IL GIUDAISMO ANTICO*
PARTE I
LA CONFEDERAZIONE ISRAELITICA E JAHVè
1. Osservazione preliminare: il problema sociologico della storia della religione ebraica.
Il particolare problema sociologico e storico inerente al giudaismo appare di gran lunga più chiaro se si opera un confronto con l’ordinamento delle caste indiane. Cos’erano infatti, dalpunto di vista sociologico, gli Ebrei? Un popolo-paria. Ciò significa, come abbiamo visto per l’india, un popolo-ospite ritualmente segregato, sul piano formale o su quello reale, dall’ambiente sociale circostante. Da questo fatto si possono dedurre tutti i tratti essenziali del suo atteggiamento nei confronti del contesto sociale, soprattutto la sua volontaria esistenza da ghetto che sussisteva molto prima dell’internamento coattivo e il suo dualismo tra morale interna ed esterna. Le differenze rispet to alle tribù-paria indiane si trovano, nel giudaismo, nelle tre seguenti importanti circostanze: i. gli Ebrei erano (o piuttosto diventarono) un popolo-paria in un ambiente sociale privo di caste. 2. Le promesse di salvezza cui era legato il particolarissimo rituale degli Ebrei erano completamente diverse da quelle delle caste indiane. Abbiamo visto come per le caste paria indiane la ricompensa per una condotta ritualmente corretta, cioè conforme alla casta, era costituita dall’ascesa nell’ambito dell’ordinamento castuale del mondo, considerato eterno e immutabile, attraverso la rinascita. Il mantenimento dell’ordinamento castuale così com’era e la permanenza non solo dell’individuo nella casta ma anche della casta come tale nella sua posizione rispetto alle altre caste: questo atteggiamento eminentemente conservatore sul piano sociale era la premessa necessaria di ogni salvezza; poiché il mondo era eterno e non aveva storia. Per gli Ebrei la promessa era proprio l’opposto: l’ordinamento sociale del mondo era il contrario di quanto era promesso per il futuro e nell’avvenire doveva essere nuovamente rovesciato così che agli Ebrei potesse toccare nuovamente il loro posto come popolo dominatore della terra. Il mondo non era né eterno né immutabile bensì creato, ed i suoi ordinamenti attuali erano un prodotto dell’agire degli uomini, in primo luogo degli Ebrei, e la reazione del loro Dio a questo agire; un prodotto storico, quindi, destinato a far posto nuovamente allo stato di cose voluto da Dio. Tutto l’atteggiamento degli antichi Ebrei verso la vita era determinato da questa rappresentazione di una futura rivoluzione politica e sociale condotta da Dio. Inoltre, 3. ciò doveva avvenire in una direzione ben determinata. Infatti la correttezza rituale e la segregazione dall’ambiente sociale che questa comportava costituivano solo un aspetto degli obblighi loro imposti. Accanto a ciò vi era un’etica religiosa dell’agire intramondano, altamente razionale, cioè libera dalla magia come da tutte le altre forme irrazionali di ricerca della salvezza; un’etica che nel suo intimo era lontanissima da tutte le vie di salvezza delle religioni di redenzione asiatiche. Quest’etica si trova ancora in ampia misura alla base dell’attuale etica religiosa dell’Europa e del Medio Oriente. E su questo si fonda l’interesse della storia mondiale per il giudaismo.
L’importanza dello sviluppo religioso ebraico nel contesto della storia mondiale si fonda innanzitutto sulla creazione dell’«Antico Testamento». Infatti una delle opere spirituali più importanti della missione paolina è stata quella di salvare questo libro sacro degli Ebrei trasferendolo nel cristianesimo come libro sacro di questa religione, e tuttavia scartando nello stesso tempo tutti i tratti propri all’etica imposta dall’Antico Testamento come non più vincolanti perché aboliti dal Salvatore cristiano, proprio quei tratti che fissavano ritualmente la posizione particolare degli Ebrei: la loro posizione di popoloparia. Per misurare la portata di questo fatto basta raffigurarci ciò che sarebbe avvenuto in sua assenza. Senza l’adozione dell’«Antico Testamento» come libro sacro sarebbero sorte senza dubbio sulla base dell’ellenismo delle sette pneumatiche e delle comunità misteriche con il culto di Kyrios Christos ma mai assolutamente una chiesa cristiana e un’etica cristiana della vita quotidiana per le quali mancava infatti, allora, qualsiasi base. Senza l’emancipazione dalle prescrizioni rituali della Tor ah che stavano alla base della segregazione di tipo castuale degli Ebrei, la comunità cristiana sarebbe rimasta, proprio come quelle degli Esseni1 e dei Terapeuti2, una piccola setta del popolo-paria ebraico. Ma nel cuore stesso della dottrina di salvezza del cristianesimo, che portava alla liberazione dal ghetto volontariamente creato, la missione paolina si collegava ad una dottrina ebraica, seppure già semi-dimenticata, che derivava dall’esperienza religiosa del popolo durante l’esilio. Poiché senza le promesse tanto singolari dell’ignoto grande scrittore del periodo dell’esilio che ha redatto la profetica teodicea della sofferenza nel Libro di Isaia (cap. 40-55), e in particolare la dottrina del Servo di Jahvè che insegna e come olocausto volontario patisce e muore senza colpa, non sarebbe stato concepibile, malgrado le posteriori dottrine esoteriche del Figlio dell’uomo, lo sviluppo della dottrina cristiana del sacrificio e della morte del Salvatore divino nella sua singolarità rispetto ad altre dottrine misteriche esteriormente simili. D’altra parte però il giudaismo ha anche fornito in maniera rilevante l’ispirazione e in parte il modello della predicazione di Maometto. Osservando quindi le sue condizioni di sviluppo, anche prescindendo del tutto dall’importanza dello stesso popolo-paria ebraico nell’ambito dell’economia europea del Medioevo e dell’èra moderna, ci troviamo soprattutto per questi motivi, che riguardano l’influenza sulla storia universale della religione ebraica, ad un punto-chiave di tutto lo sviluppo culturale dell’Occidente e del Medio Oriente. Si possono mettere sullo stesso piano per importanza storica soltanto lo sviluppo della cultura intellettuale ellenica e, per l’Europa occidentale, lo sviluppo del diritto romano e della Chiesa romana fondata sul concetto romano d’ufficio, e ancora in seguito quello dell’ordinamento medioevale per stati e, infine, lo sviluppo di quelle influenze che hanno spezzato tale ordinamento ma hanno perfezionato le sue istituzioni, in campo religioso, cioè lo sviluppo del protestantesimo.
Il problema è quindi: come sono diventati gli Ebrei un popolo-paria con queste caratteristiche altamente specifiche?
2. Condizioni generali storiche e climatiche.
La terra montagnosa sirio-palestinese fu soggetta alternativamente a influenze mesopotamiche ed egiziane. Le prime sono state determinate dalla comune origine degli Amorriti3 che nei tempi antichi avevano dominato sia la Siria sia la Mesopotamia, poi dall’ascesa politica del potere babilonese alla fine del m millennio e infine in maniera durevole dall’influenza dell’importanza commerciale di Babilonia come terreno di nascita delle forme commerciali protocapitalistiche. Le influenze egiziane si fondavano innanzitutto sui rapporti commerciali che l’Antico Regno già intratteneva con le coste fenicie, sulle miniere egiziane nella penisola del Sinai oltreché sulla vicinanza geografica. Un solido e durevole assoggettamento politico nel periodo che precede il xvn secolo a. C. non sarebbe stato attuabile per nessuno dei due grandi centri culturali in questione perché la tecnica militare e amministrativa lo escludeva. è vero che il cavallo non era assente del tutto, almeno in Mesopotamia, ma non era ancora diventato lo strumento di una vera e propria tecnica militare. Ciò avvenne solo nel caso di quelle migrazioni di popoli che fondarono in Egitto il dominio degli Hyksos e in Mesopotamia il dominio cassita. Solo allora sorse la tecnica del combattimento su carri e con essa la possibilità e lo stimolo a grandi spedizioni di conquista in territori lontani. La Palestina venne dapprima ricercata come oggetto di preda dagli Egiziani. La XVIII dinastia non si accontentò della liberazione dagli Hyksos4 — sotto i cui sovrani comparve apparentemente per la prima volta il nome di «Giacobbe» — ma s’inoltrò con le sue conquiste fino all’Eufrate. I suoi governatori ed i suoi vassalli rimasero in Palestina anche quando la tendenza all’espansione si affievolì per motivi di politica interna. La dinastia dei Ramessidi dovette riprendere la lotta per la Palestina anche per il fatto che nel frattempo il forte regno degli Ittiti5 dell’Asia Minore si era espanso verso il sud e minacciava l’Egitto. Con un patto concluso sotto Ramses II6 la Siria venne spartita, la Palestina rimase in mano all’Egitto e continuò ad esserlo nominalmente fino alla fine dei Ramessidi, ossia durante una grande parte del cosiddetto «periodo dei Giudici» israelitico. Di fatto però il potere sia del regno egiziano che di quello ittita subì un tale calo, soprattutto per motivi di politica interna, che la Siria e la Palestina, a partire dal xm secolo, furono per vari secoli lasciate sostanzialmente a se stesse, finché intervennero nuovamente la potenza militare assira ricreatasi nel frattempo, a partire dal ix secolo, quella dei Babilonesi a partire dal vii secolo e, dopo una prima puntata nel corso del x secolo, anche il potere egiziano nel vii secolo: dagli ultimi trent’anni dell’vni secolo in poi l’autonomia del territorio andò persa pezzo per pezzo in mano agli Assiri, agli Egiziani parzialmente e temporaneamente, poi definitivamente in mano ai grandi re babilonesi la cui eredità venne raccolta dal dominio persiano. Solo in quel periodo intermedio che segnò un’ampia e generale decadenza in tutti i rapporti internazionali politici e commerciali, e in relazione al quale si assiste in Grecia alla cosiddetta migrazione dorica, anche la Palestina fu in grado di svilupparsi indipendentemente da grandi potenze straniere. I suoi vicini più forti erano da un lato le città fenicie ed i Filistei immigrati dal mare in quel periodo di debolezza dell’Egitto, dall’altro le tribù beduine del deserto, poi nel x e nel ix secolo il regno aramaico di Damasco. Contro quest’ultima potenza il re israelita chiamò gli Assiri nel paese. In quel periodo intermedio si situa, se non la nascita, l’apice militare della lega israelitica, del regno di Davide e poi dei regni d’Israele e Giuda.
Se il potere politico dei grandi stati culle di civiltà sul Nilo e sull’Eufrate era allora limitato, bisogna tuttavia guardarsi dal raffigurarsi quest’epoca in Palestina come barbara e primitiva. Non solo continuarono a sussistere rapporti diplomatici ed anche commerciali, sia pure con maggiore difficoltà, ma anche l’influenza spirituale delle zone culturali continuò a farsi sentire. Attraverso il linguaggio e la scrittura la Palestina rimase permanentemente legata al territorio, geograficamente più lontano, dell’Eufrate, anche durante il dominio egiziano, e di fatto tale influenza è inconfutabile soprattutto nella sfera giuridica ma anche nei miti e nelle rappresentazioni cosmiche. L’influenza dell’Egitto sulla cultura palestinese sembra, da un punto di vista puramente esteriore, sorprendentemente limitata rispetto alla vicinanza geografica. Ciò era dovuto innanzitutto alla particolare indole interna della cultura egiziana i cui portatori, prebendari di templi e di uffici, erano lontani da ogni proselitismo. Tuttavia appare probabile che l’Egitto abbia esercitato una forte influenza sullo sviluppo spirituale palestinese sotto vari aspetti per noi importanti. Ma ciò è avvenuto in parte per via indiretta attraverso i Fenici e in parte questa influenza è rimasta più che altro uno «stimolo allo sviluppo» non molto facile da afferrare e perlopiù sostanzialmente negativo. Infatti l’apparente limitazione dell’influenza diretta esercitata dall’Egitto derivava, oltre che da motivi linguistici, anche dalle profonde differenze delle condizioni di vita naturali e dell’ordine sociale fondato su di esse. Lo stato egiziano basato sul lavoro servile obbligatorio, sorto dalla necessità di regolare l’irrigazione e di provvedere alle costruzioni regie, era qualcosa di profondamente estraneo alla forma di esistenza degli abitanti della Palestina, una «casa di servitù» che essi aborrivano come una «fornace di ferro». E gli Egiziani dal canto loro consideravano come barbari tutti i loro vicini che non partecipavano al dono divino delle inondazioni del Nilo e all’amministrazione regia degli scrivani. Ma gli strati influenti sul piano religioso in Palestina rigettavano soprattutto quella che era la base fondamentale del potere sacerdotale egiziano, e cioè il culto dei morti, considerandolo uno spaventoso deprezzamento dei loro propri interessi il cui orientamento era decisamente intramondano alla maniera tipica di quei popoli che non sono regolati in modo ierocratico. Proprio come la stessa dinastia egiziana tentò anch’essa di sottrarvisi, sotto Amenofi IV7, ma invano trovandosi di fronte un potere sacerdotale già solidamente stabilito. Il contrasto con l’Egitto era fondato in ultima analisi sulle differenze naturali e sociali, anche se, nella stessa Palestina, le condizioni di vita ed i rapporti sociali erano profondamente diversi.
La Palestina racchiude notevoli divergenze di possibilità economiche dovute a fattori climaticia. Nelle pianure, in particolare quelle dei territori centrali e settentrionali, accanto alla coltura dei cereali e all’allevamento dei bovini erano già acclimatate, all’inizio dell’epoca cui risalgono le nostre notizie, le coltivazioni di alberi da frutta, di fichi, di ulivi, e la viticoltura. Nelle oasi del deserto confinante e nel territorio della città delle palme, Gerico, c’era anche la coltivazione dei datteri. L’irrigazione si avvaleva delle grandi sorgenti delle pianure palestinesi. La pioggia rendeva possibili le colture. Lo sterile deserto del sud e delle regioni orientali era ed è tuttora non solo per i contadini ma anche per i pastori un luogo di terrore abitato dai demoni. Solo i territori limitrofi toccati periodicamente dalle piogge, cioè le steppe, erano e sono tuttora sfruttabili come pascoli per cammelli e bestiame minuto e inoltre, nelle annate buone, per le colture nomadi occasionali di cereali. Sono sempre esistite tutte le forme possibili di transizione fino alla possibilità di colture regolari sedentarieb. In particolare il tipo dei pascoli è sempre stato diversificato. Talvolta è possibile utilizzare delle zone di pascolo localmente ben delimitate per uno stabilimento agricolo; queste possono essere riservate al bestiame minuto o servire anche a quello grosso. Più spesso però i pascoli sono soggetti a trasferimenti a seconda del mutamento annuale tra il periodo invernale delle piogge e quello estivo seccoc. Ciò può avvenire in diversi modi. O esistono villaggi estivi e invernali, questi ultimi situati sui declivi dei monti, che vengono alternativamente abitati e lasciati vuoti dagli allevatori; lo stesso avviene presso i coltivatori di campi situati molto lontani gli uni dagli altri con periodi diversi di maturazione delle colture. Oppure le zone di pascolo dei diversi periodi dell’anno sono così lontane le une dalle altre e danno proventi così mutevoli che non sono assolutamente possibili installazioni stabili. Gli allevatori di bestiame minuto, poiché questo riguarda solo loro, vivono allora alla maniera dei pastori di cammelli del deserto, sotto la tenda, e nel corso dei periodici cambiamenti di pascolo portano i loro greggi su grandi distanze, alcuni prevalentemente da est a ovest, altri invece dal nord al sud, proprio come avviene nell’Italia meridionale, in Spagna, nella penisola balcanica e nell’Africa del Nordd. Quando si pratica la transumanza si usa combinare, secondo le possibilità, il pascolo naturale con il pascolo di maggese o di stoppia sui campi dove è già avvenuto il raccolto. Oppure ancora i periodi di residenza nei villaggi si alternano a periodi di nomadismo o di ricerca di lavoro fuori dal paese: una parte degli abitanti dei villaggi dei monti di Giuda vivono per la metà dell’anno sotto la tenda. Tra la più completa sedentarietà domestica e territoriale da un lato e la nomade sotto la tenda dall’altro è quindi possibile trovare tutte le forme intermedie e più instabili possibili. Come nell’antichità, si sono verificati anche ai giorni nostri dei passaggi sia dal nomadismo all’agricoltura in seguito al un aumento della popolazione e quindi del fabbisogno di pane, sia viceversa dallo stato di fellah al nomadismo in seguito all’insabbiamento. Ad eccezione delle zone di terra irrigate dalle sorgenti, che però sono strettamente delimitate, il destino di tutto l’anno dipende proprio dalla misura e dalla ripartizione delle pioggee. Vi sono due tipi di piogge: le une sono portate dallo scirocco del sud, spesso con fortissimi temporali accompagnati da nubifragi. Per i beduini e i fellah8 un forte lampo significa forte pioggia. Se la pioggia non viene, ciò significa oggi come nel passato che (Dio è lontano» e oggi come allora questa è la conseguenza dei peccati, in particolare quelli dello sceiccof. Spesso fatale per le terre coltivabili, in particolare quelle della Transgiordania, questa pioggia locale nelle steppe riempie le cisterne ed è quindi particolarmente desiderata dagli allevatori di cammelli del deserto, per i quali, per questo motivo, il Dio che dispensa la pioggia è sempre stato un Dio collerico, quello dei temporali. Per le palme da dattero e la vegetazione arborea in genere questa forte pioggia non è nociva e può essere utile quando non eccede. Al contrario le miti piogge continue che giovano ai terreni coltivabili ed ai pascoli di montagna sono portate da quei venti di ovest e sud-ovest che Elia aspettava sul monte Carmelo. Per l’agricoltore questa pioggia è dunque la più desiderata; con essa il Dio dispensatore di pioggia si avvicina, non accompagnato dal temporale e dalle burrasca — che tuttavia spesso lo precedono — ma da un «quieto, dolce mormorio».
Nella Palestina propriamente detta il «deserto di Giuda», la depressione della zona montagnosa del Mar Morto, è un territorio che praticamente non ha mai conosciuto, né in passato né oggi, degli insediamenti stabili. Al contrario nelle zone montagnose centro e nord-israelitiche nel corso dell’inverno (da novembre a marzo) cade tanta pioggia quanta in media nell’Europa centrale nel corso di tutto l’anno. Di conseguenza nelle annate buone, quando cioè vi sono state delle forti piogge precoci (nell’antichità spesso già a partire dalla Festa dei Tabernacoli) e tardive (fino a maggio), c’è da aspettarsi un buon raccolto di cereali nelle vallate ed una ricca vegetazione di fiori ed erba sui pendìi montani, mentre invece in assenza delle piogge precoci e tardive l’assoluta siccità estiva che fa bruciare tutta l’erba può coprire più dei due terzi dell’anno; in tal caso, nel passato, i pecorai erano i primi costretti ad acquistare cereali fuori dal paese, nei tempi antichi dall’Egitto, o erano spinti a continue migrazioni. L’esistenza di questi pastori era quindi particolarmente precaria, date le condizioni metereologiche, e solo nelle buone annate la Palestina era per loro un paese dove «scorrono il latte e il miele»g: s’intende, evidentemente, il miele di dattero che i beduini conoscevano già all’epoca di Tutmosi, forse anche il miele di fichi, oltre al miele di api selvatiche.
3. I beduini.
I contrasti naturali delle condizioni economiche hanno trovato da sempre la loro espressione nelle differenze delle strutture economiche e sociali.
Ad un’estremità della scala si trovavano e si trovano tuttora i beduini del deserto. L’autentico bedu, che anche nell’Arabia del Nord si distingue fortemente dagli Arabi sedentari, ha sempre disprezzato l’agricoltura, disdegnando la casa ed i luoghi fortificati, vivendo di latte di cammella e di datteri, ignorando il vino, senza bisogno di alcun tipo di organizzazione statale che del resto disprezzava. Come è stato descritto, tra gli altri, in particolare dal Wellhausenh per il periodo epico degli Arabi, accanto al mukhtar che è il capo della famiglia (cioè della comunità della tenda) lo sceicco, il capo della schiatta, è normalmente l’unica autorità perenne. Alla schiatta appartiene quell’insieme di comunità di tenda le quali, non importa se a torto o a ragione, si riconoscono una discendenza comune dal lo stesso antenato, e le cui tende di conseguenza sono situate le une vicino alle altre. Si tratta del gruppo sociale più solidamente cementato attraverso il dovere della vendetta del sangue inte so con il massimo rigore. Delle comunità composte da più schiatte si formano attraverso migrazioni e accampamenti comuni e sono volte alla protezione reciproca. La «tribù» che ne deriva comprende raramente più di qualche migliaia di anime. Un capo supremo fisso si trova soltanto quando un uomo si è talmente distinto per le sue prestazioni guerriere o la sua saggezza arbitrale da venir riconosciuto come said in virtù del suo carisma. Il suo prestigio può allora passare sotto forma di carisma ereditario ai rispettivi sceicchi della sua schiatta, in particolare se questa è benestante. Anche il said però è solo primus inter pares. All’adunata della tribù (che spesso nelle piccole tribù ha luogo tutte le sere), egli tiene la presidenza, dà il parere decisivo in caso di opinioni contrastanti che si equilibrano, determina il momento della partenza e il luogo dell’accampamento. Come lo sceicco, però, non ha nessun potere coercitivo. Il suo esempio come la sua sentenza arbitrale vengono seguiti dalle schiatte fintanto che il suo carisma si manifesta. Anche la partecipazione a qualsiasi spedizione militare è volontaria e viene forzata solo indirettamente con la pressione esercitata dal lo scherno e dalla vergogna. La singola schiatta va in cerca di avventura a suo piacimento. Del pari accorda protezione agli stranieri con la sua autorità. Ambedue questi fatti possono ritorcersi contro la comunità, il primo attraverso eventuali rappresaglie, il secondo con la vendetta in caso di violazione del dovere di ospitalità. Tuttavia la comunità stessa interviene solo eccezionalmente. Infatti ogni gruppo sociale che supera la schiatta rimane estremamente labile. Le singole schiatte si raggruppano in modo diverso a seconda dell’occasione staccandosi dalla tribù cui appartenevano fino allora. E la differenza tra una tribù debole ed una schiatta numerosa è alquanto fluida. Senza dubbio l’organizzazione politica di una tribù anche presso i beduini può portare in certe circostanze ad una formazione relativamente stabile. Ciò avviene quando un principe carismatico riesce a creare per sé e la sua schiatta una posizione durevole di supremazia militare. Tuttavia per la natura stessa della cosa questo è possibile solo quando il principe guerriero ha ottenuto delle entrate fisse sotto forma di rendite fondiarie e tributi dalle oasi a coltura intensiva oppure sotto forma di pedaggi e prezzo di scorta da parte delle carovane; con tali entrate egli può mantenere un suo seguito personale nella sua fortezza arroccatai. Del resto, tutte le posizioni di potere dei singoli individui sono molto instabili. In ultima analisi tutti i notabili hanno solo (doveri» e vengono ricompensati soltanto con la considerazione sociale, tutt’al più con una certa deferenza per il loro giudizio. L’ineguaglianza sociale tra le schiatte tuttavia può essere resa considerevole dalla proprietà e dal carisma ereditario. D’altra parte esiste il rigoroso dovere dell’aiuto fraterno in caso di necessità innanzitutto in seno alla schiatta, ma in certi casi anche in seno a tutta la tribù. Al contrario il non-fratello è privo di diritti quando non viene accolto nell’associazione protettrice attraverso la commensalità. Le zone di pascolo, che anche la più sciolta e instabile comunità tribale rivendica e difende, vengono rispettate per il timore reciproco di vendetta; tuttavia cambiano proprietario a seconda delle posizioni di potere che emergono in particolare nelle lotte per il bene più importante: le sorgenti. Una vera proprietà fondiaria non esiste. La guerra e la rapina, in particolare il brigantaggio, che bisogna esercitare di tanto in tanto per una questione d’onore, delineano il tipico concetto dell’onore beduino. Una celebre ascendenza, il valore personale e la generosità sono le tre cose per le quali un uomo viene ascoltato. La considerazione per la nobiltà della sua famiglia e l’onore sociale del suo buon nome sono per l’arabo pre-islamico le motivazioni determinanti di ogni azione.
Dal punto di vista economico l’odierno beduino è considerato un tradizionalista privo di fantasiaj e quindi alieno al profitto pacifico. Questa generalizzazione vale solo fino a un certo punto, in quanto gli alti profitti delle mediazioni commerciali e del pagamento delle scorte rendevano le tribù confinanti con le strade carovaniere del deserto cointeressate a tale commercio ovunque esistesse. Il carattere di somma sacralità del diritto d’ospitalità riposa in parte anche su questa cointeressenza nel commercio carovaniero. Come sul mare il commercio marittimo veniva accomunato alla pirateria, così nel deserto il commercio di intermediari era legato al brigantaggio, essendo il cammello il mezzo di trasporto per eccellenza tra tutti gli animalik. Il mercante straniero veniva e viene tuttora rapinato fintanto che una potenza straniera non difenda le strade con guarnigioni militari o che i commercianti non godano di una solida convenzione di protezione con quelle stesse tribù che spadroneggiano sulle vie carovaniere.
Le antiche raccolte giuridiche israelitiche non recano traccia di un vero e proprio diritto beduino e per la tradizione il beduino è il nemico mortale d’Israele. Un’eterna inimicizia regna tra Jahvè e Amalek9. Il capostipite della tribù dei Keniti10, Caino, munito del «segno di Caino», il tatuaggio della tribù, è maledetto da Dio come assassino e condannato ad una vita errante e solo la tremenda durezza della vendetta del sangue costituisce il suo privilegio. Anche per il resto nel costume israelitico mancano quasi del tutto reminiscenze beduine. Ne troviamo solo una traccia importante: l’uso di spalmare di sangue gli stipiti delle porte come difesa dai demoni è diffuso in Arabia. In campo militare si può fare un collegamento storico tra la prescrizione del Deuteronomio, interpretata perlopiù come una prescrizione puramente teologico-utopica del periodo dei profeti, che ingiunge di scartare dalla chiamata alle armi o rimandare a casa tutti quelli che si sentono «troppo codardi», e l’assoluta libertà di partecipare o meno alle spedizioni militari dei beduini. Tuttavia la fonte di queste usanze non sta nell’adozione di certi usi dei beduini poiché si tratta di reminiscenze di usi propri alle tribù allevatrici di bestiame di cui si parlerà più avanti, usi che in realtà corrispondono a quelli dei beduini.
All’altra estremità della scala si trovava e si trova tuttora la città (’ir). Dobbiamo cercare di analizzarla più da vicino. Senza dubbio anche in Palestina i precedenti della città sono stati da un lato le roccaforti dei capi guerrieri per sé e per il loro seguito personale, dall’altro i luoghi di rifugio per uomini e bestiame nelle regioni insicure, in particolare quelle confinanti con il deserto. Delle une e degli altri la nostra tradizione non riporta nulla di dettagliatol. La città di cui parla poteva rappresentare realtà molto diverse sul piano economico e politico. O era solo una piccola comunità rurale fortificata con un mercato, e in tal caso solo una differenza di grado la distingueva dal villaggio contadino. Ma nel suo pieno sviluppo essa rappresentava, al contrario, in tutto il mondo antico orientale, non solo la sede di un mercato ma soprattutto una piazzaforte, e di conseguenza la sede della milizia, del dio locale e dei suoi sacerdoti, e dei detentori del potere politico, monarchico o oligarchico secondo i casi. Qui si riflettono palesemente le analogie con la polis mediterranea.
Le città sirio-palestinesi presentano di fatto nella loro costituzione politica uno stadio di sviluppo molto vicino all’antica «polis delle famiglie» ellenica. Già in epoca pre-israelitica le città marittime fenicie e le città dei Filistei erano organizzate come città in senso pieno. Le fonti egiziane rivelano l’esistenza all’epoca di Tutmosi III11, di numerose città-stato in Palestina, tra cui si trovavano già quelle che poi continuano a sussistere nel periodo cananeo d’Israele (come Lachis)m. Nella corrispondenza di Tell el-Amarna12 si vede come sotto Amenofi IV (Ekhnaton), accanto ai re vassalli ed ai governatori del faraone con le loro guarnigioni, i loro magazzini ed i loro arsenali, appare nelle maggiori città, in particolare a Tiro e a Biblo, un ceto urbano che ha in suo potere il municipio (bitu) e porta avanti una propria politica spesso ostile al dominio egizianon. Questo ceto, a prescindere da quali fossero le sue altre caratteristiche, deve aver rappresentato senza dubbio un patriziato armatoo. I suoi rapporti con i principi vassalli ed i governatori del faraone erano evidentemente già allora simili a quelli intrattenuti dalle schiatte israelitiche urbane con quei principi militari del tipo di Abimelech, il figlio di Gedeone. E anche sotto un altro aspetto si possono constatare delle evidenti somiglianze tra il periodo pre-israelitico e quello israelitico o addirittura tardo-ebraico. Ancora nelle fonti talmudiche si distinguono varie categorie di abitato: per la precisione, ogni capitale fortificata ha un certo numero di città di provincia e ambedue a loro volta hanno dei villaggi come dipendenze politiche. Uno stato di cose uguale o simile è già presupposto però nei documenti di Amarnap e poi anche nel Libro di Giosuèq che risale al periodo dei Re (Gios15, 45-47; 17, 11; 13, 23 e 28; cfr. Giud., 11, 27 e Num., 21, 25 e 32).
È quindi evidente la sua esistenza, nel corso di tutto il periodo storico da noi abbracciato, dovunque l’organizzazione cittadina della milizia avesse raggiunto il suo pieno sviluppo politico ed economico. Le località dipendenti erano allora nella posizione di località di perieci, cioè prive di diritti politici. Le schiatte signorili erano cittadine o considerate tali. Nel paese natale di Geremia c’è «solo della piccola gente» che non capisce la sua profezia (Ger., 5, 4), sicché egli si reca nella città di Gerusalemme dove si trovano i «grandi», nella speranza di maggiore successo. Tutta l’influenza politica si trova nelle mani di questi grandi della capitale. Il fatto che sotto Sedekia, per ordine di Nabucodonosor, il potere si trovasse temporaneamente in mano ad altri, in particolare ai funzionari, era considerato un’anomalia. Isaia ne presenta la possibilità come punizione per la persistente scelleratezza dei grandi, ma nello stesso tempo come una terribile disgrazia per la collettività. Tuttavia le genti di Anatot non erano considerate né meteci né dotati di uno status particolare: erano Israeliti che semplicemente non appartenevano alla categoria dei «grandi»r. Abbiamo dunque qui il tipo della «polis delle grandi famiglie» pienamente sviluppato alla maniera della prima antichità: con località di perieci, prive di diritti politici, ma considerate tuttavia di liberi cittadini.
L’importanza dell’organizzazione delle schiatte restava fondamentale anche nelle città. Ma, mentre la sua importanza era determinante per l’organizzazione sociale delle tribù beduine, nelle città subentrò anche la partecipazione alla proprietà fondiaria come base dei diritti e finì per essere quella prevalente. L’articolazione sociale nell’antichità israelitica era basata sulla casa paterna (beth avoth), cioè sulla comunità domestica che a sua volta era una sottodimensione della schiatta (mishpacha), mentre questa faceva parte della tribù (shevat). Ma abbiamo visto come la tradizione del Libro di Giosuè scompone già le tribù in città e villaggi invece che in schiatte e famiglie. Fondandosi su altre analogie, si può mettere in dubbio il fatto che ogni israelita appartenesse ad una schiatta. Nelle fonti si suppone che ogni libero israelita sia atto a prestare servizio militare. Ma nella categoria degli individui atti alle armi è sorta una crescente differenziazione. Occasionalmente nella tradizione (a Gabaon in Gios., io, 2) tutti i cittadini (anashim, altrove, per esempio in Gios., 9, 3 josevīm) di una città vengono esplicitamente identificati con i gibborìm, i guerrieri (cavalieri). Ma ciò non costituisce una regola generale. Per gibborīm s’intendono piuttosto di regola i bne chail, i «figli della proprietà», cioè gli eredi di una proprietà terriera, che vengono chiamati gibbore chail per distinguerlis dagli uomini comuni (’am); tra questi ultimi quelli che avevano ricevuto una formazione militare vennero più tardi (Gios., 8, ii; io, 7; 11 Re, 25, 4) chiamati «uomini di guerra» (’am ha-milchamah). Booz nel Libro di Ruth, viene definito un gibbor chail. Così vengono chiamati anche i grandi proprietari su cui gravava un onere forzato di 50 sicli a testa destinato dal re Manasse a fornire il tributo dovuto agli Assiri (II Re, 15, 20, il passo più importante addotto a suo tempo a ragione da Ed. Meyer) e così talvolta sembra che vengano denominati genericamente tutti i guerrieri. Ma un bne chail non è semplicemente un qualsiasi proprietario di un pezzo di terra, proprio come non lo è, in spagnuolo, un hidalgo, termine dal significato testualmente identico. Bne chail sono invece quelle schiatte che grazie alla loro proprietà ereditaria sono in grado di provvedere completamente al proprio equipaggiamento, sono quindi quelle economicamente atte e obbligate al servizio militare e che di conseguenza godono di pieni diritti politici. Queste schiatte sono state le detentrici del potere politico dappertutto e in tutte le epoche in cui un armamento ed una formazione costosi hanno avuto un ruolo preponderante nella sfera militaret.
Anche quando un principe (nasi) investito del carisma ereditario si trovava alla testa della città, come avveniva molto spesso nella prima antichità, egli doveva dividere il potere come primus inter pares con gli anziani delle schiatte della città. E inoltre anche con i capifamiglia (rashe beth avoth) della propria schiatta. Il potere di questi poteva essere così considerevole e al tempo stesso la preponderanza della schiatta del principe su tutte le altre schiatte della città e sui loro anziani poteva essere così forte che la città si presentava come un’oligarchia dei capifamiglia della schiatta principesca, un fatto che si ritrova molto spesso nella storia israelitica. I rapporti però erano completamente diversi. Nei racconti della Genesi Sichem è governata da una ricca schiatta, i bne Chamor, il cui capo porta il titolo di nasi (principe) ed è chiamato «padre di Sichem» (Giud., 8, 28). Per gli affari importanti, quali ad esempio l’ammissione di stranieri alla cittadinanza e al diritto territoriale, questo capo della città ha bisogno del consenso degli «uomini» (anashīm) di Sichem.Accanto a questa antica schiatta signorile appare dopo la guerra contro i Madianiti la schiatta di Gedeone, potentissima concorrente che viene nuovamente soppiantata dalla schiatta di Chamor nel corso della rivolta contro Abimelech.
Come durante il primo ellenismo le schiatte spesso erano disperse in più località; talvolta una schiatta aveva una posizione predominante in varie città, in particolare in città piccole. Così a Galaad la schiatta di Iairo dominava tutto un gruppo di villaggi di tende che più tardi talvolta vengono anche chiamati «città». Il potere reale stava di regola nelle mani degli Anziani (zekenìni). Questi appaiono in tutte quelle parti della tradizione che riguardano la costituzione della città e soprattutto, quindi, nella legge deuteronomica. Vi figurano come un’autorità permanente, il zikne ha 舖ir, che siede «nella porta», cioè sulla piazza del mercato alle porte della città, dove rende giustizia e regola l’amministrazione. L’esistenza di questo organo si presuppone nel Libro di Giosuè sia per le città cananee che per quelle israelite. Per la città di Jesreel, oltre agli Anziani si citano i «nobili» (chorīm). Altrove accanto agli Anziani appaiono anche i capi delle singole case paterne (rashe beth avoth) che si trovano anche in epoca posteriore (Esdra) come rappresentanti delle città accanto agli zekenīm e ai capi della città, designati in altro modo, che a quel tempo evidentemente s’identificavano con quest’ultimi. Il primo caso sembra quindi riguardare la superiorità carismatica permanente di una o più casate che forniscono la magistratura della città, nell’altro invece si tratterebbe di tutti i capifamiglia delle schiatte in armi della città. Anche nella tradizione più antica si trovano tali distinzioni. Tuttavia non viene tramandato, né risulta evidente, fino a che punto a queste distinzioni terminologiche corrispondevano delle organizzazioni politiche realmente diversificate. La posizione carismatica dei notabili di una schiatta dipendeva naturalmente innanzitutto dal potere militare di quest’ultima, e quindi dalla sua ricchezza. La posizione di queste schiatte cittadine proprietarie terriere corrispondeva approssimativamente a quell’oligarchia che ci è nota per la descrizione di Snouck Hurgronje13 della Mecca. I gibbore chail, gli eroi guerrieri possidenti, corrispondevano agli adsidui romani. Anche la cavalleria filistea era composta da guerrieri addestrati. Golia viene designato come «un guerriero sin da giovane età»: questo presuppone il possesso di beni. Gli antichi israeliti detentori del potere politico che appartenevano alle tribù residenti sulle montagne vengono invece talvolta chiamati i «detentori dello scettro», come i principi omerici.
Confrontando la situazione israelitica con quella pre-israelitica e quella mesopotamica, colpisce il fatto che invece dell’unico re cittadino del periodo di Amarna e anche dell’epoca posteriore dei Ramessidi, e dell’unico Anziano locale che appare nei documenti babilonesi, in Israele non viene mai nominato un solo Anziano ma se ne parla sempre al pluraleu: segno altrettanto sicuro del dominio delle casate quanto la pluralità dei sufèti14 e dei consoli.
La situazione veniva a configurarsi in maniera diversa quando un principe guerriero, arruolando un seguito personale o una guardia del corpo mercenaria, spesso straniera, comunque dipendente solo da lui, reclutando poi dei funzionari (sarīm) a lui personalmente devoti, tra quello stesso seguito o anche tra schiavi, liberti e classi inferiori prive di diritti politici, riusciva a rendersi indipendente dall’aristocrazia degli Anziani in qualità di signore della città. Se il suo dominio si reggeva soltanto su queste fonti di potere sorgeva quella forma di principato che la corrente antimonarchica collegò più tardi al concetto di «potere regio». Secondo tali vedute l’antico «principe» legittimo investito del carisma ereditario era un uomo che cavalcava un asinelio: e perciò si riteneva che anche il principe messianico del futuro sarebbe dovuto tornare un giorno su questa cavalcatura dell’epoca pre-salomonica. Il «re» al contrario è un uomo che possiede destrieri e carri da guerra alla maniera del faraone. Con i suoi tesori, i suoi magazzini, i suoi eunuchi e soprattutto con la sua guardia che vive nella sua casa, egli domina dalla sua rocca la città e l’annessa provincia, impone ad esse i suoi governatori, concede feudi ai membri del suo seguito, ufficiali e funzionari, soprattutto rocche — come quelle possedute presumibilmente dalla «gente della rocca» (millo) di Sichem (Giud., 9, 6 e 20) — impone le corvées con cui aumenta il ricavato della sua personale proprietà fondiaria. A Sichem il re Abimelech aveva stabilito il suo ministro (Giud., 9, 26-30) al quale l’antica autorità carismatico-ereditaria dei bne Chamor aveva dovuto cedere il passo. L’antica tradizione israelitica considera «tirannia» questo tipo di dominio militare personale di un singolo. L’allegoria del dominio dello spineto e la maledizione che vuole che il fuoco da re Abimelech vada sui patrizi di Sichem e del pari da questi torni a quello mettono in luce il contrasto tra tirannia carismatica e patriziato carismatico-ereditario. Il «tiranno» si regge, come ad Atene Pisistrato15, su «povera gente» (rektm) da lui arruolata che sono dei «buoni a nulla» (pochazìm, Giud., 9, 4); avremo ancora a parlare delle loro origini sociali.
In realtà però la linea di demarcazione tra principato e monarchia cittadina era naturalmente alquanto fluida. Infatti durante tutta l’antichità israelitica le grandi schiatte proprietarie fondiarie ed i loro Anziani rimasero di regola un elemento che anche il re più potente alla lunga non poteva ignorare. Come in epoca anteriore costituisce una rara eccezione l’episodio del «figlio di una meretrice», cioè un uomo venuto su dal nulla (Iefte) diventato capo carismatico, lo stesso vale per i funzionari del periodo dei Re. Nel Regno del Nord si trovano senza dubbio vari re senza nome paterno, che non discendono cioè da una schiatta pienamente qualificata; Omri addirittura non porta nemmeno un nome israelitico. Il diritto sacerdotale riguardante il re, nel Deuteronomio, riteneva quindi necessario imporre la purezza del sangue israelitico come premessa necessaria per assurgere alla dignità regia. Soprattutto però il re doveva tener conto dei gibbore chail, i proprietari fondiari pienamente atti alle armi, e dei rappresentanti dei notabili, i zekenīm delle grandi schiatte, che per i redattori dell’autentica tradizione politica sono, anche nel Deuteronomio (Deut., capp. 21, 22, 25, in contrasto con i passi 16, 18 e 17, 8 e 9 influenzati dalla teologia), gli unici rappresentanti legittimi del popolo. I rapporti di potere erano instabili. In certe circostanze un re poteva osare tassare i gìbbore chail in caso di necessità, come fece Menahem per il tributo assiro. E bisogna notare anchev che, al contrario di tutte le altre epoche, nel periodo tra Salomone e Giosia gli Anziani della città, nelle fonti, subiscono una forte retrocessione; è perfino possibile che siano stati soppiantati totalmente, nella loro funzione giudiziaria, dai governatori e dai funzionari del re, perlomeno nelle città capitali che erano delle fortificazioni regie, mantenendo la loro antica posizione solo nei territori provinciali, come in quasi tutte le monarchie asiatiche. Soltanto che non appena il potere monarchico cominciò a declinare (per esempio in seguito ad una rivoluzione, come sotto Jehu), o più che mai dopo la totole abolizione della monarchia nel periodo post-esilico, gli Anziani ricomparvero tosto nelle città nella loro antica posizione di potere. Ancora più importante è il fatto che solo eccezionalmente gli schiavi del re e degli eunuchi avevano un ruolo nella cura delle funzioni amministrative. Per la precisione nel seguito del re si trovavano in qualità di ufficiali e funzionari degli stranieri e gente di umili origini. Ciò avveniva perlopiù agli inizi dell’ascesa di un nuovo principe. Tuttavia, a prescindere forse dal periodo di Davide e di Salomone, in tempi normali gli uffici importanti, perlomeno per quanto riguarda la monarchia urbana giudaica, si trovavano in misura ampiamente preponderante nelle mani di vecchie e ricche caste indigene. Ad una di queste apparteneva anche il capitano di Davide, Joab; la tradizione (II Sam., 3, 39) ci fa sapere che re Davide non era in una posizione tale nei confronti della sua potente schiatta da osare punirlo, ed affidò quindi la vendetta dal suo letto di morte a Salomone. L’odio delle casate nobili di Gerusalemme viene espresso dall’oracolo di Isaia (22, 15) contro il maestro di palazzo, lo straniero Sobna. Normalmente nessun re è stato in grado di regnare a lungo contro la volontà di queste casate. I «sarīm di Gerusalemme» e «di Giuda» di cui parla Geremia (34, 19) sono per lui nello stesso tempo, come si può arguire dal contesto, i rappresentanti delle più ricche famiglie del paese.
Se quindi l’antica città israelitica nel suo pieno sviluppo era un’unione di schiatte carismatico-ereditarie economicamente atte alla guerra, proprio come le città dell’alto ellenismo e dell’alto Medioevo, tale unione era, in questo caso come negli altri, alquanto labile nella sua composizione. Nel periodo premonarchico vi furono nuove schiatte accolte nella città con pieni diritti (Giud., 9, 26), altre furono espulse; la vendetta del sangue e le faide tra le schiatte cittadine, e le leghe di alcune di esse contro l’esterno non costituivano evidentemente avvenimenti rari. La singola schiatta accordava anche qui agli stranieri un diritto di ospitalità che in verità, stando alla tradizione, era alquanto precario.
Sul piano politico questa situazione corrispondeva più o meno a quella che doveva essere in vigore nella città ellenica delle famiglie e a Roma all’epoca dell’ammissione della gens Claudia nella associazione dei cittadini. Un sinecismo formale appare per la prima volta solo con la fondazione di una nuova città per opera di Esdra e Neemia, la quale comportava una rigorosa ripartizione delle liturgie tra le schiatte che si impegnavano a stabilirsi nella città. Non sappiamo invece come fossero ripartiti in precedenza gli oneri cittadini, ivi compresi quelli militari. In rapporto alle più ampie compagini politiche — la tribù, la lega — la città era evidentemente equiparata ad un contingente di leva: un multiplo, sembra, dell’unità tattica di 50 uominiw, spesso un migliaiox. Circa gli altri rapporti tra gruppo tribale e città le fonti ci lasciano completamente all’oscuroy. La tribù» in questo caso riguardava presumibilmente quelle schiatte economicamente atte alla guerra che ad essa appartenevano per tradizione. Al contrario i liberi plebei appartenevano esclusivamente al luogo dove erano stabiliti: lo si deduce dal trattamento formale riservato alla plebs nel sinecismo che seguì all’esilio. Il mutamento della tecnica militare deve avervi contribuito. In ogni caso nei gruppi sociali urbani filistei e cananei il potere militare e politico del patriziato sulle terre circostanti ed i loro abitanti si fondava sulla leva dei carri da guerra di ferro delle schiatte cavalleresche e lo stesso valeva senza dubbio per le città israelitiche.
Non solo sul piano politico ma anche su quello economico le schiatte patrizie delle città dominavano le campagne come nell’antica polis ellenica ed italica. Queste schiatte vivevano delle rendite dei propri possessi fondiari su cui lavoravano schiavi o servi della gleba soggetti a corvées o tributi, oppure coloni (con pagamento del fitto in natura o a mezzadria) i quali, secondo un fenomeno tipico nell’antichità, si reclutavano in particolare tra gli schiavi per debiti. Tali possedimenti venivano regolarmente accresciuti vessando con l’usura i liberi contadini. L’antica stratificazione delle classi: nelle città il patriziato in veste di creditore, fuori i contadini come debitori, esisteva anche nelle città israelitiche. I mezzi per sottoporre le campagne all’usura venivano acquisiti anche qui dalle schiatte urbane, in parte, senza dubbio, attraverso introiti diretti o indiretti provenienti da guadagni commerciali. Infatti in quel periodo storico, fino a quando risalgono le nostre conoscenze, la Palestina era un paese di transito per il commercio tra l’Egitto, le regioni dell’Oronte e dell’Eufrate, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Il Cantico di Debora mette bene in luce l’importanza delle vie carovaniere per l’economia attribuendo alla loro inattività e al fatto che i viaggiatori debbano passare furtivamente per sentieri tortuosi — in seguito al conflitto tra il patriziato cananeo e la confederazione — la stessa importanza che alla cessazione del lavoro dei contadini nei campi. Anche i tentativi della città di assoggettare la zona montana erano interessati essenzialmente al dominio di queste vie e sicuramente, qui come durante tutta l’antichità, la residenza urbana veniva ricercata dalle schiatte potenti anche ed essenzialmente per i vantaggi che questo commercio offriva e non solo per la partecipazione al potere politico che tale insediamento comportava. Queste schiatte partecipavano direttamente al commercio sulla piazza, al commercio marittimo sulle coste o al commercio carovaniero nell’interno, in particolare sotto forma della commenda o di altre forme giuridiche di anticipo di capitali, quali erano offerte dall’antico diritto babilonese abbastanza ben conosciuto in Israele. Oppure beneficiavano di diritti di scalo e trasbordo, o di scorta, o riscuotevano dazi. In ogni caso questi introiti fornivano una parte sostanziale dei mezzi che permettevano loro di accumulare terre e ridurre in schiavitù per debiti i contadini oppressi dall’usura, e insieme di provvedere al proprio equipaggiamento ed alla propria formazione militare. Tutti questi sono fenomeni tipici della polis della prima antichità. Qui, come ovunque, il fatto decisivo è che la polis deteneva la tecnica militare più sviluppata di quei tempi. Infatti il patriziato urbano in Palestina era il corpo portante della guerra cavalleresca su carri che a partire dalla metà del n millennio era andata diffondendosi su tutta la terra, dalla Cina all’Irlanda; vigendo l’auto-equipaggiamento, solo le schiatte più ricche erano economicamente in grado di sostenere con i propri mezzi i costi di tale tecnica. Corrisponde a ciò che sappiamo della polis dei territori mediterranei anche il fatto che i contadini che risiedevano sulla terra migliore, quella più adatta a fornire rendite, erano quelli la cui proprietà terriera era la più esposta alla tendenza all’accumulazione fondiaria in mani patrizie ed erano anche militarmente i meno in grado di opporvisi. Come nell’Attica la fertile Pedia era la sede del patriziato fondiario, lo stesso avveniva nelle pianure della Palestina. E come nell’Attica i diakrioi16 risiedevano sui pendii montani più difficilmente accessibili militarmente per la cavalleria, sul terreno che non produceva rendite, così avveniva anche in Israele per i liberi contadini e le schiatte di pastori che il patriziato urbano cercava con risultati alterni di rendere soggetto ai suoi tributi.
Le fonti non ci dicono praticamente nulla su questi liberi contadini che nella più remota antichità d’Israele vivevano evidentemente nella stragrande maggioranza al di fuori di ogni formazione urbana, né sulla loro organizzazione sociale e politica. Questo fenomeno in sé è tipico. Come in seguito alla mancanza di materiale esauriente nelle fonti riguardo ai liberi contadini si è creduto che nella remota antichità romana al di fuori dei patrizi esistessero solo clienti, e che nella tarda romanità ci fossero solo latifondisti e schiavi, che in Egitto siano esistiti solo funzionari e lavoratori non liberi o contadini sulla terra del re, e come per Sparta si rimane involontariamente legati all’idea che ci fossero solo spartani e iloti, così i liberi contadini dell’antico Israele rimangono nell’ombra profonda che su di essi getta il silenzio delle fonti, dalle quali non c’è praticamente nulla da dedurre se non il fatto stesso dell’esistenza di questi contadini e la loro originaria posizione di potere. Questo risulta evidentissimo dal Cantico di Debora che celebra la battaglia vittoriosa dei contadini israeliti sotto Debora e Barak contro la lega delle città cananee guidata da Sisera. Ma le condizioni di vita dei contadini sono molto oscure.
Ignoriamo del tutto in primo luogo quale tipo di organizzazione politica avessero. Le antiche denominazioni dei loro capi, diverse tra di loro, come per esempio nel Cantico di Debora, non ci dicono nulla circa la struttura interna delle associazioni politiche. Né ci informano sul tipo o sul grado di differenziazione sociale che evidentemente esisteva anche tra i contadini della montagna. L’articolazione militare per migliaia sembra essere stata già usuale presso di loroz: la cifra tonda dei 40.000 uomini atti alle armi in tutto Israele, di cui si parla nel Cantico di Debora, lo fa supporre. Ma tutto il resto ci è ignoto. Lo stesso vale per i rapporti economici. Non sussistono residui di sfruttamento in comune delle terre. Si sono interpretati alcuni passi in questo senso facendo un riavvicinamento con i rapporti odierni in alcune regioni della Palestina dove i proprietari fondiari che derivano probabilmente da appaltatori di tributi procedono di tanto in tanto ad assegnazioni di terreno. Ma qui si tratta di rapporti condizionati politicamente dal dominio orientale del sultano, che non ci dicono niente sui contadini di Israele della remota antichità. Quando si narra (Ger., 37, 12) che Geremia si recò in campagna per ricevere la sua porzione tra la sua «gente» (’am), tale passo offre una sola interpretazione importante, che tuttavia non si può dare per certa: significherebbe cioè che le grandi schiatte in certe circostanze prendevano disposizioni sulla proprietà fondiaria, sia che si trattasse di una proprietà comune stabile della schiatta che veniva periodicamente ripartita, sia che fosse la terra priva di eredi di un suo membro. Comunque Geremia non era un contadino. Il passo nel Libro di Michea (2, 5) che designa con il termine chével la porzione delle donne nella comunità (Rachele) mostra solo che le porzioni venivano misurate con una corda al momento dell’insediamento ma non prova nulla per quanto riguarda le ripartizioni periodiche. Circa un possibile nesso tra l’«anno sabbatico» e l’esistenza nel passato di una comunione delle terre si discuterà più avanti ma bisogna dire sin d’ora che la questione è estremamente incerta.
Per il resto la condizione dei liberi contadini si lascia desumere solo in maniera indiretta. Che l’antica lega israelitica fosse in fortissima misura proprio una lega di contadini lo mostra il Cantico di Debora che oppone i contadini ai cavalieri cananei della lega delle città e li esalta perché hanno combattuto «come gibborīm». Tuttavia è altrettanto accertato che la lega dei tempi storici non è mai stata solamente una lega di contadini. Negli eserciti del tardo periodo monarchico non si parla più di «contadini» o perlomeno non sono più loro i portatori della potenza militare. Appare probabile anche a prima vista che i mutamenti in campo economico e nella tecnica militare abbiano giocato qui lo stesso ruolo che ovunque altrove. Il passaggio ad un armamento costoso, vigendo il principio dell’auto-equipaggiamento dell’esercito, ha eliminato dappertutto dalle formazioni militari pienamente atte alla guerra i piccoli proprietari terrieri che non erano in grado di parteciparvi, tanto più che la loro «insostituibilità» economica già di per sé era sostanzialmente più limitata di quella dei proprietari fondiari viventi di rendita. Il rilievo dei gibbore chail nella massa dei liberi guerrieri, lo ’am, si fonda senza dubbio su questa circostanza e bisogna supporre, anche se non è verificabile nei dettagli, che quella frazione che in Israele costituiva lo strato dei guerrieri economicamente atti alle armi e quindi in possesso dei pieni diritti politici è andata sempre più diminuendo a misura che cresceva il costo dell’armamento. è vero che nelle Cronache redatte dopo l’esilio i gibborīm ed i bne chail vengono talvolta identificati con tutti gli uomini che «portano lo scudo e la spada» e «tendono l’arco»a1 o anche semplicemente con gli «arcieri»b1. Ma le Cronache (dal punto di vista politico) sono prevenute in favore della plebe devota e interpretano quindi le loro fonti in questa prospettiva. Secondo la più antica tradizione i gibborīm come arma avevano la lancia, indossavano (soprattutto) la corazza e combattevano evidentemente su carri da guerra, contrariamente alla fanteria contadina armata anch’essa di scudo e lancia, secondo il Cantico di Debora (Giud., 5, 8), talvolta però anche solo di fionde, con armi che comunque erano sempre molto più leggere, e sprovvista in particolare della corazzac1. I guerrieri dell’allora tribù contadina dei Beniaminiti vengono chiamati «portatori di spada» nel Libro dei Giudici (20, 35).
Ai costi dell’armamento cavalleresco si aggiungeva però per il guerriero in senso pieno la necessità di essere libero da impegni economici onde potersi dedicare all’addestramento militare. In Occidente queste circostanze hanno portato a un’organizzazione dei ceti regolata da tali esigenze. In Israele questo sviluppo imboccò definitivamente la stessa via dopo che le grandi città cananee furono incorporate nella confederazione. è vero che per nessun’epoca si parla nelle fonti di un’autentica nobiltà laica come ceto particolare. Le schiatte che godevano di pieni diritti erano uguali tra di loro: manifestamente, il re poteva sposare qualsiasi libera israelita. Ma non tutte le schiatte libere erano politicamente sullo stesso piano. Poiché naturalmente attraverso la capacità economico-militare che era la condizione necessaria per godere di tutti i diritti politici e attraverso le posizioni di potere politiche e sociali privilegiate fondate sul carisma ereditario di alcune schiatte aristocratiche locali venivano a crearsi delle forti differenze. L’importanza di una schiatta nel periodo anteriore alla monarchia è sempre indicato nella tradizione dal numero dei suoi membri che cavalcano un asino. All’epoca del secondo Libro dei Re l’impiego dell’espressione ’am ha-arez è tipica per indicare le persone che all’infuori del re, dei sacerdoti e dei funzionari, hanno il loro peso sul piano politico. Talvolta l’espressione significa semplicemente «il popolo di tutto il paese», non solo la «popolazione rurale». Ma in molti passi il significato chiaramente è diversod1. Si tratta di persone di cui un certo numero (apparentemente però non molte) ricevevano allora un addestramento militare da parte di uno speciale ufficiale del re: Nabucodonosor ne trova sessanta a Gerusalemme e li conduce via seco. Sono gli avversari dei profeti posteriori, gli avversari della raccomandazione di Geremia di sottomettersi a Babele, e più tardi gli avversari della comunità di esuli tornati a Gerusalemme. Del pari, i «bne chail» ed i loro capi, i sare ha-chaialim si sollevano (II Re, 25, 12) contro il governatore di Nabucodonosor, Godolia, che era stato scelto nel partito dei profeti, e lo uccidono. Gli 舖am ha-arez deportati (II Re, 25, 19) non s’identificano con i semplici «agricoltori» (II Re, 25, 12) lasciati a Gerusalemme è molto più probabile che appartenessero al partito dei sare ha-chaialim. Quando l’espressione va intesa nel senso di «plebe» vi è una speciale aggiunta che lo mette in luce (II Re, 24, 14). Tenuto conto delle notizie sull’addestramento militare dello ’am ha-arez, rimane la scelta tra due ipotesi. O si suppone che il re a quell’epoca imponeva il reclutamento forzato a membri della plebe priva di diritti politici e li faceva addestrare militarmente, e che quindi il nome 舖am ha-arez designa questo strato plebeo. Ma la sua partecipazione alle acclamazioni di re ed a controrivoluzioni sono in contrasto con tale ipotesi. Altrimenti si dovrà vedere in loro fondamentalmente la «squirearchia» nazionale — ma ostile ai puritani jahvisti di allora che erano gli avversari dei culti locali — con il suo seguito contadino, come appare dopo l’esilio.
Tuttavia la piena capacità militare, e quindi il potere politico, nel periodo preesilico, era essenzialmente in mano alle schiatte residenti nelle città. Le fonti profetiche parlano di «grandi» contrapposti al «popolo» in maniera così tipica che con quell’espressione si deve senz’altro intendere una cerchia che pur non essendo giuridicamente chiusa è tuttavia di fatto ben limitata. I registri delle famiglie dell’epoca anteriore all’esilio, la cui esistenza sembra si possa presupporre da Geremia (24, 30), perlomeno per Gerusalemme, comprendevano evidentemente solo le schiatte di questa cerchia e servivano senza dubbio alle schiatte laiche a tenere in evidenza coloro che erano soggetti al servizio militare in qualità di gibborìm; inoltre a chail», «patrimonio», significa anche «esercito» e «forza» (bellica). I «grandi» del periodo dei profeti erano quindi insieme quelle schiatte che fornivano dei guerrieri addestrati alle armi, dotati di corazza e pienamente equipaggiati, e conformemente a questo loro status decidevano anche la politica dello stato avendo in mano uffici e tribunali. Evidentemente con la crescente eliminazione dei contadini dall’esercito anche la loro costituzione in schiatte conobbe un declino. In questo modo infatti si spiega più facilmente come nel sinecismo di Esdra appaiano tante persone nominate non con una famiglia ma in base al mero luogo di nascita; i registri delle famiglie chiaramente comprendevano soltanto le schiatte pienamente atte alle armi, le «classis» secondo l’espressione romana.
Ora più di un eminente studioso (come Ed. Meyer17) considera l’uomo libero non appartenente a queste schiatte con pieni diritti alla stessa stregua del «ger» o «toshav» delle fonti: il metecoe1, il residente senza pieni diritti. Ma ciò è assai improbabile. Infatti il contadino israelita dell’esercito di Debora e della milizia di Saul, che per le dimensioni della sua proprietà non poteva combattere in qualità di cavaliere, difficilmente avrebbe potuto occupare quella posizione segregata propria ai gerim nei tempi più antichi (mancanza della circoncisione !). Inoltre dovunque si parli della «piccola gente» contrapposta ai «grandi» (vedi i profeti, soprattutto Geremia) questi sono proprio i fratelli israeliti oppressi dai «grandi» e vengono presentati come coloro che incarnano la devozione ed il giusto modo di vivere. è più probabile quindi che il libero contadino israelita non pienamente atto alle armi sul piano economico si trovasse piuttosto sostanzialmente in quella posizione che vediamo assegnata durante tutta l’antichità agli agroikoi18, ai perioikoi19 ed ai plebei e di cui abbiamo una conoscenza abbastanza chiara attraverso Esiodo20. Libero nella sua persona, egli era privo dei diritti politici attivi, in particolare non poteva partecipare alla magistratura, sia giuridicamente che di fatto. Proprio su questo si fondava la possibilità che avevano i patrizi di sfruttare con l’usura il demos contadino, di ridurlo in schiavitù per debiti, di addomesticare il diritto a proprio favore e fargli violenza; le lamentele su questi fatti permeano tutta la letteratura dell’Antico Testamento. Questa stratificazione sociale a base economica è comune a Israele come a tutte le città della remota antichità. Gli schiavi per debiti, in particolare, costituiscono un fenomeno tipico. Si trovano nella tradizione, come seguito e mercenari, presso tutti i capi carismatici, da Iefte (Giud., u, 3), Saul (Sam., 13, 6: gli Ebrei asserviti ai Filistei), e soprattutto Davide (I Sam., 22, 2) fino a Giuda Maccabeo (I Macc., 3, 9). Mentre una volta costituiva il nerbo della milizia della confederazione israelitica in lotta contro il patriziato urbano cananeo combattente su carri, con il crescente inurbamento delle grandi schiatte israelitiche e il passaggio alla tecnica della battaglia su carri il libero contadino divenne sempre più il plebeo in seno al proprio popolo.
Al contrario il meteco, ger o toshav, era qualcosa di completamente diverso. La sua posizione deve essere ricostruita mettendo insieme le fonti del periodo anteriore e di quello posteriore all’esilio.
6. I gerīm e l’etica dei Patriarchi.
Nella posizione di gerīm si trovava innanzitutto gran parte degli artigiani e dei commercianti. Ciò valeva tanto per le città quanto per i beduini del deserto. A giudicare dalla situazione araba sembra che in seno ai gruppi tribali beduini non ci fosse posto, in genere, per queste categorie, almeno come membri in senso pieno. Proprio quegli artigiani il cui lavoro era il più importante per i beduini, cioè i fabbri, hanno quasi sempre occupato presso queste tribù la posizione di artigiani ospiti, talvolta ritualmente impuri, altre volte (e perlopiù) esclusi perlomeno dal connubio e di solito anche dalla commensalità. Essi costituiscono una casta di paria che gode solo di una protezione tradizionale, perlopiù religiosa. Lo stesso vale per i bardi e i musicisti, altrettanto indispensabili presso i beduini. In perfetta coerenza con questa situazione nella Genesi (4, 21-22) Caino è il capostipite dei fabbri e dei musicisti e nello stesso tempo (4, 17) il primo fondatore di città. Da ciò si può arguire che all’epoca della nascita di questa stirpe questi artigiani fossero anche in Palestina, proprio come in India, un popolo-ospite escluso non solo dal gruppo dei gibborīm ma anche dalla fratellanza israelitica. è vero che accanto a questi troviamo determinati mestieri artigiani, altamente qualificati, che vengono considerati come libere arti carismatiche. Lo spirito di Jahvè entra in Bezalel, figlio di Uri, nipote di Hur (Esod., 31, 3 e segg.), della tribù di Giuda — vale a dire un uomo libero con pieni diritti — e gli insegna a lavorare i metalli preziosi, la pietra e il legno. Accanto a lui compare come aiuto un altro libero membro della tribù di Dan. Essi forniscono i paramenti per il culto. Viene in mente la posizione ritualmente privilegiata degli artigiani kammalar che esercitano le stesse arti. La somiglianza va anche più lontano. I ^ammalar dell’india meridionale sono artigiani privilegiati del re, importati da fuori. La tribù di Dan, nella tradizione, risulta istallata nella regione di Sidone e nel I Re, 7, 14 si narra che il sovrintendente dei lavori del tempio di Salomone, Hiram, era di Tiro ma che sua madre era della tribù di Neftàli; sarebbe stato quindi un mezzosangue chiamato da Salomone alla sua corte.
È lecito supporre che i mestieri importanti per i lavori di costruzione del re e per i bisogni militari fossero generalmente organizzati in forma di artigianato regio. Nelle Cronache posteriori all’esilio i tessitori di bisso, i vasai e i carpentieri vengono presentati come gente estranea alla tribù, forse artigiani del re del periodo preesilico, come si dovrà discutere in altro contesto. Dopo la distruzione di Gerusalemme Nabucodonosor deportò dalla città oltre alle famiglie di guerrieri anche gli arti-
giani, soprattutto gli artigiani del re. Al ritorno dall’esilio, con la ricostituzione della comunità sotto Esdra e Neemia, si trovano orefici, mereiai e mercanti di unguenti organizzati in gilde al di fuori delle vecchie formazioni familiari. è vero che allora vennero spogliati del loro carattere di estranei alla tribù e accolti nella comunità confessionale giudaica. Ma ancora all’epoca del Siracide e presumibilmente anche molto più tardi gli artigiani, contrariamente alle antiche famiglie israelitiche, non erano considerati politicamente atti a ricoprire le cariche pubbliche. Costituivano quindi a questo punto uno specifico demos urbano. Tuttavia questo strato plebeo non comprendeva allora, nella città-stato post-esilica, soltanto artigiani e mercanti. Come Ed. Meyer ha dimostrato in maniera convincente, accanto a: i. le numerose persone che nella lista di coloro che sono tornati sotto Ciro non vengono nominati secondo la schiatta ma bensì come uomini (anashīm) di una determinata località della circoscrizione di Gerusalemme, cioè come abitanti plebei di una delle città provinciali dipendenti dalla capitale, e 2. quelli che senza tale indicazione di luogo vengono designati come «figli della donna non amata» (bne ha-senud), c’erano varie migliaia di persone che Michaelis21 e Ed. Meyer considerano, senz’altro a ragione, come abitanti plebei della comunità urbana della stessa Gerusalemme. Ambedue i gruppi, evidentemente, sono costituiti da plebei israeliti che non figuravano nell’antico registro delle famiglie dei gibborīm. Ora, secondo la supposizione di Ed. Meyer che appare chiaramente fondata, gli appartenenti a questo strato, sia che in epoche antecedenti fossero stati considerati plebei israeliti, sia che (come la maggior parte degli artigiani) si trattasse di ex-meteci, se accettavano la legge venivano organizzati su porzioni di terra loro assegnate e iscritti nei nuovi registri dei cittadini come famiglie denominate secondo il loro luogo di origine. è vero che i vecchi registri delle famiglie furono posti alla base del sinecismo con cui si procedette alla ricostituzione di Gerusalemme: le famiglie che con le loro case si stabilirono nella capitale costituivano una rappresentanza proporzionale delle vecchie stirpi.
Ma queste reminiscenze dell’antica organizzazione per stirpi scomparvero più tardi, evidentemente perché il loro scopo militare era venuto a cessare nella città-stato clientelare per il momento totalmente smilitarizzata. Nelle rappresentazioni ufficiali delle Cronache posteriori all’esilio (I Cron., io, 2) si trovano accanto ai liberi israeliti con pieni diritti solo dei ceti di nascita la cui posizione è determinata da motivi cultuali, i quali possono essere privilegiati positivamente (come i sacerdoti e i Leviti) o negativamente (come i nethiriim), ma non dei ceti puramente laici. La stessa schiatta di Davide che al ritorno dall’esilio viene ancora contata come esistente più tardi si è dispersa: infatti la genealogia degli antenati di Gesù nei Vangeli è un prodotto artificiale elaborato per via delle antiche promesse. La struttura delle schiatte, che in teoria continuava a sussistere, e l’organizzazione liturgica che all’inizio esisteva ancora (ne parleremo tra poco) persero totalmente la loro importanza rispetto al criterio dell’appartenenza puramente personale al kahal o chever ha-jehudim, l’associazione confessionale giudaica; d’ora in poi questa si acquisiva o con l’origine ebraica e l’assunzione dei doveri rituali o attraverso l’ammissione a titolo personale. Tra queste due categorie, i vecchi ed i nuovi Giudei, esistevano ancora alcuni residui di differenze di ceto (soprattutto nel connubio con i sacerdoti). Per il resto erano uguali. Solo la posizione particolare di status delle stirpi sacerdotali continuò quindi a sussistere; se ne parlerà a parte più avanti. Il fatto che ora anche tutti gli artigiani, come i contadini, fossero essi proprietari o piccoli fittavoli, se professavano Jahvè venivano considerati Giudei in senso pieno pur restando esclusi dalle cariche pubbliche, implicava la nascita di un demos cittadino nel senso della tipica divisione per ceti. Prima dell’esilio questo non esisteva, in quanto allora il principio dell’estraneità rituale alla tribù dominava questa divisione dei ceti. Ma anche dopo l’esilio i plebei non hanno mai formato un vero demos nel senso tecnico dell’antica costituzione classica della polis. Né hanno mai formato un «popolo», una «cittadinanza» nel senso medioevale. Non risulta che un’assemblea per demoi o tribus o altre suddivisioni locali della milizia politica e dell’elettorato politico di tutti i cittadini residenti, come nell’antichità classica, o una fratellanza giurata e una rappresentanza dei cittadini per corporazioni, come nel Medioevo, abbia mai avuto vitaf1. A questo fine mancavano anche adesso le premesse politiche indispensabili; vale a dire l’organizzazione militare dell’antico esercito degli opliti o dell’esercito cittadino medioevale che diventò la base del potere politico della plebe in Occidente.
La situazione sociale ed economica effettiva dopo l’esilio rimaneva, in linea di massima, e malgrado i mutamenti avvenuti in campo giuridico, sostanzialmente simile a quella anteriore all’esilio. I ricchi proprietari fondiari risiedevano perlopiù a Gerusalemme e ivi consumavano le loro rendite. Esistevano, è vero, anche adesso delle famiglie che non erano domiciliate proprio a Gerusalemme. Anch’esse però normalmente erano considerate in possesso della cittadinanza di una città. La stirpe degli Asmonei22 viene chiamata la più nobile della città di Modin (I Macc., 2, 17) benché il suo mausoleo si innalzi su un monte vicino alla riva del mare. Le nobili famiglie laiche che non si erano stabilite insieme alle altre a Gerusalemme erano di regola quelle degli avversari della comunità giudaica ritualmente corretta; tra queste i pii Asmonei, che affermavano di discendere da un ceppo sacerdotale, costituivano un’eccezioneg1. E le famiglie econo micamente e politicamente potenti della città, e in particolare di Gerusalemme, opprimevano anche allora i plebei con l’usura e il disprezzo della legge come facevano una volta quei «grandi» contro cui si erano scagliati i profeti del periodo anteriore all’esilio. Terribili risuonano in particolare i lamenti ed il grido di vendetta dei salmisti contro questi ricchi, o i «grassi» — come venivano chiamati in maniera significativa — che corrispondevano perfettamente anche nel nome al «popolo grasso» della terminologia italiana medioevale. E come già nel passato, secondo la tradizione, gli oppressi si erano schierati intorno ad Abimelech e poi a Davide, così adesso essi si schierarono intorno a Giuda Maccabeo e tra loro in particolare gli schiavi per debiti, formando il suo seguito, e fecero strage con lui degli empi, cioè i «grassi» secondo l’espressione dei Salmi, in tutte le città di Giuda (I Macc., 3, 9).
La base economica della stratificazione per ceti era dunque molto costante. L’importante novità sta nel fatto che nel corso dello sviluppo postesilico del demos cittadino la piccola borghesia apparve in misura crescente come l’autentica portatrice della devozione religiosa, come la «comunità dei Chasidīm» ed ebbe un ruolo sempre più importante che divenne decisivo con l’avvento del partito dei Farisei, benché formalmente non vi fosse stato in pratica nessun mutameno palese nei suoi diritti politici. Ambedue questi fattori: l’importanza effettiva e la mancanza di diritti formali del demos, sono connessi al particolare carattere teocratico della città-stato tardo-giudaica di cui si parlerà più avanti. Questa base confessionale dell’associazione comunitaria fece anche sì che le vecchie espressioni per indicare i «meteci», una volta venuta a cessare l’antica estraneità tribale degli artigiani-ospiti rispetto agli Israeliti, persero il loro significato primitivo e ne acquisirono uno del tutto nuovo che verrà chiarito in seguito (quello di «proseliti»). Qui per il momento ci interessa ancora prevalentemente l’antico significato, anteriore all’esilio. Infatti, malgrado il carattere costante dei fondamenti economici, la situazione giuridica del demos nell’epoca anteriore all’esilio era stata molto diversa.
Il meteco del periodo anteriore all’esilio (il ger) è ben distinto dal completo forestiero, il nokhrì. Il ger, pur essendo estraneo alla tribù, è giuridicamente protetto. Tuttavia un estraneo alla tribù poteva accedere in due modi ad un rapporto di protezione. O era trattato come il protetto di un singolo capofamiglia. In questo caso si trovava sotto la protezione puramente personale di quest’ultimo, di cui poteva anche godere il nokhri completamente estraneo che magari era un ospite di passaggio. La protezione contro l’arbitrio dei membri della tribù del protettore dipendeva però allora unicamente dal potere di quest’ultimo. Solo lo sdegno del Dio o la vendetta di membri della sua tribù potevano proteggere il forestiero, se tale potere mancava: il destino degli ospiti divini di Lot a Sodoma e del levita a Gabaa illustrano questa situazione. Ma veniva considerato privo di diritti, in questo senso, presso una tribù israelitica, anche il meteco che era stato accettato presso un’altra tribù israelitica, come mostra ancora una volta l’esempio del levita nel racconto dell’infamia di Gabaa. Da ciò risulta anche che lo stesso membro in senso pieno di una tribù israelitica, che si fosse stabilito presso un’altra tribù, anche se considerata strettamente imparentata con la prima, come quella di Beniamino rispetto a quella di Efraim, veniva tuttavia accolto in quest’ultima sempre soltanto come un meteco e non come un membro con pieni diritti. Poteva metter su una casa, come l’efraimita di cui si parla nel racconto che si svolge a Gabaa, il quale viene designato come «capofamiglia». Non risulta chiaro se poteva anche acquistare dell’altra proprietà terriera; per i tempi più antichi è improbabile seppure non impossibile. è invece sicuro che in epoca posteriore aveva tale facoltà poiché essa viene attribuita a due patriarchi che erano considerati gerīm (resta solo incerto il gruppo sociale che decideva in merito, se la schiatta o l’associazione locale o la tribù, e quali altri diritti erano collegati all’acquisizione di terra)h1. La norma nel Lev., 25, 35, che risale certamente al periodo anteriore all’esilio, dispone che l’israelita «caduto in miseria», cioè spogliato della sua proprietà fondiaria, venga considerato come ger: ciò sta a indicare comunque — e la cosa è molto comprensibile in sé — che l’assenza di proprietà fondiaria costituiva normalmente uno dei tratti distintivi del ger, anche se questa regola non aveva forse una validità generale. Tuttavia, qualunque fosse la sua posizione sotto questo aspetto, quello che le fonti indicano di regola con il termine ger è un residente senza pieni diritti che non si trova solo sotto la protezione privata di un singolo individuo e sotto quella religiosa del diritto d’ospitalità, ma la cui posizione giuridica è regolata e garantita dall’associazione politica come tale. Questo rapporto giuridico viene indicato con l’espressione «ger asher bish’arecha» delle antiche raccolte della legge: vale a dire «il meteco entro le tue porte», colui che appartiene al distretto giuridico della città come tale, che ha con la città un rapporto regolare di protezionei1. Egli non si trova dunque né in un rapporto meramente individuale e transitorio di protezione come quella accordata all’ospite, di cui può godere anche il nokhri, né d’altra parte in un rapporto personale clientelare stabile con un singolo signore. Nelle fonti appare abilitato a comparire in tribunale poiché si mette in guardia dall’opprimerlo: forse gli occorreva un difensore in giudizio. L’energica prescrizione del diritto sacro che impone di far valere in tutto e per tutto la stessa legge per l’israelita ed il ger ha l’accento di una innovazione: era in corso l’assimilazione confessionale dei gerìm, anzi tra loro alcune categorie appartenevano al gruppo dei principali sostenitori dello jahvismo. In origine tuttavia potevano trovarsi nella posizione giuridica del ger, in questo senso, tanto il non-israelita quanto l’israelita di un’altra tribù. Il primo caso era la regola in quanto in origine le prescrizioni rituali del libero israelita non valevano per il ger. Se è vero infatti che queste prescrizioni si estendevano a tutti i membri di una casa, con questi però si intendeva esclusivamente quella cerchia di persone viventi sotto uno stesso tetto e legate dal rito domestico del pasto cultuale.
Solo il riposo sabbatico all’epoca della più antica redazione esistente dei libri della legge valeva anche per il ger, presumibilmente per impedire che facesse concorrenza con il suo lavoro a quello dell’israelitaj1. Non così, invece, per la circoncisione — che per il ger era facoltativa (Esod12, 48) — alla quale invece già all’epoca di questa istituzione ogni schiavo doveva essere sottoposto. Per questo motivo lo schiavo poteva prendere parte al pranzo pasquale. In realtà questa posizione deve aver subito un notevole mutamento già molto prima dell’esilio. Infatti quando la legislazione sacerdotale {Lev., 17, 10; Num., 9, 14; 15, 1516) stabilì il principio che lo stesso diritto in tutto e per tutto e gli stessi doveri rituali dovessero valere tanto per gli Israeliti quanto per i meteci si trattava senza dubbio di una conseguenza del fatto che nel frattempo erano comparsi numerosi gerīm circoncisi che conducevano una vita ritualmente corretta; vedremo come e perché ciò è avvenuto. Al contrario lo schiavo, stando al diritto anteriore al Deuteronomio, non sembrava soggetto al dovere del riposo sabbatico (II Re, 4, 22: il racconto deriva dalle leggende dei profeti dell’epoca della dinastia di Jehu).
I precetti giuridici ed etici delle Sacre Scritture parlano di regola del ger come di un individuo isolato. Tuttavia, come risulta dalla tradizione, questo non è vero nemmeno nelle condizioni della città-stato pienamente sviluppata e tantomeno in quelle dei tempi più antichi. Qui infatti quei settori della popolazione che in quanto gerīm non vengono calcolati, sul piano politico, tra le tribù israelitiche, sono sempre visti organizzati in associazioni, come del resto gli Israeliti che non godono di pieni diritti politici (cioè i contadini). Questi ultimi sono organizzati in villaggi mentre i gerīm si raggruppano in parte in associazioni locali, in parte soltanto in schiatte e tribù senza riferimento geografico. Del pari la costituzione tribale continua a sussistere anche quando una tribù israelitica si deve inserire in una società politica straniera. è vero che il fatto che i Daniti, nel Cantico di Debora, servono su navi fenicie non prova nulla in questo senso, poiché in questo caso si tratta evidentemente di semplici prestazioni contrattuali individuali di singoli salariati. Ma la tribù di Issachar viene chiamata a titolo generale «serva tributaria» nella benedizione di Giacobbe. è evidente quindi che gli Issachariti, come gruppo, erano stati annessi politicamente da una città-stato straniera dominante e non erano liberi, ma ciononostante avevano conservato la loro organizzazione tribale. D’altra parte nella tradizione figurano anche i Gabaoniti cananei come sudditi di Israele tributari di liturgie ma autonomi in virtù di un patto concluso con loro da capi dell’esercito al momento dell’immigrazione. Questa condizione va tenuta ben distinta dalla posizione di ceto che occupavano, secondo il racconto sulla ricostituzione di Gerusalemme sotto Esdra e Neemia, i custodi, i cantori e gli inservienti del tempio (nethinīm), oltre ai «servi di Salomone». Questi infatti erano dei gruppi ereditari di Giudei, non di gerirti, organizzati in schiatte e tributari di liturgie. I bne Korah, il cui antenato compare già nella tradizione mosaica come ribelle contro i sacerdoti, ed i bne Asaf, ambedue cultori dell’arte salmodica, erano di quelle schiatte di cantori che nel passato erano state di gerīm ma ora erano famiglie di Giudei in senso pieno.
Diversa era la posizione degli antichi gerīm israeliti. Contrapposti da un lato ai liberi artisti carismatici israeliti che compaiono nella narrazione sul tabernacolo e vengono indicati per famiglia e tribù, dall’altro agli artigiani del re stranieri di nascita e nominati senza indicazioni sulla schiatta che troviamo nel racconto sulla costruzione del tempio, la Genesi considerava, come abbiamo visto, i fabbri ed i musici come schiatte estranee alle tribù israelitiche con un proprio eponimo. Del pari, tra gli artigiani del re, presumibilmente liturgici, i tessitori di bissok1., i vasail1. e senza dubbio anche i carpentierim1. erano considerati gerīm. Tali erano considerati anche i pastori, di cui si parlerà tra poco, che nella genealogia (Gen., 4, 20) vengono enumerati assieme ai fabbri ed ai musici tra i discendenti di Caino, il quale, ancora nella leggenda del fratricidio (Gen., 4, 2) viene presentato come un contadino, contrariamente al pastore Abele, e poi, dopo la maledizione, diventa un beduino. Caino in questo albero genealogico appare chiaramente come il padre di tutte le tipiche tribù-ospiti che si trovano in Israele, mentre suo fratello Set è il capostipite dell’Israele sedentario, che coltiva la vite, rappresentato da Noè. Nella tripartizione delle stirpi pronunciata da Noè quella di Canaan viene presentata come una stirpe assoggettata, tributaria di servizi da un lato a Sem, capostipite dei popoli dominatori continentali, ivi compresi gli Ebrei, dall’altro a Jafet, il capostipite dei popoli costieri e insulari del Nord e dell’Ovest. Jafet però dal canto suo «dimora nelle tende di Sem»; egli è quindi considerato senza dubbio un libero meteco e presumibilmente un mercante. La leggenda fa sorgere nello stesso periodo dei forti contrasti con i Cananei e dei rapporti amichevoli con i Fenici. La tradizione (I Re, 9, 20) fa risalire a Salomone il tributo generale dovuto da tutti i Cananei ancora residenti nel paesen1. Sembra quindi che ci siano stati diversi tipi di gerīm: quelli liberi e quelli tributari, la cui posizione giuridica ci è ignota nei dettaglio1. Ma qualunque fossero le condizioni effettive di cui tutte queste costruzioni della tradizione sono espressione o reminiscenza, una cosa rimane comunque certa: i gerīm non erano contati tra i bne Jisraèl soggetti alla leva militare, né come gibborīm né come ’am ha-milchamah; erano rappresentati come forestieri, con una propria organizzazione, in parte sotto forma di tribù clientelari sedentarie, in parte come tribù-ospiti e schiatte-ospiti senza residenza stabile. In origine erano ritualmente separati dagli Israeliti e quindi esclusi perlomeno dal connubio tra pari, come mostra l’episodio di Sichem e Dina.
Il fenomeno delle tribù-ospiti ritualmente segregate ci è noto nei particolari attraverso lo studio dell’ìndia. Rientrano in questo tipo di tribù-ospiti prive di una propria residenza territoriale anche i due esempi di gerīm che per noi sono i più importanti e che possiamo meglio conoscere attraverso la tradizione: i pastori allevatori di bestiame minuto e i sacerdoti leviti. Ambedue condividono nella tradizione un tratto particolare: non partecipano alla proprietà fondiaria della milizia che gode di pieni diritti politici. Ambedue però, come tutti i gerìm, stavano in un preciso rapporto giuridico con la popolazione residente. A nessuno dei due veniva assegnata della terra coltivabile nel territorio tribale di Israele ma ricevevano però dei pezzi di terreno ove elevare le loro abitazioni — perlopiù, è vero, fuori dalle porte — e godevano del diritto di pascolo per il loro bestiame. Per motivi attinenti alla storia delle religioni dovremo soffermarci più dettagliatamente proprio su queste due categorie. Sui pastori perché la tradizione assegna loro i «Patriarchi» e perché hanno avuto un ruolo storico considerevole nella formazione della religione profetica di Jahvè; sui Leviti invece ci soffermeremo in quanto sono i portatori del culto di Jahvè.
L’estensione del territorio coperto di volta in volta dall’organizzazione di tipo urbano illustrata qui sopra dipendeva dalla situazione politica e dai rapporti di potere del momento e in particolare dai limiti territoriali entro cui si riuscivano a contenere i beduini. Per questo motivo sotto l’impero romano l’organizzazione urbana era penetrata profondamente nelle regioni desertiche, per poi venire nuovamente annientata nel corso delle invasioni islamiche, perlomeno nella Transgiordania che, contrariamente alle regioni occidentali, fu occupata dai beduini.
Gli attacchi dei beduini alle comunità organizzate di tipo urbano si ritrovano nel corso di tutta la storia palestinese. Nelle lettere di Amarna i guerrieri indicati con l’ideogramma Sa Gaz23 del quale non si è ancora accertata la pronuncia — appaiono talvolta, e di regola, come nemici contro cui i vassalli ed i governatori egiziani debbono combattere, talvolta però anche come mercenari al servizio dei vassallip1. Nella corrispondenza di Hammurabi i Sa Gaz bruciano le città conquistateq1. Oppure inducono la popolazione ivi residente ad uccidere i vassalli egiziani, far causa comune con loro ed «essere come Sa Gaz»r1. Oppure conquistano le città senza distruggerle, insediandosi quindi evidentemente come signori e fruendo del lavoro servile delle campagne al posto dei vassalli e dei parteggiatori dell’Egitto ivi presenti fino allora. Rimane tuttavia incerto in tutti questi casi se questi Sa Gazs1 erano effettivamente dei beduini, cioè degli allevatori di cammelli delle regioni desertiche, oppure se erano, com’è possibile, tutt’altra cosa.
Tra la popolazione con residenza stabile da un lato, cioè il patriziato urbano ed i contadini sedentari in parte liberi, in parte soggetti a fitti, tributi o corvées che coltivano grano, frutta e vino e allevano bovini, ed i liberi beduini allevatori di cammelli dall’altro, c’è ancora uno strato intermedio caratteristico di tutti i paesi della zona mediterranea fino all’era moderna: si tratta degli allevatori semi-nomadi di bestiame minuto, cioè pecore e capret1. La forma di vita di questo strato nella zona mediterranea è condizionata dappertutto dalla necessità — che per il bestiame minuto, contrariamente ai bovini, è facile da soddisfare — di cambiare pascolo su grandi distanze: dagli Abruzzi fin giù alle Puglie o attraverso mezza Spagna, o su distanze analoghe nel Nord-Africa o nei Balcani. Questo fenomeno che in Spagna viene chiamato «transumanza»u1 determina due fatti. In primo luogo delle migrazioni periodiche comuni e quindi, contrariamente all’unione informe dei beduini, una comunità regolata internamente in maniera più rigorosa. In secondo luogo, nei confronti del mondo esterno, un rapporto regolato in maniera precisa con i proprietari dei territori in questione. Tanto il diritto di pascolo sui campi di stoppie quanto quel lo di pascolo a maggese devono essere rigorosamente concordati se non si vuole che i rapporti, spesso comunque improntati alla violenza, non degenerino in faide permanenti. Infatti questi pastori hanno ovunque tendenza ad oltrepassare i diritti di transito e di pascolo che spettano loro, a fare irrompere i loro greggi nei campi prima del tempo o a devastare i campi che si trovano lungo le loro vie migratorie, come lamenta Geremia (12, 10) per la sua vigna e il suo campov1. L’esistenza e l’importanza considerevole di questa pastorizia errante è storicamente accertata per tutte le epoche in Palestina. Oggi la si trova anche presso gli allevatori di cammelli che dalla Transgiordania portano i loro greggi a pascolare sulle stoppie e sul maggese in Galilea. Questa forma non era però una volta quella tipica. I classici rappresentanti degli allevatori di bestiame minuto nella prima antichità palestinese erano i Recabiti, una società che deve essere emigrata attraverso quasi tutto il paese, da nord a sud. Erano infatti Keniti, e questa tribù, che confinava con gli Amalekiti del deserto meridionale con cui era occasionalmente alleata, si trova, nel Cantico di Debora, al nord. Il vero e proprio territorio di pascolo dei Recabiti si trovava evidentemente, all’epoca di Geremia, nella montagna giudaica da dove i pastori portavano i loro greggi entro la cerchia delle mura di Gerusalemme quando c’era pericolo di guerra. Due secoli e mezzo prima avevano collaborato in maniera decisiva alla rivoluzione di Jehu nel Regno del Nord. Erano allevatori di piccolo bestiame. Come i beduini disprezzavano le case e gli insediamenti stabili, disdegnavano l’agricoltura fissa e non bevevano vino (Ger., 35). Questo per loro era il comandamento divino trasmesso dal fondatore dell’associazione, il profeta di Jahvè Jonadab ben Recab. Altri gruppi di allevatori di bestiame minuto compivano anch’essi delle migrazioni altrettanto estese. L’antica tribù di Simeone, più tardi scomparsa, da un lato, secondo la tradizione, aveva avviato delle trattative contrattuali per il diritto di pascolo nel territorio di Sichem; dall’altro, sempre nella tradizione, le vengono attribuite come sede alcune parti meridionali del deserto di Giuda.
Accanto al tipo puro di pastorizia transumante, come quello rappresentato dai Recabiti, c’erano naturalmente numerose forme intermedie. Anche i pastori erranti solevano spesso praticare qualche forma di agricoltura più o meno instabile variando luogo e quantità secondo il proprio fabbisognow1. Il passaggio allo stato di contadini sedentari era quindi graduale. Solo che per i pastori l’appropriazione della terra non poteva essere completa essendo la terra innanzitutto terreno di pascolo ed essendo la parte più importante della loro proprietà costituita dal patrimonio in bestiame. La mobilità più lenta del bestiame minuto ostacolava la loro libertà di movimento rispetto ai beduini: erano perciò esposti alle rapine di questi ultimi. Contro i beduini, i pastori erano anche gli alleati naturali dei contadini sedentari che si trovavano nella loro stessa situazione ancora aggravata: vigeva «eterna inimicizia tra Jahvè ed Amalek». Caino, il beduino tatuato, appare condannato all’eterna irrequietezza, rispetto al pastore Abele. Ma accanto a ciò si trovano occasionalmente anche delle alleanze tra allevatori di bestiame (i Keniti) e beduini, e la parentela con gli Edomiti era fortemente sentita. Naturalmente la transizione dallo stato nomade dei beduini a quello semi-nomade degli allevatori di bestiame era alquanto sfumata ed esistevano varie combinazioni neH’allevamento di diversi tipi di bestiame, tanto presso i patriarchi quanto per esempio nel caso di Giobbe, che viene presentato come proprietario di pecore, asini, bovini e cammelli, con dimora stabile e bevitore di vino. I Keniti, discendenti di Cainox1 che era considerato in primo luogo un beduino del deserto, appaiono in epoca storica come una stirpe di allevatori di bestiame particolarmente timorata di Dio, come rivela la genealogia della Genesi. è evidente che i Madianiti24 all’epoca di Gedeone non allevavano unicamente cammelli. Lo stesso vale per gli Edomiti e senza dubbio anche per quello sceicco presso il quale l’egiziano fuggitivo Sinuhe25 trovò ospitale accoglienza all’epoca di Sesostri26.
Altrettanto fluidi erano i confini dall’altra parte. I rapporti tra gli allevatori di bestiame minuto e le popolazioni agricole rurali e anche urbane si basavano normalmente su contratti che fissavano i diritti di pascolo e di transito: infatti i pastori erano gerīm. Questi rapporti potevano facilmente condurre ad un’assimilazione completa delle loro schiatte economicamente più produttive nelle città, sia tramite accordi, sia attraverso conflitti violenti. Secono la tradizione i Daniti per molto tempo non hanno posseduto un territorio stabile in Israele (Gìud., 18, i): erano pastori erranti in territorio giudaico, finché non s’impadronirono della città di Lais in territorio fino allora sidonico.
I pastori nomadi erano soggetti a direttrici di sviluppo ben determinate a livello generale. Nei periodi di pace l’aumento della popolazione e l’accumulazione della proprietà significavano sempre una limitazione delle zone di pascolo a favore di un maggiore sfruttamento del suolo per le coltivazioni e ciò rendeva necessaria un’utilizzazione intensificata delle zone di pascolo rimanenti. Questi due fattori portavano di regola i pastori a vincolarsi sempre di più a piccole zone di pascolo fisse e da ciò derivava a sua volta inevitabilmente un restringersi delle loro unità sociali. Per questo motivo tali unità erano alquanto labili. L’organizzazione sociale degli allevatori di bestiame minuto assomigliava a quella dei beduini: la grande famiglia come comunità economica, la schiatta come garante della sicurezza personale tramite il dovere della vendetta del sangue, la tribù, un’associazione di schiatte, come custode della sicurezza militare delle zone di pascolo. In seguito a tali circostanze queste associazioni non erano necessariamente altrettanto durevoli presso gli allevatori di bestiame quanto presso i beduini. Proprio presso i pastori il gruppo tribale appare molto spesso creato semplicemente attraverso un capo carismatico: è il caso probabilmente della tribù di Machir, più tardi scomparsa, forse anche di quella di Manasse e senza dubbio pure della tribù dei «bne ]emini», tutte tribù che dalla montagna di Efraim si sono spinte nei territori di pascolo montani a est e a sud.
Mancava però normalmente a questi capi una base stabile di potere. Una tribù formata esclusivamente da allevatori di bestiame minuto è molto più esposta al pericolo di venire annientata, data la natura delle sue condizioni di vita, di quanto non lo sia una comunità di beduini perlomeno nel caso in cui disponga, attraverso il dominio su certe oasi o su certe vie carovaniere, di un sostegno per la stabilità economica del suo principato tribale. Un esempio che illustra la fragilità ed il carattere puramente carismatico del principato guerriero presso le tribù di puri allevatori di bestiame è la rappresentazione che la tradizione dà della posizione di Iefte, un eroe guerriero della Transgiordania, al quale gli anziani della tribù di Galaad offrono all’inizio solo la dignità di kazir, cioè di capo guerriero, corrispondente al Herzog (duca) germanico, per la durata della guerra di liberazione contro di Ammoniti27 (Giud., n, 6). Egli rifiuta e l’esercito (ha’am, gli uomini) gli conferisce allora su proposta degli anziani il titolo vitalizio ma non ereditario di rosh (capo, principe, comandante, Giud., ii, n). Lo stesso può dirsi dei numerosi ed effimeri giudici (shofetīm) della prima antichità israelitica i quali in parte erano solo capi guerrieri carismatici, in parte forse erano anche dotati del carisma della sapienza giuridica. L’eroe transgiordano Yerubbaal-Gedeone, che aveva mosso guerra ai Madianiti con un seguito composto di soli volontari, rifiuta secondo la tradizione il dominio ereditario {Giud., 8, 23) offertogli da «alcuni in Israele», e si accontenta della sua parte di bottino che devolve alla creazione di una fondazione religiosa (la quale, bisogna presumere, fruttava a lui ed ai suoi discendenti i proventi dei pellegrinaggi).
Delle formazioni politiche durevoli si trovano perlopiù proprio in quella fascia intermedia che sta tra i veri e propri beduini del deserto e i pastori dei pascoli montani della Palestina a est e a sud. Tra queste formazioni figura il regno dei Moabiti all’epoca di Achab, di cui rimangono le iscrizioni, come pure quello degli Ammoniti già esistente all’epoca di Iefte, ma soprattutto il regno degli Edomiti, in costanti rapporti con Giuda, rappresentato da una serie di dieci dominatori che si susseguono l’un l’altro, prima del suo assoggettamento da parte di Davide. Il carattere puramente carismatico e personale del dominio di questi re edomiti sembra indicare in modo palese che la loro successione non era ereditaria.
Al contrario presso gli allevatori di bestiame minuto le formazioni puramente politiche erano molto fragili. La minaccia dei beduini o viceversa la possibilità di allargare le zone di pascolo portavano ad una più stretta unione in associazioni più estese sotto un capo guerriero. Viceversa in tempo di pace la tendenza di sviluppo di cui si è parlato prima determinava la scissione delle singole schiatte e la disintegrazione delle tribù. Già nel racconto della battaglia capeggiata da Debora troviamo il marito dell’eroina Jael, un kenita, menzionato come allevatore di bestiame che si è separato dalla sua tribù ed in virtù di un patto di amicizia ha innalzato la sua tenda come ger sul territorio del re di una città cananeay1. Le antiche tribù di Simeone e Levi sono già «disperse e dissolte» all’epoca della composizione della benedizione di Giacobbe, e nella benedizione di Mosè (Deut., 33), ancora posteriore, Simeone non è più menzionato affatto e Levi appare ancora solo in qualità di clero professionale. Alcune famiglie di simeoniti figurano nelle Cronache post-esiliche (I Cron., 5, 41-42) come residenti a Seir sotto gli Edomiti, il resto ha ricevuto «la sua parte a Giuda», si è recato cioè in questa tribù. La tribù di Ruben, una volta egemone della lega, è privata del suo potere nella benedizione di Giacobbe; nella benedizione di Mosè si prega affinché non scompaia totalmente. Più tardi si è dispersa. Dalla tribù di Giuseppe si sono scisse delle schiatte di allevatori di bestiame: nel Cantico di Debora appare accanto ad Efraim una tribù di Machir, più tardi scomparsa, e più avanti una tribù di Manasse che a sua volta si è divisa. L’annientamento delle tribù di Simeone e Levi viene messo in relazione con un tradimento ed un violento conflitto con i Sichemiti.
Di fatto la perdita in guerra del bestiame posseduto, come pure la sua decimazione per epizoozia, poteva provocare bruscamente lo scioglimento di una tribù esclusivamente allevatrice di bestiame, oppure il suo asservimento ai suoi vicini benestanti. Ma già il mero fatto della pressione che la crescente sedentarietà esercitava contro le zone di pascolo operava in questo senso. Il passaggio graduale dallo stato di semi-beduino all’allevamento di bestiame minuto, poi alla sedentarietà e più avanti all’inurbamento, sotto gli effetti di questa pressione, si riflette sia nella leggenda che nella tradizione storica. Abramo, nella leggenda, oltre alle pecore alleva anche cammelli e non beve vino ma ristora con latte i tre uomini dell’epifania divina. Egli erra da un luogo all’altro come un ger che gode per contratto del diritto di pascolo e solo alla fine della sua vita la leggenda gli attribuisce l’acquisizione di un luogo ereditario di sepoltura a Hebron, dopo lunghe trattative (Gen., 23, 16). Isacco in virtù di un contratto pianta le sue tende sul territorio di Gerar e vi scava dei pozzi, ma è costretto più volte a cambiare la sua sede. è vero che Giacobbe, contrariamente al contadino Esaù, viene presentato essenzialmente come un allevatore di bestiame che vive sotto la tenda; tuttavia si stabilisce come ger a Sichem e compra della terra (Gen., 33, 19). è considerata una astuzia il fatto che alla fine della sua vita egli si rechi presso il faraone in qualità di semplice allevatore di bestiame minuto, onde poter vivere come un ger che viene scansato per motivi rituali, senza doversi mischiare con gli Egiziani. In realtà esercita l’agricoltura e ha bisogno di grano per il suo sostentamento. Il possesso di bovini era attribuito a tutti i patriarchi. Inoltre Giuseppe, come visir in Egitto, regola ivi l’imposta fondiaria.
Questi spostamenti implicavano dei mutamenti profondi nell’organizzazione politica ed anche sul piano militare.
Nella tradizione storica troviamo per le singole tribù israelitiche tutte le forme transitorie possibili dallo stato di semi-beduini all’allevamento di bestiame minuto e da ambedue attraverso lo stadio intermedio dell’agricoltura occasionale (Gen., 26, 12, per Isacco) fino all’insediamento nelle città come schiatte signorili o all’agricoltura sedentaria in qualità di contadini liberi o soggetti a prestazioni serviliz1. Appare infine nella geografia politica della Palestina, quale viene riportata nel Libro di Giosuè, quella trasformazione che si può dire universale costituita dall’inurbamento. Come lo stesso Giosuè viene compensato dei suoi servigi con una città datagli in feudo (Gios., 19, 50), così tutte le tribù, compreso Giuda, vengono presentate come proprietarie di città da cui dipendono dei villaggi (cfr. Gios., cap. 15): l’intero paese appare suddiviso in tali circoscrizioni. Si può dire che queste affermazioni hanno valore soltanto teorico anche per il periodo in cui presumibilmente questo passo è stato scritto. Infatti le tribù meridionali giudaiche, ancora in epoca storica, sono politicamente organizzate alla maniera dei beduini, cioè prevalentemente per schiatte, mentre le tribù del Nord oltre che per schiatte sono anche (e per l’amministrazione soprattutto) suddivise in «migliaia» e «cinquantine» alla maniera degli stati mesopotamici. I contingenti per migliaia, come unità di leva, potevano naturalmente venir trasferiti così com’erano anche sulle tribù di allevatori di bestiame. Si poteva equiparare una singola tribù o frazione di tribù ad una o più «migliaia» e lasciare alla tribù stessa il tipo di leva che preferiva. Ciò avveniva senza dubbio secondo modalità molto diverse. Il Cantico di Debora designa i capi dei contingenti tribali con termini vari dai quali si può desumere una grande varietà di strutture militari. La monarchia naturalmente si sarà sforzata di raggiungere l’unità. Come più tardi l’espressione «raccogliere cinquantine»28 divenne il termine tecnico generale per indicare il reclutamento e la leva, così nella tradizione i comandanti delle migliaia e delle cinquantine vengono considerati in generale come persone che anche in tempo di pace hanno giurisdizione sui propri distretti di leva. Tuttavia questo è senza dubbio un prodotto dell’epoca dei re e anche allora non aveva un carattere generale e permanente. Presso le tribù della Transgiordania, allevatrici di bestiame ed a struttura gentilizia, e anche presso la tribù di Giuda, vigevano presumibilmente degli altri rapporti: come funzionari in tempo di pace perlomeno esse non riconoscevano, sembra, gli ufficiali in questione, ma solo i propri Anziani.
La milizia confederata suddivisa in cinquantine e migliaia non è né l’unico né il più antico modello di organizzazione militare che appare nelle fonti. Se ne trovano altri due tipi. Per quanto riguarda la tribù di Beniamino, situata tra le tribù del Nord e Giuda, il racconto dei fatti che seguirono la battaglia provocata dal delitto di Gabaa (Giud., 21, 21 e segg.) — una leggenda eziologica per i ratti matrimoniali evidentemente riconosciuti presso i Beniaminiti — fa apparire probabile che questa tribù di predoni abbia posseduto in origine una rigida organizzazione della gioventù, alla maniera delle «case degli uomini», senza famiglia. Si può presumere che proprio su questo fatto si sia fondata la sua temporanea posizione di grande potenza malgrado l’esiguità del suo territorio. D’altra parte si è già detto che le vere tribù allevatrici di bestiame di regola adottavano verso la guerra la stessa posizione che è quella tipica dei beduini: libertà assoluta nella partecipazione, ovvero il principio carismatico puro. Nel Deuteronomio questo figura come il vero modello classico di reclutamento. Nella tradizione Gedeone passa al vaglio due volte il suo contingente di truppe. Prima viene concesso ai codardi il permesso di tornare a casa. Poi vengono ancora scartati coloro che presso un guado dimenticano, nella loro sete, la dignità dell’eroe e lambiscono l’acqua alla maniera dei cani (Giud., 7, 5)a2. Ciò costituisce in primo luogo un paradigma di quella costruzione tendenziosa che troviamo nel Deuteronomio (cap. 20) e che corrisponde all’«ideale nomade» di cui si parlerà più avanti e secondo il quale non solo gli uomini sposati di recente e coloro che hanno appena costruito una casa o dissodato un campo o piantato una vigna, ma anche i timorosi debbono rimanere a casa: infatti — è la motivazione teologica — la fiducia in Jahvè basta da sola per ottenere la vittoria. Il paradigma è ripetuto a proposito del contingente militare di Giuda Maccabeo. Non sembra sicuro che tali prescrizioni derivino da antiche rappresentazioni magiche, come suppone Schwally, e non da una costruzione teologica. Vedremo invece più tardi, nella «consacrazione» volontaria dei combattenti per la fede (nazir), certe forme di esercito a formazione religiosa cui si possono collegare tali rappresentazioni. Ma l’origine va tuttavia cercata nelle usanze dei beduini.
Da un punto di vista pratico una guerra condotta in queste forme era una pura guerra tra uomini del seguito di singoli capi29. Di fatto quasi tutte le battaglie israelitiche dell’epoca dei Giudici avevano questo carattere. Vi sono in pratica solo tre casi di guerre per i quali la tradizione ci tramanda con certezza la leva in massa di tutta la milizia della lega: la guerra di Debora, la (leggendaria) spedizione punitiva della lega israelitica contro Beniamino e la guerra di liberazione di Saul. Tutti e tre questi casi appartengono al tipo della guerra «santa» di cui si parlerà più avanti. è vero che il re gradito a Dio della tradizione sacerdotale è Davide. Ma la maniera in cui egli acquista la sua posizione e conduce la sua prima guerra rappresenta nella storia israelitica l’ultimo esempio — che nello stesso tempo ci introduce già in una nuova èra — di una guerra condotta da un principe carismatico con il suo seguito.
Il dualismo tra contadini e pastori appare anche nella tradizione che riguarda i primi re. Saul è presentato come contadino, Davide come pastore. Saul dà inizio alla liberazione con la chiamata alle armi della milizia nazionale, Davide con un combattimento di volontari. Certe differenze nella struttura del dominio dell’uno e dell’altro sono ancora ben riconoscibili malgrado il carattere tendenzioso della tradizione attuale. Saul aveva dietro di sé come base del suo potere la propria schiatta ed il corpo guerriero della tribù di Beniamino. Affidava a beniaminiti le cariche più importanti. Tuttavia si trovano tra i suoi guerrieri degli eroi di origine straniera come membri del suo seguito personale. Davide (I Sam., 22, 1 e segg.) si basava in primo luogo su un seguito puramente personale e questo secondo la tradizione era composto da: 1. la sua schiatta; 2. «oppressi» e soprattutto schiavi per debiti, ossia tipi catilinari, e 3. mercenari cretesi e filistei arruolati («gente di ogni sorta», I Sam., 30, 5 et al.). Ma accanto a queste componenti — presso Davide in misura assai maggiore che presso Saul ed i Saulidi appare un quarto elemento: il seguito dei suoi compagni personali, quella cerchia di paladini e cavalieri che la tradizione del periodo dei re conosce per nome uno per uno e di cui narra le gesta. Si tratta in primo luogo di membri di schiatte giudaiche, alcune molto potenti (Joab). Accanto a questi compaiono, con la diserzione dei paladini di Saul (Abner) anche dei cavalieri non-giudei e più avanti anche un certo numero di non-israeliti: una schiera imponente di hetairoi puramente personali. La tribù di Giuda in quanto tale, che all’epoca del distacco di Davide dai Filistei era ancora soggetta a questi ultimi, solo più tardi si schierò compatta dietro Davide. Ma l’annessione del territorio del nord a Davide ebbe luogo solo dopo lo sterminio della schiatta di Saul ed in virtù di uno speciale accordo (berith) tra Davide e gli Anziani della tribù. Un accordo, ossia un patto, fondava dunque per la prima volta, l’unità nazionale di quelle che più tardi furono le dodici tribù d’Israele sotto un re nazionale. Il punto di vista della tradizione è quindi che solo attraverso un tale patto un capo militare carismatico diventa un monarca legittimo autorizzato d’ora in poi a bandire la chiamata alle armi della milizia; di fronte al seguito del principe e alle sue truppe mercenarie si erge ora il legittimo esercito popolare del re insediato con il berìth. Questo regno davidico fondato in un primo momento in mezzo agli allevatori di bestiame giudei con l’aiuto di un seguito personale e del potere delle grandi schiatte giudaiche conobbe però sin dall’inizio, a partire dalla presa di Gerusalemme, un’evoluzione verso un tipo di regno urbano. Dopo che nel corso delle rivolte sotto i Saulidi, poi sotto Absalom, Adonia, Geroboamo, l’antica opposizione delle tribù contadine al dominio delle città fu insorta e infine ebbe spaccato il reame, al Regno del Nord toccò la stessa sorte con la fondazione di Shomron (Samaria) sotto gli Omridi; e nulla mutò in questo senso la rivolta di Jehu. Il Regno del Sud, invece, dopo il distacco delle tribù del nord, coincideva già quasi perfettamente con il perimetro di Gerusalemme come la polis teocratica dopo l’esilio.
È stato essenzialmente questo sviluppo politico a provocare, accanto alla diminuzione almeno relativamente molto forte del numero di allevatori semi-nomadi di bestiame minuto, la disgregazione di queste tribù restringendo le zone di pascolo. La conseguenza più importante di questo fenomeno, per quanto ci riguarda, è stata la smilitarizzazione dei pastori. Le loro schiatte frantumate erano adesso tanto rispetto ai contadini sedentari quanto, e di più, rispetto al patriziato urbano atto alle armi, quelle più deboli e soltanto tollerate. La tradizione vede in àbramo un meteco privo di diritti politici presso gli Ittiti di Hebron e altre città nel cui territorio egli dimora; a Salem è tributario della decima verso il re-sacerdote locale. Dopo il suo acquisto Giacobbe vive a Sichem, come tutti i gerìm, fuori dalle porte della città (Gen., 33, 18). All’epoca della redazione di questi passi anche la maggioranza degli allevatori di bestiame minuto ancora esistenti era sicuramente in questa situazione. Tuttavia nella tradizione i patriarchi, come più tardi anche Giobbe, sono considerati uomini molto ricchi. Probabilmente però questo non era più vero per gli allevatori di bestiame di epoca posteriore. Infatti i pastori erranti erano tutti esposti al rischio di impoverirsi e comunque per Geremia i Recabiti non sono proprietari di grandi greggi ma piccola gente, come il giudeo Amos di Thekoa che viveva dei frutti del sicomoro e del suo bestiame. In tutto il bacino del Mediterraneo la situazione era analoga con l’eccezione, in circostanze particolari, di singoli grandi magnati di armenti.
Questi fatti sono forse importanti soprattutto per il problema della determinazione delle categorie economiche cui si riferiscono le fonti giuridiche, i profeti ed i salmisti quando parlano di «poveri» (evjoriim), come avviene con eccezionale frequenza. Solo in epoca post-esilica si può vedere in questa categoria (o comprendere in essa) un demos urbano: piccoli commercianti, artigiani, liberi operai salariati. In epoca pre-esilica invece tra i poveri rientrano evidentemente in primo luogo i contadini delle campagne soggetti allo strozzinaggio del patriziato. Ma accanto a loro, in misura forse maggiore di quanto non appaia nelle fonti, rientravano anche gli allevatori di bestiame minuto. Non si può escludere che un certo numero di prescrizioni etico-sociali neH’interesse dei poveri — che sono trattate estensivamente in partitolare nel periodo tardo-giudaico, nella casistica rabbinica non siano in origine connesse a questa situazione. Così il diritto di spigolatura e più tardi il diritto del cosiddetto «ango lo dei poveri». La carità israelitica prescrive di tralasciare la spigolatura delle stoppie sul campo e di non mietere fino all’ultima spiga. Nella versione più antica, conservata dal Deuteronomio (24, 19), i covoni dimenticati non vanno prelevati in un secondo tempo ma vanno lasciati ai gerìm, alle vedove e agli orfani. La versione più recente (Lev., 19, 9 e segg.) ritualizza questo precetto nella maniera tipica della stesura sacerdotale: bisogna evitare intenzionalmente di spogliare completamente i campi ed i vigneti affinché alla fine rimanga qualcosa per i poveri ed i gerim. La formulazione più antica della prescrizione è di origine superstiziosa: i numi della terra coltivata esigono la loro parte dei frutti del suolo e perciò quanto non viene raccolto appartiene a loro. Ma il trasferimento di questa porzione a favore dei «poveri», evidentemente occorso in epoca posteriore, fa sorgere il problema di che cosa s’intendesse in origine con questo termine.
In quello che per la prassi è il locus classicus, cioè il Libro di Ruth, è una straniera sposata ad un israelita, poi rimasta vedova, che si avvale del diritto di spigolatura. Secondo quello che era senz’altro il significato originario, essa lavora in incognito sul campo del gibbor Boaz, con lei imparentato per matrimonio. Sembra quindi che per «poveri» s’intendessero in primo luogo i mezzadri e i braccianti del patriziatob2. Tuttavia appare perlomeno ipotizzabile che anche il tipico rapporto di affratellamento con gli allevatori di bestiame minuto privi di terre proprie e costretti a ricorrere ai pascoli di stoppie ed alla spigolatura costituisse un tipico caso di applicazione pratica della prescrizione, come avviene ancora oggi in Arabia dove tale norma è largamente diffusa a favore delle classi prive di proprietà fondiaria. Un’altra questione merita perlomeno di essere sollevata: si tratta dell’esistenza di una possibile connessione tra questi diritti di cui godevano gli allevatori di bestiame minuto e un’altra specifica prescrizione etico-sociale israelitica di cui si è molto parlato: l’anno religioso del maggese («anno sabbatico») per la terra palestinese. Nella sua versione attuale la disposizione è questa: ogni sette anni i campi, i frutteti e le vigne debbono essere lasciati del tutto incolti, ed i frutti cresciuti liberamente debbono andare a beneficio dei poveri ed eventualmente degli animali selvaggi. In questa forma rigida la prescrizione si trova in quella che nell’insieme è la più antica raccolta di leggi giuridiche ed etiche, il cosiddetto Libro del Patto (Es., 23, 10-11). Va notato che tale prescrizione non costituisce un istituto giuridico e anche da un punto di vista puramente formale non si trova in quella parte della raccolta che regola in maniera abbastanza sistematica delle precise fattispecie giuridiche, ma si situa invece tra le norme che derivano evidentemente dalla parenesi religiosa. è un precetto etico, non una norma giuridica. Tuttavia, come istituto, ha avuto indubbiamente nel tardo giudaismo non soltanto valore teorico ma anche attuazione pratica, come mostrano chiaramente tanto i numerosi responsi dei rabbini circa la condotta da tenere con i cereali coltivati malgrado il divieto quanto altre notizie. Ed ha ancora avuto un ruolo negli odierni tentativi sionisti d’insediamento in Palestinac2.
La raccolta più recente, cioè la legge sacerdotale, include il precetto in questione (Lev., 25, 4-7) — accompagnato da un commento esauriente — in questa forma: non bisogna lavorare la terra, ma i frutti che crescono liberamente dovranno servire da «cibo» per il proprietario, il suo servo (^eved), il suo salariato (sakhir), il suo meteco (toshav) ed il suo ospite e, si aggiunge, «per il suo bestiame domestico e gli animali selvaggi del paese». Il significato qui è dunque un po’ diverso da quello del Libro del Patto: sono destinate a beneficiare della disposizione le persone che si trovano in un rapporto personale di protezione con il proprietario. Ciò autorizzerebbe l’interpretazione secondo cui si sarebbe trattato di un anno di remissione dei fitti e delle corvées a favore dei contadini. Con questa spiegazione concorda anche la menzione fatta del settimo anno tra gli impegni assunti con giuramento dalla comunità dei reduci sotto Esdra: «rinunceremo alle entrate del settimo anno» (Neemia, 10, 31). Infine la raccolta del Deuteronomio, tramandata dall’epoca dei re, in una versione passabile nell’insieme, seppure manipolata, non conosce affatto l’anno sabbatico della terra coltivata — e ciò è importante proprio perché questo Libro della Legge si presenta come un compendio dell’etica religiosa —; comprende invece un altro istituto: la remissione settennale dei debiti. Appare quindi estremamente probabile un’interpolazione dell’anno sabbatico dalla legge sacerdotale nel Libro del Patto, tenuto conto di quanto sia improbabile un’autentica attuazione delle prescrizioni di quest’ultimo presso i contadini dell’epoca preesilica. Se tuttavia queste prescrizioni dovessero risalire ad antiche usanze, si può presumere che fossero fondate o su un istituto collegato all’agricoltura intermittente dei pastori nomadi, cioè un residuo degli antichi confini tempo ranei della proprietà del suolo, una «comunanza delle terre» in questo senso; oppure su qualche disposizione tipica riguardante il diritto di pascolo a maggese dei pastori nomadi sulle terre delle schiatte sedentarie. è vero però che non si può mettere in dubbio il concorso di un’elaborazione teologica influenzata dalla prescrizione circa la remissione dei debiti contenuta nel Deuteronomio e anche dalla maggiore importanza che il concetto del Sabbat in genere è venuto assumendo durante l’esilio. In quel periodo probabilmente la comunità di esuli a Babilonia ha ritualizzato questo come altri istituti del tardo giudaismo che poi sono stati inseriti nel Libro del Patto. Nell’insieme il ruolo dei pastori nomadi rispetto a queste prescrizioni rimane problematico.
In luogo di queste possibilità, che restano molto incerte, di una spiegazione economica di tali singoli istituti etico-sociali, è ben più importante nel nostro contesto l’idea generale che la tradizione popolare del periodo dei Re aveva della condizione degli allevatori di bestiame minuto e che si esprime nella sua concezione dei patriarchi. Dal canto suo questa concezione è una conseguenza di certi rapporti caratteristici ed è stata gravida di conseguenze per il giudaismo. La leggenda patriarcale vede nel patriarca una figura specificamente pacifistad2. Il Dio dei patriarchi è un Dio dei pacifici. Essi appaiono come capifamiglia isolati. Non risulta che ci fossero associazioni politiche tra di loro. Sono meteci tollerati. La loro condizione è quella di pastori che a gruppi familiari e con accordi pacifici si assicurano le zone di pascolo presso la popolazione in residenza stabile e all’occorrenza se le spartiscono pacificamente tra di loro, come Abramo e Lot. Manca loro qualsiasi tratto di eroismo personale. Li caratterizza un misto di fiduciosa e rassegnata umiltà e bontà e di accorta scaltrezza che il loro Dio asseconda. I narratori prevedono che il loro pubblico trovi naturale il fatto che i patriarchi preferiscano far passare le loro mogli belle e desiderabili per loro sorelle e concederle al signore protettore del momentoe2, lasciando a Dio la cura di liberarle dall’harem scagliando flagelli contro il suo proprietario, piuttosto che intervenire loro stessi per l’onore delle loro donne. Appare loro decisamente lodevole che i patriarchi per non dover violare il sacro dovere d’ospitalità siano pronti a consegnare le proprie figlie al posto degli ospiti.
Anche l’etica commerciale dei patriarchi è discutibile. Un dilettevole gioco d’inganni continua per anni tra Giacobbe ed il suocero, tanto nel mercanteggiare per la moglie desiderata quanto per il bestiame che il genero ha acquisito con il suo lavoro di servitore. Alla fine il capostipite d’Israele fugge di nascosto dal suo signore e suocero portando con sé i suoi idoli domestici affinché la sua strada non venga tradita. Perfino l’etimologia del suo nome si adatta a queste sue qualità e sembra che «inganno da Giacobbe» fosse diventata espressione di uso proverbiale ai tempi dei profeti. La leggenda non sembra trovare nulla da eccepire al fatto che il suo eroe, presentato esplicitamente come un pastore devoto, mercanteggi ed acquisti in cambio di un po’ di cibo il diritto di primogenitura del fratello, che contrariamente a lui è descritto come un contadino sventatof2 ed un cacciatoreg2; che poi defraudi lo stesso fratello della benedizione paterna con l’aiuto della madre; che più tardi prima dell’incontro con Esaù rivolga a Dio una preghiera atterrita e pietosa (Gen., 32, 10 e segg.) e infine si sottragga alla temuta vendetta con l’astuzia e con un’umiliazione indegna di un eroe guerriero. Una virtù ritrosa insieme ad una commovente generosità verso i fratelli che volevano ucciderlo per invidia e che lo avevano venduto come schiavo perché in sogno si era visto come il loro signore: questa è l’indole di Giuseppe, l’eroe prediletto della leggenda. Le sue capacità in materia fiscale nello sfruttamento della situazione di bisogno dei sudditi del faraone lo rendono atto al ruolo di visir ma ciò non impedisce che egli ordini alla sua famiglia di dare al suo signore delle informazioni inesatte circa la loro professione. Anche l’etica piratesca e mercantile dell’Odisseo dalle mille risorse ed i suoi lamenti spesso smodati verso la sua protettrice Atena quando si trova in situazioni critiche ci sembrano spesso esulare da quello che è l’ambito della dignità eroica. Ma tuttavia cose come quelle citate in precedenza non vengono riferite sul suo conto. Sono questi i tratti dell’etica di un popolo-paria, la cui influenza sulla morale esterna dei Giudei all’epoca della loro dispersione come popolo-ospite internazionale non va sottovalutata e che insieme con una spiccata fedele obbedienza ci dànno l’immagine d’insieme dell’atteggiamento interiore di questo strato trasfigurato della tradizione. E si tratta senza dubbio di uno strato di allevatori di bestiame minuto che risiedono, come meteci privi di potere, tra cittadini che detengono la forza militare.
L’analisi moderna, che ha sottolineato con crescente attenzione proprio l’importanza di questo strato per la storia delle religioni, tende ora a vedere in questo carattere pacifista dei semi-nomadi un tratto che è loro necessariamente proprio per natura. Questo per altro non corrisponde esattamente alla realtàh2. Tale carattere è piuttosto la conseguenza della dispersione e deH’inermità degli allevatori di bestiame minuto, subentrata con la crescente sedentarietà, mentre manca del tutto dove essi siano organizzati in potenti associazioni politiche. Nella coscienza degli Israeliti i patriarchi non hanno affatto assunto sempre la posizione fissata nell’attuale versione della Torah. In particolare la più antica profezia preesilica non conosce Abramo e Isacco come persone. Amos conosce i patriarchi Isacco, Giacobbe e Giuseppe solo come nomi di popoli (7, 9 e 16; 3, 13; 6, 8; 7, 2; 5, 6 e 15). Abramo che nel Libro di Michea sembra essere insieme a Giacobbe il beneficiario delle promesse di Jahvè (7, 20) appare solo in Ezechiele (33, 24) come il primo legittimo detentore popolare della terra di Canaan. Sembra che siano stati i circoli di letterati teologici, in particolare quello cosiddetto «elohista» e la scuola deuteronomica, a introdurre l’accento che viene posto sui patriarchi nella redazione attuale. Il carattere di questi ultimi è stato quindi soggetto evidentemente a forti mutamenti connessi per l’appunto al declassamento sociale e alla smilitarizzazione dei pastori di cui si è parlato. Nell’ordine di rango delle tribù espresso dall’ordine di età dei capostipite vengono per primi Ruben, Simeone, Levi e Giuda, vere tribù semi-nomadi per natura, ma nello stesso tempo tuttavia altamente guerriere e note per la loro violenza; di queste le prime tre in seguito si sono disperse mentre Giuda dopo aver conseguito con la violenza l’egemonia si è organizzata in monarchia urbana. Queste potenti tribù di allevatori di bestiame non erano assolutamente nella posizione di meteci tollerati. Alla tradizione guerriera sono note come i signori del paese mentre le città che dipendevano da loro sono dei protettorati tributari o di liturgie, come Gabaon, o del servizio militare obbligatorio come la città di Meros nel Cantico di Debora. Ma lo stesso vale anche per la leggenda dei Patriarchi: Isacco supera in potenza gli abitanti della città di Gerar dov’egli è un meteco, con la sua crescente ricchezza e la sua numerosa clientela (Gen., 26, 14 e 16). Anche Giacobbe nella tradizione originaria è un eroe valoroso che vince un dio in una lotta notturna. Lascia come eredità privilegiata alla tribù più importante la terra che, come dice nella sua benedizione a Giuseppe {Gen., 48, 22) egli ha conquistato «con la spada e l’arco»: si tratta di Sichem, più tardi centro di Efraim. è caratteristico che secondo la tradizione pacifista recepita più tardi invece (Gen., 33, 19) egli non conquisti il pezzo di terra ma lo acquisti in maniera pacificai2. Infine nel tanto discusso XIV capitolo della Genesij2 Abramo appare come un eroe guerriero che con alcune centinaia di suoi clienti scende in campo e riprende vittoriosamente ai re alleati della Mesopotamia, compreso Hammurabi, il bottino che questi aveva conquistato in battaglia contro i re delle città cananee.
La contrapposizione tra il sentimento dell’onore guerriero e il pacifismo utilitaristico dei pastori appare molto chiaramente nelle posizioni divergenti assunte da un lato dal pacifico patriarca Giacobbe, dall’altra dai suoi figli bellicosi Simeone e Levi in occasione della violenza fatta a Dina da Sichem (Gen., 34, 3031). Evidentemente è solo nelle mutate condizioni di un’epoca posteriore che i tratti di tutt’altro tipo conservati in questi frammenti sono totalmente retrocessi dietro quell’atteggiamento pacifista che corrispondeva alle nuove circostanze del momentok2. Per la tradizione pacifista sorta o recepita in queste nuove circostanze Giacobbe è devoto proprio in quanto dimora sotto le tende, e del pari Abele è il buon pastore pacifico mentre il suo assassino Caino da un lato è il violento agricoltore sedentario i cui sacrifici senza carne sono stati disdegnati da Dio, dall’altra è il beduino condannato alla vita errante ed infine il fondatore di città: sono questi i tre avversari fondamentali degli allevatori di bestiame minuto ormai privi di potere che si trovano inseriti tra lorol2.
Tuttavia i due gruppi dei contadini e dei pastori si trovavano riuniti dalla stessa opposizione contro i beduini e contro il patriziato urbano; contro quest’ultimo si sviluppò tra di loro una comunanza di interessi. Le tavolette di Amarna come il Cantico di Debora, le frasi dedicate a Efraim nella benedizione di Giacobbe e la tradizione che riguarda Gedeone, Iefte e Samuele presentano questa situazione d’interessi in maniera diversa di volta in volta e l’epoca dei due primi re mostra ancora le conseguenze politiche di questa situazione.
Esistevano delle forti differenze nella composizione delle singole tribù. Asser e Dan sembrano essere state le prime ad inurbarsi. Efraim e le tribù di Issachar, Sebulon, Neftàli erano invece quelle che contavano probabilmente il maggior numero di contadini effettivamente sedentari. La loro indipendenza politica ed economica — cui Issachar rinunciò molto presto — era quindi minacciata soprattutto dal patriziato urbano fenicio, filisteo e cananeo. Al contrario le tribù transgiordane allevatrici di bestiame erano esposte in primo luogo alle scorribande dei beduini del deserto, i Madianiti e gli Amalekiti, i cui attacchi li costringevano a rifugiarsi nelle grotte come all’epoca di Gedeone. Delle tribù cisgiordane era soprattutto Efraim che aveva da patire di tanto in tanto sotto questi «arcieri». Le guerre delle truppe contadine di Saul erano ancora dirette per metà contro i beduini amalekiti. Solo il regno di Davide, assoggettando Edom ed assicurando così il dominio sulle vie carovaniere fino al Mar Rosso, stabilì per molto tempo la preponderanza delle popolazioni sedentarie sulle tribù del deserto. Ora tanto il patriziato urbano quanto i contadini ed i pastori erano interessati nella stessa misura a questa pacificazione del deserto. Ma per il resto vigeva un contrasto d’interessi spesso aspro. In primo luogo tra contadini e allevatori di bestiame. Vengono menzionati violenti conflitti tra le tribù israelitiche allevatrici di bestiame all’est del Giordano e gli Efraimiti. La tradizione narra in particolare di una guerra di Efraim contro il vittorioso Gedeone (Gìud., 8, i e segg.) e di un compromesso che doveva spazzar via questi contrasti. Le dislocazioni delle tribù di Machir e Manasse a est oltre il Giordano, la lotta di Efraim per l’egemonia, prima contro Galaad, poi contro Manasse, lotta che figura nella leggenda della benedizione di Giacobbe su Efraim e Manasse, come l’espansione del «fratello minore» Beniamino verso sud, e poi la lotta di Efraim, introdotta nella leggenda posteriore, contro la tribù predatoria di Beniamino, tutti questi episodi mostrano da un lato gli assalti dei contadini a quelle zone più facilmente coltivabili delle regioni montane abitate dagli allevatori di bestiame, dall’altro le rappresaglie e le razzie delle tribù allevatrici di bestiame contro i territori dei contadini. Le battaglie di Giuda contro Beniamino e, già molto prima, l’espansione territoriale di Giuda su zone precedentemente beniaminite e danite costituivano l’avanzata di questa tribù allevatrice di bestiame sorta di recente contro le antiche tribù israelitiche del nord. Questo dissidio tra contadini e allevatori di bestiame viene alla luce in tutta la più antica tradizione israelitica. E anche nell’atteggiamento politico delle tribù verso l’esterno.
Il nemico contro il quale i contadini già sedentari e soprattutto quelli delle zone montane, e i pastori semi-nomadi, perlomeno quelli della Cisgiordania, dovevano difendersi insieme, era il patriziato armato delle città nelle fertili pianure e sulle coste. In guerra i patrizi urbani cercavano di procacciarsi schiavi di ambo i sessi, prestazioni servili obbligatorie e tributi: in particolare, secondo il Cantico di Debora, i bei tessuti prodotti dall’industria domestica. Accanto a ciò, come si è già osservato prima, cercava di ottenere il controllo sulle vie carovaniere. Dal canto loro i liberi contadini e pastori della montagna, oltre al dominio su queste vie ed al profitto che comportava miravano ad assicurare la loro libertà da tributi e corvées nei confronti del patriziato urbano e cercavano possibilmente di impadronirsi loro stessi delle città, in parte per distruggerle in parte per installatisi come strato dominante. Per sua natura questo contrasto corrispondeva, nella misura in cui questi paragoni hanno un senso, alla lotta del cantone svizzero di Ur30 sulla via del Gottardo contro Zurigo, a quella dei Sanniti31 contro Roma, a quella degli Etoli32 contro la lega delle città elleniche e i re della Macedonia. Si può dire senza troppa imprecisione che erano i popoli della montagna che combattevano la pianura. Questo dissidio naturale ebbe fine solo all’epoca del regno di Giuda. Prima di allora esso domina l’intera storia della Palestina sino all’epoca cui risalgono le nostre prime notizie storiche. Già nel periodo di Amarna i nemici, Sa Gaz e Khabiru33 minacciano «dalla montagna» le città della pianura. Nella tradizione, dove si narra della lotta per il possesso di Canaan, le città che gli Israeliti non riuscirono a prendere sono quelle provviste di carri da guerra di ferro. Tutti gli eroi israeliti della cosiddetta epoca dei Giudici appartengono a schiatte di piccoli proprietari rurali che non montano cavalli ma asini, cioè le cavalcature della montagna, e la cui ricchezza e potenza vengono valutate, come abbiamo visto, secondo il numero dei membri della schiatta che cavalcano asini. La residenza di Saul era ancora un villaggio in una valle montana, e il capo dell’esercito di Davide, Joab, ignorava ancora l’uso dei cavalli e non sapendo cosa fare con quelli presi nel bottino fa sì che le pastoie li azzoppino.
Ma la misura del dissidio con le città era diversa presso i contadini e presso gli allevatori di bestiame. I principali interessati alla lotta contro il patriziato urbano erano i contadini sedentari che erano quelli maggiormente esposti al tributo di corvées. La guerra di Debora si svolge essenzialmente come una guerra di contadini. L’aver combattuto come cavalieri (gibbo- rīm) ottenendo la vittoria è il massimo titolo di gloria che nel Cantico di Debora è attribuito alla fanteria non addestrata della montagna. Rimangono invece lontano dalla battaglia da un lato le tribù transgiordane di Ruben e Galaad, che essendo allevatrici di bestiame e non contadine non vi sono interessate, dall’altro la città alleata di Meros, ma soprattutto — e ciò è caratteristico — la tribù di Asser, da molto tempo inurbata presso la casta, e del pari la tribù di Dan, installata in città su territorio sidonico. Anche contro i Filistei i contadini nord-israelitici ed i pastori delle regioni montane di Giuda hanno fatto causa comune solo piuttosto tardi, poiché i primi tempi i pastori si tenevano lontani dalla battaglia e restavano fedeli ai Filistei. Di conseguenza, alla cavalleria dei Filistei la tradizione oppone dapprima Saul, cioè il contadino beniaminita che dall’aratro è passato al trono, e solo dopo viene Davide, il suo prediletto, il pastore giudaico armato solo di una fionda; ambedue incarnano i tipici rappresentanti delle due categorie di israeliti. In realtà all’inizio Davide era senza dubbio un capo residente nelle montagne con il suo seguito, una figura consueta del tipo caulinare, oltre che un vassallo dei Filistei; si rese indipendente da questi ultimi soltanto quando diventò principe della città di Gerusalemme. La lotta di uno dei suoi guerrieri contro Golia ebbe luogo quando egli era già diventato re.
La creazione di una monarchia militare unitaria con un contingente di cavalieri combattenti su carri segnò poi la sorte della milizia dei liberi contadini e pastori d’Israele. Il dominio beniaminita rimase essenzialmente un’egemonia rurale di tribù, benché già Saul, secondo la tradizione, tenesse presso di sé un suo seguito personale composto in parte da stranieri. Ma per Saul l’animale caratteristico era ancora l’asino. Contro il regno urbano di Davide si sollevarono ripetutamente le antiche regioni contadine nord-israelitiche. In seguito sotto Salomone il potenziale bellico del re venne organizzato con carri e destrieri che questi riceveva (se la versione non è corrotta) dall’Egitto a cui era legato per matrimonio. Sorse immediatamente l’opposizione — di cui si dovrà parlare più dettagliatamente in seguito che fino all’epoca rabbinica ha reso estremamente controverso il giudizio su Salomone. Dopo la sua morte si sollevarono contro il suo regno urbano le tribù non ancora inurbate. Tuttavia passate poche generazioni queste confluirono, con la fondazione di Shomron (Samaria), in un altro regno anch’esso continuamente minacciato da usurpatori locali, e dotato dei numerosi carri da guerra della dinastia degli Omridi, menzionati nella tradizione e nelle iscrizioni assire. Le formazioni sociali che fino allora erano essenzialmente giustapposte — tribù allevatrici di bestiame, tribù contadine, città — vennero ora fuse tutte in una sotto la preponderanza politica della capitale e delle schiatte signorili ivi residenti.
Al contrario nel periodo antecedente a Salomone il vero cuore dell’antica lega si trovava da un lato nei contadini della montagna la cui preponderanza numerica era in continuo incremento e dall’altro negli allevatori di bestiame delle zone di steppa la cui importanza relativa andava lentamente diminuendo. A questi si aggiungevano alcuni borghi e cittadine situati nelle valli dei fiumi montani e lungo le strade che attraversano i passi — solo centri di secondaria importanza però — e anche, a poco a poco, delle solide città fortificate. L’aggiunta del grande territorio giudaico sotto Davide deve aver portato ad un forte incremento da un lato degli allevatori di bestiame, dall’altro della popolazione urbana. Sul piano politico e sociale questo giovò solo al potere del patriziato che ora divenne preponderante. In seno agli strati plebei continuò invece a sussistere l’antico dissidio interno tra i contadini sedentari che prevalevano al nord e gli allevatori di bestiame minuto che erano predominanti al sud, con notevoli conseguenze anche per lo sviluppo religioso, come vedremo. Solo che adesso, al posto dell’antica suddivisione di Israele in schiatte armate di piccoli proprietari terrieri o pastori da un lato, e schiatte-ospiti di residenti senza pieni diritti costituite da artigiani, giornalieri e musicisti dall’altro, si andava affermando una nuova stratificazione ben diversamente articolata: da un lato il patriziato urbano latifondista come portatore dell’addestramento guerriero cavalleresco, dall’altro gli Israeliti indebitati o completamente spogliati delle loro terre, quindi proletarizzati, e i meteci convertiti al rituale di Jahvè che costituivano ora, agli occhi dei sacerdoti, un unico strato di «poveri» contrapposto al patriziato. Non formavano uno strato socialmente o economicamente unitario, ma comprendevano tutti coloro che appartenevano alle schiatte che non erano in grado di armarsi.
7. La legislazione sociale delle raccolte giuridiche israelitiche.
Questa composizione sociale degli Israeliti, molto complessa e inoltre assai mutevole, ma con un graduale spostamento in direzione del dominio del patriziato urbano sulla campagna, si riflette in modo particolare nelle raccolte giuridiche che ci vengono tramandate dal periodo pre-esilico. Più che nel carattere formale e nel contenuto delle raccolte l’ambiente sociale si manifesta attraverso alcuni sintomi e attraverso lo «spirito» cioè la posizione assunta nei confronti dei conflitti tipici. In questi infatti si palesa l’influenza determinante del fatto che la Palestina sin dall’inizio è stata una regione attraversata da un vivace commercio, abbastanza largamente disseminata da città, fortemente esposta all’influenza di grandi zone di civiltà con un antico sviluppo economico. Il contrasto tra i contadini indebitati e i creditori urbani è esistito sin dall’inizio. Ciò appare già nell’antico compendio conosciuto sotto il nome di «Libro del Patto» (’Es., 21, 21; 22, 20) di cui ignoriamo l’età ma che certamente è antecedente al primo periodo dei Re, un’esposizione sistematica di contenuto prevalentemente giuridico, con annessi di carattere prevalentemente parenetico e relativi al costume socialem2. Anche qui come in altri passi degli ordinamenti che ci sono stati tramandati non vi è traccia di un diritto dei beduini. Né i pozzi, né il cammello o la palma da dattero appaiono come oggetti di diritto. Le cisterne, nel «Libro del Patto» (Es., 21, 33) hanno importanza solo in quanto si prevede che il bestiame possa infortunarsi cadendovi dentro. Ma appunto il diritto del Libro del Patto non è un diritto di semi-nomadi o in genere un diritto di popoli prevalentemente allevatori di bestiame. è vero che il bestiame figura frequentemente come una componente essenziale della ricchezza mobile. Ma vengono prima di tutto i bovini, e solo dopo le pecore. è certo che secondo una concezione arcaizzante era lo stesso bue che aveva incornato una persona a venir lapidato come personalmente responsabilen2. Ma è chiaro che si tratta qui del bestiame di proprietà di contadini e della protezione dei contadini contro il bestiame altrui. Viene regolato il caso di danneggiamento di campi e vigneti da parte del bestiame (22, 5) ma si suppone che il proprietario del bestiame responsabile dei danni sia un proprietario terriero del posto, non un semi-nomade. Il cavallo non compare. Ovini e pecore costituiscono il patrimonio zootecnico. Gli interessi degli agricoltori sedentari dei villaggi e della città sono quasi gli unici di cui il diritto si preoccupi. Viene trattata l’effrazione in casa altrui (22, 7) e la responsabilità del padrone di casa nei confronti del locatario (22, 8). Anche sul piano formale il diritto è tutt’altro che primitivo. Infatti la legge del taglione, che esisteva anche a Babilonia e non costituisce affatto un principio primitivo in sé, viene applicata nel Libro del Patto (21, 22 e segg.)o2 soltanto ai casi di danni fisici provocati in una pubblica rissa e non — cosa che spesso sfugge per altri tipi di lesioni corporali né tantomeno come principio fondamentale per tutti i delitti. Esiste la vendetta del sangue, ma è parallela ad un sistema di guidrigildo e di ammende già sufficientemente sviluppato, e in parte anche ad un vero e proprio diritto penale che distingue tra assassinio e omicidio preterintenzionale, tra colpa e incidente. Discretamente razionali sono anche i princìpi della ripartizione dei rischi.
Tutto ciò è indice di uno stadio sostanzialmente progredito, all’incirca come quello della lex salica34 Che si tratti di una cultura fortemente influenzata da Babilonia e che anche il diritto subisse in maniera determinante quell’influenza è un fatto che si manifesta non solo attraverso gli incontrovertibili paralleli con il Codice di Hammurabi35p2 ma soprattutto attraverso l’alto grado di sviluppo dell’economia monetariaq2. Accanto al prestito in natura (22, 14) e alla commenda di bestiame (22, 10) esiste anche il prestito in denaro (22, 25) e il deposito di denaro (22, 7). Il pagamento del guidrigildo e le ammende vanno corrisposti in denaro. Esistono il pegno, l’acquisto di schiavi e in particolare la vendita dei propri figli (21, 1 e segg.) e senza dubbio anche quella della propria personar2 in schiavitù per debiti. Anche il regolamento delle festività (23, 14 e seg.) annesso alle norme giuridiche vere e proprie come parte della parenesi corrisponde pienamente a quello di un popolo di agricoltori. La grande festa dei pastori, la Pesach (pasqua), universalmente recepita, non viene assolutamente menzionata. Figura invece soltanto la festa del pane azzimo, più tardi collegata alla Pesach: una festa contadina quindi. E anche le altre festività si riallacciano al lavoro dei campi e al raccolto.
Particolarmente caratteristico, in quanto indica lo «spirito» della raccolta, è il diritto processuale, il diritto degli schiavi e il diritto dei meteci. Queste parti del Libro della Legge ed i suoi annessi parenetici sono paragonabili più che altro alle leggi emanate sugli stessi punti dagli esimneti greci e dai decemviri romani per equilibrare le lotte tra il patriziato e la plebe; leggi simili a loro volta a quelle dei governanti mesopotamici che sotto l’influenza dei sacerdoti portarono avanti una politica del benessere. Le disposizioni più ampie in verità fanno parte della parenesi. Non bisogna accettare doni (23, 8); il diritto dei poveri (evjon) non sarà piegato a favore dell’uomo influente (23, 6) né — e questo viene prima — il diritto vigente (23, 2) dovrà esser piegato ai desideri della moltitudine. Quest’ultima ipotesi evidentemente era possibile solo se la moltitudine (rav) era costituita da una plebe che non partecipava agli uffici ma era formata da uomini liberi. Il meteco (ger) non va angariato (22, 21), né trattato in maniera ingiusta (nei processi) (23, 9). Lo shabbàth, che per i semplici allevatori di bestiame non avrebbe alcun senso economico, viene motivato espressamente come un giorno di riposo per il bestiame da tiro e da soma, per gli schiavi («figli della serva»)s2 e per i meteci (23, 12). Bisogna supporre che quando si parla di meteci qui si faccia riferimento a coloni che stanno al di fuori della compagine urbana come lavoratori dei campi. Dell’anno sabbatico, la cui formulazione odierna è un’interpolazione o un travisamento del senso primitivo, abbiamo già parlatot2.
Il più radicale però è il diritto delle obbligazioni e il diritto degli schiavi direttamente collegato a questo. Infatti lo schiavo è considerato in primo luogo schiavo per debiti, che si sia venduto egli stesso o che i suoi genitori lo abbiano venduto in situazione di bisogno (in termini romani: dato in mancipium). è vero che la limitazione parenetica del pignoramento (divieto di pignoramento dei vestiti: 22, 26) non va così lontano nella raccolta israelitica come nel Codice di Hammurabi (divieto di pignoramento del bestiame da tiro e da soma). Viceversa il divieto, contenuto nella parenesi, di recar danno ad un connazionale povero nel fargli un prestito, e quindi di prendere da lui un interesse (neshekh)u2 — divieto ricco di conseguenze, che è la fonte della distinzione tra etica interna e etica esterna nel giudaismo — è del tutto estraneo al diritto babilonese. Tale divieto discende in origine dall’antica etica di fratellanza dell’associazione di vicinato con il suo dovere di aiuto senza interesse in caso di necessità. La formulazione generica molto imprecisa esclude che tale prescrizione sia derivata dalla concreta prassi giuridica. Era un comandamento religioso e costituiva l’integrazione parenetica di quelle prescrizioni giuridiche che per la loro particolare importanza rispetto alla tendenza dell’intera raccolta si trovano alla sommità di tutte le sue norme. Vale a dire (21, 2 e seg.): 1. un servo ebraico, cioè uno schiavo per debiti, dev’essere rimesso in libertà dopo sei anni di servizio, a meno che non abbia preso moglie nella casa del suo padrone e, per conservarla, chieda di sua spontanea volontà di rimanere permanentemente al servizio di quest’ultimo, nel qual caso ciò va attestato con una cerimonia religiosa (perforazione dell’orecchio davanti all’idolo domestico). Inoltre 2. una schiava per debiti ebraica diventa libera se il suo padrone non la prende in moglie o non la dà in moglie a suo figlio, oppure, nel primo caso, se le antepone una moglie presa in seguito in fatto di cibo, vestiàrio o rapporti sessuali. Queste prescrizioni estremamente precise appartenevano senza dubbio all’antico diritto pratico. La prima disposizione citata si trova anche nel Codice di Hammurabi con un periodo ancora più breve (tre anni) nel caso che non si tratti di una vendita della propria persona ma della propria moglie o dei propri figli da parte del capofamiglia per pagare i suoi debiti. La vendita della moglie invece non figura affatto nel diritto israelitico. Inoltre, rispetto al diritto babilonese, vi è un passo avanti nelle disposizioni che mirano a proteggere la persona dello schiavo: gravi lesioni corporali da parte del padrone danno diritto alla libertà (21, 2627), l’omicidio preterintenzionale (21, 20) è motivo di punizione penale se la morte è immediata mentre negli altri casi vale il principio che il padrone ha semplicemente danneggiato il proprio capitale d’esercizio e lo schiavo è privo di diritti (21, 21). Nel Codice di Hammurabi (116) si trovano delle disposizioni protettive volte ad impedire che il creditore faccia morire lo schiavo per debiti — anche qui visto sempre come il figlio o il servo del debitore — di privazioni o maltrattamenti.
Nell’insieme questa raccolta giuridica porta l’impronta di rapporti che pur presentando delle condizioni economiche molto più anguste e limitate — circoscritte nell’ambito di piccole città — rispetto a quelle dell’antica legislazione babilonese, non sono però diversi in linea di massima da questi ultimi. Esistono delle importanti divergenze. Il pastore della legge babilonese è un impiegato del re o un servitore privato di grandi proprietari di greggi (come Giacobbe, nella leggenda, presso Labano) mentre quello del Libro del Patto è un contadino. La proprietà privata individuale della terra appare come un presupposto ovvio (22, 5) anche se per il resto non viene trattato il diritto fondiario. Il contadino a Babilonia in genere è colono, servo per debiti, schiavo, fittavolo, in particolare colono parziario di un grande proprietario terrieto che risiede in città. C’erano dei coloni anche in Palestina. Ma la legge non s’interessa a loro: sono gerīm. Al contrario il proprietario fondiario del Libro del Patto risiede in campagna, è di solito un medio proprietario che manda avanti i suoi poderi con alcuni servi, serve ed eventualmente anche schiavi per debiti o coloni privi di diritti politici. Non lascia la sua terra in mano agli amministratori, come avviene molto di frequente per il proprietario terriero babilonese, ma l’amministra personalmente. Mancano inoltre i grandi mercanti e i grandi finanziatori di Babilonia. I commercianti probabilmente erano in parte stranieri, in parte meteci; il Libro della Legge non ne fa menzione. Tutte queste condizioni differiscono probabilmente da quelle dell’epoca del Cantico di Debora, soprattutto nella misura in cui i liberi contadini sono ora diventati plebei sottoposti al patriziato urbano in via di sviluppo. Senza dubbio la necessità di questa codificazione nasce proprio dai dissidi suscitati in Israele da questo mutamento. Le condizioni delle tribù transgiordane e meridionali che forse all’epoca di questa raccolta giuridica non erano ancora contate come facenti parte di Israele rimangono totalmente al di fuori di ogni considerazione. La raccolta giuridica potrebbe benissimo essere sorta in territorio efraimitico, forse a Sichem. Il termine nasi, per designare il principe, che è proibito oltraggiare (22, 27) — l’unica parenesi politica — si adatta a questa ipotesi come pure l’uso di «Elòhim» per la divinità, tenendo conto di tutte le condizioni sussistenti più o meno nel periodo che coincide con l’inizio della monarchia.
Un mutamento tutt’altro che secondario di queste condizioni appare come il necessario presupposto di quel rifacimento del Libro del Patto che risale al periodo in cui il regno di Giuda in realtà coincideva già quasi con la polis di Gerusalemme insieme alle piccole città e villaggi che da essa dipendevano politicamente. Questo rifacimento è inserito nel «trattato» deuteronomico (in particolare 12-26). In che misura questa raccolta, composta perlomeno da due parti distinte (12-19 e 20-25), sia appartenuta sin dall’inizio al presunto «Sefer ha-Torah» mosaico, «scoperto» dai sacerdoti sotto Giosia (621) poi imposto dal re, su loro suggerimento, come vincolante, è una questione che qui può restare sospesav2. Interpretazioni ed emendamenti menti del diritto pratico vigente, didascalismo teologico e utopismo etico sono correlati tra di loro in queste leggi come nella maggior parte delle raccolte analoghe d’Israele che ci sono tramandate. Ma tuttavia il rapporto di un diritto vivo con l’ambiente circostante reale è più sensibile che nelle posteriori raccolte, puramente sacerdotali, del periodo esilico. Sia nei primi tempi che in seguito il possesso di bestiame (bovini e pecore) ha un ruolo fondamentale mentre né i cammelli né i cavalli — questi ultimi visti perlopiù unicamente come cavalli da guerra del re vengono menzionati come oggetto di scambio tra privati. è vero che la ricchezza si identifica innanzitutto con la sovrabbondanza di cereali, mosto, olio, fichi, melegrane, miele, bestiame (Deut., 7, 13; 8, 8) ma anche (8,13) con quella d’argento e d’oro. Le miniere del paese vengono indicate come uno dei suoi pregi (8, 9). I pozzi hanno indubbiamente molta importanza nelle montagne di Giuda (6, 11) ma la più importante differenza rispetto all’Egitto, importante anche per il rapporto con il Dio, viene individuata nel fatto che in Egitto bisognava seminare la terra e poi inaffiarla a mano «come un orto» (11,10) mentre sulle montagne e nelle verdi vallate della Palestina la pioggia mandata da Dio fornisce il raccolto (11, 11). L’accresciuta importanza della proprietà fondiaria è messa in luce dalla maledizione giurata contro lo spostamento dei confini (27, 11; cfr. 19, 14); l’indebolimento tanto dell’antica posizione patriarcale del capofamiglia quanto dell’antica compattezza e della responsabilità solidale delle schiatte verso l’esterno si manifesta da un lato nel divieto di ledere l’eredità privilegiata del figlio maggiore (21, 16) e dall’altro nell’eliminazione della responsabilità penale dei membri della famiglia l’uno per l’altro (24, 16). In questo punto il Libro della Legge è abbastanza moderno; del resto questa stessa prassi viene già attribuita dalla tradizione (senz’altro deuteronomica) a re Amatsia (II Re, 14, 6). La vendetta del sangue si trova tanto prima che dopo (19, 6), ma il diritto processuale, ivi compreso il diritto testimoniale, è stato razionalizzato ad un livello piuttosto avanzato, in particolare con la norma della duplice prova testimoniale.
L’imperativo etico della fratellanza che viene trattato ripetutamente nel Libro del Patto e nelle esortazioni parenetiche annesse, in passi abbastanza generali (che sono proprio quelli più sospetti di essere frutto di un’interpolazione), è stato oggetto di ulteriori sviluppi sotto forma di ampie disposizioni a carattere sociale destinate alla protezione delle vedove, degli orfani, dei servi, dei lavoratori, dei meteci e degli ammalati. Se ne parlerà più avanti in un altro contesto. La maledizione contro i giudici che accettano doni (27, 25), contro coloro che fanno violenza alla legge a danno delle categorie bisognose di protezione che abbiamo citato (27, 19), e il divieto di ogni forma di oppressione di queste stesse persone (24, 17) si trovano accanto alla maledizione contro lo sviamento dei ciechi (27, 18) e il ribadimento del comando più antico di riportare al proprio vicino il suo bestiame smarrito (22, 1 e 3). è vietato in assoluto prendere pegni dalle vedove (24, 17) mentre vi sono precise limitazioni al pignoramento dei beni dei poveri (24, 10 e 12). è proibito maltrattare il servo (23, 17) e — secondo una disposizione molto ampia — riconsegnare il servitore fuggitivo al suo padrone (23, 16). Al lavoratore, anche al meteco che presta la sua opera, il salario va corrisposto il giorno stesso (24, 15-16). Tutte queste disposizioni mettono in luce l’importanza crescente del libero salariato giornaliero. Lo shabbàth vale sempre come giorno di riposo (5, 14) nell’interesse dei contadini stessi. è vero, si dice, che ci saranno sempre dei poveri tra il popolo (15, 11), ma non ci dovranno essere, propriamente parlando, dei mendicanti israeliti (15, 14): su questo principio si basano le norme sociali, quasi tutte caratterizzate da un grado di precisione abbastanza limitato. è chiara quindi la loro origine che sta nella parenesi religiosa e non nel diritto vigente.
Nella raccolta non figura, come si è già osservato prima, l’anno del maggese: ciò costituisce un fortissimo indizio circa la sua posteriore interpolazione nel Libro del Patto sul quale per il resto si basa il Deuteronomio. Viene invece citata, proprio nell’interesse delle vedove, degli orfani e dei meteci, la spigolatura nei campi, nei vigneti e negli uliveti (24, 19 e seg.) ed è permesso sfamarsi con i frutti del campo e del vigneto altrui (23, 25-26). Si tratta nei due casi di residui dell’antico diritto di vicinato tra proprietari fondiari e tributari di lavoro servile; forse anche di un riflesso dei rapporti usuali tra contadini insediati stabilmente e allevatori di bestiame minuto senza residenza fìssa.
Da quanto precede si vede già come il diritto dei pegni e delle obbligazioni costituisca la sfera propria anche di questo diritto sociale e in misura ancora più ampia che nel Libro del Patto. Invece dell’anno di maggese per i campi nel Deuteronomio troviamo un radicale diritto delle obbligazioni ancora sconosciuto al Libro del Patto. Oltre alla ripetuta ingiunzione della norma già nota anche al Libro del Patto che limita a sei anni il periodo di servitù di un debitore ebraico (15, 12), il Deuteronomio stabilisce anche il dovere di fornire al servo per debiti che viene congedato un viatico sotto forma di prodotti naturali, in quanto egli ha prodotto «plusvalore» con il suo lavoro. Soprattutto però statuisce l’annullamento di tutti i debiti — di un connazionale, non di uno straniero — nell’«anno della remissione» (shenath shemitta, più precisamente shemitta kesafīm). Mentre però, per quanto riguarda l’anno sabbatico (shemitta karka’oth) esistono nell’epoca tardo-israelitica delle prove sicure della sua effettiva applicazione, per la disposizione sull’anno delle remissioni è stata trovata molto presto, e definitivamente con Hillel36, una forma (il cosiddetto prosbul) che permetteva di togliere efficacia contrattualmente alla disposizione dell’anno della remissione, e ciò malgrado le energiche minacce della legge contro tutte le elusioni e malgrado le clausole del patto giurato sotto Neemia (.Neem., 10, 32). Non si trova in nessun luogo una traccia sicura dell’applicazione di tale disposizione. Era di origine parenetica e rimase utopistica.
Ma anche il rilascio degli schiavi per debiti, che non era un precetto parenetico bensì una disposizione di legge nota al Libro del Patto come al diritto babilonese, non viene osservato nemmeno sotto Sedekia e questo pur essendo stata presa, nella crisi politica del momento {Ger., 34, 8 e seg.), una decisione particolarmente solenne (berith) che stabiliva l’osservanza di questa legge (e la sua violazione diede adito alle più violente minacce di disgrazie da parte di Geremia). Rimane anche dubbia l’eventuale portata che le prescrizioni del diritto delle obbligazioni, in particolare quella dell’anno della remissione possono aver avuto origine: sembra abbastanza probabile che alla base vi fosse una disposizione occasionale riguardante l’esonero dai debiti, e che questo poi sia stata istituzionalizzata dai redattori teologici e collegata al concetto del Sabato che aveva acquistato un’importanza sempre maggiore all’epoca dell’esilio. Infatti si trattava in pratica di una «seisachtheia»37 come la conosciamo nelle antiche città mediterranee e come viene presentata anche dalla deliberazione solenne avutasi sotto Sedekia.
Man mano che con il commercio cresceva l’accumulazione di patrimoni monetari, si creava un tipico antagonismo di classe tra il patriziato urbano e la popolazione contadina. Lo prova con particolare chiarezza, nel Deuteronomio, la celebre promessa (15, 6) che si riallaccia immediatamente all’imperativo dell’anno della remissione: «farai prestito a molte nazioni e non prenderai in prestito da nessuna» con l’analoga sentenza: «dominerai molte nazioni, ma esse non ti domineranno». Che lo stesso anno generale delle remissioni ogni sette anni come pure quest’ultimo passo ad esso collegato siano il frutto di un’interpolazione teologica del periodo dell’esilio appare estremamente probabile data l’esistenza di un doppione nella redazione attuale. Dopo la ripetizione della promessa (28, 12) viene pronunciata qui la minaccia, perfettamente simmetrica (28, 43-44), di ciò che avverrà nel caso di defezione di Jahvè: «Il ger che è in mezzo a te sarà innalzato sopra di te e ti sarà superiore, mentre tu sarai abbassato e sarai sempre inferiore, egli ti darà in prestito e tu prenderai in prestito da lui, sarà la testa e tu sarai la coda». Sono gli stessi avvertimenti di cui il senso si ritrova nei Profeti.
Questi passi, evidentemente pre-esilici — dato il tipo di menzione fatta dal ger — confermano tuttavia nello stesso tempo, nel più chiaro dei modi, che alla base esisteva un antagonismo di classe. L’usura sul denaro e sui pegni esercitata nel Medioevo e nell’èra moderna dagli Ebrei — questa caricatura in cui si è realizzata la promessa — non corrisponde davvero a quello che era il suo significato come promessa di salvezza. Questa invece voleva dire che Israele, residente a Gerusalemme, sarebbe stato il patriziato del mondo, mentre gli altri popoli sarebbero stati fuori dalle porte nella situazione di contadini politicamente sottomessi e indebitati: nello stesso identico rapporto tra cittadini e campagna che ritroviamo in ogni tipica polis di tutta l’antichità più remota, a partire dal periodo sumerico-accadico. Ancora nel periodo talmudico si trova quindi il presupposto di quella situazione che è tipica anche per tutta l’antichità: il contadino indebitato, che ha dovuto cedere al creditore la sua proprietà ereditaria, risiede come colono, sul podere che prima gli apparteneva. Ma tale non deve essere il rapporto tra i fratelli delle tribù israelitiche; è questo il senso del diritto sociale delle obbligazioni e della corrispondente parenesi. Che il mercante in origine fosse sempre (e spesso anche più tardi) un meteco, lo mostra il modo in cui il ger compare nella minaccia deuteronomica di sciagura. Tuttavia lo sviluppo dell’inurbamento presso gli Israeliti stessi aveva già avuto effetti così profondi che adesso la situazione di classe del patriziato urbano appariva come la sua naturale promessa del futurow2. Mercanti israeliti residenti all’estero (a Damasco) vengono menzionati per la prima volta nel patto di Achab con Benhadad (I Re, 20, 34). Nelle città israelitiche naturalmente esistevano già da molto tempo. Ancora oggi il commercio dei cereali in Palestina costituisce la fonte di una pesante usura esercitata nei confronti dei fellah.
Che il Deuteronomio si riferisca a condizioni prettamente urbane lo mostrano anche gli altri contenuti della legge. Tra questi le disposizioni sulla sicurezza dei tetti delle case da assicurare mediante un parapetto affinché nessuno cada (22, 8), le città-asilo per gli autori di omicidi involontari (19, 3), i tribunali «dentro le porte» (16, 18), la norma del giusto peso e della giusta misura (25, 14-15). Non si deve vessare con l’usura il fratello povero (23, 20) ma dargli in prestito con premura (15, 8): in ciò si ravvisa un elemento dell’antico imperativo sull’aiuto in caso di necessità, tipico dell’etica del vicinato. Questo fratello povero però appare sempre qui come un uomo di città (15, 7), cioè senza dubbio un israelita residente in una circoscrizione urbana (considerata adesso come la naturale unità politica), e di regola un piccolo contadino.
Se è possibile che le attuali norme giuridiche del Deuteronomio risalgano al periodo pre-esilico della monarchia urbana, è certo tuttavia che esse sono state rielaborate dai teologi durante l’esilio. Lo stesso vale presumibilmente per la cosiddetta «legge di Santità»x2 con la sola differenza che la parte di lavoro dei teologi dell’esilio è notevolmente maggiore. Le prescrizioni sociali contenute in questa raccolta — come pure nel cosiddetto «Codice Sacerdotale»y2, sorto interamente nel periodo dell’esilio, che ha fornito il grosso del materiale oggi contenuto nel terzo e nel quarto Libro di Mosè, e in parte nel secondo — presentano dei problemi per quanto riguarda la loro età, e la loro effettiva validità. L’elaborazione teologica le ha create, ricollegandosi a reminiscenze del passato, per un «popolo sacro a Jahvè», un popolo di «meteci di Jahvè» sulla terra sacra che a Jahvè appartiene ed alla quale spera di essere da lui ricondotto. Incontriamo anzitutto, accanto al divieto dell’usura e alla disposizione sull’anno sabbatico che qui viene presumibilmente riportato per la prima volta nella sua forma attuale per essere poi interpolato nel Libro del Patto, un ulteriore mutamento nelle norme sull’arresto per debiti. Un israelita arrestato per debiti non va trattato come uno schiavo (Lev., 25, 39 e 46) ma come un libero giornaliero salariato per il quale viene ribadita la disposizione del Deuteronomio circa il pagamento del salario (19, 13). Un israelita può possedere come schiavi solo dei gentili o dei meteci (Lev., 25, 42). Se un israelita si è trovato costretto a vendersi ad un meteco, la sua schiatta (e lui stesso) deve avere la facoltà di riscatto in qualsiasi momento (25, 48). Comunque tutti gli Israeliti detenuti per debiti devono essere rimessi in libertà nel cosiddetto anno del giubileo che ricorre ogni sette volte sette anni. Inoltre in questo anno di liberazione, da proclamarsi con squilli di tromba, anche ogni pezzo di terra che sia stato venduto — è sottinteso, come cosa ovvia: per motivi di necessità (cfr. Lev., 25, 25) — ritorna di nuovo al venditore senza corrispettivo alcuno (25, 13 e seg.) nel caso che il fratello di schiatta più vicino non l’abbia già svincolato (25, 25), come ha diritto di fare in ogni momento. Infatti un’alienazione perpetua di terra non può essere permessa, essendo la terra proprietà di Dio mentre gli Israeliti su di essa sono solo i meteci di Dio: ciò dimostra anche che una delle caratteristiche dei meteci era l’assenza del diritto alla proprietà della terra. Solo le case situate all’interno di una città circondata da mura possono essere alienate in perpetuo e sono riscattabili solo entro il termine di un anno (25, 29). Un’ampia casistica regola le annualità da mettere in conto fino all’anno del giubileo.
È accertato che l’anno del giubileo in sé è una costruzione teologica del periodo esilico che non ha mai avuto applicazione pratica, e il tipo di motivazioni che sostengono le altre prescrizioni lasciano presumere che ciò valga anche per loro. Ci si chiede tuttavia se malgrado tutto non siano esistiti dei punti di collegamento con il diritto vigente. In primo luogo il racconto della liberazione degli schiavi sotto Sedekia (Ger., 34, 8 e seg.), collegato alla profezia del Tritoisaia (61, 2) su un «anno di grazia (shenath razotì) di Jahvè» fa capire che la proclamazione pubblica di un «anno di liberazione» di tutti gli schiavi per debiti evidentemente non ha avuto luogo solo come un caso isolato sotto Sedekia ma era un fatto tipico che presumibilmente si verificava in tempo di guerra quando c’era bisogno di tutti gli uomini atti alle armi e di cui esisteva il corrispondente anche presso gli Elleni. Ma anche nella norma sul ritorno del diritto di proprietà alla schiatta poteva esserci una reminiscenza del diritto antico. Infatti è sorprendente che nelle raccolte giuridiche si parli di acquisto e di vendita di fondi e di terre solo in quei passi, mentre sia il Libro del Patto che il Deuteronomio non ne fanno menzione. Ci si chiede quindi se e con quali presupposti un’alienazione perpetua della terra era permessa nell’antico Israele. Nel diritto babilonese l’antico diritto di riscatto della schiatta è stato superato solo gradualmente. Dall’oracolo di Geremia impariamo che nei casi in cui vi era intenzione di alienare un fondo di terra ereditario, era prescritto, perlomeno dalla consuetudine, un diritto di prelazione a favore di un membro della schiatta e che l’acquisto del campo costituiva, per l’avente diritto, un dovere di convenienza che non veniva volentieri declinato per timore che la terra cadesse in mano a stranieri. «Il cielo mi guardi dal vendere il mio podere ereditario» ripete nella tradizione anche Naboth al re Achab che si offre di acquistarglielo. Ciò mostra che all’epoca di questa redazione della storia l’alienazione senza consultare la schiatta era legalmente possibile — come provano del resto i numerosi passi dei Profeti che polemizzano contro l’accumulazione di terra da parte dei ricchi — ma che per la terra ereditaria il costume la considerava riprovevole.
Il Codice Sacerdotale è anche, a prescindere da un passo già citato del Deuteronomio, l’unica fonte giuridica che parla del diritto ereditario sulla terra. è vero che questo aveva un ruolo indiretto nell’antica istituzione del cosiddetto matrimonio del levirato. Infatti il diritto e il dovere di sposare la vedova priva di figli del proprio fratello, onde «risvegliare il suo seme», comportava il diritto e il dovere all’assunzione di una proprietà fondiaria che nel caso di rifiuto da parte del candidato più prossimo passava a quello tra i meno vicini che si assumeva il dovere del matrimonio. O piuttosto, secondo la concezione della tradizione (Ruth, 4, 1 e seg.), le cose procedevano in maniera opposta: il membro della schiatta che voleva prendere la terra del defunto rimasto senza progenie doveva sposarne la vedova. Dall’insieme della tradizione risulta che, perlomeno all’epoca della redazione della leggenda dei Patriarchi, era usuale che il capofamiglia, prima della sua morte o quando si ritirava sulla proprietà riservata alla vecchiaia (come viene menzionata nel Siracide), regolava in maniera abbastanza libera la divisione della sua proprietà tra i figli e insieme evidentemente conferiva vigore alle sue disposizioni accompagnandole con solenni benedizioni e maledizioni. Va da sé che, come tutte le società militari dell’antichità, soltanto i figli maschi venivano presi in considerazione come eredi della terra. Come abbiamo già visto, il Deuteronomio cercava di proteggere il figlio maggiore da eventuali lesioni della quota privilegiata; era facile infatti che il padre, sotto l’influenza di una favorita, trattasse i figli ingiustamente, come avviene nei racconti egiziani. Il Codice Sacerdotale stabilì ancora ulteriori vincoli. Esso statuiva infatti la capacità successoria delle figlie per i possessi terrieri dopo i figli maschi (Num., 27, 8-10) e insieme disponeva che le femmine cui andava tale eredità potessero sposarsi solo in seno alla tribù affinché la terra non uscisse dalla tribù stessa. Le stesse fanciulle, a favore delle quali, secondo la leggenda, Mosè emana questa disposizione, sposano poi dei cugini, cioè dei membri della propria schiatta. Tribù e schiatta non erano sempre rigorosamente distinte ed è ovvio supporre che in questo caso ciò che s’intendeva era la schiatta e non la tribù. Infatti, come abbiamo visto, sembra che perlomeno secondo il diritto antico, il membro di un’altra tribù sia stato generalmente considerato ger e quindi incapace di acquistare una proprietà terrieraz2.
È comunque possibile che al di là degli antichi vincoli della schiatta anche altre forze abbiano concorso alla strutturazione della proprietà fondiaria e che queste disposizioni ne costituiscano i residui che possiamo vederea3 Vediamo come nelle città elleniche il «kleros» era vincolato in parte alle esigenze della schiatta, in parte alle limitazioni a carattere militare poste alle alienazioni. L’antico diritto ellenico sulla capacità ereditaria delle donne derivava anche, se non esclusivamente, da interessi militari. Ma al termine ellenico «kleros» corrispondeva, come nota a ragione Ed. Meyer, il termine israelitico per designare le parcelle di terreno, «chelek», che ha anche il significato accessorio di «porzione di bottino» e la cui origine non ha quindi attinenza al comuniSmo agrario o alla schiatta bensì alla terminologia militareb3: infatti dovunque la potenza dell’esercito riposava sull’auto-equipaggiamento dei liberi proprietari fondiari, la proprietà fondiaria era funzione dell’attitudine alle armi. Del pari, il desiderio di mantenere il «nome» della schiatta in Israele, su cui si fonda il matrimonio del levirato e le istituzioni analoghe, è basato, oltre che sulle motivazioni religiose di cui si parlerà più avanti, anche su motivazioni militari; la tavola genealogica delle schiatte economicamente atte alle armi costituiva la base della leva militare. Dal Cantico di Debora sembra si possa dedurre che l’effettivo delle forze armate della lega (40.000) era fissato in cifre tonde di migliaia — il che corrisponde al ruolo assunto più tardi dal migliaio come unità normale dei contingenti —; mentre dalle notizie sulla chiamata alle armi contro la tribù di Beniamino risulta che la leva di questo effettivo regolamentare si faceva per quote: in questo caso, per esempio (Giud., 20, 10), di uno su dieci. Poiché le migliaia erano senza dubbio ripartite in maniera fissa tra i singoli membri della lega, è chiaro che la tribù tenuta a fornire un determinato contingente, accanto all’interesse per il suo stesso potenziale militare, aveva anche un interesse al mantenimento dei lotti ereditari dei suoi guerrieri determinato da questa forma organizzativa dell’esercito della lega. è possibile comunque che la tribù facesse ricorso a provvedimenti analoghi a quelli delle città elleniche per le quali com’è noto non è facile determinare, tra i vincoli imposti al «kleros» di cui ci sono tramandati i residui, quali scaturivano dall’antico diritto gentilizio e quali invece dagli interessi dell’organizzazione militare.
È possibile quindi che le diverse istituzioni di cui troviamo nelle fonti i residui in parte rudimentali, in parte deformati dalla visione teologica, che vanno dalle disposizioni per noi del tutto irriconoscibili sull’anno sabbatico e la «seisachteia», fino al levirato e al diritto successorio femminile, alla quota privilegiata del figlio maggiore (come per l’erede del «, kleros») e ai residui del diritto di riscatto della schiatta sui beni ereditari, abbiano una delle loro fonti in questi interventi determinati da motivi militari. In questo contesto s’inserirebbe allora anche l’usanza per la quale, come mostra la storia di Abramo (Gen., 15, 2-3), in mancanza di eredi naturali era il servitore-capo che subentrava nell’eredità (in questo caso addirittura uno schiavo comperato, originario di Damasco): secondo la concezione che abbiamo esposto ciò che contava era che ci fosse un erede per il «kjeros», non chi fosse. D’altra parte, chi si è impoverito, cioè chi ha dovuto cedere per necessità la sua proprietà fondiaria, perde la qualità d’israelita con pieni diritti e — secondo la legge di Santità (Lev., 25, 35) — viene considerato come ger. Tutte queste diverse istituzioni tendevano ad impedire che una schiatta appartenente allo strato di quelli pienamente atti alle armi sul piano economico sprofondasse nella massa di tutti coloro che non erano in grado di far fronte ai costi dell’equipaggiamento (in termini romani: i «proletarii», «discendenti») o addirittura di quelli totalmente privi di proprietà fondiaria (gerīm). Più tardi, quando parleremo del nazireato, discuteremo ancora alcune altre ipotesi collegate a tali possibilità.
Nondimeno tutto ciò rimane incerto. E in ogni caso è difficile che abbia avuto validità universale. Questo già per il semplice fatto che l’organizzazione militare della lega, già menzionata, quale appare nel Cantico di Debora e nella letteratura storica che riguarda Israele del Nord, non deve necessariamente portare incondizionatamente a simili istituzioni. Infatti la fornitura del contingente era presumibilmente un affare interno delle singole tribù che potevano quindi procedere anche in diverse maniere.
Nell’insieme la successione di queste raccolte giuridiche dà l’impressione di una crescente ieologizzazione del dirittoc3. Prima di esaminare più dettagliatamente le fonti e le caratteristiche di questo processo, dobbiamo vedere quali sono state 1? forme esteriori in cui si è realizzata questa teocratizzazione dell’ordinamento sociale israelitico e quali forze l’hanno assecondata. Un tratto particolare dell’ordinamento sociale israelitico si manifesta già nel nome del più antico libro della legge: Sefer ha-berith, «Libro del Patto». L’importante concetto di «berilli» è quello che adesso ci interessad3.
8. Il «berith»
Una «lega giurata» di avversari del dominio egiziano viene già menzionata nelle lettere di Amarnae3. Anche il termine «Khabiru», impiegato dalle tavolette di Amarna per designare i nemici del governatore egiziano, e che si è voluto identificare con il termine ’ivri (Ebrei), è stato talvolta avvicinato, di recente, tenuto conto di certe difficoltà linguistiche, al termine ebraico «chavèr», «compagno», che in epoca post-esilica designa il giudeo in senso pieno, ritualmente corretto (come «chever», «consociazione», sulle monete dei Maccabeif3 indica la comunità ebraica in senso pieno) e che anche nella tradizione più antica viene impiegato occasionalmente (p. es. Giud., 20, 11) per i membri dell’esercito della lega (ad esempio, loc. cit., nella guerra santa per un delitto contro la religione)g3. è vero che la derivazione di Khabiru da questo termine rimane del tutto improbabileh3.
Che la storia di Israele sia attraversata dai più diversi affratellamenti posti sotto la protezione divina non costituirebbe di per sé un fenomeno particolare. Nell’antichità ogni alleanza politica, ma anche quasi ogni accordo di diritto privato, soleva essere confermato tramite giuramento, sotto forma di automaledizioni. In questo caso però l’aspetto caratteristico sta innanzitutto nell’estensione oltremodo ampia del «berith» religioso che appare come la base autentica (o artificiosa) dei più diversi rapporti giuridici e morali. Soprattutto Israele stesso, come comunità politica, era una confederazione. Un israelita perciò, anche se membro di un’altra tribù e quindi nella posizione di ger rispetto a coloro che apostrofava, chiamava gli altri Israeliti «fratelli» (achīm), più o meno come ogni oratore svizzero, nelle occasioni ufficiali, deve rivolgersi ai compaesani svizzeri chiamandoli «confederati». E la tradizione ufficiale, come da un lato fa di Davide un monarca legittimo tramite un berith, così dall’altro presenta anche gli Anziani delle tribù del Nord che trattano con suo nipote Roboamo per il riconoscimento di quest’ultimo sotto forma di capitolato elettivo. Ma anche la concessione della cittadinanza a schiatte di allevatori di bestiame in una città cananea o viceversa l’aggregazione per esempio dei Gabaoniti come comunità tributaria di lavoro servile ad Israele avveniva sempre attraverso un giuramento di fratellanza chiamatoberith. Tutti i gerìm, anche i patriarchi, si trovano nella loro posizione giuridica tramite un berithi3. Nella tradizione il giuramento di fratellanza è accompagnato ritualmente dall’instaurazione della commensalità tra gli interessati (Gen., 26, 30; cfr. Gios., 9, 14). La raccolta giuridica pubblicata da Mosè per incarico divino (Es., 24, 7) viene chiamata «Libro del Patto» (Sefer ha-berith)j3 e del pari anche quei precetti religiosi che per ordine divino egli scrive su due tavole (Es., 34, 28) si chiamano «parole del Patto» (divre ha-berith). Parimenti il Sefer ha-Torah, il «Libro della Dottrina» deuteronomico, forma sotto cui appare per la prima volta (II Re, 22), viene chiamato nell’annessa relazione che narra della sua presentazione come legge sotto Giosia (II Re, 23, 2) «Libro del Patto», ed il suo contenuto «parole del Patto». Nel libro di Giosuè è conservata una tradizione secondo cui Giosuè, dopo la conquista completa del paese, avrebbe concluso un patto (berith) con il popolo e steso per iscritto il suo contenuto nel «Libro della Torah di Dio». Non si riesce ad accertare a quale delle diverse raccolte giuridiche si riferisse il relatore.
D’altra parte si è tramandata (Giud., 9, 4) l’esistenza a Sichem, all’epoca di Abimelech, della «casa» di un «Ba’al del patto» (Ba‘al-berith) il cui tesoro del tempio veniva utilizzato anche come tesoro della città. E nella tradizione deuteronomica (in particolare: Deut., 27, 14 e seg.)k3 figura una solenne cerimonia, presumibilmente celebrata per la prima volta al momento della conquista del paese e, secondo la raffigurazione posteriore, in presenza dei rappresentanti di sei tribù che stavano sul monte Gherizim, e di sei altre sul monte Ebal (tra i due si trovava Sichem). Dalle varianti (quattro o cinque) del racconto risulta il quadro seguente. In direzione del monte Gherizim, o su di esso, viene pronunciata dai sacerdoti una solenne benedizione per coloro che osservano le leggi sacre, in direzione del monte Ebal, o su di esso, una solenne maledizione contro coloro che le infrangano. Viene poi riferito (Deut., 27, 2 e seg.) che questi comandamenti sono scritti su pietre intonacate (il che dimostra che comunque non si usava già più la scrittura cuneiforme; per il resto però la loro età rimane problematica).
Nella tradizione si fa riferimento a questa cerimonia anche in vari altri passi (Deut., n, 26 e seg.; Gios., 8, 30 e seg.; 23, 1 e seg.). Di fatto, malgrado la tarda tradizione (quella deuteronomica) tale cerimonia dev’essere certamente già esistita in tempi più remoti, in forma uguale o simile a quella descritta; infatti i luoghi di culto situati sui monti di cui si parla dovevano piacere decisamente poco ai compilatori di questa versione, soprattutto poiché in questi luoghi, secondo la tradizione, si ergevano cippi monumentali (un uso rigettato dai puritani) e gli antichi terebinti oracolari (altrettanto sospetti), giacevano le ossa di Giuseppe (culto del sepolcro) ed erano perfino sepolte (secondo un rito apparentemente babilonese) delle effigi di divinità. La formula delle maledizioni tramandata (Deut., 27, 15 e seg.), il cosiddetto «decalogo sessuale», comprende dodici peccati determinati: idolatria, bestemmia contro i genitori, spostamento dei confini, inganno del cieco, travisamento della legge a danno dei meteci, delle vedove, degli orfani, peccati sessuali (incesto e bestialità), assassinio (uccisione perpetrata di nascosto), corruzione del giudice. Anche se l’epoca cui risale rimane incerta, appare molto probabile, data la sua connessione con i precetti del Libro del Patto, che «Ba‘al del patto» era quel dio funzionale che, sulla base delle maledizioni che evidentemente venivano ripetute regolarmente, proteggeva questi ordinamenti che il popolo si era solennemente impostol3. Tuttavia secondo una tradizione, in realtà molto deformata, il suo culto sarebbe stato introdotto a Sichem in coincidenza con un contrasto, seguito da un accordo, tra Gedeone e le tribù transgiordane da un lato, ed Efraim dall’altro, durante la guerra contro i Madianiti (Giud., 8, x e 33); il Ba’al del patto doveva essere quindi il garante di uno di quegli accordi sotto forma di patto tramite i quali Israele era stato di recente fondato.
9. La lega di Jahvè e i suoi organi
Vediamo ora come anche in epoca storica la politica interna di Israele si muove nella ripetizione continua di patti conclusi ritualmente. L’instaurazione dell’autentico culto di Jahvè a Gerusalemme sotto Joas e più tardi l’adozione della legge deuteronomica sotto Giosia avvengono, secondo la tradizione, tramite berithm3, proprio come la solenne deliberazione, sotto Sedekia, di lasciar liberi gli schiavi per debiti conformemente alla legge (Ger., 34, 8 e seg.) e poi ancora la solenne assunzione dell’ordinamento della comunità sotto Neemia, nel corso della quale, come per ogni cerimonia di giuramento, viene formulato un certo numero di norme particolarmente importanti poi solennemente sottoscritte con l’apposizione dei sigilli dai capi sinecizzati delle varie casate, conformemente alla prassi di attestazione documentaria entrata nel frattempo nell’uso generale (Neemia, io). Ma il fatto più importante per il nostro contesto era un altro e cioè: proprio i casi più antichi, preesilici, di tali berith creatori di diritto, stipulati dall’antico popolo di Israele sono per questo popolo, in netto contrasto con i patti stipulati tra singoli o con i meteci, non dei meri contratti e affratellamenti reciproci tra le parti interessate, che vengono posti sotto la protezione di Dio come testimone e vendicatore in caso di spergiuro. Sono considerati, proprio da quell’antica concezione che ha i suoi maggiori sostenitori tra i cosiddetti «j ahvisti», come dei patti conclusi con il Dio stesso il quale, di conseguenza, vendicando l’infrazione del patto, sostiene i propri diritti contrattuali lesi e non solo le rivendicazioni affidate alla sua difesa dalla parte rimasta fedele al contratton3. Quest’importantissima concezione ha influenzato molto fortemente la religiosità israelitica. è con l’infrazione della fede contrattuale promessa solennemente con giuramento a lui personalmente, come parte in causa, che Dio motiva nei confronti dei profeti le sue terribili catastrofi, come d’altra parte anche a lui vengono ricordati (in primo luogo da Michea, 7, 20) gli impegni solenni che ha preso con gli avi tramite giuramento. Già tutto il rapporto dei leggendari antenati di Israele con Dio si era realizzata sin dall’inizio, secondo la concezione posteriore determinata dai sacerdoti dell’esilio, nella conclusione di patti sempre nuovi: nel patto con Noè, in quello con Abramo, con Isacco, con Giacobbe ed infine nel patto del Sinai. è vero che nel frattempo la concezione antropomorfica di un patto bilaterale era venuta attenuandosi, con il mutato concetto di Dio, in quella di una disposizione divina garantita solo da una particolare promessa, ma tuttavia anche la speranza per il futuro di Geremia si riduce in definitiva nello sperare che in avvenire Jahvè concluderà un’altra volta un patto con il suo popolo, ma con condizioni più favorevoli di quelle dei padri. Ora, da che cosa deriva il carattere particolare della concezione israelitica? Alcune circostanze politiche generali ed un particolare avvenimento storicoreligioso concorrono a determinarne la nascita.
L’importanza del concetto di «patto» per Israele in sé si fonda sul fatto che l’antico sistema sociale di Israele riposava in misura considerevole su un rapporto durevole regolato per contratto tra le schiatte guerriere proprietarie della terra e le tribù-ospiti con status di meteci giuridicamente protetti: pastori nomadi e artigiani ospiti, mercanti e sacerdoti. Tutto un complesso di tali affratellamenti dominava, come abbiamo visto, la struttura economica e sociale. Ma l’assurgere del patto con il dio Jahvè stesso a concetto fondamentale per il giudizio che Israele dava di sé e delle propria posizione tra i popoli è un fenomeno collegato ad altre circostanze oltre a questa.
Più su si è parlato della particolare precarietà, fondata sulle condizioni di vita, di tutte le formazioni politiche presso i beduini e gli allevatori di bestiame. Si è vista la tendenza di tutte queste organizzazioni tribali ora a frantumarsi in schiatte, ora a coagularsi nuovamente altrove. Gli esempi d’altra parte sono offerti dalle tribù di Ruben, Simeone, Levi e Machir da un lato, di Giuda dall’altro. Ora un contrasto sorprendente con questa instabilità è dato dalla straordinaria stabilità di un particolare tipo di associazione che si trova proprio presso questi strati non completamente sedentari: si tratta dell ’ordine religioso o dell’associazione di culto basata su questo modello. Sembra addirittura che solo un’associazione religiosa di questo tipo si sia dimostrata idonea a fornire una solida base a organizzazioni politiche e militari a lunga scadenza. Una di queste era quella dei Recabiti: per secoli, dall’epoca di Jehu fino a Geremia, li vediamo continuare a sussistere ed esercitare un’influenza politico-religiosa; nella cronaca di Neemia viene menzionato un recabita; ancora nel Medioevo Beniamino di Tudela38 li incontrerà nel deserto babilonese sotto un «nasi» e altri viaggiatori hanno creduto di trovare i loro membri residui addirittura nel xix secolo presso la Mecca. Anche la coesione della tribù rigidamente j ah vista dei Keniti, di cui facevano parte i Recabiti, sembra sia stata dovuta essenzialmente al fattore religioso. Stade39 infatti ritiene perlomeno altamente probabile che il «segno di Caino», cioè il tatuaggio tribale kenitao3, non fosse solo un segno di riconoscimento della tribù ma anche il segno di una comunità di cultop3 e che anzi questo significato fosse, com’è ovvio, quello primario: analogo ai segni di riconoscimento in uso presso le caste indiane. L’esempio più grandioso di una formazione organizzata come un ordine, basata sui medesimi princìpi, è naturalmente, sullo stesso piano, quello dell’IsIam con i suoi ordini guerrieri che hanno creato le basi di numerosi stati, e proprio di quelli islamici che si sono mostrati particolarmente durevoli.
Ora la fattispecie di questo processo non corrisponde alla concezione secondo la quale le condizioni di vita dei beduini e dei semi-nomadi avrebbero «prodotto» la fondazione di ordini, come «esponente ideologico» delle loro condizioni d’esistenza. Questo tipo di costruzione storica materialistica è altrettanto inadeguata qui che altrove. è invece corretto dire che se questo tipo di fondazione si realizzava aveva anche, date le condizioni di vita di questi strati, le probabilità di gran lunga maggiori di sopravvivere, nel corso della lotta selettiva, alle altre formazioni politiche più fragili. Ma la sua nascita stessa dipendeva da circostanze storico-religiose ben concrete e spesso da vicende estremamente personali. Se poi in seguito a queste l’efficienza dell’affratellamento religioso come mezzo di potere politico ed economico veniva sperimentato e riconosciuto, allora naturalmente ne conseguiva una forte espansione di questo stesso mezzo. La predicazione di Maometto come quella di Gionadav ben Recab non vanno «spiegate» come il prodotto di condizioni demografiche ed economiche, per quanto il loro conte nuto possa essere stato codeterminato anche da queste. Erano invece l’espressione di esperienze e di scopi personali. Ma i mezzi spirituali e sociali di cui si servivano, oltre al fatto del grande successo riscosso proprio da questo tipo di elaborazione: questi sì che sono gli elementi spiegabili alla luce delle condizioni di vita in questione. Lo stesso vale per l’antico Israele.
Come i Recabiti dovevano la loro importanza alla loro coesione come ordine, così forse Giuda doveva la propria coesione come tribù alla potente struttura politica che risultava da un affratellamento fondato su un particolare patto con Jahvè. La tribù compare solo tardi nella storia. Non figura affatto nel Cantico di Debora. Le fonti la citano talvolta anche come schiatta, cioè con la designazione tipica per gli allevatori di bestiame. All’epoca di Mosè era in una situazione politica travagliata, all’epoca di Saul era una tribù tributaria dei Filistei. Al contrario nella benedizione di Giacobbe appare come tribù egemone in Israele e insieme come tribù di viticoltori, mentre nella leggenda dei Patriarchi, che nasce nella società degli allevatori di bestiame, Abramo che pur risiede nella giudaica Hebron, celebre per i suoi vigneti, non offre vino ai suoi ospiti celesti. Anche se è improbabile che la tribù nasca solo con Davide, come suppone Guthe40 è vero però che sotto di lui aveva ampliato il proprio territorio ed era diventata sedentaria, evidentemente mescolandosi con i Cananei. Le schiatte che secondo le enumerazioni e le genealogie ufficiali sono state più tardi attribuite alla tribù di Giuda sono senz’altro in parte cananee, in parte di chiara origine beduina come i Keniti temporaneamente alleati con Amalek. La tribù di Simeone in parte si è trasferita a Giuda, in parte si è insediata stabilmente sotto gli Edomiti41. La più antica menzione di un levita lo designa come un giudeo: evidentemente anche la tribù di Levi è stata in gran parte assorbita da Giuda. La posizione particolare della tribù che esisteva ancora sotto Saul perdurò in altra forma anche sotto i Davidici: sotto Salomone il suo territorio, o perlomeno la maggior parte di esso, non apparteneva alle province del regno ma era demanio della casa reale. Comunque la sua estensione definitiva era stata raggiunta soltanto sotto il principato guerriero di Davide e presumibilmente in coincidenza con l’adozione del culto jahvista puro. La stessa importanza della posizione dei sacerdoti in campo giudiziario (tramite oracoli processuali), che sembra essere stata una caratteristica della tribù di Giuda (in particolare secondo Luther) favorisce l’ipotesi di un affratellamento specificamente religioso come fondamento della sua solida coesione tribale. Questa sarebbe sorta allora dalla combinazione di gruppi frammentari di diversa origine etnica riuniti dalla comunanza del culto e dei sacerdoti. Questa supposizione appare particolarmente probabile se si deve vedere nel nome «Jehuda» un derivato di Jahvè.
Per quanto riguarda infine la stessa confederazione israelitica, si trattava secondo una tradizione univoca di una lega militare posta sotto Jahvè e con Jahvè stesso come dio guerriero della lega, garante dei suoi ordinamenti sociali e artefice della prosperità materiale della confederazione, in particolare della pioggia ad essa necessaria. Lo esprime il nome stesso «Israele», sia che designasse direttamente «il popolo del Dio che combatte», sia (ma è improbabile) che la dizione originaria fosse «Jesorel» e quindi significasse il Dio «in cui si confida». In ogni caso «Israele» non era il nome di una tribù ma di un’associazione, e per la precisione di una lega cultualeq3. è solo per designare un eponimo che l’elaborazione teologica della leggenda ha dato all’eroe Giacobbe il nome di Israele: da cui il carattere oscuro di questa personificazione.
È necessario esaminare più dettagliatamente la struttura della lega. La sua estensione è stata diversa di volta in volta. Come associazione Israele dev’essere esistito in Palestina già all’epoca del re Merenptah42, il presunto faraone dell’Esodo, perché in quell’epoca viene menzionato in una nota iscrizioner3 che gli attacchi dell’esercito regio avevano decimato i suoi uomini e la sua proprietà. Dalla maniera in cui viene citato risulta che Israele, contrariamente alle grandi e piccole città-stato, non era considerato una società urbana. Nella guerra di Debora, come abbiamo visto, i contadini che scendono in campo a piedi e i loro capi sui loro asini bianchi costituiscono il nerbo dell’esercito che combatte contro i cavalieri su carri dei re delle città. Nel Cantico di Debora figurano come membri della lega, oltre alle tribù montane che partecipano alla guerra, vale a dire Efraim e i due rami che da questa si sono staccati, cioè Machir e Beniamino, come pure Sebulon, Neftàli e Issachar, anche le tribù di Asser e Dan insediate lungo la costa e d’altra parte le tribù allevatrici di bestiame di Ruben e Galaad a est del Giordano che però si sono sottratte all’obbligo di aiutare la lega; separatamente viene citata come fedifraga la città di Meros.
Nelle due raccolte di benedizioni le tribù compaiono poi nel solito numero di dodici: Machir è sostituita da Manasse, Galaad da Gad; vengono aggiunte Giuda e Simeone; a seconda che Levi sia inclusa nel numero oppure contata a parte, come nella benedizione di Mosè, in quanto tribù sacerdotale, Efraim e Manasse vengono contate come due tribù oppure accomunate nella singola «casa di Giuseppe». Non c’è dubbio però che all’epoca del Cantico di Debora né Giuda, né Simeone e Levi erano considerate tribù facenti parte della lega.
A quell’epoca e più tardi Efraim (o Giuseppe) era considerata indubbiamente la tribù principale della lega, come mostrano la preferenza che gli è data nel Cantico, la sua discendenza dalla moglie favorita di Giacobbe e la sua caratterizzazione come figlio (o nipote) prediletto di quest’ultimo. La tribù ricorda nel Cantico di Debora le sue battaglie con i beduini e anche la benedizione di Giacobbe parla di questi «arcieri» come suoi avversari. Proprio per lei nella benedizione di Mosè viene citata esplicitamente, e certamente sulla base dell’antica tradizione, una relazione con l’epifania mosaica del roveto. Era quindi proprio questa tribù a partecipare agli avvenimenti che hanno portato alla recezione di Jahvè come dio della guerra d’Israele. Il primo capo dell’esercito della lega che nella tradizione porta un nome j ah vista, Giosuè, è un efraimita e viene sepolto nel territorio di questa tribù. Così anche Jahvè che avanza da Seir, nella regione di Edom, tra lampi e tuoni, e annienta i Cananei, viene esaltato nel Cantico di Debora come dio guerriero della lega posta sotto l’egemonia di Efraim. Tra i luoghi di culto di Jahvè nel territorio di Efraim si trovava in particolare Sichem con il «Ba’al del patto». Sembra però che il luogo di culto propriamente detto si trovasse fuori dalla città che la tradizione per lungo tempo ha considerato cananea. Evidentemente Efraim, fino alla costituzione della capitale nord-israelitica di Shomron (Samaria) è rimasta perlopiù associata in un’unione di grandi contadini proprietari residenti sulla montagna, sul potenziale militare dei quali Israele in passato si era basato in misura tale che più tardi il nome tribale venne regolarmente impiegato per designare l’intero Regno del Nord. Ma in frammenti più antichi Ruben, Simeone e Levi, cui viene data la precedenza nelle raccolte di benedizioni e che discendono dalla sorella maggiore Lia, devono aver figurato come nucleo centrale della lega. Giuda al contrario emerge solo nelle benedizioni relativamente posteriori e guadagna la sua posizione solo con l’avvento di Davide. Per il comandante di Saul, Abner, i Giudei erano ancora delle «teste di cane».
Questa lega israelitica dalla fragile esistenza non disponeva fino all’epoca dei Re, per quanto ne sappiamo, di organi politici stabili. Di tanto in tanto scoppiavano faide tra le tribù. Il diritto internazionale religioso, che proibiva per esempio di abbattere gli alberi da frutta, si applicava presumibilmente, se risale ai tempi antichi, proprio a queste faide in seno alla lega. Nel Cantico di Debora i membri della lega rifiutano in parte di prestare l’aiuto a cui l’alleanza li impegna. Talvolta, ma non sempre, ciò comporta la maledizione e la guerra santa contro gli spergiuri. Un diritto di cittadinanza comune non esiste. Apparentemente questo vige solo per la tribù. è vero che le violazioni gravi del diritto dei meteci, di cui godeva ogni israelita in ogni tribù che non era la sua, venivano eventualmente vendicate dalla lega. Tuttavia appare evidente che in tempo di pace non esistevano tribunali unitari o autorità amministrative unitarie di sorta. L’unità della lega si manifestava nel fatto che un eroe o un profeta accreditato da Jahvè in tempo di guerra rivendicava regolare autorità anche al di fuori dei confini della sua tribù. Si veniva a lui da lontano per far comporre le vertenze o per chiedere lumi sui doveri etici e di culto. Ciò viene riferito di Debora (Giud., 4, 5) e l’attuale redazione della tradizione ha fatto di tutti gli eroi guerrieri carismatici dei tempi dell’antica lega degli «shofetīm», cioè dei «Giudici) di Israele; questi si erano susseguiti in una serie ininterrotta e avevano goduto dell’autorità giudiziaria in tutto il territorio di Israele. L’ultimo di loro, Samuele, durante il periodo della sua carica si sarebbe recato ogni anno a Bethel, a Gilgal e a Mitspa (I Sam., 7, 15-16) per «rendere giustizia»; dopo l’elezione del re avrebbe deposto solennemente la sua carica, alla maniera di un funzionario della polis romana o ellenica, cioè sulla base di un pubblico resoconto, dopo aver invitato a manifestare le eventuali lagnanze ed essere stato liberato da qualunque accusa (I Sam., 12).
La tradizione che riguarda Samuele è certamente una costruzione deuteronomica ostile alla monarchia che presenta il comportamento del principe ideale, gradito a Jahvè, paradigmaticamente contrapposto ai re del periodo in corso. Ma come stanno le cose per quanto riguarda la posizione effettiva degli shofetīm ? Mentre Stades3 sostiene la tesi secondo cui la tradizione posteriore avrebbe semplicemente trasformato gli antichi eroi guerrieri di Jahvè in pacifici «Giudici», Klostermann ha fatto un acuto parallelo tra i «Giudici» di Israele ed i «pronunciatori della legge» (lògsògumadr) dei paesi nordici, in particolare dell’Islanda: i portatori della tradizione giuridica orale e precursori della legge fissata per iscrittot3. Egli cerca in particolare di spiegare in questo modo la nascita ed il carattere letterario dei libri giuridici pre-esilici che deriverebbero dal pubblico insegnamento della legge ad opera proprio di questi «pronunciatori della legge». Questa ipotesi, combattuta a fondo in particolare da Puukko, contiene una certa dose di verità in base a numerose analogie sociologico-giuridiche. Dappertutto il diritto si sviluppa all’inizio attraverso oracoli giuridici, raccolte di consuetudini giuridiche, responsi da parte di portatori carismaticamente qualificati della sapienza giuridica. Ma questi ultimi non assumono dappertutto la posizione molto specifica dei pronunciatori della legge nordici il cui ufficio — perché di questo si trattava — era strettamente collegato all’organizzazione della comunità giuridica germanica. Quelli che l’attuale versione della tradizione chiama «Giudici» avevano evidentemente delle caratteristiche molto diverse tra di loro ma in genere erano ben lontani dall’essere gli effettivi portatori della sapienza giuridica. La tradizione pone la normale direzione degli affari giuridici nelle mani degli zekenīm (Anziani). D’altra parte l’ordalia ed il regolare oracolo processuale erano di competenza dei sacerdoti e quest’ultimo in particolare veniva ottenuto, nei tempi più antichi, come vedremo più avanti, tramite mezzi puramente meccanici (la sorte). Per il resto la tradizione fa menzione di denominazioni molto diverse di notabili che godevano di tradizionale autorità nelle singole tribù.
Un esercizio carismatico della direzione degli affari giuridici poteva quindi trovar posto solo accanto a tutte queste fonti di giurisdizione. Ora la figure degli «shofetīm» che l’attuale versione del cosiddetto Libro dei Giudici ci presenta sono di tipo molto diverso. A prescindere da quelli di cui viene riferito meramente l’esistenza (Iairo, Ebzon, Elon, Abdon), Sansone appare come un eroe che regola con le armi, in maniera puramente individuale, le sue faide; lo stesso vale per Ehud, con la sola differenza che egli uccide l’oppressore di Israele; Othniel, Samgar, Barak, Gedeone, Iefte e in definitiva anche Thola sono dei vittoriosi capi d’esercito di Israele, in realtà della propria tribù e di quelle vicine. Solo per una parte di loro si fa riferimento, e in maniera del tutto generica, al fatto che hanno «giudicato» in Israele in tempo di pace. L’accento viene posto di preferenza sulle loro prestazioni come «salvatori», cioè come eroi liberatori in periodo di gravi crisi belliche. Accanto a questi un sacerdote della stirpe degli Elidi (Pinehas) appare come l’oracolo dell’esercito in una spedizione punitiva della lega che viene presentata come guerra santa (Giud., 20, 28). Eli è semplicemente un sacerdote. I suoi figli vengono presentati come sacerdoti ma nello stesso tempo come comandanti chiamati a capeggiare l’esercito contro i Filistei. Queste ultime tradizioni che riguardano gli Elidi sono alquanto tarde e sospette, mentre la tradizione su Samuele, il quale viene presentato ora come navi, ora come veggente, ora come predicatore (I Sam., 4, 1), ora come nasi, ora come sacerdote, e infine anche come comandante dell’esercito, è semplicemente inservibile. All’epoca in cui venne redatta questa versione evidentemente non si sapeva più niente di sicuro circa le reali condizioni vigenti ai tempi della lega. La fonte più attendibile, cioè il Cantico di Debora, mostra la profetessa accanto all’eroe guerriero Barak, della tribù di Neftàli, il quale come comandante dell’esercito era affiancato da tutta una serie di notabili di altre tribù, a lui alleati.
Solo per quanto riguarda Debora e Samuele la tradizione è in grado di dirci esplicitamente che essi hanno regolarmente «amministrato la giustizia», che rendevano cioè oracoli processuali su richiesta. Lo stesso viene riferito per Mosè dall’attuale versione dell’Esateuco. Gli viene attribuita, come pure a Giosuè, la creazione di norme giuridiche c oggettive» con valore permanente, e la loro fissazione per iscritto (all’infuori di questi casi la stessa attività viene attribuita soltanto a Samuele e in un caso sicuramente leggendario: la definizione delle prerogative regie dopo l’elezione di Saul). Non vi è comunque posto, presso gli shofetìm, per un’«amministrazione della giustizia» continuativa e funzionale alla maniera della citata analogia nord-germanica. I «profeti» del tipo di Debora davano oracoli politici, non processuali, e la specifica attività degli shofetīm carismatici consisteva in decisioni politico-militari, non in sentenze o istruzioni giuridiche. Detto questo, è estremamente probabile che tanto i profeti quanto gli eroi guerrieri che avevano dato buona prova di sé venivano chiamati anche in tempo di pace ad appianare i dissidi e che dal canto loro gli eroi laici, come dappertutto, una volta riusciti a consolidare in maniera sufficiente il loro dominio, prendevano in mano questa attività come un loro diritto signorile: è il caso per esempio di Abimelech.
Perfino i primi re, del resto, non venivano ancora considerati in primo luogo come portatori o addirittura creatori del diritto, bensì come condottieri militari. Per quanto riguarda Davide, la tradizione (II Sam., 14, 2 e seg.) lascia supporre che il re poteva eventualmente immischiarsi in una faida di sangue. Ma è stato Salomone il primo a prendere in mano apertamente, in maniera sistematica, l’amministrazione della giustizia (I Re, 3, 16 e seg.); si parla di un portico costruito sotto di lui, dove egli giudicava (I Re, 7, 7). Per via di queste innovazioni, presumibilmente, è stato considerato dai posteri come fonte di saggezza giuridica. Ma anche sotto i Re non troviamo traccia, all’inizio, di una cura ufficiale dedicata all’applicazione unitaria del diritto e ancora sotto Achab, se la corte può far piegare a suo favore il diritto influenzando il giudiceu3, il re tuttavia non appare come giudice. Solo in Geremia (21, 12) troviamo il re che la mattina siede in tribunale. Ma il tribunale che deve giudicare il profeta stesso (Ger., 26) è composto da funzionari (sarim) e Anziani (zekenīm), con gli uomini (’am) come testimoni in giudizio (hahal ha’am).
La tradizione non potrebbe avere la sua attuale fisionomia se la creazione del diritto fosse stato l’attributo principale degli shofetīm e dei re che li seguivano immediatamente in ordine di potenza, e se fosse stata la fonte delle attuali raccolte giuridiche. Gli sporadici passi oscuri della tradizione, di cui si è parlato, sono evidentemente le registrazioni posteriori di un’epoca che — come vedremo — contrapponeva il «buon diritto antico» con i suoi princìpi ideali pacifisti alla corrotta epoca presente. Le stesse raccolte giuridiche dovrebbero avere un aspetto diverso se fossero scaturite da una regolare direzione giuridica ufficiale unitaria sin dall’origine per tutto Israele. In tal caso anche la sua reale e stabile validità pratica sarebbe stata fuori di dubbio. è certo invece che avveniva proprio il contrario, perlomeno per quanto riguarda il diritto degli schiavi per debiti, cioè in pratica la parte più importante di tutto il diritto sociale.
In Israele come in tutto il mondo il diritto si è sviluppato partendo dalla prassi giuridica delle antiche corti di giustizia popolare. Una sentenza passata in giudicato valeva come precedente da cui ci si discostava malvolentieri. «Chok»v3 sembra essere stata l’antica espressione tipica per designare l’uso vincolante e la consuetudine giuridica sorte con il precedente giuridico (Giud., II, 39). Il capo (che nel Cantico di Debora è anche comandante militare) che dava le istruzioni giuridiche in base all’usanza formatasi in questo modo si chiamava nell’antico Israele «chokek»w3. Nelle fonti posteriori troviamo occasionalmente i termini torah, gedah, mishpat impiegati come sinonimi. Mentre torah, nel linguaggio preciso, era l’oracolo e l’ammaestramento spirituale impartito dai Leviti, gedah, come accerteremo più avanti, era un’ordinanza ratificata da una deliberazione dell’adunata dell’esercito. Infine il mishpat era tanto la «sentenza» quanto la norma giuridica, e quindi la più prettamente giuridica di tutte queste espressioni. Sembra che, nella misura in cui si trattava di norme, il suo impiego era preferito per il diritto formulato razionalmentex3, contrapposto a chok. Le norme del Libro del Patto fondate sull’influenza babilonese sono mishpat, non choky3. Ma ambedue le fonti giuridiche avevano questo in comune, che impiegavano o stabilivano solo un diritto già vigente, o che si presupponeva o fingeva vigente. Per la creazione innovativa consapevole del diritto veniva preso in considerazione all’inizio, in Israele, solo l’oracolo orale (devar Jahvè o devar Elōhīm). Anche i teologi dell’epoca posteriore hanno rivestito le loro istruzioni etico-sociali con la formula dell’imperativo categorico: «Devi…». La seconda for ma di creazione innovativa consapevole, particolare ad Israele, era il solenne berith, sempre previo oracolo. Questa forma naturalmente veniva impiegata solo in casi particolarmente importanti; tuttavia serviva tanto per i provvedimenti eccezionali — come l’emancipazione degli schiavi sotto Sedekia — quanto per il riconoscimento di norme permanentemente valide: così nella tradizione viene applicata all’adozione del Libro della Legge deuteronomico.
Se il contenuto di questo testo oggi ci appare travisato da interpolazioni altamente contraddittorie, quello che presumibilmente è il suo nucleo autentico non È in nessun caso il prodotto di una pubblica attività dei dicitori della legge o di giuristi specializzati in genere. è invece, come risulta anche dalla tradizione, il risultato del lavoro interno di una specifica scuola di teologi, di cui tralasciamo per il momento di esaminare il carattere. Non è possibile stabilire con certezza quanti dei mishpatīm rilevati dalla tradizione giuridica, che il testo contiene nei cap. 12-26, appartenessero in origine al compendio di leggi promulgate. In ogni caso però essi sono sorti sul terreno delle città-stato, frammisti a teologumeni, e costituiscono un perfezionamento d’impronta fortemente teologica delle norme che si trovano nel 0 Libro del Patto». Ma anche i mishpatīm del Libro del Patto non potevano rappresentare che in piccolissima parte il diritto comune dell’antico Israele; in genere non si adattano alle comunità di allevatori di bestiame, né costituiscono affatto un diritto specificamente contadino ma — dedotti i teologumeni presumibilmente interpolati — rappresentano un compromesso tra i vari interessi, come lo presuppone lo sviluppo dell’antagonismo di classe tipico dell’antichità. Formalmente la struttura, come spiegano giustamente Baentsch e Holzinger, è quella di un codice di mishpatīm (Es., 21, 1-22, 16) ordinato in maniera passabilmente sistematica in cui rientrano i singoli devarīm asistematici, che sono in parte di carattere giuridico, in parte etico, in parte cultuale. Sul piano materiale l’influenza babilonese che risale molto indietro nel passato è fuori di dubbio per i mishpatīm. La tecnica e la precisione giuridica formale, tutt’altro che scarse nei mishpatīm puramente profani, sono talvolta estremamente carenti nei devarīm. La redazione delle componenti giuridiche deve quindi essersi trovata nelle mani di esperti giuristi e questi potevano essere cercati — poiché il re ed i suoi funzionari non venivano presi in considerazione — so lo nella cerchia degli zekenīm che partecipavano alla legislazione in un foro importante e molto ricercato come fonte d’ammaestramento in materia giuridica, quale era la città di Sichem in Israele del Nord. Il contenuto di queste norme giuridiche vere e proprie — contrapposte alla parenesi annessa od inserita — non deriva comunque da una legislazione sacerdotale. In che misura la rivendicazione avanzata dai sacerdoti nel Deuteronomio di partecipare alla legislazione e di decidere sui casi dubbi corrispondesse al diritto vigente in epoca pre-esilica rimane alquanto incerto. All’epoca dei Re, in linea generale, c’era piuttosto da fare i conti con la perdita d’importanza dell’antico oraco lo processuale, un fenomeno che si è osservato anche a Babiloniaz3. La pretesa deuteronomica corrisponde a quello che era il diritto vigente in Egitto all’epoca dei sacerdoti di Aminone. Il ruolo evidente della riflessione su ciò che è gradito a Dio e sull’equità di quello che viene presentato come il «dover essere» del diritto, oltre all’aggiunta dei devarim, confermano che con il Deuteronomio ci troviamo in presenza di un «libro di diritto», cioè di un lavoro privato e formalmente non normativo ma diventato popolare alla maniera del codice sassone o della raccolta di Manu, sorto sotto l’influenza di circoli con interessi teologici ed ampliato con supplementi vari.