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La sentenza dell’Alþingi aveva fatto di Jón Hreggviðsson un galeotto di Bremerholm per avere a suo tempo nascosto l’appello alla Corte Suprema accolto tramite regia lettera. Arnæus l’aveva ripescato dalla fortezza e al tempo stesso aveva ottenuto la riapertura del caso originario presso la Corte Suprema. Il caso in questione era stato preso in esame una seconda volta nel corso dell’inverno precedente, mentre il bifolco dimorava a Copenaghen, e poi anche durante l’estate. Il processo era avvenuto quasi interamente all’insaputa del bifolco, a parte l’occasione in cui era stato convocato in tribunale. Conosceva a memoria tutte le risposte relative alla vecchia imputazione, non c’era modo di farlo cadere. Sapeva anche come presentare alla corte le sue disgrazie: un vecchio contadino dai capelli bianchi, ingobbito, in lacrime, tutto tremante dinanzi ai giudici stranieri in una terra lontana, piegato da viaggi lunghi e ardui, passati e presenti, imposti da una sventura di tanto tempo prima, che l’aveva reso – benché innocente – causa di scompiglio tra i potenti.
Il processo era andato avanti, ma non per l’interesse destato in Danimarca dalla sorte di un bifolco di Akranes, bensì perché faceva parte degli attriti fra due fazioni interne al regno, di forza più o meno pari. Arnæus aveva patrocinato il caso di Jón Hreggviðsson con quell’indefessa logica e quel dotto formalismo che sono sempre stati il punto di forza degli islandesi contro i tribunali danesi. In un processo come questo, con imputazioni ormai cadute in prescrizione e indizi generici, senza alcuna prova legalmente valida, gli era stato particolarmente facile smontare l’accusa tramite la filosofia e la logica. Gli atti del processo, vecchi e nuovi, pro e contro, si erano accumulati a tal punto da sembrare la concretizzazione stessa della cattiva tendenza degli islandesi all’imbroglio e alla cavillosità, tanto che poteva dirsi perduto chiunque avesse tentato di ricavarne la verità, ovvero di stabilire se il summenzionato Regvidsen avesse o meno, vent’anni prima, eliminato il suo boia dentro una pozza nera in una nera notte d’autunno nella nera Islanda.
L’estate passata, per un certo periodo, si era temuto che la portata di tale processo crescesse ulteriormente, costituendo un campo di battaglia sul quale il conflitto tra le due fazioni si sarebbe inasprito e la situazione già ingarbugliata in partenza sarebbe diventata un groviglio inestricabile. La causa di questo era la figlia del magistrato d’Islanda Eydalín, la quale voleva che il caso di Jón Hreggviðsson diventasse la pietra di paragone del processo contro il suo defunto padre. A dare un colpo di spada all’intrico erano state le somme autorità, quando i due casi erano stati separati per regio decreto: quello del bifolco di Rein sarebbe rimasto, come già era, nelle mani della Corte Suprema, mentre la dura sentenza del
commissarius
sul defunto Eydalín e su altre autorità sarebbe stata giudicata dal tribunale d’Islanda sull’Öxará.
Ora che si avvicinava la primavera e che la vita a Copenaghen rientrava nei solchi giusti, dopo l’incendio, arrivò la notizia che nessuno si sarebbe aspettato, men che meno gli islandesi, ossia che la Corte Suprema di Sua Maestà aveva pronunciato una sentenza definitiva sull’esecrato e interminabile processo a Joen Regvidsen
på Skage
.
47
Data l’assenza di prove, l’uomo era stato prosciolto dalla vecchia accusa mossagli dalle autorità di avere ucciso il boia Sívert Snorresen, e perciostesso tutte le pene comminategli in relazione a tale caso erano state estinte, ragion per cui era libero di tornare a casa, nella terra di Sua Altezza Reale, l’Islanda.
Poi accadde che un giorno di primavera, in Laksegade, dove ora abitava in un appartamentino, Arnas Arnæus mandò a chiamare il suo spaccalegna e gli fece indossare una giubba nuova, calzoni e stivali, e poi gli posò sulla chioma bianca un cappello nuovo, dicendogli che oggi sarebbero andati insieme in carrozza a Dragør.
Era la prima volta che Jón Hreggviðsson viaggiava in carrozza senza dover sedere accanto al cocchiere. Poté salire a bordo al fianco dell’erudito di Grindavík, mentre sul sedile di fronte stava il loro padrone e maestro, che offrì ai due del tabacco da fiuto e qualche parola spassosa, benché un po’ distrattamente.
«Adesso v’insegno una strofa delle
Rímur di Pontus anteriori
», disse.
E recitò i seguenti versi:
Stupiti senz’altro saranno
se vedranno nella patria amata
Testagrigia tornare quest’anno,
tuttora al collo attaccata
.
Dopo che i due Jón ebbero imparato la strofa, tutti tacquero. La carrozza sbandava per via della strada bagnata.
Dopo un bel po’ l’
assessor
si riscosse, guardò il bifolco di Rein, sorrise e disse: «La
Skálda
, l’ha salvata Jón Marteinsson. Era destino che io salvassi solo te.»
Jón Hreggviðsson domandò: «Devo portare qualcosa a qualcuno, messere?»
«Ecco un tallero per tua figlia a Rein, che stava alla porta della fattoria quando sei partito», rispose Arnas Arnæus.
«Non capisco perché quella diavolessa abbia lasciato uscire il cane», disse Jón Hreggviðsson. «E sì che le avevo detto di tenerlo d’occhio.»
«Speriamo che il cucciolone abbia ritrovato la via di casa», disse Arnas Arnæus.
«Se capitasse qualcosa nella parrocchia di Saurbær», disse l’erudito di Grindavík, «come strani sogni, troll, elfi, mostri o aberranti malformazioni nei neonati, di’ da parte mia al caro reverendo Þorsteinn di metterlo per iscritto e spedirmelo, così potrò aggiungerlo al libro che ho appena cominciato a scrivere:
De mirabilibus Islandiæ
, “Sui portenti d’Islanda”.»
Arrivarono alla stazione commerciale di Dragør. La nave per l’Islanda era all’ancora al suo posto, alcune vele erano già state montate.
«Porta bene partire per l’Islanda da Dragør», disse Arnas Arnæus, tendendo la mano a Jón Hreggviðsson per salutarlo mentre saliva sulla barca che l’avrebbe portato alla nave. «Qui in giro ci sono vecchi amici degli islandesi. Si dà il caso che in questo luogo Olao il Santo abbia prestato il suo traghetto a un islandese dopo che le altre navi erano già partite, poiché trovava importante che tornasse in patria in tempo per l’Alþingi. Se ora il santo re Olao volesse farti arrivare a casa prima della tredicesima settimana d’estate, vorrei chiederti di fare una visitina ai signori dell’Alþingi sull’Öxará, che vedano un po’ chi è tornato.»
«Devo dir loro qualcosa?» chiese Jón
Hreggviðsson
.
«Puoi dir loro da parte mia che l’Islanda non è stata venduta; non stavolta. Più in là capiranno. Poi consegna loro la sentenza su di te.»
«Non devo portare saluti a nessuno?» chiese Jón Hreggviðsson.
«Il mio saluto sarà questa tua vecchia testa arruffata», rispose il
professor antiquitatum danicarum
.
Le lievi brezze dell’Øresund scompigliavano le chiome bianche del vecchio mascalzone islandese Jón Hreggviðsson, che stava in piedi a poppa sulla barca, a metà fra la terraferma e la nave che l’avrebbe riportato a casa, e agitava il cappello verso l’uomo stanco che restava indietro.
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In un certo punto dell’Almannagjá, l’Öxará muta il suo corso, come per disgusto, e si apre un varco uscendo dalla faglia. È lì che si forma la grande pozza delle donne, la Pozza delle Annegate, e poco oltre c’è un sentierino che sale sulla parete di roccia.
Su un rialzo erboso accanto alla pozza, alcuni criminali si stropicciavano gli occhi al sole del mattino. Negli alloggi dei maggiorenti dormiva ogni cosa, ma dalla piana a est alcuni cavalli neri venivano condotti verso l’alloggio del vescovo. Un uomo con una giubba danese e un cappello, gli stivali appesi alle spalle, risale da sud il pendio più basso della faglia e vede il sole del mattino risplendere sugli assonnati criminali lungo le sponde della Pozza delle Annegate.
Quelli sgranano gli occhi: «Sogno o son desto? Jón Hreggviðsson torna dopo essere stato dal re? Con un cappello nuovo? Con una giubba?»
Era arrivato a Eyrarbakki il giorno prima, e venuto a sapere che mancava appena un giorno all’assemblea sull’Öxará si era fatto fare un paio di scarpe sul Flói, si era messo in spalla gli stivali e aveva marciato durante la notte.
Ebbe l’impressione che i suoi vecchi compari avessero perso la loro buona sorte, se così si poteva chiamare, visto che avevano passato la notte all’addiaccio; l’altro anno, quando aveva pernottato lì insieme a loro, il re aveva concesso una tenda con stampata la corona, e i regi servitori avevano servito loro un infuso.
Ma non si lagnavano. Il Signore era stato misericordioso con loro, come sempre. All’Alþingi le sentenze erano state pronunciate il giorno prima. La nuova signora di Skálholt, consorte del vicario del vescovo Sigurður Sveinsson e figlia del nostro defunto magistrato, aveva ottenuto l’estate precedente la regia autorizzazione a far riesaminare il caso di suo padre dal tribunale d’Islanda: Beyer, governatore generale a Bessastaðir, insieme al vicemagistrato e ad altri ventiquattro funzionari, aveva dunque emesso una sentenza. Il defunto magistrato Eydalín era stato prosciolto da tutte le accuse del regio emissario Arnæus e aveva ottenuto piena riabilitazione postuma. Le sue proprietà, compresi i sessanta terreni confiscati dal re, gli erano state restituite, e quindi legittimamente ereditate da Snæfríður, moglie del vescovo. La cosiddetta «sentenza del
commissarius
» sul magistrato era stata invalidata, e il
commissarius
stesso, Arnas Arnæus, era stato multato dalla Corona per abuso di potere e violazione della legge. Quasi tutti quelli che Arnæus aveva prosciolto erano stati nuovamente incriminati dal tribunale nazionale, con l’eccezione di Jón Hreggviðsson, che aveva il
beneficium paupertatis
di appellarsi alla Corte Suprema in Danimarca. Le sentenze di Eydalín nei cosiddetti «processi degli orrori», annullate dal
commissarius
, erano state ripristinate o dichiarate fuori dalla competenza di un tribunale secolare, come il caso della donna incinta che aveva giurato di essere vergine inviolata: cause del genere spettavano al tribunale spirituale. Dei verdetti del defunto magistrato erano stati annullati solo quelli riguardanti casi che, di rigore, trascendevano la sua potestà.
«Dio sia lodato, c’è di nuovo qualcuno da ammirare», disse l’infelice vecchio delinquente che anni prima si era addolorato nel veder trascinare in tribunale certi bravi prefetti che l’avevano fatto fustigare.
Il sant’uomo che aveva rubato dalla cassetta delle elemosine parlò così: «Nessuno è beato tranne chi ha patito il proprio castigo…»
«… e chi ha ritrovato il proprio crimine», disse l’uomo che per un po’ aveva perso il proprio crimine.
Costui era stato un criminale per dieci anni, poi le autorità avevano decretato che era stata tutt’altra donna ad avere da tutt’altro uomo il bambino per il quale sua sorella era stata annegata nella pozza con l’accusa di averlo avuto da lui. Per quei dieci anni tutti gli avevano fatto la carità. Ma dopo che il tribunale l’aveva privato di quel crimine, l’Islanda intera gli aveva riso in faccia. Nessuno gli aveva più neppure gettato in grembo una coda di pesce. La gente gli aizzava i cani contro. Ora il caso era stato riesaminato da un nuovo tribunale: lui aveva innegabilmente commesso quello spaventoso crimine e tornava a essere un autentico criminale dinanzi a Dio e agli uomini.
«Adesso so che nessuno in Islanda mi riderà più in faccia», disse. «Non aizzeranno più i cani contro di me, ma mi getteranno code di pesce. Dio sia lodato.»
A questo punto, come la volta precedente, prese la parola il criminale cieco, che finora era rimasto seduto in silenzio al margine del gruppo. «Il nostro crimine è quello di non essere uomini, pur avendone il nome. Che ne dice Jón Hreggviðsson?»
«Solo che ho intenzione di marciare sul
Leggjabrjótur
oggi stesso, verso casa», disse lui. «Quando sono tornato dall’estero la prima volta, mia figlia era sul catafalco. Chissà che non sia ancora viva quella che stava sulla porta quando sono partito l’ultima volta. Chissà che non abbia avuto un figlio che racconti al figlio di suo figlio la storia dell’antenato Jón Hreggviðsson di Rein e del suo amico e signore, il maestro Árni Árnason.»
A quel punto si udì un rumore di zoccoli dietro il pendio orientale della faglia, e quando i criminali s’incamminarono fra i dirupi videro un uomo e una donna con molti cavalli e servitori sulla via terrosa che entra a Þingvellir, in direzione della Kaldidalur, che separa due regioni d’Islanda. Erano entrambi vestiti di scuro e i loro cavalli erano tutti neri.
«Chi è che arriva?» chiese il cieco.
Gli altri risposero: «Arriva Snæfríður Sole d’Islanda, in nero; e il suo consorte Sigurður Sveinsson, latinista e vicario del vescovo di Skálholt. Vanno all’ovest a riscuotere le proprietà che lei ha ereditato dal padre, ora che se le è fatte restituire dal re.»
E i delinquenti rimasero ai piedi dei dirupi a guardare il vescovo e la moglie che passavano a cavallo; e i cavalli dalla criniera nera luccicavano di rugiada sul far del mattino.
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Ossia «Jón Hreggviðsson della Penisola».