L’ombra del rimorso1
(1914)

– Sono venuto, – disse Bellavita dalla soglia della camera, – perché ho capito che a lei non reggeva il cuore di venire da me.

Il notajo Cavaliere don Settimio Denora, ricomposto appena dallo scatto d’ira all’annunzio di quella visita, rosso in volto, aggrondato, con un tremolio nervoso nelle palpebre abbassate, accennò di sì più volte col capo calvo, dal tavolino innanzi al quale stava seduto, e invitò con la mano il visitatore a introdursi e a sedere.

Bellavita non era solo.

Rigido, cèreo, spettrale, parato di strettissimo lutto, aveva innanzi a sé, sulla soglia, Michelino, il ragazzo, vestito anch’esso d’un abito or ora ritinto di nero, e gli teneva su gli omeri le mani gracili, ossute.2

Quest’abito, ritinto or ora di nero, pareva nuovo a Michelino, e lo portava con serietà e con soddisfazione, come una divisa.

– Sono a lutto, io,3 – aveva annunziato ai compagni, passandosi le mani su la giacca.

Anche papà era a lutto. E come! Finanche la fascia4 di lana, a maglia, attorno al collo gangoloso,5 orribilmente deturpato da infossature e cicatrici, da rossa era diventata nera.

All’invito d’introdursi, Bellavita spinse avanti Michelino, dicendogli a bassa voce:

– (Va’ a baciar la mano al signor Cavaliere).

Poi, con la compostezza solenne che la tragica gravità di quella visita gl’imponeva fece quattro passi nella stanza e sedette in punta in punta su una seggiola, diritto su la vita, quasi indurito dal cordoglio, chini gli occhi nel pallore cadaverico del viso.

A casa sua si sarebbe lasciato andare, si sarebbe buttato giù, nella disperazione di quel suo cordoglio; ma lì, in casa del signor Cavaliere, c’era da rispettare un altro cordoglio, forse non men cocente del suo. La commiserazione che il signor Cavaliere poteva avere per lui, non doveva occupar soverchio posto. Ragion per cui era entrato con quela rigida solennità e s’era seduto così in punta in punta su la seggiola.

Il ragazzo, ricevuto dal Cavaliere un bacio per forza su la fronte, ritornò a lui e gli si pose tra le gambe.

Il notajo appoggiò le braccia sul piano del tavolino; vi affondò il capo.

Per un momento il silenzio regnò nella camera così assoluto che dal tavolino da notte accanto al letto disfatto s’intese il ticchettìo sottile dell’orologio d’oro.

Bellavita rimase a contemplare con occhi gravi e densi d’angoscia, in quel silenzio punto dall’acuzie del ticchettìo, la lucida, rosea, venerata calvizie del signor Cavaliere, emergente dalle braccia conserte sul tavolino; e per un pezzo non osò offendere con la sua voce quel raccoglimento doloroso, ch’era come un balsamo per il suo cuore. Alla fine si risolvette a parlare, e disse:

– Mi sono permesso, per il funerale, di ordinare in suo nome una corona di fiori freschi, un po’ più ricca della mia. Le ho fatte collocare accanto, tutt’e due, sul carro funebre. Ho poi fatto dire tre messe alla sant’anima: una per lei, una per me, una per Michelino.

Michelino, soddisfatto, sorrise e fece per ripassarsi la mano su la giacca; ma interruppe il gesto, vedendo alzare il capo al notajo. Questi tenne un po’ le ciglia contratte e gli occhi chiusi, per non mostrar l’interno ribollimento. Era esasperato.6

– Mi dirai, – poi sbuffò, scattando in piedi, aprendo gli occhi, ma senza guardarlo, – mi dirai quant’hai speso.

– Signor Cavaliere, – gemette Bellavita, ferito nel più profondo dell’anima.

– Mi dirai quant’hai speso! – ribatté forte, con ira, il notajo.

Bellavita si succhiò tutto; strinse tra i denti il labbro inferiore; lo coprì ermeticamente con quello di sopra, per impedire uno scoppio di singhiozzi; ma le lagrime gli piovvero abbondanti dagli occhi.

– Pe... perché, – barbugliò,7 – perché mi vuol dare anche questo dolore?

Il notajo guatò quelle lagrime, il pietosissimo aspetto di quell’uomo disfatto in pochi giorni dall’improvvisa sciagura; vide lo sbigottimento dipingersi per quel pianto sul viso sbiancato del ragazzo, e non ebbe più il coraggio d’insistere. Si mise a passeggiare per la stanza, aggrondato, con le mani dietro la schiena.

Bellavita stentò a lungo ad arrestare quel fiotto di pianto, a risucchiarsi tutte quelle lagrime, che gli gocciolavano anche dal naso. Finalmente poté soggiungere:

– Sono venuto anche per domandarle se posso rimandare a scuola Michelino.

Il notajo s’arrestò di botto; si voltò a guardarlo con un furore a stento contenuto; gridò:

– Perché?

Intendeva dire: – «Perché lo domandi a me?». Bellavita lo comprese e rispose umilmente:

– Per sapere se le sembra giusto, dopo sei giorni soltanto...

Il notajo si scrollò tutto:

– Ma fa’ quello che ti pare!

– Si tratta di Michelino, – disse allora con pacata gravità Bellavita. – E io non voglio far nulla senza il permesso e il consiglio di Vossignoria... Il ragazzo soffre a star solo in casa con me. Vede come s’è ridotto, in sei giorni, povera creatura? Ma io non so far altro che piangere, piangere, piangere...

E giù, di nuovo, un torrente di lagrime.

Soffocato, a un tratto, s’alzò da sedere e andò a buttarsi addosso al notajo:

– Ah, signor Cavaliere, per carità, abbia considerazione di me! non m’abbandoni, per carità, in questo momento, signor Cavaliere! Tutti mi disprezzano, tutti mi calpestano, tutti mi deridono... Lei solo, signor Cavaliere, mi può compatire! Lei che sa il mio sentimento! Lei che sa che non ho mai preso e non ho mai voluto nulla da Lei, altro che un po’ di considerazione per tutto il rispetto che le ho sempre portato... un po’ di considerazione per la mia disgrazia... per la mia disgrazia... per la mia disgrazia...8

Per quanto orribile gli fosse il peso di quell’uomo sul petto, di quell’uomo che l’abbracciava disperatamente e s’aggrappava a lui e lo bagnava tutto delle sue lagrime, il notajo dovette farsi forza e sopportarlo ed esortarlo a farsi animo e promettergli che non l’avrebbe abbandonato e che sarebbe andato a trovarlo in casa e dirgli anche, com’egli volle, che sì, sì, sì, soffriva come lui, più di lui: pur di liberarsene, pur di mandarlo via!

Rimasto solo, stette per più di cinque minuti ad aprire e chiudere le mani, tutto vibrante, congestionato, e a muggire, a fischiare, a gridare in tutti i toni:

– Perdio... perdio... perdio...

Credeva d’essersi liberato con la morte della donna (unica e sola avventura tardiva della sua placida sobria riservatissima esistenza) dall’incubo di quell’uomo, che gli aveva avvelenato il piacere di quella comoda relazione, col ridicolo della sua incredibile mansuetudine,9 col rispetto ossequioso di cui lo faceva segno innanzi a tutti gli amici, con le lodi sperticate che faceva di lui, del suo ingegno, della sua nobiltà, del suo buon cuore, della sua educazione e finanche della sua bellezza; e invece, eccolo là! eccolo là! eccolo là! Ed anche il ragazzo gli aveva portato in casa! anche il ragazzo!

Come fare, che fare per levarselo dai piedi una volta e per sempre?

Non c’era stato mai verso di fargli accettare neppure uno spillo, che si dice uno spillo! Aveva sempre proibito assolutamente alla moglie d’accogliere, foss’anche un minimo dono, un fiore, da lui.

Da questo lato non c’era da tentar nulla. Neppure da pensarci!

Eran tutte calunnie quelle della gente, che Bellavita tenesse su la sua bottega di confetture coi denari di lui. Nessuno meglio del notajo poteva saperlo. Magari lo avesse fatto per tornaconto, quel disgraziato! Gli avrebbe dato una somma, anche una buona somma e addio. Ma che! Disinteressato fino allo scrupolo! Aveva sopportato tutto per amore, per rispetto e anche per gratitudine: sì, per gratitudine! Gli era grato della difesa ch’egli nei primi tempi aveva preso di lui contro la moglie, che lo accusava d’inettitudine, di poco avvedimento, di poco tatto coi clienti, d’inesperienza, di goffaggine; gratissimo poi della pace che, con la sua tranquilla e circospetta relazione, gli aveva rimesso in famiglia, e della rivincita che con la sua amicizia aveva potuto prendersi su tutti coloro che lo avevano sempre deriso per le sue arie di «persona civile», che sapeva trattare e stare in confidenza coi meglio signori.

Come dire a un tal uomo: – Non voglio vederti, non voglio più conoscerti, va’ via? –. E questo, in compenso del vilipendio della gente? delle calunnie, ch’egli s’era attirate addosso per lui? della mansuetudine, con cui per tanti anni aveva sopportato il tradimento, lo strazio del suo onore? del rispetto che gli aveva sempre portato? Ora, è vero? ora ch’era rimasto solo e stroncato, assolato10 dall’improvvisa sciagura?

Ma il notajo pensava al ridicolo, al ridicolo, che gli era venuto da questa gratitudine, da questa mansuetudine, da questo rispetto! E concepì l’idea che Bellavita si volesse vendicare così del tradimento, con quel ridicolo, attaccandosi a lui, come aveva fatto e seguitava a fare.

Suggerita dal dispetto, quest’idea. Povero Bellavita! Non gli era mai passata per la mente...11

Gli pareva così naturale attaccarsi al signor Cavaliere, nella sua sciagura! Tutti lo disprezzavano, tutti lo calpestavano, tutti lo deridevano... Soltanto lui, il signor Cavaliere, poteva commiserarlo e confortarlo; il signor Cavaliere, che certamente soffriva la sua stessa pena. E poi c’era quel ragazzo, ecco! c’era Michelino, c’era!

Come poteva passare per la mente a Bellavita che il signor Cavaliere potesse aver dispetto del suo attaccamento? Aveva coscienza d’averlo sempre rispettato. Che male gli aveva fatto? Se qualcuno, tra loro due, poté aver rimorso d’aver fatto male all’altro, quest’uno non poteva esser lui. Ma Bellavita non credeva neppure che il Cavaliere don Settimio Denora gli avesse fatto male.

Egli era infermiccio, deturpato da quella brutta malattia, che gli aveva sempre, fin da ragazzo, covato nel collo; aveva idee signorili e non aveva potuto soffrire la compagnia della gente volgare; se l’era fatta sempre coi signori, i quali avevano avuto per lui, tutti – doveva dirlo – tanta degnazione... Aveva poi sposato una del loro ceto, caduta in bassa fortuna, ma con un’educazione da vera signora: bella, bella... un occhio di sole... e, si sa! Per ottenere la pace, l’amore, l’accordo...

Ah, precipitato tutto, adesso! tutto distrutto! finito per sempre!

Con Michelino stretto tra le braccia Bellavita si sfaceva in lagrime. Il signor Cavaliere non voleva venire a trovarlo, come gli aveva promesso? Bene, bene... Forse gli faceva troppo male riveder quella casa, ormai... Bene, bene... Sarebbe andato lui, con Michelino, a trovarlo.

Dopo quattro o cinque di queste visite, Bellavita cominciò a capire che il Cavaliere lo vedeva male in casa sua. Aggiunse al pianto sempre vivo per la prima sciagura, altro pianto per questo nuovo dolore, e diradò un poco le visite. Quando veniva, mandava dentro lo studio del notajo Michelino, e lui, sempre parato di strettissimo lutto, più cèreo di giorno in giorno e disfatto, si sedeva silenzioso e con gli occhi chiusi, nell’anticamera. A poco a poco, le pàlpebre gli si gonfiavano di pianto e le lagrime gli gocciavano più che mai copiose per le guance.

Alla fine il notajo, non potendone più, gli fece parlare da un amico.

– Vengo a proporvi a nome del Cavaliere Denora, – gli disse quest’amico, – di mettere il ragazzo in un collegio, a Napoli.

Bellavita sgranò tanto d’occhi.

– E perché?

– Oh bella! per dargli una migliore educazione, – rispose quello. – Sapete bene che il signor notajo ha sempre avuto a cuore la sorte di questo ragazzo.

– Lo so, – disse Bellavita. – Ma il ragazzo studia, va bene a scuola; io lo tengo sempre d’occhio... Perché mandarlo in collegio, e così lontano... a Napoli? Ma che! Senza il ragazzo, io morrei... E poi, con quali mezzi?

– Oh, per i mezzi...

Bellavita alzò un dito e lo scosse in aria in segno negativo, poi si picchiò con esso il petto, e:

– Io, – disse, – ci ho pensato finora, a mantenerlo, coi miei soli mezzi e, finché campo, ci penserò io solo. Non posso mandarlo a Napoli. Ma quand’anche potessi, non vorrei. Perché il Cavaliere mi fa dir questo? Ha forse creduto che io gli portavo il ragazzo per averne qualche cosa?

– No... no...

– E allora? Forse non vuol più vedere neanche il ragazzo? Me, da un pezzo, non m’ha più veduto.

– No, ecco, caro Bellavita, parliamoci chiaro. Volete? Voi siete ragionevole... Ecco, caro Bellavita, voi dovreste pensare che...

E l’amico, a questo punto, introducendo confidenzialmente un braccio sotto il braccio del confetturiere Bellavita cominciò a spiegargli chiaro, ma con bella maniera, la ragione per cui il notajo Cavaliere don Settimio Denora desiderava ch’egli, Bellavita, s’allontanasse per sempre da lui.

– Ah sì, per questo? – cominciò a dire Bellavita, prima trasecolato, poi a mano a mano sempre più sdegnato. – Ah sì, per questo? Ah teme il ridicolo, lui, il signor Cavaliere? Ah quanto mi dispiace! Lui, il signor Cavaliere, che per dieci anni mi rese lo zimbello di tutto il paese? Teme il ridicolo? Quanto mi dispiace! Perché l’ho rispettato? perché vado a trovarlo in casa col ragazzo? Ah, ma se è questo, gli dica, La prego, signor mio, che in casa, io, non andrò più a trovarlo; ma che – quanto a rispettarlo – non posso farne a meno! L’ho sempre rispettato e sempre lo rispetterò; anzi, ora mi metterò a rispettarlo di più! Me lo può impedire? Questo non me lo può impedire. Mi caccia via, e m’insegna il mezzo di vendicarmi? Lo ringrazio tanto e me n’approfitto sùbito, caro signore; glielo vada a dire! Appena lo vedo, subito me gli attacco dietro. Egli il corpo ed io l’ombra. Mi dà un calcio, e me lo piglio; uno schiaffo, e me lo piglio; gli faccio anzi tanto di cappello! Non lo lascio più, può andare a dirglielo. Egli il corpo ed io l’ombra.

L’amico cercò in tutti i modi di dissuaderlo, con preghiere, con minacce. Bellavita non si rimosse da quella frase:

– Egli il corpo ed io l’ombra.

La mattina appresso, appena vide il notajo, gli si mise dietro, spettrale. Il notajo si voltò a guardarlo minacciosamente. Egli non si scompose. Il notajo si fermò davanti una bottega.

– Vattene o t’accoppo! – gli muggì sotto sotto il notajo, accennando di levar la canna d’India.12

– M’accoppi, non me ne vado, – gli rispose lui, placidamente.13

Il notajo riprese ad andare, e lui dietro. Il notajo entrò nella sala del circolo di compagnia; ed egli si mise ad aspettarlo, passeggiando avanti la porta a vetri. Il notajo ricorse al commissario di polizia. Egli rispose al commissario di polizia che non disturbava nessuno; che camminava solo e zitto come un’ombra; che rispettava, come aveva sempre rispettato, il signor notajo.

Presto in paese la cosa si riseppe, e fu per tutto un gran ridere.

– Ecco Bellavita –, si diceva. – Ci dev’essere il notajo qua vicino.

E Bellavita, sempre più cèreo, sempre più squallido, sempre parato di strettissimo lutto, si stringeva nelle spalle, socchiudeva gli occhi e ripeteva serio serio:

– Egli il corpo ed io l’ombra.