1 Fu pubblicata sul «Corriere della Sera» il 25 gennaio 1914. Se ne fornisce anche questa prima stampa perché la novella risulta uno dei testi pirandelliani più tormentati. Sebbene Pirandello abbia operato più volte rifacimenti drastici, e talora più drastici di quelli cui ha sottoposto L’ombra del rimorso, quasi mai il suo lavoro correttorio esibisce, in un arco di tempo tutto sommato abbastanza contenuto, un andirivieni che manifesti altrettante incertezze. La lezione del 1914 mostra un impianto che sarà radicalmente mutato, soluzioni narrative destinate a conoscere varianti cospicue ed una distribuzione delle focalizzazioni interne soggetta a ritocchi profondi e significativi. Per quanto la redazione del 1919 già comporti un sensibile rimaneggiamento del testo, la versione definitiva del 1924, se per un verso lascerà scorgere un’istanza di semplificazione che costituisce una caratteristica delle correzioni pirandelliane mature, modificherà per la terza volta, e in modo radicale, anche il finale del racconto.
2 La prolettica infilzata attributiva che apre il capoverso vale a costituire da sola e in ogni senso in limine, il fantasma incarnato del lutto; raddoppiato per di più grottescamente nella proiezione fanciullesca di Michelino.
3 Per la modulazione della movenza in chiave introspettiva, v. Colloquii coi personaggi, p. 248.
4 Sciarpa.
5 Coperto dalle cicatrici che derivano dalla suppurazione delle linfoghiandole (gangola vale “ghiandola”).
6 Tra cordoglio ed esasperazione, la scena vibra d’una tensione a malapena sostenibile ma ancora indecifrabile, e l’indecifrabilità risiede nella totale ignoranza, in cui il lettore è sagacemente trattenuto, in merito alle relazioni che legano i personaggi e che li legavano alla persona defunta. Il racconto prende infatti avvio da una catastrofe della quale non si sa nulla.
7 Farfugliò, balbettò confusamente.
8 Fin dalla versione del 1919, Pirandello riterrà che a questo punto del racconto sia venuto il momento di fornire almeno qualche allusivo indizio a chi legge, consentendo a Bellavita di dire prima: «Tutti mi disprezzano per causa sua», e poi di chiedere considerazione «per la mia disgrazia, per la nostra disgrazia» (v. VI 211).
9 Dopo l’esternità irritante della scena lacrimosa e la coattività dei rapporti di relazione, l’ottica del personaggio può ruotare verso l’interno e farsi strettamente soggettiva. Alla più intima e auto-giustificativa soggettività appartiene infatti la rievocazione sommaria che il notaio fa della propria relazione amorosa con la donna morta: la sua vita «placida sobria riservatissima» pienamente lo assolve di quella unica e tardiva avventura, quasi fosse stata non una trasgressione ma un diritto. E colpevole gli appare invece la mansuetudine di quel marito che gliene aveva avvelenato il piacere con il ridicolo. Se Bellavita, sapendo e tollerando, avesse voluto davvero portargli rispetto, avrebbe dovuto fingere di ignorare e tacere, accettare del denaro, permettere alla moglie di prendere i doni dell’amante.
10 Scompagnato e ridotto in solitudine.
11 Il notaio riflette, medita, si arrovella: gli pare impossibile che Bellavita abbia «sopportato tutto per amore» e partorisce una congettura indispettita. Ma a questo punto, e prima che al punto di vista del notaio si sostituisca quello di Bellavita, il narratore interviene d’autorità con un giudizio e un commento che non ammettono repliche.
12 Il bastone di bambù.
13 Pochi segni quanto quest’avverbio – placidamente – sarebbero in grado di suggerire la misura della mutazione intervenuta nel mansueto Bellavita. Le lacrime gli si sono prosciugate. L’affranto cordoglio in cui si stava disfacendo si è rappreso in incrollabilità. Colui che aveva involontariamente avvelenato al notaio il piacere dell’avventura, gli avvelena ora deliberatamente, ancorché con immutata mansuetudine, l’illusione della liberazione e del ritorno alla vita «placida sobria riservatissima» d’un tempo. Dieci anni più tardi, Pirandello indurrà il vittorioso Bellavita, che avrà costretto il notaio a lasciare la città, a vantare con i suoi clienti «quel suo nuovo e strepitoso metodo per vendicarsi delle corna». Ma sarà piuttosto una ricaduta in un cliché da novella salace che non un progresso.
1 Fu pubblicata per la prima volta su «Aprutium» nel gennaio 1914. Nel 1918 fu compresa nella raccolta Un cavallo nella luna (Milano, Treves). Il 1° novembre 1924 (sopratitolata Idee funebri e gaie di Luigi Pirandello) venne ripubblicata su «Le grandi firme» nella lezione originaria di «Aprutium» (v. GAB, p. 57 e SFP, pp. 21 e 73). Nel 1925 entrò infine a far parte del nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Dal duplice spunto de I pensionati della memoria e de La camera in attesa, Pirandello svilupperà all’inizio del 1923 la «tragedia in tre atti» La vita che ti diedi, che il 12 ottobre dello stesso anno andrà in scena al Teatro Quirino di Roma e sarà pubblicata l’anno successivo.
2 Ripresa di Da sé IV 490-1: «I morti hanno l’aria di credere che il forte sia perdere la vita e che tutto sia finito con essa. Per loro, senza dubbio. Ma non pensano all’orribile ingombro del corpo che resta lì duro sul letto uno o due giorni e ai fastidi e alle spese dei vivi che, pur piangendogli attorno, debbono liberarsene».
3 Corteo funebre.
4 L’incipit del secondo capitolo del libro II di Uno, nessuno e centomila reciterà così: «Sapete invece su che poggia tutto? Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la realtà, qual’è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri. / Ci vivete dentro; ci camminate fuori, sicuri. La vedete, la toccate; e dentro anche, se vi piace, ci fumate un sigaro (la pipa? la pipa), e beatamente state a guardare le spire di fumo a poco a poco vanire nell’aria. Senza il minimo sospetto che tutta la realtà che vi sta attorno non ha per gli altri maggiore consistenza di quel fumo» (v. RII, p. 762).
5 Questo e il precedente capoverso rappresentano la formulazione in certo senso canonica d’una visione (la realtà propria e altrui come fragile e mutevole costruzione-illusione soggettiva) che è, ben più che un elemento tematico, una vera e propria idea-forza della concezione e dell’immaginario pirandelliani. Fornirne in una nota gli esaurienti riscontri intertestuali sarebbe velleitario. Basti rammentare, per avere quanto meno una misura della pervasività diacronica di quell’idea, che già nel 1901 l’umorista Tommaso Aversa di Notizie del mondo, accusato di crudeltà, controargomentava come segue: «Come vuoi che faccia io, se mi diventa subito palese la frode che chiunque voglia vivere, solo perché vive, deve pur patire dalle proprie illusioni? / La frode è inevitabile, Momo, perché necessaria è l’illusione. Necessaria la trappola che ciascuno deve, se vuol vivere, parare a se stesso. I più non l’intendono» (v. I 528); che nel 1912 il rabbioso protagonista de La trappola (v. IV 304) rispondeva nei seguenti termini all’interrogativa retorica avanzata qui pacatamente da un narratore-ragionatore: «Voi pregiate sopra ogni cosa e non vi stancate mai di lodare la costanza dei sentimenti e la coerenza del carattere. E perché? Ma sempre per la stessa ragione! Perché siete vigliacchi, perché avete paura di voi stessi, cioè di perdere – mutando – la realtà che vi siete data, e di riconoscere, quindi, che essa non era altro che una vostra illusione, che dunque non esiste alcuna realtà, se non quella che ci diamo noi»; che nel 1926 il cap. VII del terzo libro di Uno, nessuno e centomila termina così: «Siamo molto superficiali, io e voi. Non andiamo ben addentro allo scherzo, che è più profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo: che l’essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch’esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l’essere in quella forma e in quell’atto ci appare. / E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno sbagliato; che una data forma, un dato atto non è questo e non è così. Ma inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d’un punto, ci accorgiamo che abbiamo sbagliato anche noi, e che non è questo e non è così; sicché alla fine siamo costretti a riconoscere che non sarà mai né questo né così in nessun modo stabile e sicuro; ma ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti veri, che è lo stesso; perché una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani» (v. RII, p. 800).
6 Due anni più tardi, l’idea della morte come irreparabile disillusione, sarà ripresa (provvisoriamente) nella prima stampa dell’atto unico All’uscita, dove protagonisti sono proprio i morti che, come qui, «ritornano indietro»; i quali, «lasciato il corpo inutile nelle fosse, escono lievi dalla porta [del cimitero] con quelle apparenze vane che si diedero in vita». Dei due revenants che si sono incontrati, l’Uomo grasso è mortificato mentre il Filosofo è preda di una sorta di euforia esplicativa: «L’UOMO GRASSO [...] Che consolazione volete che mi dia codesto postumo esercizio della vostra ragione? IL FILOSOFO Postumo? Ma che postumo! Io séguito a ragionare, come voi ad esser grasso, caro mio. E per il solo fatto che io e voi siamo ancora qua, séguito a vedere in voi e in me due forme della ragione. Non vi consola questo? L’UOMO GRASSO Consolarmi? Se sapeste come ne sono mortificato! IL FILOSOFO Ma perché? Perché voi forse, pover’uomo, viveste nell’illusione che la realtà fosse in queste forme della ragione, le quali necessariamente non possono esser altro che apparenze. L’UOMO GRASSO E non vi mortifica questo? IL FILOSOFO No: perché? Séguito a ragionare, vi dico. L’UOMO GRASSO Beato voi! Senza realtà? IL FILOSOFO Ma se non ne ho mai avuta io, buon uomo, che dite! Credete forse d’avere avuto una realtà voi? L’errore è appunto qui! Ce la davamo noi, in vita, una realtà; ma, a dir vero, non ne abbiamo mai avuta nessuna, né io né voi; precisamente come non ne abbiamo neanche adesso. L’UOMO GRASSO Come come? Oh bella! Non avevo una realtà, quando vivevo? Ma se me la davo, scusate, vuol dire che l’avevo! IL FILOSOFO No, caro! No, caro! Ne avevate soltanto l’illusione: ecco tutto. Ora dite che siete mortificato; ma propriamente dovreste dire che siete del tutto disilluso. L’UOMO GRASSO Disilluso? IL FILOSOFO Del tutto. Perché... state a sentire: ve lo dimostro. Può esistere una cosa in astratto? No, eh? In astratto, naturalmente, non si è. Il che vuol dire che l’essere, se vuol essere, bisogna che crei a se stesso un’apparenza. Noi assumiamo come realtà quest’apparenza; ma è un’illusione, caro mio: tanto vero che la realtà vostra non era la mia; ciò che era realtà per voi, non era realtà per me; e anche per voi stesso cangiava di continuo, secondo il sentimento che n’avevate. Tuttavia, non c’era per me e per voi altra realtà fuori di questa illusione; la quale, se considerate bene, era necessaria, perché necessario è questo: che l’essere accada, diventi cioè quel che volgarmente chiamiamo vita: un’illusione. Che è dunque, ora, la morte? Nient’altro che la disillusione totale» (v. MN1, pp. 244 e 770). La postrema variazione sul tema sarà quella di Non si sa come (1934), che correggerà anche l’idea della morte come «disillusione totale»: «Cammino, mi vedo le cose attorno, le posso toccare, tocco, e non me ne viene più né un pensiero né un sentimento, forse neppure più una sensazione; le guardo e, dentro di me, i miei stessi pensieri, i miei stessi sentimenti, sono come ombre lontane; io stesso, lontano da me, perduto come in un esilio angoscioso. E puoi dire allora ch’io sto vivendo una vita cosciente? E ancora sono sveglio! E quando dormo? Metà della vita si dorme. E poi è sempre così: tutto incerto, sospeso, volubile; vacilla tutto; la volubilità della vita non rispetta neanche i muri fermi delle case nelle strade. E quando credi d’esserti fatta una coscienza e hai stabilito che ogni cosa è così o così, ci vuol così poco a farti riconoscere che questa tua coscienza era fondata su nulla, perché le cose, quelle che tu credi più certe, possono esser altre da quelle che credi; basta farti sapere una cosa, il tuo animo cangia d’un tratto, addio coscienza, diventa subito un’altra, e hai un bel tenerti fermo a tutte le certezze di prima; dove sono? Io credo che quando ci saremo liberati della vita, forse la più grande sorpresa che ci aspetterà sarà quella delle cose che non c’erano, che ci pareva ci fossero e non c’erano: suoni, colori; e tutto ciò che vi sentimmo, e tutto ciò che vi pensammo, e ce n’affliggemmo tanto o ne gioimmo tanto: tutto era niente; e la morte, questo niente della vita, come c’era apparsa; lo spegnersi di questo lume illusorio, caldo, sonoro e colorato, per migrare forse verso altre misteriose illusioni» (v. MNII, p. 838). Per l’inconcludenza-necessità dell’eterno accadere, v. anche Quando s’è capito il giuoco IV 442.
7 Buona notte, signor dottore.
8 Alla luce di quanto detto al capoverso che precede e, ancor prima, a p. 15 («se sono tanti poveri disillusi i morti, per l’illusione che si fecero di se medesimi e della vita; per quella che me ne faccio io ancora, possono aver la consolazione di viver sempre, finché vivo io»), l’appellativo che costituisce il titolo della novella è finalmente spiegato: i morti, impossibilitati a darsi da sé una realtà e a vivere di essa, vivono a pensione presso la memoria altrui; vivono cioè della realtà pensionaria che la memoria dei vivi tributa loro.
9 La camera in attesa, novella che Pirandello scriverà nel 1916, è palesemente lo sviluppo e la narrativizzazione degli spunti riflessivi contenuti in questo capoverso e in quelli limitrofi.
10 L’ipotetica battuta diventerà, ne La vita che ti diedi, ciò che Donn’Anna Luna ostinatamente ripete dinanzi alla salma del figlio appena spirato (v. MN, p. 476).
11 Il tema melanconico della reciprocità dell’illusione era già emerso senza venir nominato in Notizie del mondo I 513: «Vorrei proprio fartela vedere ancora, vedere e sentire, la vita, anche col tempo che fa, anche coi minimi mutamenti che vi succedono. Che se questo mondaccio sa e può fare a meno di tutti quelli che se ne vanno, di te non so né posso fare a meno io; e perciò, a dispetto della morte, bisogna che il mondo per mio mezzo continui a vivere per te, e tu per lui; o se no, me ne vado anch’io, e buona notte; me ne vado perché mi parrà proprio di non aver più ragione di restarci». E di qui a poco riaffiorerà, chiarissimamente ispirato proprio da questo passo de I pensionati della memoria, nel secondo dei Colloquii coi personaggi, quello in cui, velato a malapena da un alter ego narrante, Pirandello immagina di conversare con la madre morta: «Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t’immagino, viva ancora laggiù [...]. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei”. E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati» (v. p. 251). Tributari de I pensionati della memoria ma arricchiti dall’apporto dei Colloquii, tema e discorso ricompariranno infine ne La vita che ti diedi: «DONN’ANNA [...] E che posso saperne io, della sua vita, com’era adesso per lui? delle cose, com’egli le vedeva; e quando le toccava, come le sentiva? – Ecco, vede? è così: quello che ci manca, ora, è solo quello che non sappiamo, che non possiamo sapere: la vita com’egli la dava a sé e a noi. Questa sì. Ma allora, Dio mio, si dovrebbe anche intendere che la vera ragione per cui si piange anche davanti alla morte è un’altra da quella che si crede. DON GIORGIO Si piange quello che ci viene a mancare. DONN’ANNA Ecco! La nostra vita in chi muore: quello che non sappiamo! DON GIORGIO Ma no, signora – DONN’ANNA – Sì, sì: per noi piangiamo; perché chi muore non può più dare – lui, lui – nessuna vita a noi, con quei suoi occhi spenti che non ci vedono più, con quelle sue mani fredde e dure che non ci possono più toccare. E che vuole ch’io pianga, allora, se è per me! – Quando era lontano, io dicevo: – “Se in questo momento mi pensa, io sono viva per lui”. – E questo mi sosteneva, mi confortava nella mia solitudine. – Come debbo dire io ora? Debbo dire che io, io, non sono più viva per lui, poiché egli non mi può più pensare! – E voi invece volete dire che egli non è più vivo per me. Ma sì che egli è vivo per me, vivo di tutta la vita che io gli ho sempre data: la mia, la mia; non la sua che io non so! Se l’era vissuta lui, la sua, lontano da me, senza che io ne sapessi più nulla. E come per sette anni gliel’ho data senza che lui ci fosse più, non posso forse seguitare a dargliela ancora, allo stesso modo? Che è morto di lui, che non fosse già morto per me? Mi sono accorta bene che la vita non dipende da un corpo che ci sia o non ci sia davanti agli occhi. Può esserci un corpo, starci davanti agli occhi, ed esser morto per quella vita che noi gli davamo. – Quei suoi occhi che si dilatavano di tanto in tanto come per un brio di luce improvviso che glieli faceva ridere limpidi e felici, egli li aveva perduti nella sua vita; ma in me, no: li ha sempre, quegli occhi, e gli ridono subito, limpidi e felici, se io lo chiamo e si volta, vivo!» (v. MN, pp. 484-5). Il tema è altamente malinconico non solo perché sempre legato alla morte, e dunque perché di quella reciprocità d’illusione si parla soltanto quando essa viene spezzata e cessa; ma anche, e forse più, perché proprio la reciprocità di quell’illusione è a sua volta in certo modo un’illusione, dal momento che in questa corrispondenza d’amorosi sensi ciascuno dà agli altri una realtà nella quale nessuno degli altri si riconoscerebbe e dagli altri si sa a sua volta attribuita una realtà che non è quella che dà a se stesso. La realtà che viene data appartiene a chi la dà, non al destinatario di essa. Nessuno riesce davvero ad amare l’altro, ma soltanto la realtà che attribuisce all’altro, ossia la propria stessa illusione. Per vera che sia, e per indispensabile che sia per ognuno, la reciprocità è illusoria; la relazione che lega due persone può essere profonda e amorosa quanto si vuole: essa resta fatalmente una relazione fra estranei, fra soggetti ineluttabilmente sconosciuti l’uno all’altro.
1 Fu stampata dapprima, il 22 febbraio 1914, sul «Corriere della Sera», e l’anno dopo ripubblicata nella raccolta La trappola (Milano, Treves, 1915). Fu compresa infine nel quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 In senso proprio, è quella che interviene nella paralisi cerebrale infantile.
3 Manicomio.
4 V. il diretto, ancorché remoto (1896), ascendente di Visitare gl’infermi I 264: «– E la gamba, si sa. Tutto il lato destro. Colpo a sinistra, paralisi a destra. / Questa cognizione medica il Póntina se la lasciò cadere dalle labbra con aria d’umile superiorità verso gli altri ascoltatori, come una cosa, oh Dio, naturalissima, ch’egli sapesse da tanto tempo: l’aveva appresa invece un momento prima dai medici, e ora se ne faceva bello con quegli ignari».
5 Delirio, follia furiosa.
6 Infiammazione cerebrale.
7 Meningite.
8 Contabile.
9 Serie di prassi e operazioni contabili.
10 Registri generali di contabilità.
11 Registri di singole partite di conto.
12 Brogliacci.
13 È questa, nel caso specifico, la povera forma alla quale, senza scossoni, senza insofferenza e senza apparente sofferenza, Belluca ha per una vita aderito. Alla luce del seguito del racconto, apparirà chiaro quanto più, e quanto più stolidamente circoscritta, sia l’ottica di coloro che avrebbero giurato sulla remissiva ottusità del disgraziato computista.
14 Nella fattispecie, archivio contabile.
15 V. Leviamoci questo pensiero IV 138. Qui i paraocchi (ivi, n. 13) sanciscono l’essere «circoscritto» di Belluca.
16 Preso a colpi di frusta e a bacchettate.
17 Impuntare, impennare.
18 Anche in questo caso (v. Quando s’è capito il giuoco, n. 2) l’istanza narrante, prima di prendere per intero le sue distanze, si compiace di raccogliere un unanime parere collettivo di totale ottusità e di lasciare umoristicamente che ne discenda, come ovvia, la più sciocca delle conclusioni.
19 Il motivo che viene attivato è il perfetto complementare di quello che aveva costituito in Da sé l’elemento trasformatore nella vita di Matteo Sinagra. Là s’era trattato di un collasso, di un’implosione repentina delle forme; qui di un’esplosione, di uno spalancamento e di uno sturamento dei sensi. Nel primo caso, la conseguenza era fatalmente stata una totale perdita di realtà, qui è invece una riconquista di realtà.
20 Stretto in una camicia di forza.
21 Sulla medesima poeticità aveva già scherzato, a carico della scrittrice Flavia Morlacchi, il narratore del romanzo Suo marito: «Gli Appennini o gli Albani? Non lo sapeva neanche lei, ma che importava il nome? Nessuno come lei, più di lei, sapeva intenderne l’“azzurra” poesia» (v. RI, p. 605). Ma, nel seguito, la protagonista Silvia Roncella s’era persa a vagheggiare altri monti «levati, con le azzurre fronti al cielo, assorti nel mistero dei più remoti evi racchiuso in loro» e, osservando il gioco incessante, ora aggressivo e ora languido, delle nuvole intorno ad essi, aveva pensato: «Femmine, e nuvole! I monti amavano la neve» (ivi, p. 726).
22 È a questo punto che il narratore mette piede nel mondo narrato, smette, per così dire, di relata referre e assume una propria autonoma e più alta postazione, quella di chi ha capito a fondo il gioco e può seccamente smentire il cicaleccio idiota del coro sociale.
23 Prima ancora di conoscere i fatti ultimi, il narratore per congettura li spiega e li giustifica, ne dimostra anzi l’ineluttabile necessità e la rigorosa, sillogistica consequenzialità.
24 Sigillate per sempre (come la luce murata di una finestra).
25 V. Dono della Vergine Maria I 410 e n. 2, e Il professor Terremoto IV 116.
26 V. Formalità II 423: «Ah egli, fino allora, non ci aveva pensato: bestia bendata, alla stanga d’una macina».
27 Macchina per il sollevamento di acqua, sabbia o materiali minuti. V. Il vitalizio I 478.
28 La soglia sulla quale Belluca è rimasto brevemente in bilico è costituita da un minimo fatto inconsueto: la breve insonnia che gli impedisce di prendere immediatamente sonno (v., per contrapposizione: «Andava allora a buttarsi [...] su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo»). È, come spesso nel corpus, un tempo vuoto, un attimo sospeso fra le veglie plumbee del povero scrivano e il suo «sonno di piombo». In quel silenzio, il fischio del treno è, umoristicamente spostato, lo squillo d’una tromba apocalittica, una rivelazione. V. La toccatina, n. 21.
29 Non è la felicità quella che il misero Belluca ha trovato, ma un modesto talismano per la sopravvivenza e, contro le ridicole diagnosi iniziali, un surrogato alla vera pazzia e nel contempo un rudimentale farmaco contro il rischio della follia.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 29 marzo 1914. L’anno dopo fu compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves, 1915) e nel 1922 entrò infine a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Diradare.
3 Villoso (velloso è forma meno comune, e deriva da un incrocio con vello).
4 Giallastro di colorito, ma anche bilioso.
5 Il colore «itterico» e il nervosismo di Enrichetto Lamella e, di contro, la pinguedine, gli «occhi bovini torbidi, venati di sangue» e le gambe «distese e aperte» di Carmelo Sabato replicano il confronto fra Nicolino Respi e Carlo Traldi nella prima scena di Nel gorgo (v. IV 459-60).
6 Respirando affannosamente. V. Male di luna, n. 6.
7 Si raggomitolava.
8 Ne L’umorismo si legge: «Ci diede il colpo di grazia la scoperta del telescopio [...] Mentre l’occhio guarda di sotto, dalla lente più piccola, e vede grande ciò che la natura provvidenzialmente aveva voluto farci veder piccolo, l’anima nostra, che fa? salta a guardar di sopra, dalla lente più grande, e il telescopio allora diventa un terribile strumento, che subissa la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze» (v. SPSV, p. 156). E questo è l’atteggiamento conoscitivo del professor Sabato, che ricalca, a distanza di dodici anni, quello dell’astronomo Jacopo Maraventano in Pallottoline. V. anche Rimedio: la geografia VI 88-9 e n. 5.
9 V. L’umorismo, in SPSV, pp. 156-7: «Fortuna che è proprio della riflessione umoristica il provocare il sentimento del contrario; il quale, in questo caso, dice: – Ma è poi veramente così piccolo l’uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire l’infinita sua piccolezza, vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo. E come si può dir piccolo dunque l’uomo?». Forte di questo argomento, che anche nel saggio del 1908 veniva opposto all’autolesionistica consuetudine di rovesciare il telescopio, l’allievo Lamella riattizza con il vecchio maestro una disputa che Pirandello aveva già rappresentata, sette anni prima, nella prima stampa di Dal naso al cielo (v., per i riscontri, la n. 19 a quella novella), e che scomparirà nelle redazioni successive di quel racconto proprio in ragione di questa ripresa.
10 Per il richiamo e il rinvio, là impliciti, a Pascal, v. Pallottoline! I 384 e n. 13. Blaise Pascal (1623-1662), il grande scienziato e pensatore francese, accostatosi nella seconda parte della sua non lunga vita al cattolicesimo giansenista, è autore delle celebri Pensées, opera nella quale è proposto un coraggioso e fermo confronto del pensiero umano con la propria finitezza, accanto al riconoscimento del fatto che «nel pensiero sta la grandezza dell’uomo» e che d’altronde il proposito umano di abbracciare l’infinità e di scoprire i principi delle cose non sarebbe stato concepibile «senza una presunzione o una capacità infinite, come la natura». Si veda la successiva puntuale ripresa della memoria pascaliana e della controargomentazione di Carmelo Sabato in Rimedio: la geografia VI 89 (tenendo peraltro presente che l’inserto esplicitante di Sopra e sotto, «Questo, prima di tutto, l’ha detto Pascal» viene instaurato solamente nel 1937, e che dunque il nome di Pascal viene fatto in Rimedio: la geografia per la prima volta): «Lo so; c’è anche la malinconia dei filosofi che ammettono, sì, piccola la terra, ma non piccola intanto l’anima nostra se può concepire l’infinita grandezza dell’universo. / Già. Chi l’ha detto? Biagio Pascal. / Bisognerebbe pur tuttavia pensare che questa grandezza dell’uomo, allora, se mai, è solo a patto d’intendere, di fronte a quell’infinita grandezza dell’universo, la sua infinita piccolezza, e che perciò grande è solo quando si sente piccolissimo, l’uomo, e non mai così piccolo come quando si sente grande. / E allora, di nuovo, domando e dico che conforto e che consolazione ci può venire da questa speciosa grandezza, se non debba aver altra conseguenza che quella di saperci qua condannati alla disperazione di veder grandi le cose piccole (tutte le cose nostre, qua, della terra) e piccole le grandi, come sarebbero le stelle del cielo».
11 Il copricapo di lino inamidato, a larghe tese laterali, portato dalle suore di san Vincenzo de’ Paoli.
12 Barcollante, incespicante.
13 In termini di eventi propriamente narrativi e rappresentati, finisce con questa discesa l’anta del racconto dedicata al sopra e comincia quella che si svolge di sotto. Ma, semanticamente sovraordinata a questa, c’è una ben più importante articolazione metaforico-allegorica del passaggio dal sopra al sotto. Il sopra è l’universo infinito, il cielo stellato, l’anima immortale, la filosofia; il sotto è l’asfissia funerea del chiuso e della materialità, la miseria delle brame e dei bisogni, l’abbrutimento e la prostituzione, la morte non meritevole di rispetto.
14 Letteralmente “mettilo nel buco”, con trasparente doppio senso osceno.
15 La situazione e gli attori (il padre filosofo e beone, la madre mezzana, la figlia prostituta, l’innamorato tradito) rinviano per certi aspetti a quelli di uno dei più vecchi racconti pirandelliani, Chi fu?
16 Le bevande che hanno infiammato la disputa filosofica della prima parte, il vino per lo scettico disilluso, che vorrebbe morire, e la birra per il furibondo idealista che non vuole morire, provengono entrambe dal denaro che Vanninella, un tempo vezzeggiata e vagheggiata, ha guadagnato con la prostituzione. In questo sotto che alimenta il sopra si nascondono l’ultima beffa della realtà e l’estremo sarcasmo della storia. Ma tutta la seconda anta, discendente e quasi ctonia, del racconto illumina per cenni una vicenda di fosca cupezza e di straordinaria crudezza realistica. La livida scintilla d’un umorismo particolarmente nero scocca in questo caso dal cozzo dei piani relazionali e dei registri comunicativi contrapposti che caratterizzano la prima e la seconda parte della novella. E il fatto che l’ultima parola sia lasciata al cinismo disperato, buffonesco ed autodistruttivo di Carmelo Sabato, non significa affatto che gli spetti la vittoria nella querelle fra idealismo e materialismo, fra petizioni alte dello spirito e istanze basse del corporale. Né queste né quelle cesseranno: la disputa infinita fra sopra e sotto è destinata a riaccendersi, e la fenice della contraddizione, che rinasce dalle proprie ceneri, tiene ben stretto l’uomo nelle sue grinfie.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 26 aprile 1914. Nel 1919 fu compresa nella raccolta Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli) e nel 1924 entrò infine a far parte del settimo volume delle «novelle per un anno», Tutt’e tre (Firenze, Bemporad).
2 Muglio, ringhio (v. «Superior stabat lupus», n. 20).
3 Covo, tana. V. anche I vecchi e i giovani (in RII, p. 153): «Allora Mauro Mortara, come una bestia sorpresa nel giaccio, sgattajolò ranco ranco».
4 Imposte (v. L’onda, n. 21).
5 Il lungo membro apposizionale che chiude il capoverso dopo i due punti è così scostante e ributtante, che si prova quasi ritegno a riconoscerlo per quel che è, verosimile o meno che sia: vale a dire una verbalizzazione dell’ottica di Tittì. Eppure il «non vide; sentì spaventosamente» che introduce la presenza mal visibile dell’infermo, non lascia adito a dubbi. È proprio alla bambina entrata di furia nella stanza che quel nonno sul seggiolone, lungi dall’ispirare confidenza e affetto, suscita una invincibile e spaventata ripugnanza. Poco oltre diventerà chiaro che, da dietro quella parete di ribrezzo, il vecchio ripaga con «astio muto e feroce» la nipotina e tutti gli altri, e che la breve novella (al di là dell’enigma che ne motiva la dinamica) è uno dei più espliciti contes cruels di Pirandello.
6 Il «contatto viscido» rinvia non al ragno famigerato che va sotto questo nome, ma ai piccoli rettili noti anche col nome di gechi.
7 Balbettò, articolò stentatamente.
8 Una volta che si sia scoperto che il «qualcosa di nuovo» è la primavera, il sintagma non può non far pensare all’incipit celebre d’uno dei Primi poemetti di Giovanni Pascoli, L’aquilone: «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico: io vivo altrove, e sento / che sono intorno nate le viole».
9 Per le implicazioni del dettaglio ritrattistico, v. Piuma, p. 333 e n. 24.
10 A momenti.
11 Anche questa, nell’astioso infermo, è solo una presunzione rabbiosa. Sono altri i morituri la cui vista risulta straordinariamente acuita e illimpidita. Così era stato nel lontano 1896 per il Ciunna di Sole e ombra (v. NUAI, p. 1290: «Ciunna, con l’animo scevro ormai d’ogni cura, d’ogni preoccupazione (poiché egli era già della morte, e dei tormenti della vita non voleva saper più nulla), si sentiva a quell’aria slargare il petto, penetrare da una insolita letizia, da un gaudio quasi infantile alla vista della campagna che pareva allagata da un biondo mare di messi, a cui sornuotavano i mandorli d’un verde ameno e gli olivi cinerei. Come se dentro di lui la coscienza della vita si rifacesse vergine e trasparente, sentivasi preso da un segreto, immenso amore per essa, da un amore che non voleva, né pretendeva nulla, all’infuori di quel piacere di potersene beare con gli occhi e con tutti i sensi aperti e quasi inattivi»), e così sarà per l’incorporea malata di Piuma.
12 Salati, ricchi di elementi salini (è un latinismo letterario, da salsugoinis).
13 «Raccolta di liquido trasudatizio, di composizione analoga al siero di sangue, nelle cavità sierose (peritoneo, pleure, pericardio) e nel tessuto sottocutaneo» (Devoto-Oli).
14 V. Visitare gl’infermi, n. 2.
15 Paralizzato.
16 La sommaria analessi vale a dare pienamente la misura dell’alterità e dell’estraneità del vecchio, oltreché quella della insaziabile e irrequieta vitalità che la malattia sta strozzando.
17 Accudirlo, provvedere alle sue necessità igieniche (il medesimo termine è non casualmente usato per un neonato ne La balia II 243).
18 Il beffardo pensiero della servetta non potrebbe essere più crudele. Ma la sua inespressa crudeltà rientra perfettamente nel sistema di relazioni perverse e disgiuntive che caratterizza da capo a fondo il racconto.
19 «Biscotto friabile di forma oblunga, a base di farina, zucchero, rossi e chiaro d’uovo» (Devoto-Oli).
20 Altre e diverse, che non c’entrano affatto.
21 Nel contrasto fra la vita rifiorente e l’imminenza della morte, la primavera va ad allinearsi, ultima e motivante, all’enumerazione dei motivi vitalistici (l’incontenibile brio infantile, la sensualità e i languori della vitalità femminile) che molto spesso anche altrove la accompagnano e che qui fanno adombrare e mettono in sospetto il vecchio, che teme un complotto dei vivi e dei sani a suo danno, laddove il fatto che proprio lui, dotato d’un temperamento così perennemente primaverile, non abbia avvertito il sopraggiungere della primavera è solo il sintomo gelido dell’ottundimento che preannuncia la fine.
1 Fu pubblicata nel maggio 1914 su «Noi e il Mondo», e poi inclusa nel quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Dalla novella Pirandello ebbe l’intenzione di trarre una commedia. Di quest’intenzione rendono testimonianza poche pagine battute a macchina con correzioni autografe: presumibilmente tutto quanto Pirandello giunse a elaborare. Il frammento, pubblicato il 5 giugno 1947 sul «Corriere della Sera», si può ora leggere in SPSVII, pp. 1175-84. Nel Catalogo delle opere drammatiche di Pirandello premesso a MN1, Alessandro D’Amico ne fa risalire la stesura al 1925 circa.
2 Recluta (in quanto impacciata nell’indossare il copricapo militare spesso di misura abbondante).
3 Triste, afflitta (il corsivo pirandelliano sottolinea la timbratura dialettale dell’espressione).
4 L’espressione «le altre parti del mondo» deve essersi depositata nella memoria di Pirandello, poiché sei anni più tardi pubblicò la novella Le parti del mondo (in seguito reintitolata Rimedio: la geografia) che, pur muovendo da un contesto non confrontabile, suona come una antifona rispetto alla distratta chiusura contadina di Marruchino. E quest’interrogativa ironica della voce narrante reclama già un qualche consenso in merito ai limiti intellettuali del personaggio.
5 Prolungare volontariamente il periodo obbligatorio del servizio militare.
6 Scaduta, terminata.
7 V. ovviamente alla p. 101: «zia Michelina si vide a un tratto assalire da un sospetto che le fece orrore [...]: – Possibile? Possibile?». La novella attiva un conflitto incomponibile: quello tra maternità e sessualità. Nel mondo narrato pirandelliano, una barra di censura insuperabile rende reciprocamente esclusive la donna e la madre così come lo stato filiale e quello di uomo o donna. Michelina in particolare, «di sangue placido, d’indole mite», sposata giovanissima a un uomo anziano, è passata quasi di colpo da fanciulla a «zia», scavalcando d’un balzo la sua stagione di donna e adattandosi senza soprassalti alla sua putativa maternità. E la relazione madre-figlio è in Pirandello una relazione prefreudianamente asessuata, non solo e non tanto in forza del grande tabù dell’incesto, ma letteralmente perché madre e figlio sono senza sesso e si negano non appena l’attrazione-repulsione sessuale entri in gioco. La novella è in questo senso esemplare: non ha alcun rilievo il fatto che Michelina e Marruchino non siano neppure parenti: l’essere madre di lei è uno stato dell’io, una forma di adamantina consistenza che non ammette trasgressioni né compromessi: come dirà quattro anni più tardi Angelo Baldovino ne Il piacere dell’onestà: «La madre è una costruzione irriducibile» (v. MN1, p. 573).
8 Arrendevolezza, remissività.
9 Impietrita e incredula.
10 Nella prima redazione si leggeva: «sola e come sperduta in un vuoto orrendo» (v. In silenzio III 235). È il canonico stato di soglia, incerto, fluido, disorientato, pericolante, che succede alle catastrofi delle forme, alla demolizione delle certezze su cui la vita s’era fondata.
11 La povera Michelina guarda e vede. Ne è forse persino lusingata, ma non vuol vedere e nega.
12 Vestita con cura ricercata e seducente.
13 Piccola mantiglia triangolare.
14 V. Scialle nero II 475 e n. 16.
15 Per burla, per gioco.
16 Patetico e penoso questo pararsi e mostrarsi, questo offrirsi, esporsi e compromettersi di Michelina come donna, che le pare l’unica via, sconveniente e tuttavia lecita, di salvaguardare sacrificandosi la propria maternità.
17 Quello stato.
18 Divertirsi, spassarsela.
19 Nella redazione del 1914, cominciava qui l’ultimo paragrafo della novella, che era il seguente: «Ma non l’uccise, né s’uccise zia Michelina, allorché, sei giorni dopo, Marruchino, di notte tempo, andò a picchiare alla porta della cascina nella campagna lontana, e tempestò per ore e ore, tra un furibondo abbajar di cani nelle tenebre notturne, finché ella non scese ad aprirgli. / Nella notte stessa, dopo un’ora appena, livido, sgraffiato in faccia, al collo, alle mani, se ne fuggì anelante, pauroso e pur con un tristo ghigno su le labbra. Giunse al paese all’alba, e corse a chiudersi in casa per parecchi giorni. Ne uscì, quando gli scomparve il segno degli sgraffi dalla faccia; ma teneva ancora le mani in tasca. / – Oh, Marruchino! Siete stato dalla sposa? / Fece di sì col capo. / – Fatta la pace? / Diede una spallata. / Aveva ormai deciso di non pensar più a quella donna, di non guardarla più in faccia. / Ma andò a vederla, dieci mesi dopo, quando seppe, che al supplizio atroce, che le aveva inflitto, ella aveva avuto da Dio un compenso inaspettato: compenso dolce e terribile: un figliuolo. / Nel vederselo ricomparir davanti, ella si serrò il bimbo al seno, come a difenderselo. / – Vattene! – implorò. – Lasciami qua tranquilla. Vattene! Vedi? tu qua ci sei: sei qua, per me, in questo piccino, ch’è quello stesso che tu eri, quand’io ti trovai e t’allevai, ingrato! Questo non mi farà il tradimento, che m’hai fatto tu... ah, questo no, di certo, sangue mio! / E, piangendo, affondò tutta l’anima e l’angoscia infinita del suo perpetuo cordoglio in un lunghissimo bacio su la fronte del suo nuovo figliuolo» (v. NUAI, p. 1388). Era un finale indrammatico, perché Michelina non teneva fede al proprio monito minaccioso. E tuttavia era un finale pirandellianamente altrettanto coerente, in termini tematici, anche se determinava una tutt’altra declinazione della storia. Tradita e profanata come madre putativa, Michelina poteva trovare risarcimento e consolazione nella propria maternità carnale e nella procreazione di un Marruchino che nasce innocente dal suo sacrificio cruento. Non più zia e madre finta, ma mamma vera, Michelina può affogare il proprio cordoglio nell’amore naturale per quel candido doppio di colui che aveva preteso da lei un amore contro natura. Nel 1922, il grande motivo salvifico della maternità pare essersi affievolito, e a segnare la sorte della vicenda, indirizzandola verso la sua catastrofe tragica, è proprio il monito tremendo con cui Michelina sancisce la natura economica, e non nuziale, del patto. Marruchino non vuole piegarsi a quell’imposizione («non alzar mai gli occhi su me!») e rompe il giuramento: vuole essere padrone e marito, vuole possedere tutto, anche Michelina. E Michelina pone in atto la sua minaccia: incapace di uccidere quel figlio rinnegato, fuori scena (come nelle tragedie antiche) si dà la morte.
20 L’argomento vale per il rozzo e violento Marruchino, vale per il paese e vale per la giustizia. Nessuno immagina la controargomentazione ribrezzosa cui Michelina si è sottratta appunto con la morte: che s’era uccisa da sé per aver egli voluto ciò che nessun figlio è in diritto di pretendere dalla propria madre.
21 I due diversi finali costituiscono la sola, per quanto discriminante, divaricazione tra prima e seconda lezione della novella; e per questa ragione non abbiamo riprodotto per intero la versione del 1914. Sono, l’uno e l’altro, finali squisitamente pirandelliani ed altrettanto motivati tematicamente. Tanto che sembra davvero di trovarsi dinanzi ad un identico soggetto dipinto due volte con timbri e impasti di colore diversi. L’elemento divaricatore è l’azione mancata in un caso e l’atto compiuto nel secondo. Astenendosi dall’uccidere e dall’uccidersi, Michelina permette che gli eventi abbiano un corso che, attraverso la non narrata gravidanza e il parto, risarcisce con la dolcezza della maternità carnale e la nascita d’un innocente la sua violentata maternità putativa. Il fantasma di Giocasta viene esorcizzato. Tenendo viceversa fede alla propria minaccia e suicidandosi, Michelina recide questa possibilità e rende lo stupro e l’incesto irrisarcibili. Giocasta muore e quell’Edipo contadino, ottuso ma non inconsapevole, dunque colpevole, che Marruchino è, viene assolto e regna su Tebe. In questo senso, la divaricazione massima dei due explicit narrativi diventa emblematica delle alternative esistenziali.
22 La grettezza greve e unanime di tutto il paese, la sua incredula intolleranza nei confronti del disinteresse e del candore non sanno partorire che questa canonica spiegazione: la follia. Savio è chi la pensa come gli altri, chi fa ciò che tutti fanno. Chi resta solo a pensarla in un altro modo, è folle. Zia Michelina patisce la sorte di tutti i puri pirandelliani: finire in odore di pazzia. D’altra parte, la semplice Michelina non possiede le doti per sopravvivere nel vuoto succeduto alla devastazione di tutti i suoi valori e alla profanazione incestuosa della sua maternità. Non per nulla, nella prima redazione Michelina poteva salvarsi solo perché dalla violenza fattale da Marruchino nasceva un figlio che la restituiva pienamente alla sua condizione di madre. E in quella versione, dal finale più intimo e sommesso, il cicaleccio paesano si faceva sentire molto meno. In quest’ultima redazione, viceversa, risuona fortissimo lo stridore fra il monito solenne e quasi presago di Michelina e poi il silenzio alto e funereo, tragico appunto, dell’evento conclusivo, e le voci chiocce e meschine dei due semicori, quello maschile dei testimoni e quello femminile delle vicine, che insieme compongono un coro da intrigo paesano e semiserio e non da tragedia.
1 Nelle sue Note di bibliografia, parlando della collaborazione di Pirandello a «L’Avanti della domenica», Providenti scrive: «Quivi egli pubblicò, nel numero del 12 marzo 1905, la novella Lo scaldino e l’11 giugno dello stesso anno Una novella che non farò, prima stesura di Un matrimonio ideale, che figura raccontata all’autore da un amico soprannominato Grillo» (v. NBOG, p. 737). Con il titolo definitivo e con l’attuale impianto enunciativo, fu poi pubblicata sul «Corriere della Sera» il 7 giugno 1914. Nel 1919 fu compresa nella raccolta Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli) e nel 1924 entrò infine a far parte del settimo volume delle «novelle per un anno», Tutt’e tre (Firenze, Bemporad).
2 Non avrebbe fatto tanta impressione, non si sarebbe fatta notare tanto.
3 Trasferito al femminile, il contrasto corpo-anima richiama quello che caratterizzava il Bernardone Cambiè di Acqua amara: «Lei mi vede così grasso e forse non mi suppone capace di commuovermi a uno spettacolo di natura. Ma creda che ho un’anima piuttosto mingherlina. Un’animuccia coi capelli biondi ho, e col visino dolce dolce, diafano e affilato e gli occhi color di cielo. Un’animuccia insomma che pare un’inglesina, quando, nel silenzio, nella solitudine, s’affaccia alle finestre di questi miei occhiacci di bue, e s’intenerisce alla vista della luna e allo scampanellio che fanno i grilli sparsi per la campagna» (v. III 177).
4 Arrancando via in fretta.
5 Non tollerano.
6 Il «paesello», superfluo dirlo, è Porto Empedocle.
7 Svettante montagna (m. 4166) dell’Oberland bernese, nella Svizzera meridionale; sulla quale circolano, in forza del suo nome (che significa “vergine”), diverse leggende.
8 V., per quest’immagine della terrazza, Formalità II 423 e soprattutto Lillina e Mita III 279 e n. 2: «L’ampio terrazzo, coperto da una tenda che palpitava al vento, pareva il cassero d’una nave. Il mare, dapprima, veniva quasi a battere alle mura della casa». Nel 1910, il terrazzo-cassero era stato riutilizzato anche in una delle poesie sparse, Ritorno: «Ecco la casa antica, ecco il terrazzo, / càssero d’una nave a cui volgea / prospera allora e lieta la fortuna» (v. SPSV, p. 829).
9 Ridotte a pacciame, ossia a spoglie vegetali secche.
10 Per questa miscela di odori, v. Lontano II 80: «Quell’odore del mare tra le scogliere, l’odore del vento salmastro [...], l’odore speciale che la polvere dello zolfo sparsa dappertutto dava al sudore degli uomini affaccendati, l’odore del catrame, l’odore dei salati, l’afrore che esalava sulla spiaggia dalla fermentazione di tutto quel pacciame d’alghe secche misto alla rena bagnata»; e Lo spirito maligno IV 117.
11 Frenare, trattenere.
12 Questa novella iperbolizza e sviluppa in racconto due elementi (che sono anche, per così dire, degli inneschi umoristici allo stato nascente) largamente rappresentati nel corpus: l’uno, diffusissimo, è appunto l’abnorme sviluppo fisico; l’altro è l’accoppiamento curioso. Abbondano, nella novellistica, sia i corpacci che i corpicini (così femminili come, e ancor più, maschili). I rinvii, a volerli completi, sarebbero pletorici: basti dire che in quarant’anni di scrittura narrativa, da L’onda a La tartaruga, i variati e disseminati affioramenti del motivo sono una novantina, tanti cioè da distribuirsi su un terzo del territorio novellistico. Quanto alle coppie sorprendenti, si va quanto meno dai coniugi Postella di Notizie del mondo I 522 («il signor Postella e quella montagna di carne ch’egli ha il coraggio di chiamare la sua metà») ai recenti amanti di Rondone e Rondinella, la cui rispettiva taglia fisica corrisponde pienamente all’accrescitivo e al diminutivo dei loro nomignoli. A queste verranno infine ad aggiungersi nel postremo 1936 gli improbabili coniugi Myshkow de La tartaruga.
13 Scherzo, gioco.
14 Il rinvio è a Orazio (Ars poetica 139): «Parturiunt montes, nascetur ridiculus mus» (Partoriscono le montagne e ne nasce un ridicolo topo).
15 Come già sappiamo da La signora Speranza e da Non è una cosa seria, un matrimonio può anche essere fatto per scherzo o per non prendere moglie sul serio; oppure, come qui, perché nessuno, salvo un nano audace e arguto, avrebbe osato sposare la gigantessa, e nessuna donna d’altronde, salvo quella candida gigantessa, avrebbe garantito all’ingegnere-nano una vita coniugale onorata e serena. Il capoverso conclusivo mette però una punta di veleno nella coda della farsa grottesca. Non era così nel finale del 1919 (né in quello pressoché identico del 1914), che suonava come segue: «Ma tutto, cari miei, non si può avere a questo mondo, specialmente quando la natura s’è divertita a metter così troppo da una parte e così troppo poco dall’altra» (v. NUAII, p. 1149).
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 21 giugno 1914. Nel 1917 fu compresa nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves) e nel 1928 entrò infine a far parte del tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese.
2 Questa è l’impressione suscitata da mobili nuovi ma non impregnati di domestica intimità. Complementare era stata l’impressione sgradevole suscitata nel cav. Mattina dai mobili vecchi e disusati della casa del canonico Agrò ne I vecchi e i giovani: «Spirava da tutti i mobili, dal tappeto, dalle tende, quel tanfo speciale delle case antiche, d’una vita appassita nell’abbandono. Quasi il respiro d’un altro tempo. Il Mattina si guardò di nuovo attorno con una strana costernazione per la immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti, chi sa da quanti anni lì senz’uso» (v. RII, pp. 66-7); e: «Alzò gli occhi, volse di nuovo lo sguardo attorno e di nuovo dall’immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti senz’uso e senza vita si sentì turbato, quasi che essi, per averne egli scoperto le magagne, lo spiassero ora più ostili» (ivi, p. 68).
3 Per l’importanza e l’insistenza del motivo, v. Lillina e Mita, n. 40.
4 Tela grezza vegetale. V. La ricca, n. 10.
5 Sporche di terra.
6 Spiazzato dal décalage temporale e dal senso di spaesamento che gli viene suscitato dalla casa ignota e dalle suppellettili «non ostili, ma neppure invitanti», il narratore, cui pure il clima narrativo non offre motivi per essere tratto a vedere ciò che non c’è, è indotto ad esprimere un «come se» perturbante e molto simile a quello che interviene in racconti in cui viceversa la stranezza delle circostanze o l’eccitazione del soggetto narrante sono tali da far apparire vivi i quadri o le statue.
7 Per quanto partorita dalla mente dell’osservatore-narratore sulla base dello sguardo parlante del ritratto, la prima voce del racconto è quella del giovinetto dipinto, i cui occhi si lamentano della reclusione-esclusione cui è condannato, la quale corrisponde tra l’altro a uno dei più tipici fra i castighi infantili (la segregazione in uno «stanzino privo d’aria e di luce»). E la prima storia, tutta congetturale, con la quale il narratore deve confrontarsi è proprio la storia, lacunosa, che si sforza di ricostruire sommariamente, di quel ragazzo morto.
8 Quasi impossibile non pensare, per contrasto, alla fanciulla ritratta in The Oval Portrait di Edgar Allan Poe. In quel racconto il narratore ritiene di aver carpito il segreto della pittura quando si rende conto della «absolute lifelikeliness» che la caratterizza. Qui la scoperta consiste invece nell’incombente destino di morte che il ritratto esprime con misteriosa certezza.
9 L’immagine, qui sviluppata come similitudine metaforica, verrà ripresa e riportata al senso proprio in Berecche e la guerra (v. p. 195).
10 Sui ritratti e sulla sconsolata tristezza di quelli di persone morte giovani, vengono a discutere, solo un anno più tardi, Gubbio e Aldo Nuti nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «– [...] L’immagine invecchia anch’essa, tal quale come invecchiamo noi a mano a mano. Invecchia, pure fissata lì sempre in quel momento; invecchia giovane, se siamo giovani, perché quel giovane lì diviene d’anno in anno sempre più vecchio con noi, in noi. / – Non capisco. / – È facile intenderlo, se ci pensa un poco. Guardi: il tempo, da lì, da quel ritratto, non procede più innanzi, non s’allontana sempre più d’ora in ora con noi verso l’avvenire; pare che resti lì fissato, ma s’allontana anch’esso, in senso inverso; si sprofonda sempre più nel passato, il tempo. Per conseguenza l’immagine, lì, è una cosa morta che col tempo s’allontana man mano anch’essa sempre più nel passato: e più è giovane e più diviene vecchia e lontana. / – Ah già, così... Sì, sì, – disse. – Ma qualche cosa di più triste. Un’immagine invecchiata giovane a vuoto. / – Come, a vuoto? / – L’immagine di qualcuno morto giovane. / Mi voltai di nuovo a guardarlo; ma egli soggiunse subito: / – Ho un ritratto di mio padre, morto giovanissimo, circa all’età mia; tanto che io non l’ho conosciuto. L’ho custodita con reverenza, quest’immagine, benché non mi dica nulla. S’è invecchiata anch’essa, sì, profondandosi, come lei dice, nel passato. Ma il tempo che ha invecchiato l’immagine, non ha invecchiato mio padre; mio padre non l’ha vissuto questo tempo. E si presenta a me, a vuoto, dal vuoto di tutta questa vita che per lui non è stata; si presenta a me con la sua vecchia immagine di giovane che non mi dice nulla, che non può dirmi nulla, perché non sa neppure ch’io ci sia. E difatti è un ritratto ch’egli si fece prima di sposare; ritratto, dunque, di quando non era mio padre. Io in lui, lì, non ci sono, come tutta la mia vita è stata senza di lui. / – È triste...» (v. RII, pp. 724-5).
11 Costretto a identificarlo per via di relazione, Stefano Conti non può fare a meno, nonostante i trent’anni trascorsi, di definirlo così, disperatamente tentando, e illudendosi, di fare in modo che quel «figliuolo della mamma» non gli si accosti e non invada e usurpi la sua intimità. Purtroppo, non ha modo di nominare quel «figliuolo» senza nominare la «mamma», e dunque non può evitare di risuscitare, nominandola, una realtà per lui mostruosa: «un figliuolo della mamma» che non è né lui stesso né un fratello.
12 Proprio la grave profanazione cui va soggetta la madre, qui a causa della «violenza» che il figlio presume essa compia su di lui, e altrove per le inadempienze o gli oltraggi che i figli ritengono di aver commesso nei confronti di lei, è alla base di questo rito di risarcimento largamente tematizzato in Pirandello e cui neppure Stefano Conti si sottrae, e che è per l’appunto la santificazione della madre. Da divinità tutelare dell’infanzia essa è destinata a precipitare così in basso (se non è il figlio a morire bambino), quando viene meno ai suoi attributi divini o quando l’infanzia estrema si corruga in pubertà e il figlio, per crescere, glieli strappa di dosso, che a posteriori la madre viene costantemente riabilitata e sacralizzata. Il totem offeso dalla vita viene restaurato e riconsacrato dall’ideologia dell’età adulta; e il comandamento che impone di riverire la madre è anche un atto di contrizione per il peccato di Edipo, per il delitto di Oreste e per i cattivi pensieri di Amleto.
13 Il personaggio-narratore copre un ruolo tutto sommato marginale nella vicenda, e tuttavia è anch’egli soggetto a una curiosa «complicazione di sentimenti». Amico di Stefano Conti nella «prima giovinezza», è anche lui una specie di morto, che ritorna e trova tutto mutato. Patisce perciò a sua volta un senso di estraneità e di esclusione; e questa sensazione oscura lo assimila in qualche modo al giovinetto sconosciuto del ritratto e ne fa un alleato di quel malinconico scomparso. Di qui il tono alterato e iroso con cui intima quasi a Stefano di chiamarlo «fratellastro» e di riconoscergli il diritto all’accoglienza e all’intimità che gli spettano. Così facendo, il narratore perora, a sua insaputa, la causa del morto e la propria.
14 Una memoria di questo inavvertibile esilio echeggia nella didascalia d’apertura de La vita che ti diedi, dramma ambientato in una solitaria villa della campagna toscana, là dove si legge che dagli scarsi arredi della stanza che costituisce la prima scena «spira un senso di pace esiliata dal mondo» (v. MN, p. 472).
15 Rispetto all’opinione che il personaggio ha maturato per via d’esperienza e manifesta, la sua vicenda risulterà palesemente un exemplum, e chiaro risulterà che egli rappresenta un caso tipico di individuo irreparabilmente guastato dalla cattiva pedagogia del silenzio.
16 V. I pensionati della memoria, p. 75 e n. 5.
17 Stefano Conti, fornendo una mappa esauriente dello stabile e delimitato mondo infantile, rievoca il modello mitico e archetipico dell’infanzia felice. Non si può non rammentare, a questo stesso proposito, l’analoga memoria nostalgica della Didì de La veste lunga, complementarmente articolata sull’asse che lega la casa materna di città e Zùnica, la campagna favolosa dalla quale il padre torna recando doni. Per un verso, nonostante la campagna nativa di Stefano sia, anche spazialmente, parte della casa e Zùnica sia invece dislocata rispetto alla casa palermitana di Didì, i due luoghi sono fortemente omologhi; per un altro verso Zùnica corrisponde in modo perfettamente simmetrico alla città dalla quale la madre di Stefano porta nella casa di campagna regalucci e giocattoli. Per Didì bambina, subito al di là dell’intimità materna delle mura di casa non stanno Palermo e i suoi sobborghi e un territorio alieno da attraversare viaggiando, ma soltanto lo spazio imbalsamato di Zùnica, i cui attributi mitici sono fuori discussione. Per Stefano, l’anonima città dei doni è soltanto questo: una dispensa, un deposito di tesori dal quale la madre, senza allontanarsi («credevamo che non s’allontanasse affatto da noi con quelle gite»), preleva provviste e regali.
18 Carrozza.
19 Il liscio miroir narcisistico che la madre costituiva e che rifrangeva l’immagine fissa di una identità perfetta con la quale (ed entro la quale) il mondo cominciava a finiva, si spalanca su un profondo retro che duplica il mondo. La madre, volgendosi e distogliendo lo sguardo per guardare altrove e per amare un altro, offre alla vista esterrefatta del bambino la propria metà buia e ignota, quella che vive «per sé» e «fuori» dalla relazione con lui. In quell’istante, l’universo stesso si sdoppia sotto gli occhi sbalorditi del bambino, il quale deve, che lo capisca o no, prendere atto dell’esistenza di una madre, e di una donna, che non è la mamma, di un suo figlio che non è un fratello, di un tempo e di uno spazio che non sono quelli della sua infanzia e della sua casa; e vede per la prima volta profilarsi una fuga di figure analogiche sconosciute e terribili, di non-mamme, non-padri, non-fratelli che sono nati, vivono e muoiono fuori, nell’altro mondo, così come possono venire a vivere e a morire nel suo mondo, invadendolo da un momento all’altro. E non basta ancora, perché il bambino, di fronte a quella madre distratta e intenta ad altri che a lui, patisce la prima viscerale esperienza del proprio stesso sdoppiamento, della faglia che franando separa il se stesso intatto e felice, d’un attimo prima, da quest’altro se stesso, ignorato e lasciato completamente solo, sacrificato ad un estraneo. Da questa tragedia primaria e dalla spoglia del bambino felice violentato e abbandonato sprigiona il fantasma embrionale dell’uomo solo, orfano rabbioso o dolente oppure filosofo caustico e tollerante, ma non più figlio. Gli occhi di quest’uomo di sette anni (tanti ne ha Stefano nel momento del trauma) potranno in seguito tornare a fissarsi in quelli della donna che lo ha partorito, ma essi non saranno mai più madre e figlio, perché saranno d’ora in poi irreparabilmente due. In una battuta (successivamente cassata) della redazione del 1921 dei Sei personaggi in cerca d’autore, anche il Figlio ragionerà amaramente intorno all’irreparabilità di simili scoperte. Del Padre, incontrato dalla Figliastra giovanissima in una casa d’appuntamenti, in veste di cliente, dirà: «Si lamenta, lui, d’essere stato scoperto dove e come non doveva esser veduto, in un atto della sua vita che doveva restar nascosto, fuori di quella realtà che doveva conservare per gli altri»; e proromperà: «E io? Non ha fatto forse in modo che toccasse anche a me di scoprire ciò che nessun figlio mai dovrebbe scoprire? come il padre e la madre vivono e sono uomo e donna, per sé, fuori di quella realtà di padre e di madre che noi diamo loro; perché appena questa realtà si scopre, la nostra vita non resta più attaccata che per un solo punto a quell’uomo e a quella donna – tale da far loro vergogna, se noi lo vediamo?» (v. MN2, pp. 990-1). E la sua recriminazione rancorosa (e dunque il suo caso) è persino più grave di quella di Stefano Conti, poiché egli reclama un’ignoranza filiale e pretende un segreto parentale i cui sigilli non andrebbero a nessun costo rimossi.
20 V. la medesima scoperta e le analoghe reazioni di Cesarino Brei in In silenzio III 234: «[...] venne dall’altra stanza, a infrangere orribilmente quel silenzio di morte, uno strillo infantile, roco. / Cesarino si voltò di scatto, quasi quello strillo gli fosse arrivato come una rasojata alla schiena, e tremando in tutto il corpo guardò la serva che piangeva in silenzio, inginocchiata presso il letto. / – Un bimbo? / – Di là... – gli accennò quella. / – Suo? – domandò, più col fiato che con la voce, allibito. / La serva accennò di sì, col capo. / Si voltò di nuovo verso la madre, ma non poté sostenerne la vista. Sconvolto dall’improvvisa, atroce rivelazione che lo istupidiva e gli strappava, ora, il cordoglio violentemente, si nascose gli occhi con le mani, mentre su dalle viscere sospese gli saliva come un urlo che la gola, strozzata dall’angoscia, non lasciava passare». Non solo non è casuale, ma è anzi rivelatore, il fatto che la morte reale, per parto, della madre colpevole di Cesarino, corrisponda così bene alla morte simbolica, e simbolicamente delittuosa, della madre di Stefano, il quale infatti dirà (pp. 120-1): «La mia vera mamma, la mia sola mamma, mi morì allora, quand’avevo sett’anni». La binità madre-figlio è una perfezione esclusiva, e le due donne, madri d’un altro all’insaputa del figlio, sono colpevoli del medesimo inespiabile tradimento.
21 L’impianto di In silenzio, novella in cui la responsabilità della narrazione era affidata a una istanza esterna, era tale da farci vivere il trauma adolescenziale di Cesarino in tempo per così dire reale (ovvero in tempo reale narrativo; effetto che si ottiene facendo coincidere i decorsi testuali del narrare e delle cose narrate), attraverso un’ottica sincronizzata sugli eventi e per il tramite d’una focalizzazione interna puntuale e prolungata. Era lo sguardo adolescente (né infantile né adulto) di Cesarino a patire diplopie e contraddizioni la cui ricomposizione sarebbe stata devoluta non ad una maturità a venire ma ad una morte mai come in quel caso pre-matura. Il caso di Stefano Conti, sopravvissuto alla catastrofe e diventato adulto, è più complicato, e il suo racconto-confessione lo lascia ben intendere. A distanza di quasi vent’anni dagli avvenimenti, la sua è un’ottica doppia e squilibrata: solo per una esigua parte è l’ottica razionalizzante dell’adulto, quella che lo costringe a riconoscere, anche retrospettivamente, che all’amore della madre quel povero ragazzo «come me ci aveva diritto, lo stesso diritto che ci avevo io»; ma per la maggior parte (e l’urgenza emotiva debordante dell’anamnesi non può lasciare dubbi) la sua è ancora l’ottica infantile ferita, che esprime, gridando, odio, gelosia, ribrezzo e pura angoscia («inconcepibile», «rubare», «violenza disumana», «l’amore, che doveva esser tutto mio»). Cesarino Brei aveva posto fine a questa sofferenza con l’infanticidio-suicidio; a Stefano Conti tocca un altro destino, quello segnato dall’instabilità e dalla doppiezza degli adulti-bambini.
22 Non sarebbe forse fuor di luogo rilevare che l’autore, senza apparente necessità, ha confezionato per la madre-santa di Stefano un passato un po’ troppo turbolento e tragico. E non privo di ambiguità, se è vero che quel primo marito s’è suicidato «dopo quattro o cinque anni di tempestosa vita coniugale» proprio a causa dei «gravi dissapori» con la moglie. Il punto è però un altro: Stefano Conti manifesta, rievocando quell’infelice e drammatico trascorso della vita materna, la più assoluta indifferenza. Quella vicenda, cui premette un «sembra che» assai più sbrigativo che non dubitativo o pensoso, non lo riguarda affatto. Nessuna pietà per quel povero suicida e nessuna pietà per la madre giovinetta coinvolta in quella sciagura. Il bambino che aveva dovuto patire la disumana violenza d’un amore della madre dal quale egli era escluso, è diventato un adulto che può raccontare la storia tremenda di sua madre sbarazzandosene senza provare la pur minima commiserazione. Insomma, la terribilità di quella storia è direttamente proporzionale alla glaciale anestesia del personaggio che la rievoca.
23 Questo astioso ripudio è degno di fare il paio con la rabbiosa dichiarazione del protagonista de La trappola (IV 308): «Amico mio, sono contento di non aver conosciuto mia madre».
24 Una volta presa la parola, Stefano Conti non la cede più; il narratore primo, che lo ha sollecitato a parlare con le proprie domande, non può che starlo a sentire. La nevrotica chiusura dell’ex-amico non conosce vera e comunicativa dialogicità e non ammette alcuno ad una autentica intimità. Il suo racconto teso e concitato è irreparabilmente monologico nonostante gli apparenti segnali di interlocuzione («tu intendi», «tu capisci», «credi»), e dall’intimità con lui non è escluso soltanto il giovinetto morto del ritratto, ma chiunque. A prescindere dal fatto che in casa sua non ci sia altra persona oltre alla servetta che ha accolto il narratore chiamandolo «signore», colui che è vissuto tanti anni «accanto» alla madre (non dunque con lei né insieme a lei) senza sentirsela in cuore, può ormai avere solo relazioni oblique e sghembe; può rievocare e rivivere il proprio trauma davanti ad altri, ma non condividerlo con qualcuno, finalmente liberandosene. A conti fatti, e paradossalmente, l’unico interlocutore per sempre vivo di Stefano Conti è quel morto in effigie, al quale lo lega la viscerale intimità d’un odio inestinguibile.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 30 luglio 1914. Nel 1917 fu compresa nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves) e nel 1928 entrò infine a far parte del tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese.
2 Bambinaia. Ma il termine inglese è qui solo l’affioramento di un lessico snobistico da classi alte, del medesimo snobismo che vuole vezzeggiata la bambina malata col nomignolo di Dolly (“bambola”).
3 Nella prima stampa, «gialligno».
4 L’automobile è già entrata discretamente in scena (v. anche La rallegrata IV 484). Qui il corsivo sottolinea al tempo stesso la rarità della cosa denotata e la familiarità con quella cosa rara di Dolly, che può designarla con la forma abbreviata.
5 Bene, grazie!
6 Le amazzoni non scostumate dell’epoca montavano, com’è noto, con tutte e due le gambe da un lato della sella, proprio per evitare l’ineleganza sconveniente della posizione a gambe aperte.
7 Sulla scorta del faceto Moringhi, Dolly si fa beffe della pronuncia strascicata (meridionale e soprattutto partenopea) del dittongo uo.
8 Pelle laccata.
9 Periodo durante il quale aveva prestato servizio come balia.
10 Nel lontano 1903, il movimento narrativo (qui dato in sintesi estrema) della puerpera povera che va a balia mentre il suo bambino, affidato ad altri, muore, era stato al centro della novella La balia.
11 Faceva gesti e movimenti.
12 Splendeva, sfavillava a lampi (da barbaglio con s- intensiva).
13 Arredo.
14 La legge che si ricava dalla sottile perfidia della novella, e che il padre di Nenè ribadisce con rabbiosa crudeltà, è che cambiare di stato è colpevole prima ancora che impossibile. A niente e a nessuno è concesso di passare indenne da un mondo ad un altro. Servetta figlia di servi, Nenè è stata condotta a visitare brevemente il paese delle meraviglie padronale, ma questa disorientante esperienza conoscitiva, quasi una folgorante iniziazione, prima le insegna che la madre, trasferitasi in quel paese, non pare più la sua mamma; e poi, al ritorno, le fa brutalmente capire che il paese dei servi non tollera né i transfughi né i reduci nostalgici da quel mondo. Dunque, o si è padroni o si è servi, e per questi ultimi la vita dei padroni ha la falsa realtà del sogno, dal quale niente può passare nella veglia.
1 Fu pubblicata su «Noi e il Mondo» nel novembre del 1914, ristampata successivamente nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves, 1917) e infine inclusa nel tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad, 1928), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese. Il cosiddetto Taccuino segreto fornisce un lungo abbozzo-riassunto della novella: «Una moglie di rigidissima onestà ma in fondo, senza ch’ella lo sappia o lo voglia, sensuale. Soffre, s’indispettisce contro se stessa per l’impaccio che prova davanti agli uomini, amici del marito. – Non li sa guardare negli occhi, è tutta imbarazzata nel parlare. – Non capisce perché si turbi così, e crede che sia per la scarsa pratica avuta da fanciulla con gli uomini, per il rigore eccessivo della educazione ricevuta in famiglia. Ma la ragione del turbamento è un’altra; è la sua strapotente sensualità non riconosciuta, non voluta ammettere, ch’ella sinceramente a parole rifiuta e disprezza come un’onta. Ma nel sogno questa ragione le s’impone. Un amico del marito, quello dinanzi al quale ella ha sentito sempre maggiormente l’impaccio, e per cui dichiara persino di provare la più forte antipatia, la visita tre volte nel sogno, e tre volte la possiede. Ribrezzo, abominazione della voluttà intera, infinita, ch’ella ne ha provato. Sentimento di rimorso, e insieme abominazione, anche verso il marito, che non le ha mai dato e che non potrà mai darle una voluttà simile a quella. E impone al marito di non ricevere mai più quell’amico. Il marito non capisce; gliene domanda la ragione. Nel frattempo il servo annunzia la visita di quest’amico. Ella scappa a rinchiudersi nella stanza accanto. Quel che prova nel sentir parlare l’uomo, di cui ella è stata tutta, tre volte, l’uomo che non sa d’averla così interamente posseduta. Lo sente parlare col marito; non può resistere allo strazio di sentire quei due uomini parlare insieme, amichevolmente. Cade in una spaventosa crisi isterica, in un vero accesso di pazzia, durante il quale, essendo i due uomini accorsi, ella sotto gli occhi del marito, nell’incoscienza, nell’assoluto dominio dei sensi, s’aggrappa a quell’uomo, chiedendogli le carezze frenetiche del sogno. Il marito la strappa dal petto dell’amico; ella grida, si dibatte; poi cade quasi esanime; è messa a letto. I due uomini si guardano esterrefatti: non sanno che pensare... che dire... L’amico se ne va. Il marito ritorna presso il letto della moglie. Ella è rinvenuta, aggruppata sul letto, come una belva; trema in tutte le membra d’un tremito, d’un fremito convulso, con scatti di tratto in tratto. La spiegazione. – È tradimento; è tradimento consumato fino all’ultimo termine: lo sentono tutt’e due. È una realtà e non esiste nel fatto; ma è ed è irrevocabile e irreparabile. L’odio, l’ira bestiale di lui che vorrebbe abbattersi e s’abbatte finalmente su quel corpo innocente e pur colpevole, che ha goduto nel sogno della voluttà procuratagli da un altro. / – Infame! infame! infame! – E si confondono senza volerlo in un amplesso disperato, furibondo, dal quale certo l’odio rinascerà più feroce» (v. TS, pp. 87-8).
2 Molto più tardi, qualcosa di analogo proverà la Donata di Trovarsi nei confronti di Elj Nielsen: «DONATA (levandosi, turbata) Io so per ora che, in certi momenti, come me lo vedo davanti – lì – così sicuro in quel suo corpo agile e pronto – (sì, è bello! ma tutto lì, ma tutto lì! mentre io...) – in quei momenti, vedi? se mi s’accosta... non so, io lo odio!» (v. MNII, p.941). Qui diventerà presto chiara l’ambivalenza della tentazione: quegli atti rabbiosi sono tutti suscettibili d’essere tradotti in spasimi orgasmici.
3 Non è probabilmente estraneo all’elaborazione di queste intime contraddizioni lo spunto nucleare condensato nel sintetico appunto di TS, p. 60: «Soprattutto quella mollezza che sentiva nella sua timidità la irritava». Molti anni più tardi, una analoga irritazione nei confronti del marito manifesteranno, con le stesse parole, anche Sara in Lazzaro: «Mi rivoleva. Sì, perché – faceva il santo, il tiranno – ma poi, quello che più m’inferociva di lui, quando mi s’accostava, era quella mollezza della sua timidità...» (v. MNII, p. 1198) ed Ilse ne I giganti della montagna: «Mi sento tutta, non so, come appiccicata; sì, sì, da questa tua mollezza di timidità supplichevole» (v. MNII, p. 1350). E, discutendo di ciò che in un uomo piace o dispiace alle donne, del medesimo irritante difetto discorrono, nel 1929, anche Carlino Sanni e l’avvocato Merletti in O di uno o di nessuno: «CARLINO [...] Spassionatamente – dimmi una cosa in confidenza. Tu – se fossi una donna... MERLETTI (scoppia a ridere) Io? Ti pare che possa essere una donna? CARLINO No – dico... – tu ne conosci tante e le conosci bene... – puoi sapere il loro gusto, o, piuttosto, ciò che in generale nell’uomo credi che possa attrarre soprattutto una donna – la... la forza, no? MERLETTI Eh, certo, la forza... [...] CARLINO Ti pare – in confidenza – che Tito possa dare a una donna l’impressione d’essere più forte di me? [...] MERLETTI Ma – sai – fisicamente... a giudicare da l’aspetto... / si mostra incerto: / – ma è che Tito... CARLINO –...ha il piglio, sì, ha il piglio più energico... MERLETTI – ...più energico, già! è tutto più... come vorrei dire? più segnato... risoluto... E ciò che una donna soprattutto non può soffrire in un uomo è quella certa mollezza di timidità... CARLINO Ah ma io no; io non sono timido, sai! non sono timido affatto con le donne! nessuna, nessuna mollezza di timidità... MERLETTI Lo credo, lo credo bene!» (v. MNII, p. 773).
La vicenda muove dal conflitto bloccato e dalla complementarità di due ottiche psicologiche reciprocamente esclusive. Raccontare una simile conflittualità senza abbracciare una delle due ottiche e senza imporre una terza e superiore ottica razionalizzante che, distanziandole, le oggettivi e, al limite, criticamente le falsifichi entrambe, non è semplice e pone all’istanza narrante scabrosi problemi. Perciò la novella esibisce non casualmente, fin da questo primo paragrafo, una singolare torsione enunciativa, combinando inestricabilmente l’onniscienza della voce narrante e lo sguardo soggettivo della protagonista: è indispensabile infatti che l’istanza di narrazione possa aderire come un guanto alla più profonda intimità del personaggio femminile affinché la storia possa venir raccontata nella sua interezza. Il racconto procederà attraverso una rete fittissima di discorsi (trasposti, riferiti, pensati) e di sguardi focalizzati, ed anche l’anonima fonte della narrazione si muoverà costantemente mimetizzata dietro movenze parlate, discorsive, come se fosse presa anch’essa in quella rete.
4 A fornire questo modello di padre ferocemente geloso pare sia stato Calogero Portulano, il suocero di Pirandello: v. FVN, pp. 88-9, e GG, p. 164. Va da sé che, per gli appassionati del genere, il dato può essere esca per colorite inferenze biografistiche.
5 Indole, carattere.
6 Questi tratti del personaggio ricordano da vicino quelli di Silvia Ascensi in Tutto per bene III 312.
7 Audacia, sfrontatezza.
8 La pausa sospensiva è un trabocchetto interlocutivo che l’amico spavaldamente spalanca dinanzi alla donna e poi richiude: giunto ad evocare «certe intimità amorose», la sua perfida sospensione pare preludere ad una provocazione discorsiva ancora più audace e perturbante, e invece egli ripiega, giocando come il gatto col topo, su una semplice «camicetta un po’ scollata».
9 V. La casa del Granella III 157 e n. 18; ma, soprattutto, L’umorismo: «Ci vediamo noi nella nostra vera e schietta realtà, quali siamo, o non piuttosto quali vorremmo essere? Per uno spontaneo artificio interiore, frutto di segrete tendenze o d’incosciente imitazione, non ci crediamo noi in buona fede diversi da quel che sostanzialmente siamo? E pensiamo, operiamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia e pur sincera di noi stessi» (v. SPSV, p. 146).
10 Non si tratta più dell’opinione filosofescamente spiritosa e bizzarra dell’uomo grasso di Acqua amara (III 172 e n. 22); qui si tratta, a quasi dieci anni di distanza, del parere d’un uomo intelligentissimo, «dotto sul serio e odiatore della pedanteria», «giornalista argutissimo» (nella prima redazione era addirittura «professore d’università giovanissimo»). Ma l’opinione maschile sulle donne sembra ugualmente, se possibile, ancora peggiorata, poiché in questione non è più la trasgressiva medesimità dei desideri femminili e maschili, ma anzi una chiara, per quanto implicita, disparità: da una parte l’intelligenza, la dottrina non pedantesca, l’arguzia maschile che l’«amico prezioso» rappresenta, dall’altra le donne che sono tutte «nei sensi». Ebbene, nell’insieme il corpus pirandelliano sostiene più spesso questa tesi che non l’altra, e non è un caso affatto che nella parafrasi d’autore riportata alla n. 1, che non contiene la tesi generale sul pudore come vendetta dell’insincerità, il narratore verbalizzasse e autenticasse in compenso come certa la verità del caso particolare: «la ragione del turbamento» della protagonista consiste precisamente nella «sua strapotente sensualità non riconosciuta, non voluta ammettere».
11 Le redazioni a stampa, compresa la prima, potrebbero lasciare qualche margine di ambiguità sulla natura di questa «rivelazione» tutta soggettiva e in prima istanza riservatissima: alla donna si disvelano infatti nel sogno anche l’eros e la sessualità come piacere finalmente pieno. Ma, alla luce dell’abbozzo di cui alla n. 1 e delle conseguenze patogene dello svelamento, bisogna riconoscere che il sogno non rivela alla protagonista altro che, appunto, la «sua strapotente sensualità» e perciò, lungi dall’avere un carattere liberatorio, torna a essere un vecchio sogno veridico apportatore di sciagura, che precipiterà la donna dai vecchi imbarazzi nella frenesia inibitoria.
12 Si irrigidiva.
13 Questa domanda e risposta nel flusso dell’indiretto libero (mai altrettanto libero e mai meno libero di così) rappresentano la traccia discorsiva ultima, fra sé e sé, che abbatte il divieto dell’ultimo scrupolo e, concedendo il nullaosta al piacere, pone fine a tutti i discorsi. Per quanto riguarda la protagonista; ma per raccontare questo sogno erotico che è la più ardita scena sessuale del corpus pirandelliano, il narratore, pur riparato dietro la focalizzazione interna sulla donna, pur padrone della parola narrativa come l’amico «prezioso» è padrone della seduzione, è costretto suo malgrado ad assumere il ruolo obliquamente partecipe di arbitro della sfida e di voyeur.
14 Sebbene l’orgasmo che conclude e interrompe il sogno costituisca il più palese e indubitabile appagamento di desiderio, e nonostante l’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud fosse giunta nel 1914 alla quarta edizione, questo sogno erotico non ha assolutamente nulla di onirico. La condizione di sonno-sogno è un puro pretesto narrativo che, opponendo realisticamente conscio e inconscio, serve a motivare lo stato di narcosi della coscienza e della volontà della protagonista e a giustificare l’accettazione di una sfida che la morale dello stato di veglia avrebbe perentoriamente vietata. Il sogno della donna non è altro che la prosecuzione sperimentale della discussione teorica sul pudore e la castità delle donne affrontata tre giorni prima. Il solo aspetto veramente onirico consiste nel fatto che l’evento sognato o, meglio, il sogno-evento, smaschera e spoglia di tutti i discorsi la realtà. E ciò che conta è il dopo, ossia l’esperienza traumatica e nevrotizzante della scissura che il testo immediatamente condensa e denota nell’«ignominia di cui provava ancora il piacere e il raccapriccio». Ignominia, nel caso, non è l’adulterio, ma l’irresistibile e incontenibile godimento provato; e catastrofico è non riuscire a svincolarsi dall’ambivalenza. Avviluppata nella spirale desiderio-inibizione e attrazione-repulsione, la protagonista non ha altro scampo se non nella malattia.
15 Stravolta, alteratissima (col solito uso della s- intensiva).
16 Dapprima.
17 Si torceva.
18 Contratte come artigli.
19 Prima brutalmente repressa («Più geloso d’un tigre, il padre, le aveva inculcato fin da bambina un vero terrore degli uomini»), poi delusa e insoddisfatta nella realtà (si rammenti il quarto capoverso della novella e le rabbiose considerazioni del risveglio: «lo aveva tradito in sogno; tradito, e non ne aveva rimorso, no, ma rabbia [...] e rancore, rancore contro di lui, anche perché in sei anni di matrimonio non aveva saputo mai, mai farle provare quel che aveva or ora provato in sogno»), sconvolta successivamente dal piacere-raccapriccio dell’«ignominia» onirica, solo nell’inconsapevolezza furiosa e in una dimensione altra, nella realtà non-realtà, malata, dell’alienazione, il personaggio trova tardivamente modo di abbattere il muro della repressione, scavalcare i sensi di colpa, forzare il represso e la censura e chiedere il piacere cui ha diritto. L’educazione ferocemente repressiva le avrebbe impedito di avanzare la medesima richiesta al più che deludente marito, nella veglia, e il sogno stesso aveva elaborato i suoi materiali in modo che fosse un uomo diverso dal marito ad assumere la sconveniente iniziativa; né la donna ignorante sa decifrarlo e capire che quell’amico prezioso sta per il marito e le è apparso per darle ciò che desidera. Il viluppo mistificante repressione-colpa non può che generare la verità della nevrosi.
20 Rannicchiata, raggomitolata.
21 Qui, vitrei, fissi, inespressivi.
22 È la solita vecchia forbice anima/corpo che si spalanca. Ma è curioso che il sogno (che noi post-freudiani diamo per scontato non essere né l’una cosa né l’altra, ma un’altra cosa) venga interpretato come la vicenda di un corpo senz’anima anziché una vicenda dell’anima senza il corpo. Come sempre, in Pirandello, la tragedia è avere un corpo, dal momento che il corpo non sa godere se non colpevolmente.
23 A distanza di vent’anni, nell’ambito dei convoluti sviluppi del dramma Non si sa come, la memoria intertestuale pirandelliana riutilizzerà il motivo del tradimento nel sogno e recupererà in due riprese questo passo della novella: prima in una battuta di dialogo fra Giorgio Vanzi e Romeo Daddi: «GIORGIO [...] tu non puoi far caso d’un sogno come se fosse una realtà! ROMEO Ah no, eh? Non c’è la realtà del sogno, nel corpo che l’ha goduto?» (v. MNII, p. 885), e poi nelle parole con cui Romeo si proverà ancora a sostenere, mentendo, il tradimento onirico confesso della moglie: «Figúrati poi quando ti senti aggiungere che quel sogno è stato così vivo, che d’un balzo (a Bice con ferocia) – di’, di’, è vero? – d’un balzo te ne sei destata. E aggiungere, per esempio: “Ti posso assicurare, caro, che tu non mi hai mai data una gioja altrettanto viva, perché questa è stata veramente, veramente, tutta intera per me sola, e tutta proprio come per mia soddisfazione la desideravo”... Tradimento lentissimo, insomma, assaporato tutto, intero fino all’ultimo. Le puoi dare uno schiaffo; la puoi buttar giù dal letto con un calcio; ma il sogno resta, resta là, vivo, nel suo corpo, e tu non puoi farci nulla» (v. MNII, p. 886).
1 Fu pubblicata per la prima volta nel novembre 1914 su «La lettura», ristampata successivamente nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves, 1917) e infine inclusa nel tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad, 1928), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese.
2 Curiosa (e caratteristica).
3 Rannicchiato, accoccolato.
4 V. Notte IV 343: «Volse un’ultima occhiata alla fiammella fumolenta, che vacillava e quasi veniva a mancare agli sbalzi della corsa, per l’olio caduto e guazzante nel vetro concavo dello schermo».
5 L’immagine del «lume che non c’è» proviene in prima istanza dal colloquio sulla vita e la morte fra Anselmo Paleari ed Adriano Meis ne Il fu Mattia Pascal: «– Ma dobbiamo anche morire! – ribatté il Paleari. / – Capisco; perché però pensarci tanto? / – Perché? ma perché non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte! Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscir da questo labirinto, il lume insomma, signor Meis, il lume deve venirci di là, dalla morte. / – Col bujo che ci fa? / – Bujo? Bujo per lei! Provi ad accendervi una lampadina di fede, con l’olio puro dell’anima. Se questa lampadina manca, noi ci aggiriamo qua, nella vita, come tanti ciechi, con tutta la luce elettrica che abbiamo inventato! Sta bene, benissimo, per la vita, la lampadina elettrica; ma noi, caro signor Meis, abbiamo anche bisogno di quell’altra che ci faccia un po’ di luce per la morte» (v. RI, p. 443). Ma viene successivamente ripresa negli abbozzi preparatori per L’avemaria di Bobbio, novella nella quale non troverà poi attualizzazione: «[...] la certezza della morte includeva per la sua ragione stessa la tenebra più fitta. / Eppure, per acquistar un giusto senso della vita, per trovare nel cammino della vita la giusta via, bisognava che il lume venisse proprio di là, da quella tenebra fitta e impenetrabile. / Il lume che la fede accendeva per rischiarare quella tenebra, era un lume acceso di qua. Bisognava che il lume invece fosse acceso di là, da qualche morto caritatevole. Ma nessun morto finora aveva avuto questa carità; il che poteva essere una prova contro ciò che i libri di filosofia chiamano la permanenza dei valori oltre la morte» (v. TS, p. 9).
6 Nel capitolo conclusivo della novella si vedrà quanto sostanziale sia la sottile distinzione fra l’essere filosofi e l’osservare.
7 Nonostante esista più di una località con questo nome, i luoghi sono da considerare immaginari. Nella prima redazione, di Pèola era detto trattarsi d’un «puntino neppure segnato nelle carte geografiche d’Italia».
8 Da principio, subito.
9 Piccola allodola. V. anche Mondo di carta III 478 e n. 15.
10 Letto portatile adoperato, specie nella Roma imperiale, per trasportare alti dignitari e persone facoltose.
11 Le persone dei ceti più elevati, i galantuomini. Dunque si capisce che il Circolo appena evocato è il «Circolo dei civili» di Pèola: v. anche La maschera dimenticata, p. 379: «[...] si presentò raggiante nella vasta sala del Circolo dei “civili”».
12 Rossi, d’una tonalità che inclina al ruggine.
13 Storte, di forma non regolare.
14 Pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
15 Batoste.
16 V. L’uccello impagliato IV 78: «Ah che cara diavoletta, che cara diavoletta, quella Lillina! Friggeva tutta. Era la vita!».
17 Lieve solletico.
18 Vampate. V. Musica vecchia, n. 3.
19 Serata danzante.
20 Si gonfiava d’ira.
21 Pomata, brillantina.
22 Di color giallo brillante.
23 Dapprima.
24 Quest’episodietto che chiude il secondo capitolo è una sorta di mise en abîme del desiderio vitale di ricominciamento che agita il personaggio e, nel contempo, una profezia d’insuccesso.
25 Pirandello gioca con un grande e classico luogo comune della narrativa storica, quello che vuole che i grandi eventi siano preceduti da prodigi e presagi miracolosi. Tale è lo sbocciare repentino della magnifica rosa rossa. Ma gli auspici sparsi nel testo, a volerne leggere gli stridori, non sono buoni: la fede vedovile non si lascia sfilare, quella rosa fiorisce «fuor di stagione» e Lucietta porterà alla festa la sua «gioja vestita di nero». Nella prima stampa avveniva persino il più inquietante e canonico dei prodigi: l’apparizione dello «spettro del marito» sotto forma dell’ombra che la rimboccatura di una coperta proiettava sul guanciale e che faceva per un attimo credere a Lucietta di rivedere il profilo del marito assassinato, riportato in casa da persone pietose e adagiato cadavere sul letto.
26 Dando a intendere, nascondendosi dietro il pretesto.
27 Ampi divaricamenti delle gambe, falcate.
28 Abito maschile di rappresentanza, lungo, a doppio petto.
29 Il riporto impomatato.
30 Strattonarsi, spintonarsi.
31 Di furia, a spregio, schizzando bile.
32 A rigonfi e a gale increspate.
33 Un’eco di quest’ironia mordace si avvertirà ancora nel contrasto fra le popolane e l’Uomo saputo che avrà luogo nel primo quadro de La favola del figlio cambiato. Le donne, offese dai motteggi di quest’ultimo, passano alle vie di fatto: «L’UOMO SAPUTO / che si sarà buttato a terra. / Là! Là! Là! / M’arrendo! M’arrendo! M’arrendo! / E, per difendersi così da terra, dimenando le braccia, comincia a far svolazzare tutte le sottane. / Aria! Aria! Aria! / Gonfia la bocca e soffia, turandosi con due dita le nari: / fhhhhhhhhhh / Sa di rinchiuso la vostra onestà!» (v. MNII, p. 1235).
34 Ceppi da ardere. Ma i «ciocchi congestionati» sono quasi un eufemismo sessuale.
35 Parti anteriori inamidate.
36 Quella della ventenne Lucietta è vitale insofferenza del lutto e della repressione; la «lontananza» di Fausto Silvagni è invece la non-vita e l’anestesia vitale del disilluso che guarda vivere gli altri e, anziché vivere, si guarda, sdoppiandosi, non vivere. Gli occhi «grandi, intenti e tristi» che guardano «come da lontano ogni cosa», non servono solo né soprattutto a completare il ritratto del personaggio maschile. Essendo gli occhi di un dimissionario e di un esiliato, al quale nessun sentimento proviene più dalla realtà in cui vive e in cui vede anche se stesso «come lontano da sé», rappresentano l’ottica nitida e potente della quale c’è bisogno quando si tratta di conoscere e capire a fondo. È attraverso questo privilegiatissimo sguardo focalizzato che, al di là delle riluttanti ammissioni di Lucietta con se stessa, il lettore penetra nei processi della vita che rifiorisce nella giovane donna e nella innocente, e tuttavia catastrofica, ebbrezza che la trascina.
37 Nel 1934, il Romeo Daddi di Non si sa come farà proprie ed esprimerà in prima persona queste medesime impressioni: «Cammino, mi vedo le cose attorno, le posso toccare, tocco, e non me ne viene più né un pensiero né un sentimento, forse neppure più una sensazione; le guardo e, dentro di me, i miei stessi pensieri, i miei stessi sentimenti, sono come ombre lontane; io stesso, lontano da me, perduto come in un esilio angoscioso» (v. MNII, p. 838).
38 Silvagni sarebbe un filosofo se non fosse per questa speranza nostalgica che lo agita, per il sentimento che non nomina ma dal quale s’è fatto raggiungere. Quando, quasi badando ad evitare di attribuirla a se stesso, di Lucietta riconosce e intende la «gran voglia di non perdersi, ma anche ahimè, di godere», in quell’«ahimè» si restringe l’intuito del filosofo che egli non riesce a essere, poiché propria del filosofo è la rinuncia al desiderio e al piacere in ragione della ferma volontà di non perdersi. La solita contraddizione è in agguato: il godimento è perdizione, ma non perdersi sradicando il desiderio e abolendo il principio di piacere significa consegnarsi alla non-vita.
39 Fausto Silvagni sogna d’essere mondato della propria vita mancata e del proprio passato prossimo per risalire a un prima intatto di cui serba dolorosamente il ricordo e la nostalgia: le contingenze della vita e dei comportamenti pratici sono sentite come un destierro, uno sradicamento, e come un error senza meta; l’illusione è quella d’un ritorno dall’esilio e d’un percorso a ritroso lungo il quale sciogliere o recidere i nodi con cui gli eventi fortuitamente o coattivamente lo hanno stretto nel tempo, per risalire a un luogo che è la vera patria psicologica dell’io (la sua casa natale) e ad un tempo all’infanzia che è davvero il principio impregiudicato, il punto da cui tutto potrebbe ri-cominciare. Questa attrazione del passato si scontra, in Lucietta Nespi, con un altro motivo-chiave del corpus, con la vita che rifiorisce, al quale è accomunato dalla tensione a sfuggire al presente e alla non-vita, e dal quale è separato violentemente, insanabilmente, dall’attrazione del futuro che il rifiorire della vita porta con sé: la nostalgia del ri-cominciamento fa sognare una ri-nascita, la vita rifiorente fa irresistibilmente desiderare di riprendere a vivere, non dunque di riattraversare il passato risalendo fino alla sorgente ma di lasciarselo alle spalle. Ed è chiaro che così come il motivo del ricominciamento ha i caratteri d’un rito sacrificale e di purificazione, così il secondo contiene tutti i rischi d’impurità di un’iniziazione orgiastica.
40 Sacchi, fagotti.
41 Grottescamente rovesciato, s’intende. Paride era stato incaricato da Giove di assegnare il pomo aureo di Eris, la Discordia, alla più bella tra Giunone, Minerva e Venere.
42 Impallidì. Ma, al di là del senso proprio, è evidente che nella circostanza Pirandello intende far sì che il verbo derivato sprigioni tutte le funeree valenze che contiene.
43 Il passaggio è strapiombante e vertiginoso (ed emblematico): solo chi riesca a percorrere creste così impervie e a sopravvivere alla disciplina di rinuncia e quasi di disumanizzazione che impongono, può uscirne con le stigmate del filosofo-umorista e del veggente. Lucietta Nespi è al riparo dalla vergogna e, salvandola e perdendola, Fausto Silvagni ha completato l’ultimo grado della sua iniziazione. Il resto è amleticamente silenzio.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Giornale di Sicilia» il 26-27 dicembre 1914 (v. SFP, pp. 22 e 111-4). Nel 1917 venne compresa nella raccolta E domani, lunedì... (Milano, Treves). Nel 1928 entrò a far parte del tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad).
2 Direttore.
3 V. Nel gorgo, n. 3.
4 La folla dei poveri clienti spaesati e smarriti manifesta un atteggiamento opposto a quello del personaggio-narratore de La mano del malato povero. Ma là, implicitamente aggregati, in quanto lettori, alla cerchia degli «amici» ascoltatori e narratari, si avrà a che fare con un personaggio fuori del comune, con un dimissionario vagabondo che, incurante dei propri mali, vuole appunto vivere «fuori d’ogni traccia solita, d’ogni consuetudine, libero di tutte le vecchie apparenze, col respiro sempre nuovo e largo tra cose sempre nuove e vive», e che sarà capace di levare alta la sua divisa: «Sarò pazzo, ma io vivo. Non ho casa, non ho stato» (v. p. 223). Non è impresa da malati poveri né da anonimi clienti d’albergo; soprattutto non è impresa che possa diventare collettiva. Il narratore mostra di saperlo bene quando descrive questi viaggiatori sperduti come bisognosi degli aspetti e degli oggetti consueti «in cui giornalmente vedono e toccano la realtà solita e meschina della propria esistenza». Nella coppia non neutrale d’aggettivi si nasconde un orgoglio che il presunto pazzo de La mano del malato povero avrebbe senz’altro condiviso.
5 Divanetto. V. La signorina, n. 32.
6 Termine francese che significa “scrivania” o “ufficio” e che designa per antonomasia l’ufficio di ricezione degli alberghi.
7 L’indicazione induce a far ritenere che la vicenda sia ambientata a Palermo.
8 Cittadina della Sicilia sud-orientale, in provincia di Ragusa.
9 È solamente a questo punto che una piccola storia prende a staccarsi dal viavai formicolante che costituisce la vicenda della vita d’albergo. Fin qui si è prolungato un vestibolo narrativo, inusitatamente esteso, la cui funzione è stata quella di significare e quasi verbalmente mimare, con la sua stessa ridondanza e la sua iteratività, con la sua enumeratività un po’ caotica, il disordinato e frastornante brulichio vitale di un luogo che non è di nessuno e cui nessuno appartiene, di uno spazio che, non essendo né punto di provenienza né meta, rappresenta un luogo per definizione estraneo e alieno, un non-luogo.
10 Come spesso ha fatto con l’alternativa meraviglia/maraviglia, Pirandello ha corretto, in controtendenza rispetto all’uso, il più consueto castigo della prima stampa.
11 L’una.
12 Funzionario di polizia.
13 La verifica stupita dello sguardo collettivo conferma l’asserzione del narratore. E la doppia testimonianza merita qualche attenzione e qualche inferenziale congettura. Già le scarpe logore hanno raccontato qualcosa del morto (v. p. 158), e qualcosa aggiungono i pochi soldi che ha con sé. Il nome, Rosario Funardi, non lascia dubbi sul paese natale di provenienza. Poco conta che non si sappia dove fosse diretto e se qualcuno lo aspettasse. È un siciliano che tornava finalmente a casa e che, rimesso piede sulla sua terra, è davvero tornato il bambino che era stato prima di partire ed è morto nel sonno così tranquillamente da sembrare a tutti un bambino.
14 «Varietà di marmo, di colore grigio scuro o azzurro cinereo» (Devoto-Oli).
15 A momenti.
16 Non ha torto a essere atterrita, la vecchia signora. Non solo, e forse non tanto, perché dalle ipotesi degli astanti sul lunghissimo sonno del viaggiatore che ha appena attraversato l’oceano ha appreso che per mare si può soffrire, quanto perché la sorte di quel viaggiatore le ha detto che, attraversato l’oceano, si può morire. E lei, già vecchia, non sta tornando: sta partendo.
17 La porta ricavata in un portone e che consente il passaggio di una singola persona.
18 Il caso ha voluto che il viaggiatore sconosciuto spirasse, a due passi da casa, in quel luogo di nessuno, che non serba memoria né di nomi né di storie. Se capita di sostarvi, si è, per la durata della sosta, ad esempio il numero 13 del secondo piano; se capita di morirvi, si è un tale. È chiaro che i puntini sui quali si spegne la battuta indifferente o infastidita che chiude la novella non sono soltanto il segno del fastidio dell’anonimo che la pronuncia, ma anche l’indizio della retrospettiva rileggibilità allegorica del racconto.