessa di sentirla», disse lui. «Per certi versi è come la guarigione di una ferita, o come la morte. Non si ha coscienza dell’istante in cui la ferita cessa di dolere, né dell’istante in cui si muore. All’improvviso si è guariti; all’improvviso si è morti.»
Lei gli rivolse uno sguardo distante.
Infine disse: «Hai la faccia di un morto che appare in sogno a un amico: è lui eppure non è lui.»
Arnæus sorrise. E nel silenzio che seguì ricominciò a svolgere il fazzoletto dal libro.
«Lo conosco», disse, annuendo, dopo aver tolto la seta. «Mi ero offerto di procurare a tuo padre la tenuta di Holt sull’Önundarfjörður per avere questa misera raccolta di leggi. Sai, è considerata la fonte più importante sulla società germanica, perfino più importante della vecchia Lex Salica dei franchi. Già, erano i tempi in cui la mia parola valeva quanto una falla nel tetto, al Tesoro. Avevo pensato di aspettare e offrirgli l’isola di Viðey, visto che Holt non gli sembrava abbastanza per pagare questo volume malconcio. Non era uno che diceva di no a un’offerta di terre, se il prezzo era vantaggioso, ma sapeva bene quanto me che tutte le tenute d’Islanda valgono ben poco in confronto agli antichi manoscritti islandesi; e non si è lasciato allettare. In seguito gli ho scritto, offrendomi di versare sul suo conto presso la Compagnia, qui a Copenaghen, una somma decisa da lui, in argento o in oro, per questo vecchio libraccio. La primavera seguente mi ha inviato in dono una copia, fatta nella maniera che è d’uso in Islanda: anche quando il copista non sbaglia a leggere, va comunque alla cieca nel correggere il predecessore. Ero già in possesso di diverse copie di quel libro, fatte meglio.»
«Sei sempre dell’opinione che non esista altra Islanda che quella che si conserva in questi antichi libri?» disse lei. «E noi, che ne siamo gli abitanti, non siamo altro per te che dolori al petto di cui vorresti con qualunque mezzo liberarti? O forse non siamo più nemmeno questo?»
Lui disse: «L’anima dei popoli del Nord si cela nei libri islandesi, ma non nella gente che abita oggi in Scandinavia, o in Islanda. D’altro canto una veggente ha vaticinato che “meravigliose tavole d’oro si troveranno fra l’erba” prima della fine.» 43
«Mi si dice che qui si sta discutendo di deportarci nelle lande dello Jutland», disse lei.
«Se tu vuoi, si eviterà», disse lui sorridendo.
«Se io voglio», gli fece eco lei. «Cosa può una povera donna? L’ultima volta che ti ho visto, ero una mendicante a Þingvellir sull’Öxará.»
«Io ero il servitore degli indifesi. Ti ho vista, seduta al margine della via…»
«… con addosso gli stracci di quelle che tu avevi riabilitato», aggiunse lei.
Lui disse in tono cupo, senza alzare lo sguardo e quasi sovrappensiero, come se stesse recitando fra sé e sé un’antica strofa: «Dove sono gli umili che volevo riscattare? Sono più umiliati che mai. E gli indifesi che volevo difendere? Non si sente più nemmeno il loro respiro.»
«Hai Jón Hreggviðsson.»
«Già. Ho Jón Hreggviðsson. Ma è tutto lì. E magari me lo impiccheranno prima della fine dell’inverno.»
«Ah, no», disse lei, avvicinandosi ancora di più a lui sulla panchina dove sedevano. «Non siamo qui per parlare di Jón Hreggviðsson. Scusa se ho fatto il suo nome. Adesso vado a svegliare il locandiere e mi faccio portare una brocca di vino.»
«No», disse lui, «niente vino del locandiere; niente da parte di nessuno. Finché siamo seduti qui insieme, abbiamo tutto.»
Lei si appoggiò allo schienale della panca e ripeté piano l’ultima parola: «Tutto.»
«Comunque sia, nella nostra vita esiste una sola cosa», disse lui.
Lei mormorò: «Una.»
«Sai perché sono venuto?»
«Sì. Per non separarti mai più da me.»
Lei si alzò, si avvicinò a un robusto bauletto con i rinforzi in metallo e da uno scomparto estrasse alcuni grossi fogli con il sigillo delle supreme autorità governative. Li resse fra il pollice e l’indice, a braccio teso, come quando si tiene un ratto per la coda.
«Queste rescripta », disse, «editti e decreti, dispense e concessioni, non sono altro che illusioni, falsità.»
Lui la raggiunse, e con gli stessi movimenti con cui si fa penzolare un ragno dal filo per vedere se salga o scenda, pronosticando buona o cattiva sorte, soppesò nel palmo il sigillo reale che pendeva da un filo in fondo a uno dei fogli.
«Hai compiuto una grande impresa», disse.
«Sono venuta fin qui nella speranza di trovare te», disse lei. «Il resto non conta. Adesso posso stracciare questi fogliacci.»
Lui disse: «Non fa differenza che questi atti siano integri o stracciati. Tutte le ordinanze di questo re danese perderanno comunque validità prima che si riunisca il prossimo Alþingi sull’Öxará.»
«Nel senso che d’ora in poi sogni e favole saranno la nostra legge?» disse lei illuminandosi tutta.
«Mi è stato offerto di diventare signore d’Islanda», disse lui, «e tu ne saresti la signora. Sono venuto appunto per dirti questo.»
«Alto tradimento?» chiese lei a bassa voce.
«No. Il re vuol vendere l’Islanda. I re danesi hanno sempre nutrito il desiderio di vendere o dare in pegno questa loro proprietà, se non fosse che i principi stranieri l’hanno sempre rifiutata; ma adesso è saltato fuori un compratore. Certi tedeschi di Amburgo sono interessati ad acquistare l’Islanda. Temono però di non riuscire a tenerla sotto controllo senza un governatore benvoluto dal volgo, e si sono fatti l’idea che io sia l’uomo adatto.»
Lei lo fissò a lungo.
«E tu che intenzioni hai?» gli domandò.
«Governare l’Islanda», rispose lui sorridendo. «Il primo passo sarà il ripristino del nostro diritto civile, sulla base di quello statuito a suo tempo dall’accordo con Hákon il Vecchio, in Norvegia.» 44
«E il potere giudiziario?» chiese lei.
«Un’altra delle mie prime mosse sarà quella di destituire tutti i funzionari del re danese, ed esiliarne alcuni, fra i quali il governatore generale Páll Beyer; allo stesso modo, anche il vicemagistrato Jón Eyjólfsson. Bisogna ripulire la legislatura dalle ingerenze danesi e istituirne una nuova.»
«E dove fisseresti la sede?»
«Tu dove vorresti che la fissassi?»
«A Bessastaðir.»
«Come vuoi», disse lui. «La residenza sarà in legno, non meno splendida del palazzo di qualunque principe all’interno dell’impero. Farò costruire una biblioteca in pietra e riporterò in patria, nella loro casa, i preziosi libri che ho salvato dal marciume delle miserie provocate dai danesi.»
«Avremo un grande salone per le feste», disse lei. «Alle pareti appenderemo armi e scudi di antichi paladini. La sera i tuoi amici siederanno con te a un tavolo in rovere, a rinnovellare le antiche saghe e bere birra.»
«I nostri connazionali non saranno più fustigati per aver fatto un affare vantaggioso», disse Arnæus. «Intorno ai porti sorgeranno stazioni di commercio sul modello di quelle straniere, e verrà costituita una flotta di pescherecci, e venderemo pesce essiccato e lana alle città del continente, come si è sempre fatto fino all’epoca di Jón Arason, e con quelle merci ne acquisteremo altre, che si addicano a un popolo civilizzato. Dalla terra estrarremo materie preziose. L’imperatore mostrerà il pugno al re di Danimarca ed esigerà che restituisca agli islandesi gli oggetti preziosi che ha fatto rubare dalla cattedrale di Hólar e dai monasteri di Munkaþverá, Möðruvellir e Þingeyrar. Verranno restituite anche le antiche tenute che la corona danese ha requisito dopo la caduta della Chiesa islandese. E si erigeranno una magnifica università e collegia dove i dotti islandesi vivranno nuovamente come esseri umani.»
«Costruiremo palazzi», disse lei, «non da meno di quelli che l’amministratore provinciale Gyldenløve si è fatto costruire in Danimarca con le tasse islandesi.»
«A Þingvellir sorgerà un imponente tribunale e vi sarà montata un’altra campana, più grande e melodiosa di quella che il re ha fatto confiscare e che il boia ha ordinato a Jón Hreggviðsson di abbattere», disse lui.
«Il freddo chiarore lunare che fa luccicare la Pozza delle Annegate cesserà di essere l’unico segno di pietà verso le donne indigenti d’Islanda», disse lei.
«E gli accattoni affamati non verranno più impiccati nell’Almannagjá in nome della giustizia», disse lui.
«Tutti saranno nostri amici», disse lei, «perché il popolo starà bene.»
«E la Furfantaia di Bessastaðir verrà chiusa», disse lui, «perché in una nazione in cui si sta bene il popolo non commette crimini.»
«E viaggeremo per tutta l’Islanda su cavalli bianchi», disse lei.
43 Arnæus sta citando la strofa 61 della Völuspá («Profezia della veggente»), dall’Edda poetica .
44 Hákon IV, re di Norvegia dal 1217 al 1263.