Ogni pomeriggio Tengo andava nella stanza del padre, sedeva accanto al letto, apriva il libro che aveva con sé e si metteva a leggere ad alta voce. Dopo aver letto cinque pagine faceva una pausa; poi, sempre ad alta voce, ne leggeva altre cinque. Leggeva il libro che aveva per le mani in quel momento. Poteva essere un romanzo, una biografia, un testo sulle scienze naturali. La cosa importante non era il contenuto, ma leggere ad alta voce.

Tengo non sapeva se il padre lo sentiva. Il suo viso non mostrava alcuna reazione. Il vecchio, magro e sciupato, teneva gli occhi chiusi e dormiva. Il corpo era immobile, e non si sentiva nemmeno il rumore del suo respiro. Naturalmente respirava, ma senza accostare l’orecchio o mettergli uno specchietto davanti alla bocca per controllare se si appannava, era impossibile verificarlo. Il liquido della flebo entrava nel corpo e il catetere portava all’esterno le scorie. Quel lento e silenzioso movimento di entrata e uscita era l’unico segnale di vita. Ogni tanto l’infermiera gli radeva la barba con il rasoio elettrico e, con delle piccole forbici dalle punte arrotondate, gli tagliava i peli bianchi che sporgevano dalle orecchie e dal naso. Poi sfoltiva le sopracciglia. Anche se era privo di coscienza, i peli continuavano a crescere. Guardandolo, Tengo non capiva piú che differenza ci fosse tra la vita e la morte di un essere umano. «Ma esisterà poi davvero, questa differenza? – si chiedeva. – O ci convinciamo che esista solo perché ci fa comodo?»

Verso le tre il medico ragguagliava Tengo sulle condizioni del padre. Le spiegazioni erano sempre brevi, la sostanza piú o meno identica. La malattia non peggiorava. Il vecchio era ancora immerso nel sonno. L’energia vitale si affievoliva sempre piú. In altre parole, si stava avvicinando alla morte in modo lento ma inesorabile. Dal punto di vista clinico, allo stato attuale non c’era modo di intervenire. L’unica cosa da fare era lasciarlo dormire tranquillo. Il medico non si sbilanciava a dire altro.

Verso sera due infermieri portavano il padre a fare degli esami. Gli infermieri cambiavano a seconda dei turni, ma erano tutti silenziosi. Forse non parlavano anche perché avevano il viso coperto da maschere piuttosto grandi. Uno di loro sembrava straniero. Basso e scuro di carnagione, sorrideva sempre da dietro la maschera. Lo si capiva dagli occhi. Allora Tengo ricambiava, facendo un cenno con il capo.

Dopo mezz’ora, al massimo un’ora, riportavano il padre nella stanza. Tengo non sapeva a quali esami veniva sottoposto. Mentre il vecchio era assente, lui scendeva nella caffetteria, beveva un tè verde caldo, e dopo una quindicina di minuti tornava in camera. Sempre con la speranza che nel letto vuoto comparisse ancora una volta la crisalide d’aria con Aomame bambina coricata al suo interno. Ma ciò non accadeva mai. Ad attenderlo trovava solo l’odore del malato e il letto vuoto affossato al centro.

Tengo, in piedi davanti alla finestra, guardava fuori. La barriera frangivento formata dai pini, oltre il prato, si estendeva nera e attutiva il rumore delle onde. Le onde burrascose del Pacifico. Si udiva un rimbombo forte e cupo, come se miriadi di spiriti si fossero radunati e ognuno di essi raccontasse bisbigliando la propria storia, invocando l’arrivo di molti altri spiriti, di molte altre storie.

Prima di allora, in ottobre, Tengo era andato a trovare suo padre all’istituto di Chikura due volte soltanto, nei suoi giorni liberi, facendo il viaggio di andata e ritorno in giornata. Al mattino aveva preso il rapido e, arrivato dal padre, si era seduto accanto al letto, parlandogli di tanto in tanto. Ma non aveva avuto mai niente che assomigliasse a una risposta. Il vecchio giaceva supino, immerso in un sonno profondo. Durante quelle visite, Tengo aveva passato la maggior parte del tempo a guardare la vista dalla finestra. Quando si era avvicinata la sera, aveva aspettato che accadesse qualcosa. Ma non era accaduto mai nulla. Il sole era tramontato dolcemente, la stanza era stata piano piano avvolta da una lieve oscurità. Poi a un certo punto, rassegnato, aveva preso l’ultimo rapido ed era tornato a Tōkyō.

«Forse dovrei visitarlo in maniera piú regolare, – si era detto una volta. – Queste visite in giornata non bastano. Occorre un impegno piú costante da parte mia». Non aveva delle ragioni precise per pensarlo. Era piú che altro una sensazione.

Nella seconda metà di novembre, Tengo decise di prendere alcuni giorni di ferie. A scuola spiegò che il padre era in gravi condizioni di salute e che, cosa effettivamente vera, doveva occuparsi di lui. Chiese a un compagno di università di sostituirlo. Era una delle poche persone con cui Tengo aveva mantenuto un minimo di rapporto. Anche dopo la laurea avevano continuato a tenersi in contatto, sebbene si sentissero non piú di una o due volte all’anno. Persino in un dipartimento come quello di matematica, dove di persone eccentriche ce n’erano parecchie, quel giovane spiccava per la sua stranezza, ma era dotato anche di un’intelligenza notevole. Ciò nonostante, non aveva trovato un lavoro stabile, né aveva tentato la carriera universitaria. Si limitava, quando ne aveva voglia, a dare qualche lezione di matematica a studenti delle medie in una scuola preparatoria gestita da un conoscente. A parte questo leggeva libri, pescava nei torrenti di montagna e viveva come gli andava. A Tengo era giunta voce che era bravo, come insegnante. Ma sembrava essersi stancato anche del suo talento. Inoltre, provenendo da una famiglia ricca, non aveva bisogno di fare un lavoro che non gli piaceva. Tengo gli aveva chiesto di sostituirlo già una volta, e in quell’occasione gli studenti l’avevano apprezzato. Quando Tengo lo chiamò, spiegandogli la situazione, lui accettò immediatamente.

Poi c’era il problema Fukaeri, che adesso viveva con lui. Tengo esitava a lasciarla sola nel suo appartamento per un lungo periodo, lei che già di suo era cosí fuori dal mondo. D’altra parte la ragazza viveva nascosta in quella casa, e doveva evitare di farsi vedere in giro. Glielo chiese direttamente: – Ti va di restare da sola qui da me, o preferisci andare per un po’ da un’altra parte?

– Tu dove vai, – fece lei con sguardo serio.

– Al paese dei gatti, – rispose Tengo. – Mio padre è ancora in coma. Già da tempo è immerso in un sonno profondo. Mi hanno detto che forse non durerà a lungo.

Non le disse che una sera, al tramonto, la crisalide d’aria si era materializzata sul letto della stanza di suo padre. Non le disse che al suo interno c’era Aomame bambina che dormiva. Non le disse che la crisalide d’aria era uguale, fin nei minimi dettagli, a quella che lei aveva descritto nel romanzo. Non le disse nemmeno che sperava segretamente che apparisse ancora una volta davanti a lui.

Fukaeri socchiuse gli occhi, tese le labbra in una linea dritta e fissò Tengo in faccia, come se dovesse decifrare un messaggio scritto in caratteri molto minuti. Istintivamente lui si portò una mano al viso, ma non gli parve che ci fosse scritto qualcosa.

– Va bene, – disse Fukaeri dopo qualche istante, annuendo. – Non preoccuparti. Resterò qui –. Si fermò un attimo a riflettere, quindi aggiunse: – Per il momento non c’è pericolo.

– Per il momento non c’è pericolo, – ripeté Tengo.

– Non preoccuparti per me, – disse di nuovo Fukaeri.

– Ti telefonerò tutti i giorni.

– Cerca di non rimanerci per sempre, nel paese dei gatti.

– Starò attento.

Tengo andò al supermarket e tornò con una spesa abbondante, in modo che Fukaeri non avesse bisogno di uscire per qualche tempo. Comprò solo cose che si potevano preparare facilmente. Sapeva molto bene che la ragazza non aveva né la voglia né la capacità di cucinare. Voleva evitare, quando sarebbe tornato dopo due settimane, di trovare nel frigorifero una gran quantità di cibo andato a male.

Mise in una busta di plastica qualche ricambio e prodotti per l’igiene personale. Aggiunse alcuni libri, l’occorrente per scrivere e dei fogli di carta. Come sempre partí con il rapido dalla stazione di Tōkyō, a Tateyama prese il regionale e scese alla seconda fermata, Chikura. Andò all’ufficio informazioni davanti alla stazione, e cercò un albergo economico in cui pernottare. Poiché era bassa stagione, trovò una stanza libera senza difficoltà. Era una pensione a buon mercato, frequentata soprattutto da gente che andava a pescare. La stanza era piccola ma pulita, si sentiva l’odore del tatami nuovo. Dalla finestra, al primo piano, si vedeva il porto peschereccio. Il prezzo della stanza, colazione inclusa, era piú basso di quanto avesse immaginato.

Tengo spiegò che non sapeva ancora con certezza quanto tempo si sarebbe fermato, e pagò in anticipo per tre notti. La padrona dell’albergo non fece obiezioni. Lo informò che l’orario di chiusura era alle undici di sera, e gli fece capire (indirettamente) che non erano gradite donne in camera. Tengo non ebbe niente da eccepire. Dopo essersi sistemato nella stanza, telefonò all’istituto. All’infermiera che rispose (la solita infermiera di mezza età) chiese se poteva andare a visitare il padre alle tre del pomeriggio. Lei rispose che non c’erano problemi.

– Il signor Kawana continua a dormire, – aggiunse.

Cominciarono cosí le giornate nel paese dei gatti, sul mare. La mattina Tengo si alzava presto e passeggiava lungo la spiaggia, guardava il viavai delle barche nel porto, quindi tornava all’albergo e faceva colazione. Il menu era sempre identico: sauro essiccato, frittata, alghe, zuppa di miso con telline e riso – ma, chissà perché, era sempre tutto squisito. Finito di mangiare, si sedeva a una piccola scrivania e lavorava al romanzo. Scrivere con la penna stilografica dopo tanto tempo, era piacevole. Anche il fatto di lavorare in un luogo sconosciuto, lontano dalla vita di tutti i giorni, era un diversivo che non gli dispiaceva affatto. Dal porto giungeva il rumore monotono dei pescherecci che rientravano. A Tengo quel suono piaceva.

Stava scrivendo un romanzo ambientato in un mondo con due lune, in cui esistevano i Little People e le crisalidi d’aria. Quel mondo lo aveva tratto dal romanzo di Fukaeri, La crisalide d’aria, ma ormai era diventato completamente suo. Mentre era piegato sui fogli a quadretti, la sua coscienza viveva lí. Anche quando posava la penna e si allontanava dalla scrivania, con la mente restava in quel mondo. Allora provava una sensazione particolare, come se il corpo e la mente si dividessero, e non riusciva piú a distinguere il confine tra la realtà e l’immaginazione. Forse anche il protagonista del Paese dei gatti aveva provato una sensazione simile. Senza che se ne accorgesse, il centro di gravità del mondo si era spostato altrove. E lui (forse) non sarebbe mai piú riuscito a prendere il treno per tornare a casa.

Alle undici doveva lasciare la stanza perché cominciavano le pulizie. A quell’ora smetteva di scrivere, usciva dall’albergo, camminava senza fretta verso la stazione e si sedeva in un bar a prendere un caffè. A volte mangiava un piccolo sandwich, ma di solito si limitava al caffè. Poi prendeva i giornali del mattino e li sfogliava con attenzione per accertarsi che non ci fossero articoli che lo riguardavano. Ma non ne trovava. La crisalide d’aria era sparito ormai da tempo dalla classifica dei best seller. Adesso il libro piú venduto era Dimagrire mangiando tutto ciò che si desidera. Geniale. Con un titolo del genere, il libro avrebbe venduto anche se avesse avuto tutte le pagine bianche.

Dopo aver bevuto il caffè e letto i giornali, prendeva un autobus per recarsi dal padre. Di solito arrivava tra l’una e mezzo e le due. Una volta lí, scambiava qualche parola con l’infermiera all’accettazione. Ora che alloggiava in paese e andava ogni giorno a far visita al padre, le infermiere lo trattavano con piú gentilezza e confidenza. Come una famiglia che accoglie il ritorno del figliol prodigo.

Una giovane infermiera gli sorrideva con aria timida ogni volta che lo incrociava. Sembrava nutrire per lui uno spiccato interesse. Era piccola, con la coda di cavallo, gli occhi grandi e le guance rosse. Aveva poco piú di vent’anni. Ma da quando aveva visto la bambina addormentata nella crisalide d’aria, Tengo non riusciva a togliersi Aomame dalla testa. Le altre donne erano soltanto pallide ombre, apparizioni passeggere. Aomame occupava stabilmente i suoi pensieri. Tengo aveva la convinzione che fosse viva e si trovasse da qualche parte, nel mondo. Altrimenti, quella sera, non avrebbe utilizzato un percorso tanto strano per incontrarlo. Anche lei non lo aveva dimenticato.

Ammesso che ciò che ho visto non sia stata una semplice allucinazione.

Ogni tanto, per qualche istante, gli tornava in mente la sua amante, di alcuni anni piú grande di lui. Chissà che cosa stava facendo. Suo marito gli aveva detto al telefono che era irrimediabilmente perduta. Tengo non l’avrebbe incontrata mai piú. «Irrimediabilmente perduta». Era un’espressione che risvegliava in lui una forte inquietudine. Era certo che quelle parole contenessero una sfumatura sinistra.

Anche lei, tuttavia, si stava allontanando a poco a poco dai suoi pensieri. Tengo ricordava i pomeriggi trascorsi insieme come eventi del passato che avevano esaurito il loro significato. Si sentiva in colpa per questo. Ma la forza di gravità era cambiata senza che lui se ne accorgesse: adesso il centro era altrove, e non sarebbe mai piú tornato nella posizione di prima.

Quando entrava nella stanza del padre, Tengo gli sedeva accanto e gli rivolgeva un rapido saluto. Poi passava a raccontare, in ordine cronologico, tutto quello che aveva fatto a partire dalla sera prima. Niente di importante, naturalmente. Era tornato al paese in autobus, aveva cenato in una trattoria, mangiando qualcosa di semplice, bevuto una birra, era tornato in albergo e si era messo a leggere un libro. Alle dieci era già a letto. Quando si svegliava la mattina passeggiava sulla spiaggia, faceva colazione, e lavorava per un paio d’ore al romanzo. Ogni giorno si ripeteva secondo lo stesso schema. Eppure Tengo, rivolgendosi a quell’uomo privo di coscienza, raccontava le sue attività quotidiane con dovizia di particolari. Dal padre non arrivava nessuna reazione, era come parlare al muro. Un rituale ormai acquisito. Ma a volte anche una semplice ripetizione può significare molto.

Tengo si metteva a leggere il libro che aveva portato con sé. Non era sempre lo stesso. Recitava ad alta voce qualche pagina, a partire dal punto in cui era arrivato. Se si fosse trovato tra le mani il libretto d’istruzioni di una falciatrice elettrica, avrebbe letto quello. Procedeva lentamente e scandiva bene le parole, in modo da farsi capire. L’unica cosa di cui si preoccupava era questa.

Fuori i fulmini si facevano sempre piú abbaglianti, e per un istante illuminarono di una luce biancastra la strada, ma non si sentivano tuoni. O forse, a causa di un intorpidimento dei sensi, non riusciva a sentirli. La pioggia scorreva come un torrente lungo la strada. I clienti, affondando i piedi nell’acqua, continuavano a entrare nel locale uno dopo l’altro.

L’amico che era con lui non smetteva di fissarlo. Si chiese quale fosse il motivo, ma l’altro non parlava già da un po’. Intorno a loro si levò un trambusto, ed ebbe l’impressione che gli altri clienti, quelli seduti vicino e quelli piú lontani, si spostassero verso di lui, circondandolo. Si sentí mancare il fiato.

Qualcuno fece un verso strano, forse per schiarirsi la gola, o perché gli era andato di traverso un boccone. Sembrava quasi il rantolo di un cane.

Di colpo ci fu un forte fulmine e un lampo biancastro penetrò fin dentro il locale, illuminando le persone sul pavimento di terra battuta. Poiché nello stesso istante rimbombò un tuono che sembrava voler spaccare il tetto, spaventato si alzò, e le facce dei clienti ammassati sul pavimento si girarono contemporaneamente verso di lui. Non riuscí a distinguere se fossero cani o volpi, ma erano bestie; tutte indossavano abiti, e ce n’erano alcune che si leccavano gli angoli della bocca con le lingue lunghe1.

Dopo aver letto fino a quel punto, Tengo guardò la faccia del padre.

– È finita, – disse. La storia finisce cosí.

Non ci fu reazione.

– Hai qualche commento? – chiese.

Naturalmente, non ci fu nessuna risposta.

A volte gli leggeva ad alta voce la parte del romanzo che aveva scritto quella mattina. Finita la lettura, ritoccava con una biro i punti di cui non era soddisfatto. Poi leggeva di nuovo il brano, e se continuava a non convincerlo, ci rimetteva mano. Quindi lo rileggeva ancora una volta.

– Con le correzioni, il testo è migliorato, – diceva Tengo al padre, come per cercare la sua approvazione. Ma lui non esprimeva alcuna opinione. Non diceva che l’ultima versione era migliore, né che preferiva la precedente, né che le due versioni non differivano granché. Le palpebre che nascondevano i suoi occhi infossati rimasero serrate. Come una casa infelice con tutte le persiane chiuse.

Ogni tanto Tengo si alzava dalla sedia, si stirava, andava alla finestra e guardava il paesaggio. Dopo diverse giornate nuvolose, era arrivata la pioggia. Quel pomeriggio scendeva senza interruzione, e i pini della barriera frangivento impregnati d’acqua apparivano scuri e pesanti. Lo sciabordio delle onde non si sentiva, non tirava vento. La pioggia cadeva dritta dal cielo, in mezzo al quale volavano stormi di uccelli neri. Anche i cuori degli uccelli erano scuri e saturi d’acqua. Nella stanza era umido. Il cuscino, i libri, il tavolo, tutti gli oggetti erano impregnati di umidità. Ma il padre, nel suo stato di coma ininterrotto, era indifferente al tempo, all’umidità, al vento e al suono delle onde. La paralisi gli avvolgeva il corpo come un abito misericordioso. Tengo, dopo una breve pausa, riprese la sua lettura ad alta voce. In quella stanza stretta e umida non c’era altro che potesse fare.

Quando fu stanco di leggere, restò in silenzio a guardare il padre che continuava a dormire. Cercò di immaginare quali pensieri si agitassero nel suo cervello. Che tipo di coscienza si nascondeva in quel cranio testardo come una vecchia incudine? O forse all’interno non rimaneva piú nulla? Come una casa abbandonata, senza piú mobili e utensili, portati via a uno a uno, e senza nemmeno una traccia delle persone che vi avevano vissuto. Ma se anche fosse stato cosí, sulle pareti e sul soffitto avrebbero dovuto esserci incisi, qua e là, ricordi o immagini. Cose coltivate tanto a lungo non possono venire risucchiate dal nulla cosí in fretta. Forse, mentre giaceva nel letto austero, in quell’istituto sul mare, nel buio e nel silenzio di una casa vuota, nascosta e remota, suo padre era circondato da immagini e ricordi che non apparivano agli altri.

La giovane infermiera con le guance rosse entrò, sorrise a Tengo, misurò la temperatura al padre e controllò il liquido che restava nella flebo insieme alla quantità di urina che si era accumulata nel catetere. Annotò con la biro alcuni numeri su un blocco. I suoi gesti erano rapidi, automatici, come se stesse seguendo le indicazioni di un manuale. Mentre osservava quella serie di azioni, Tengo si chiese che cosa si provava a vivere lavorando in un istituto come quello, in un piccolo paese sul mare, prendendosi cura di vecchi afflitti da demenza senile che non avevano alcuna possibilità di guarigione. L’infermiera aveva l’aria di una donna giovane e in salute. I seni e i fianchi, sotto l’uniforme inamidata, apparivano compatti e generosi. Il soffice velo di peluria sulla nuca aveva un riflesso dorato. La targhetta di plastica sul petto recava il nome «Adachi».

Che cosa aveva portato una donna come lei in un posto fuori dal mondo, in cui regnavano l’oblio e il lento avanzare della morte? Tengo capiva che era un’infermiera capace e laboriosa. Era ancora giovane, ed efficiente. Se avesse voluto, avrebbe certamente trovato lavoro in un ospedale diverso, in una città piú animata e interessante. Come mai aveva scelto un contesto cosí deprimente? Tengo avrebbe voluto conoscere le ragioni e le circostanze che l’avevano spinta in quell’istituto. Aveva la sensazione che, se glielo avesse chiesto, lei avrebbe risposto con franchezza. Ma forse era meglio evitare certi coinvolgimenti. Quello era pur sempre il paese dei gatti. Prima o poi avrebbe dovuto prendere il treno, e sarebbe tornato al suo mondo.

Quando ebbe finito, l’infermiera rimise a posto il blocco e rivolse a Tengo un sorriso impacciato.

– Non ci sono cambiamenti. Tutto è come al solito.

– Per essere positivi, diciamo che è stabile, – disse Tengo, sforzandosi di usare un tono scherzoso.

Lei fece un altro sorriso, quasi di scusa, e inclinò leggermente la testa. Poi, lanciando uno sguardo al libro chiuso che lui aveva sulle ginocchia, chiese:

– Lo sta leggendo a suo padre?

Tengo annuí:

– Sí, ma è difficile capire se riesce a sentirmi.

– È comunque una buona cosa, – disse l’infermiera.

– Che sia buona o no, è l’unica che posso fare. Non mi viene in mente altro.

– Comunque, non tutti fanno quello che possono.

– Beh, la maggior parte delle persone è molto piú occupata di me, – disse Tengo.

L’infermiera stava per dire qualcosa, ma esitò e infine tacque. Guardò il vecchio immerso nel sonno, poi Tengo.

– Le faccio tanti auguri, – disse.

– Grazie.

L’infermiera uscí, Tengo aspettò qualche istante, e riprese la lettura.

Nel tardo pomeriggio il padre, adagiato sul lettino, fu portato a fare i consueti esami. Tengo scese alla caffetteria a prendere un tè, poi telefonò a Fukaeri.

– Ci sono novità? – le chiese.

– No, – disse Fukaeri. – Tutto normale.

– Anch’io non ho novità. Faccio sempre le stesse cose.

– Però il tempo va avanti.

– Già, – disse Tengo. – Ogni giorno avanza di un giorno.

E ciò che è avanzato, non lo si può riportare dov’era.

– Il corvo dell’altra volta è tornato di nuovo, – disse Fukaeri. – Quello grande.

– Viene sempre sul davanzale della finestra, verso sera.

– Fa la stessa cosa ogni giorno.

– Esatto, – disse Tengo. – Proprio come me.

– Però al tempo non ci pensa.

– No, i corvi non pensano al tempo. La percezione del tempo, probabilmente, è una prerogativa degli esseri umani.

– Perché.

– Gli uomini concepiscono il tempo come una linea retta. È come se incidessero delle tacche su un bastone lungo e dritto. Quella davanti rappresenta il futuro, quella dietro il passato. Adesso invece siamo qui… una cosa del genere. Capisci?

– Forse.

– Ma in realtà il tempo non è rettilineo. E non ha nessuna forma. È informe da ogni punto di vista. Però, poiché siamo incapaci di immaginare cose che non abbiano una forma, per comodità lo rappresentiamo come una linea retta. È uno spostamento concettuale che, in questo momento, solo gli esseri umani sono in grado di operare.

– Forse siamo noi a sbagliare.

Tengo rifletté qualche istante:

– Vuoi dire che sbagliamo nel percepire il tempo come una linea retta?

Fukaeri non rispose.

– È possibile che siamo noi a sbagliare, e che i corvi siano nel giusto. Forse il tempo non ha niente a che vedere con una linea retta, e magari ha la forma di una ciambella storta, – disse Tengo. – Ma gli uomini hanno vissuto decine e decine di migliaia di anni con questa idea. Cioè, hanno rappresentato il tempo come una linea retta, e su questa base cognitiva hanno compiuto le loro azioni. Cosí facendo, finora, non hanno incontrato particolari svantaggi o contraddizioni. Dal punto di vista empirico, mi sembra abbia funzionato.

– Dal punto di vista empirico, – ripeté Fukaeri.

– È quando si considera valido un ragionamento sulla base di alcuni esempi.

Fukaeri restò in silenzio. Tengo non ebbe modo di accertare se avesse capito o no.

– Pronto? – disse Tengo per verificare che la ragazza fosse ancora in linea.

– Fino a quando rimarrai, – chiese Fukaeri, omettendo il punto interrogativo.

– Fino a quando resterò a Chikura?

– Sí.

– Non lo so, – disse Tengo francamente. – Ma almeno fino a quando non avrò chiarito alcune cose. Per ora non so altro. Al momento ho diversi dubbi. Vorrei vedere che piega prende la situazione.

Fukaeri restò di nuovo in silenzio. Quando taceva, sembrava scomparisse.

– Pronto, – disse ancora una volta Tengo.

– Attento a non perdere il treno, – disse Fukaeri.

– Farò attenzione, – precisò Tengo. – Cercherò di arrivare in tempo. E tu? Tutto bene?

– Prima è venuto un tipo.

– Chi era?

– Uno della NHK.

– Un esattore della NHK?

– Esattore, – chiese Fukaeri senza punto interrogativo.

– E hai parlato con lui? – chiese Tengo.

– Non ho capito cosa diceva.

«Non sa nemmeno cos’è la NHK, – pensò Tengo. – Le mancano alcune conoscenze basilari».

Tengo disse:

– Per spiegarti bene ci vorrebbe troppo tempo, ma in poche parole, la NHK è una grande azienda nella quale lavorano molte persone che ogni mese girano per tutte le case del Giappone a raccogliere soldi. Però io e te non dobbiamo pagare, perché da loro non riceviamo niente. A proposito, non gli avrai mica aperto la porta?

– No, non ho aperto. Come mi avevi detto tu.

– Bene.

– Però ci ha chiamato ladri.

– Non farci caso, – disse Tengo.

– Ma noi non abbiamo rubato nulla.

– Certo. Né tu né io abbiamo fatto niente di male.

Fukaeri tacque di nuovo.

– Pronto? – fece Tengo.

Fukaeri non rispose, forse aveva messo giú. Ma lui non aveva sentito il rumore della cornetta riagganciata.

– Pronto? – disse di nuovo Tengo, questa volta alzando il tono della voce.

Fukaeri fece un colpetto di tosse.

– Quell’uomo ti conosceva bene, – disse.

– L’esattore?

– Sí. L’uomo della NHK.

– E ti ha chiamato ladra.

– Non si rivolgeva a me.

– Ce l’aveva con me?

Fukaeri non rispose.

Tengo continuò:

– In ogni caso non possiedo un televisore, quindi non ho certamente rubato nulla alla NHK.

– Ma si è arrabbiato perché non gli ho aperto la porta.

– Pazienza. Lascia che si arrabbi. Qualunque cosa ti dicano, tu non aprire la porta.

– Non apro.

Dopo queste parole, Fukaeri riagganciò bruscamente. Magari per lei posare il ricevitore a quel punto della conversazione era un’azione naturale e logica. All’orecchio di Tengo, invece, suonò piuttosto come un modo improvviso di finire la telefonata. Del resto era impossibile indovinare cosa pensasse e provasse Fukaeri. Lui lo sapeva bene. Dal punto di vista empirico.

Tengo posò la cornetta e tornò nella stanza del padre.

L’uomo non era ancora stato riportato in camera. Tra le lenzuola del letto restava l’affossamento del suo corpo. Della crisalide d’aria, nemmeno l’ombra. Nella stanza invasa dalla luce tenue e fredda del crepuscolo, c’erano soltanto le deboli tracce del vecchio che l’aveva occupata fino a poco prima.

Tengo sospirò e riprese posto sulla sedia. Posò le mani sulle ginocchia e fissò a lungo l’affossamento sulle lenzuola. Quindi si alzò, andò alla finestra e guardò fuori. Le nuvole di quel tardo autunno si allungavano orizzontali sopra la barriera frangivento formata dagli alberi. Da tempo non vedeva un tramonto cosí bello.

Tengo non capiva come l’esattore della NHK potesse «conoscerlo bene». L’ultima volta che ne era passato uno risaliva a circa un anno prima. Lui gli aveva spiegato gentilmente, sulla porta, che non vedeva la televisione e non possedeva in casa nessun apparecchio. L’uomo non si era lasciato convincere, ma dopo aver mormorato a denti stretti un commento sarcastico, se ne era andato senza insistere.

Quello che si era presentato da Fukaeri era la stessa persona? Tengo ricordava che anche quell’esattore lo aveva chiamato «ladro». Però era piuttosto singolare che lo stesso esattore, a distanza di un anno, affermasse di «conoscerlo bene». Avevano parlato sí e no cinque minuti.

«Mah, fa niente», pensò. In ogni caso Fukaeri non aveva aperto, e quell’uomo non sarebbe tornato una seconda volta. Gli esattori avevano una soglia minima di quote da raggiungere ed erano stanchi di sopportare discussioni sgradevoli con persone che si rifiutavano di pagare. Di solito, per risparmiare sforzi inutili, evitavano i casi problematici e andavano dove era piú facile incassare.

Tengo lanciò un’altra occhiata all’affossamento sul letto. Pensò alla quantità enorme di scarpe che suo padre aveva consumato. Nel corso degli anni, a forza di fare ogni giorno tutta quella strada per la riscossione, ne aveva distrutto un numero incalcolabile. Avevano tutte lo stesso aspetto. Scarpe di pelle a buon mercato, nere, basse, estremamente pratiche. Le usava fino a logorarle, riducendole in brandelli e deformandone completamente il tacco. Da bambino, ogni volta che vedeva quelle scarpe cosí malridotte, Tengo si sentiva stringere il cuore. Ma la pena che provava non era per suo padre, bensí per le scarpe. Quelle calzature gli facevano pensare a dei poveri animali da tiro sfruttati fino al limite estremo e ormai agonizzanti.

Ma a pensarci bene, suo padre, adesso, non era anche lui un animale agonizzante? Non era una vecchia scarpa consumata?

Tengo guardò di nuovo fuori dalla finestra, e osservò i colori del tramonto che nel cielo, a ovest, si facevano piú cupi. Pensò alla crisalide d’aria che emanava una pallida luce azzurrina e ad Aomame bambina che vi era distesa, addormentata.

Quella crisalide d’aria sarebbe apparsa ancora?

Il tempo aveva davvero la forma di una linea retta?

– Sono arrivato a un punto di non ritorno, – disse Tengo rivolto alle pareti. – Le variabili sono troppe. Trovare la soluzione è impossibile anche per un ex bambino prodigio.

Naturalmente le pareti non risposero. Non espressero nemmeno un’opinione. Si limitarono a riflettere in silenzio i colori del tramonto.

1 Il brano è tratto dal racconto Tōkyō nikki (Diario di Tōkyō) di Uchida Hyakken (1889-1971). [N.d.t.]