2. I rabbini

I rabbini non sono una «istituzione farisaica»: formalmente non avevano nulla a che fare con la fratellanza. Ma nello stadio iniziale del loro sviluppo erano strettamente collegati al movimento farisaico. I più eminenti maestri dell’epoca in cui sorse la mishnàh erano Farisei, se non nella forma nelle opinioni, e lo «spirito» del farisaismo determinava la loro dottrina. Bisogna osservare innanzitutto che il nome «rabbi» (da rab, grande, per cui rabbi = «mio maestro»), stando alle fonti giudaiche, divenne un titolo fissou10 solo dopo la distruzione del tempiov10 Prima sofer, esperto nella scrittura, era una designazione dal contenuto fisso, concreto, mentre il «maestro» era la persona cui andava tutto il rispetto. Tuttavia si può usare il termine senza scrupoli anche per il periodo precedente alla caduta di Gerusalemme, per designare le autorità della comunità esperte nella scrittura; è probabile infatti che tale appellativo fosse dato non solo ma anche a loro già a quell’epoca. Cosa sono dunque i «rabbini» in questo senso?

La legittimazione formale del «rabbi» sorse solo con la nascita del patriarcato, cioè dopo la distruzione del tempio; divenne allora necessaria per i rabbini l’ordinazione formale, e il sorgere delle accademie mesopotamiche e palestinesi creò un corso di studi fisso. Tutto ciò prima non esisteva. Mancava totalmente, per quanto ne sappiamo, una legittimazione ufficiale dei «rabbini». La tradizione dei soferìm distinti e riconosciuti per la loro fama di scritturisti ed esegeti era l’unico contrassegno: i loro discepoli personali e a loro volta i discepoli di questi erano considerati qualificati in prima linea. Le personalità i cui detti sono citati dal Talmud non sono affatto solo soferìm o rabbini colti: al contrario, con una certa intenzionalità, la tradizione talvolta mette delle interpretazioni particolarmente sottili della Torah e dell’insegnamento morale in bocca per esempio al guidatore d’asino di un rabbino (Gionata) e presenta rabbini colti che chiedono consiglio ad un contadino (come Abba Chilkijat) conosciuto come pio e quindi come saggio. Tuttavia ciò viene considerato come un fatto straordinario. Il che dimostra che la distinzione non era acuta; tuttavia il guidatore d’asini viene esplicitamente distinto dal rabbino in quanto «ignorante». Non è un rabbi.

Le condizioni sottintese dai Vangeli indicano comunque che un’organizzazione perlomeno fermamente chiusa verso l’esterno, a quell’epoca non esisteva; veniva consultato colui che di fatto si era legittimato attraverso il carisma della conoscenza della legge e dell’arte esegetica. Se l’interpretazione era in qualche modo offensiva e trovava degli avversari sufficientemente forti l’intervento che seguiva era evidentemente solo di carattere negativo, e si attuava con la repressione, sia da parte dei sacerdoti sia delle masse che si facevano giustizia da sé (linciaggio) sotto la guida di singoli individui o (perlopiù) della comunità farisaica. I racconti evangelici mostrano quanto era forte la considerazione per la popolarità di un maestro. Le autorità ufficiali temevano di intervenire perfino contro un insegnamento chiaramente errato se «il popolo» era attaccato alla persona del maestrow10. L’autorità formalmente carismatica dei maestri rabbinici che si fondava esclusivamente sull’educazione e quindi sulla scuola trova delle analogie in numerosi fenomeni simili che vanno dai giuristi romani (prima dell’epoca della licenza obbligatoria) ai guru indiani. Sussistono tuttavia delle differenze importanti e di queste, ovvero delle caratteristiche particolari dei rabbini, dovremo ora occuparci.

In primo luogo i rabbini erano, prevalentemente, uno strato di intellettuali plebei. Non che mancassero, in mezzo a loro, individui nobili e benestanti. Ma un semplice sguardo alle generalità dei rabbini (o altri competenti) citati nel Talmud come autorità o personaggi esemplari indica che il peso maggiore appartiene al plebeo, il quale scende nella scala sociale fino all’operaio giornaliero dei campi, e che tra i rabbini stessi i possidenti e gli aristocratici costituiscono una piccola minoranza. Riguardo a ciò non sussistono dubbi per il periodo della composizione del Talmud e prima. Come abbiamo visto, erano «plebei» anche numerosi mistagoghi e capi-setta di altre religioni. Ma i rabbini, quelli antichi, si differenziano da loro soprattutto per il fatto che esercitavano la loro funzione di consiglieri ed esperti in questioni rituali in via collaterale, cioè accanto alla loro professione laica. Questo non era un caso, ma la conseguenza del rigido divieto d’insegnare (o interpretare) la legge dietro compensox10. Questo divieto — che trova la sua prosecuzione nel motto paolino: «Chi non lavora non deve nemmeno mangiare» — in primo luogo escludeva compietamente un loro possibile sviluppo in mistagoghi di stampo indiano; in secondo luogo spiega anche varie caratteristiche del loro insegnamento su punti comunque importanti.

Si è spesso fatto l’elenco delle posizioni professionali dei rabbini eminenti. Com’è comprensibile, si trovano tra loro numerosi proprietari terrieri. I più, sicuramente, erano proprietari che vivevano delle rendite delle loro terre: questi infatti erano in grado di dedicarsi completamente allo studio. Colpisce però il fatto che proprio tra le più importanti vecchie autorità del Talmud — precedenti cioè l’epoca della distruzione del tempio — accanto a pochi mercanti troviamo soprattutto artigiani: fabbri, fabbricatori di sandali, carpentieri, calzolai, conciatori, costruttori edili, barcaiuoli, assaggiatori di vino, boscaiuoli; e che proprio i due primi celebri fondatori di scuole ed acuti controversisti, Hillel il Vecchio e Shammay139 fossero artigiani. Si tratta cioè di gente dello stesso strato sociale a cui appartenevano Paolo e le personalità che egli menziona nelle sue lettere.

È esatto che il diritto comune ebraico dell’epoca del Talmud accordava delle facilitazioni al rabbinoy10: esenzione dalle imposte e dalla maggior parte delle corvées (non tutte) e il diritto alla prevendita dei suoi prodotti sul mercato prima degli altriz10. Tuttavia a prescindere dalla questione se questi privilegi esistevano già nel periodo del secondo tempio, anche più tardi era considerato perfettamente normale che il rabbino si mantenesse con il suo lavoro. Doveva lavorare per un terzo della giornata e studiare il resto; oppure lavorava l’estate e studiava l’inverno. Più tardi poi si crearono vari modi di aggirare il divieto di compenso. Venne permesso, almeno per l’attività giudiziaria, di farsi risarcire la perdita di tempo (lucrum cessans)’, i doni naturalmente sono sempre esistiti. Tuttavia fino al xiv secolo i rabbini giudaici, in linea di principio, prestarono tutti i servizi di loro competenza senza compenso, in origine come professione accessoria. «è meglio il denaro guadagnato con il lavoro delle proprie mani che la ricchezza del Resh Galutà»140 — il capo della chiesa! — «che vive del denaro altrui» era la massima dei vecchi rabbini. Troviamo dunque, in questo caso, come portatori intellettuali di una religiosità, gente che viveva del proprio lavoro e apparteneva in buona parte alla categoria dell’artigianato. A prescindere da alcuni inizi in questo senso nell’india medioevale, è la prima volta che incontriamo qui questo fenomeno. Cercheremo di stabilirne la portata facendo un confronto con altri strati.

I rabbinia11 in primo luogo non erano né maghi né mistagoghi. In ciò si differenziano radicalmente dalla massa dei pastori d’anime plebei dell’india e dell’Asia orientale. I rabbini agivano attraverso l’insegnamento orale e scritto, gli altri attraverso la magia; l’autorità dei rabbini si fondava sulla conoscenza e sulla formazione intellettuale, non sul carisma magico. Questo era innanzitutto una conseguenza della posizione assegnata alla magia in generale nel giudaismo post-profetico. Qui la concezione secondo cui l’uomo può forzare la divinità tramite la magia è stata eliminata radicalmente. La concezione profetica di Dio ha escluso quest’idea una volta per tutte. Di conseguenza la magia, in questo senso primitivo, è incondizionatamente riprovevole e sacrilega per il Talmud. In definitiva ogni forma di incantesimo era considerata pericolosa o sospetta.

Naturalmente tutto ciò è valido solo entro certi limiti. La magia continuava a sussistere nelle due forme dell’esorcismo e della guarigione dei malati con parole magiche ed era in parte tollerata di fatto, in parte addirittura considerata legittima: non si trattava qui di una coercizione esercitata contro Dio, ma contro i dèmoni, e abbiamo visto come questi avessero un ruolo riconosciuto proprio nel farisaismo. Tuttavia l’esercizio di queste attività non rientrava nelle normali occupazioni dei rabbini. è vero d’altra parte che il giudaismo, anche quello farisaico, non negava in alcun modo il carisma del miracolo. Nei Vangeli i Giudei, tra cui sono menzionati esplicitamente anche gli scribi e i Farisei, chiedono ripetutamente un «segno» a Gesù. Ma il potere taumaturgico appartiene al profeta che con esso si legittima come inviato da Dio e non dai dèmoni.

Con la profezia però, i rabbini edotti nelle scritture vivevano naturalmente in un rapporto di forte tensione, proprio ad ogni strato di iniziati, il cui orientamento ritualistico è dato da un libro della legge, nei confronti del carisma profetico. è vero che la possibilità del sorgere di un profeta non veniva negata, perlomeno all’inizio. E tanto più insistentemente si metteva in guardia contro i falsi profeti. Da questo punto di vista era decisivo il fatto che la profezia giudaica era destinata una volta per tutte ad essere profezia di missione, a parlare per incarico del Dio ultraterreno, e non in virtù di una divinità propria o di un invasamento divino. Un profeta di quest’ultimo tipo è quello che parla e insegna «senza incarico». Ma da cosa lo si riconosce? Qual è il contrassegno della falsità o della verità di un profeta? A questo fine, nell’interpretazione rabbinica, era determinante soprattutto il criterio di Geremia (23, 9 e segg.). Non solo un profeta è falso, com’è ovvio, quando insegna falsi dèi o quando le sue profezie non si realizzanob11. Ma ogni profeta è vincolato alla legge e ai comandamenti di Dio e chi cerca di farli abbandonare è un falso profeta. Solo colui che allontana il popolo dai suoi peccati può quindi essere realmente mandato da Dio. Infatti non sono i sogni e le visioni, ma è la dedizione ai comandamenti di Dio, chiaramente esposti nella legge, che dà la prova della verità del profeta; la prova cioè che non è un «sognatore». Le visioni ed i sogni erano già stati discreditati dall’antica tradizione sacerdotale perché era chiaro che vi erano state anche (e precisamente) delle visioni che avevano convertito il popolo al culto orgiastico di Ba’al.

Del pari, i miracoli potevano essere compiuti nel nome di dèmoni. E quindi il semplice potere taumaturgico non costituisce una prova dell’autentico carisma profetico. E anche se il profeta sembrava portare nella sua dottrina i segni della missione divina, il carisma del potere taumaturgico non provava definitivamente che era proprio così: sulla base del mero potere taumaturgico poteva spettare tutt’al più, al profeta dall’insegnamento corretto, il potere di dispensare dalla legge nei singoli casi — potere rivendicato anche dai rabbini — e nulla di più. Quello che ci interessa qui, essenzialmente, è che il mantenimento dell’etica ortodossa conforme alla legge e la lotta contro i peccati erano i criteri ultimi e incondizionati ai quali si commisurava l’autenticità di una profezia.

L’autorità dei rabbini non derivava loro da misteri coltivati nei loro circoli. Se tutta una serie di concezioni e pratiche cosmologiche, mitiche, magiche dei sacerdoti babilonesi e forse anche, qui e là, egiziani, più o meno, o per niente trasformate, erano state riprese — in particolare per scopi rituali di calendario — tuttavia era rimasto escluso proprio il decisivo contenuto supremo ed esoterico della saggezza sacerdotale babilonese: tanto l’astronomia e l’astrologia, quanto la divinazione (tramite esame del fegato o degli uccelli). Quest’ultima era esplicitamente vietatac11 anche se certamente esisteva tra la popolazione. Troviamo perfino tra le professioni talmudiche un astrologo e talvolta si traeva l’oroscopo, qui come in tutto il mondo. Ma la dottrina rabbinica vietava esplicitamente di interrogare i Caldei: «per Israele non ci sono profeti». Il corpo sacerdotale giudaico aveva eliminato con successo anche questi concorrenti e l’antica concezione rabbinica rifiutava con decisione, perlomeno nell’antico periodo talmudico, questa scienza pagana e soprattutto il determinismo astrologico considerato come un’offesa alla maestà e al libero arbitrio di Dio. Del resto, data la situazione sociale dei rabbini, questi non disponevano né delle tradizioni scientifiche né dei mezzi tecnici necessari per praticarla.

Se i rabbini non erano maghi, profeti, filosofi esoterici, astrologi o auguri, non erano nemmeno portatori di una dottrina di salvezza esoterica, una gnosi. Non solo la forma particolare della gnosi del Medio Oriente con i suoi demiurghi ed il suo anomismo era proibita e rigettata ma lo era, perlomeno nel periodo classico-talmudico, ogni gnosi in genere. Ancora una volta il fattore decisivo alla base di ciò era la temuta svalutazione della legge e dell’agire eticamente corretto sotto l’influenza della ricerca di salvezza gnostico-mistica. Non solo le forme di misticismo tipiche degli strati aristocratici di intellettuali ma ogni ricerca di salvezza puramente mistica era considerata sospetta, come un «sognare» che porta in sé il pericolo di farsi fuorviare dai dèmoni. Ciò valeva in particolare per l’invasamento estatico, conformemente all’antica lotta dei profeti contro l’orgiasmo. Così come la «comprensibilità» dei profeti era peril Talmud uno dei segni del loro valore, così l’interpretazione rabbinica rifiutava tacitamente ma con piena coerenza tutti i mezzi irrazionali ed entusiastici per giungere a Dio.

Questo non si spiega come una conseguenza della «situazione di classe»: infatti numerosi mistagoghi hanno avuto il loro pubblico proprio nella piccola borghesia la cui predisposizione alla religiosità mistico-estatica si è manifestata ovunque in maniera ambigua. Era invece la conseguenza del carattere storicamente dato della tradizione giudaica, come era stato fissato da un lato dal codice sacerdotale, dall’altro dalla profezia. Ciò valeva in ogni caso per il giudeo che non voleva rinunciare al rapporto con la legge, cioè per il fariseo. Non solo lo studio doverosamente assiduo lo allontanava già di per sé, per via del contenuto eticamente razionale della Tor ah e dei profeti, dalle forme irrazionali di ricerca della salvezza, ma le Sacre Scritture gli davano anche un sostituto per ciò che mancava, se lo sentiva come tale. Il profondo pathos dei grandi profeti, la forza ispirata e l’entusiasmo della storiografia nazionale, la semplice ma appassionata serietà dei miti della creazione e dell’umanità, il forte contenuto emotivo dei Salmi, della leggenda di Giobbe ed altre, la saggezza dei Proverbi, tutto ciò formava un contesto per l’esperienza religiosa interiore di quasi tutte le situazioni emotive immaginabili, quale non se ne può trovare un altro analogo.

Il suo carattere unico in sé non stava tanto nel contenuto materiale delle «esperienze» in sé, i cui singoli elementi richiamano problemi che si trovano senza dubbio nei più diversi scritti sacri di tutto il mondo. Stava piuttosto nella concentrazione di questo contenuto in uno spazio così ristretto, e soprattutto nel carattere popolare del testo sacro e nella sua assoluta comprensibilità per tutti. Quello che importa non è che motivi mitici e cosmologici babilonesi siano stati ripresi nei racconti biblici, ma che siano stati trasposti dalla sfera sacerdotale in quella popolare. La concezione profetica di Dio, immediatamente comprensibile e nello stesso tempo altamente carica di pathos determinava anche l’elemento della «specifica comprensibilità» degli eventi narrati, e soprattutto della «morale» che ne discendeva, per ciascuno, anche per un bambinod11. Per il bambino ellenico erano comprensibili gli eroi omerici (e lo sono per ogni bambino); per il bambino indiano le parti narrative del Màhabhàrata. Ma il contenuto etico del Bhagavadgìtà141 non sarà comprensibile per nessun bambino, neppure un bambino indiano, né lo sarà la vera dottrina di redenzione del Buddha. E nemmeno la loro cosmologia e antropologia che sono il prodotto di un pensiero intensivo. Al contrario il «razionalismo», soprattutto quello moralistico ma anche quello pragmaticocosmologico, che si esprime nelle Sacre Scritture giudaiche, è così immediatamente popolare e, proprio nelle sue parti decisive, adattato proprio alla comprensione infantile, come nessun altro libro sacro al mondo, con l’eccezione forse dei racconti di Gesù di Nazarethe11.

Tra tutte le mitologie cosmogoniche ed antropologiche proprio il paradigma del Dio unico ultraterreno — che guida le sorti del mondo in parte come un padre, in parte come un re ora clemente ora severo, che ama il suo popolo, però lo punisce duramente se è disobbediente, ma può essere riconquistato con la preghiera, l’umiltà e la buona condotta morale — è la costruzione che rende comprensibili tutti gli eventi del mondo e della vita in un modo razionale conforme alla mentalità semplice, non sublimata dalla speculazione filosofica, delle masse e dei bambini. Ma questa comprensibilità razionale che si delineava nel pragmatismo della salvezza religiosa dei miti, degli inni e dei profeti, nota a tutta la comunità attraverso l’insegnamento, la predicazione e la lettura, costringeva anche il pensiero rabbinico a incanalarsi in questa via.

Non era facile per un aristocratismo della salvezza, a carattere gnostico-esoterico, svilupparsi su questo terreno, almeno in via primaria o, se in via secondaria, estendersi in seguito. Un’esoterismo poteva sorgere, caso mai, in connessione con quelle visioni di profeti, in parte oscure, in parte isolate dal loro contesto significativo originario ormai dimenticato, e che promettevano un migliore futuro al popolo colpito da Dio. E di fatto a tali visioni si sono collegate le speculazioni di tipo religioso-filosofico. Di queste parleremo più avanti. Due punti però riguardano già il nostro contesto. Innanzitutto, le vere e proprie escatologie speculative, come quelle sorte in connessione con la letteratura di Daniele e di Enoch142 e con l’adozione delle speculazioni di origine persiana e babilonese intorno al Salvatore, le dottrine del «Figlio dell’uomo», di Matathron143 e simili, in genere pur essendo note alla cerchia degli autentici rabbini farisaici, rimasero però loro estranee. Erano invece coltivate — non solo ma prevalentemente — proprio nelle conventicole del ’am ha-arez e anche Gesù e i suoi hanno preso senza dubbio da lì le loro rappresentazioni del Figlio dell’uomo, e non dalla dottrina farisaica e rabbinica. Per questo il Messia rimaneva un re terreno dei Giudei, promesso per il futuro, che con l’aiuto del Dio riconciliato avrebbe elevato il popolo al suo antico splendore, annientando i suoi nemici o, come nei Salmi, riducendoli in schiavitù o infine convertendoli alla fede di Israele. Oppure, collegato all’idea di resurrezione il Messia era il re nel cui regno i devoti resuscitati avrebbero condotto un’esistenza nuova e pura.

Ma tutte queste speranze, adatte a costituire l’oggetto di speculazioni metafisiche e che portavano quindi facilmente all’esoterismo, erano soltanto speranze, cioè aspettative per il futuro. è chiaro che queste aspettative potevano e dovevano portare un forte pathos nella devozione dell’ebreo ogni volta che il pensiero si rivolgeva ed esse: nell’esistenza di queste aspettative «finali» sta una delle differenze fondamentali con tutta la religiosità indiana del Salvatore. Se poi il loro adempimento, in vista di segni e mutamenti insoliti o sotto l’influenza di profeti escatologici pareva vicino, queste stesse aspettative potevano diventare fonte dell’entusiasmo più potente e, in certe circostanze, più sfrenato immaginabile, come di fatto è avvenuto. Ma nella vita quotidiana o quando le circostanze distoglievano da esse il pensiero, la loro influenza si riduceva inevitabilmente ad un anelito sentimentale alla liberazione dalla sofferenza e dal bisogno: l’ordinamento del mondo, il proprio popolo e gli stessi devoti erano accusati di insufficienza, poi questo sentimento si riconciliava con se stesso e con il destino e tornava a favore del carattere di «religione di fede» della religiosità giudaica. Così era, in particolare, nel periodo talmudico, dopo la distruzione del tempio sotto Adriano, quando le speranze messianiche erano retrocesse molto in lontananza. Una sola questione poteva esercitare un’influenza sull’agire pratico: quale condotta offriva agli uomini (o rafforzava in loro) il diritto di aspettare una pronta venuta del redentore e una propria partecipazione al regno dei risorti? Ma a ciò la dottrina rabbinica rispondeva rifacendosi ai paradigmi sacerdotali della storia sacra ed ai profeti, naturalmente con il richiamo, ancora una volta, alla legge la cui importanza in questo modo crebbe acquistando maggiore pathos. I peccati della comunità, delle sue autorità ufficiali (soprattutto il distacco da Dio) erano quindi agli occhi dei rabbini senza dubbio i più gravi di tutti i peccati anche perché compromettevano la venuta del Messia per il futuro e quindi defraudavano tutti i devoti della loro speranza. D’altra parte le promesse universalistiche della Tor ah e dei profeti, secondo cui tutti i popoli sarebbero stati portati a Dio e a Israele, costituivano sicuramente uno degli impulsi decisivi al proselitismo, come vedremo più avanti. Ma per i singoli solo la legge e il suo adempimento entravano in considerazione. Semplicemente non esisteva un’altra via di salvezza. La via tracciata, però, era accessibile a chiunque. Infatti i rabbini, come rifiutavano l’aristocratismo intellettualistico mistico della salvezza, rifiutavano, in definitiva, anche l’ascesi.

3. La dottrina e l’etica del giudaismo farisaico

Tanto l’antico giudaismo quanto il giudaismo farisaico erano lontani dal dualismo etico tra «spirito» e «materia» o spirito«e»corpo«o»spirito«e»carne», o tra purezza divina e corruzione del «mondo», così com’è stato elaborato dall’intellettualismo ellenistico, elevato dal neoplatonismo all’idea che il corpo è il «carcere» dell’anima, un pudendum, ripreso da alcuni circoli d’intellettuali ellenistico-giudaici (Filone144) e posto dal cristianesimo paolino a concezione fondamentale della sua immagine etica del mondo. Nulla di tutto ciò è conosciuto dal giudaismo farisaico-talmudico. Certo, Dio è il creatore e il signore del mondo e degli uomini, gli uomini sono le sue creature, non i suoi rampolli o le sue emanazioni. Li ha creati, ivi compreso il popolo eletto, non generati. Per la profezia giudaica questo deriva dall’universalismo di Dio e, collegato a questo, dagli straordinari attributi di potenza che gli vengono ascritti per dare rilievo alla sua sovranità assoluta anche nei confronti del proprio popolo: egli è il dio della storia universale. Si è voluto presentare questo «dualismo» come caratteristicamente giudaico o talvolta «semitico» in contrasto con le altre concezioni. Ma per quanto riguarda l’etica pratica l’accento decisivo è posto su di esso solo in quanto ha reso superflua ogni teodicea e ha definito l’assoluta impotenza dell’uomo nei confronti di Dio, soprattutto escludendo in modo assoluto la coercizione magica di Dio, e facendo assumere alla «fede» religiosa la specifica tonalità dell’«obbedienza» infantile nei confronti del monarca universale. Tuttavia da ciò non derivava in nessun modo il «rifiuto del mondo» o la «svalutazione del mondo».

Il dio ebraico è un monarca patriarcale: si mostra come il «padre» benigno dei suoi figli che sono creati a sua immagine. Il mondo non è cattivo, ma buono, come mostra la storia della creazione. L’uomo è debole, come un bambino, e quindi incostante nella sua volontà e accessibile al peccato, cioè alla disobbedienza verso il paterno creatore. Non lo è solo l’individuo ma anche — e questo viene sottolineato — la collettività, il popolo. E in questo modo l’individuo, come anche il popolo nel suo insieme, si lascia sfuggire l’amore e la grazia di Dio, per sé e per i suoi discendenti, spesso per molto tempo e sotto molti aspetti per sempre. Così Adamo ed èva, per la loro disobbedienza sono stati cagione, per tutta la loro discendenza, della morte, delle doglie del parto, della sottomissione della donna all’uomo, della necessità e la fatica del lavoro. Ma proprio la visione rabbinica tendeva a giudicare molto più severamente della caduta di Adamo la defezione del popolo, l’adorazione del vitello d’oro e dei Baalim, che avevano causato la distruzione del popolo ebraico. Per quanto severamente venisse redarguito il popolo disobbediente, mancava totalmente l’idea del «peccato originale» o della corruzione creaturale o dell’abbiezione di tutto ciò che riguarda i sensi. E si era ben lontani dall’idea che il ritiro dal mondo fosse un presupposto della salvezza religiosa.

Il divieto delle «immagini e somiglianze» era certamente un’importantissima fonte del rapporto negativo del giudaismo con la cultura artistica sensitiva. Ma, come per il timore di pronunciare il nome di Geova, si trattava di un divieto di origine magica e anti-idolatrica che in seguito venne inserito nel contesto delle rappresentazioni della maestà di Dio e della sua onnipresenza nel creato e di cui il farisaismo percepiva l’importanza soprattutto come segno distintivo nei confronti dei popoli stranieri idolatri. Dal canto suo, però, non era assolutamente un’espressione di «ostilità verso i sensi» o di ritiro dal mondo.

Il giudaismo farisaico era anche lontano dal rigettare la ricchezza o dall’idea che questa fosse pericolosa e che il suo godimento disinvolto potesse compromettere la salvezza. Per certe funzioni sacerdotali la ricchezza era addirittura un pre-requisito. Del resto i profeti e i salmi avevano censurato aspramente lo sfruttamento anti-fraterno del potere economico come distruzione dell’antica etica di vicinato santificata dai comandamenti di Jahvè e della fratellanza tra compatrioti. Su questo l’etica piccolo-borghese farisaica si trovava naturalmente d’accordo. Come vedremo le antiche prescrizioni contro l’usura e a favore dei debitori e degli schiavi e le costruzioni sacerdotali della settimana dell’anno sabbatico e della remissione dei debiti nell’anno del Giubileo ricevettero adesso un’elaborazione casistica. Mancava però ogni abbozzo per un metodo economicamente ordinato di ascesi intramondana.

Lo stesso vale per l’ascesi sessuale. è vero che talvolta veniva sollevata la questione se non era meglio che il rabbino restasse celibe onde potersi dedicare del tutto indisturbato allo studio. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’ascesi anche se è degno di nota il fatto che il dovere del lavoro, così importante per la salvezza della comunità, aveva il potere in questo caso di infrangere l’antico comandamento di produrre una discendenza. Ma altrimenti, dai doveri di purezza cultuali e magici noti dentro come fuori dal giudaismo, non vi è nulla da dedurre che faccia pensare a scrupoli verso il rapporto sessuale e il godimento delle donne. La schietta spregiudicatezza mondana che ingiunge di lasciare all’antico guerriero israelita il tempo di «godere della propria moglie» doveva valere anche per il giudeo talmudico. La lotta spietata contro la «fornicazione» — considerata il terzo peccato maggiore accanto all’assassinio e all’idolatria — deriva dall’antica lotta sacerdotale contro l’orgiasmo di Ba’al; la rigida limitazione del rapporto sessuale al matrimonio legittimo corrisponde pienamente ai comandamenti indiani (e altri) dello stesso tipo; l’aspra lotta contro ogni forma di onanismo (incluso Vonanismus matrìmonialìs) era conforme alla maledizione biblica contro di esso, determinata a sua volta dalla lotta contro l’orgiasmo onanistico di Molochf11.

La raccomandazione, estremamente energica, del matrimonio precoce — chi lo spostava oltre una certa età era considerato un peccatore — corrisponde (come in Lutero) al convincimento di un popolo apertamente sensuale che altrimenti il peccato sarebbe inevitabile. I fenomeni sessuali continuano a rimanere nell’ambito di un disinvolto naturalismo. L’antica esecrazione per l’atto di scoprire e per ogni forma di nudità — sorta probabilmente dalla lotta contro l’orgiasmo e forse inasprita dall’opposizione al gymnasium ellenico — andava di pari passo con dei discorsi molto espliciti e (più tardi) con la regolamentazione della condotta sessuale nell’interesse in parte della purezza levitica, in parte dell’igiene. Ambedue i fenomeni sono noti anche all’IsIam e ad altre religioni ritualistiche fondate sulla «purezza». Il giudaismo da questo punto di vista supera in parte la letteratura e la prassi confessionale cattolica e risulta penoso e spesso ripugnante al nostro moderno sentimento erotico e a quel senso di dignità feudale o aristocratico proprio di un ceto colto che in verità era estraneo tanto al giudaismo quanto alla cappellanocrazia cattolica. L’astinenza dagli alcoolici e dalla carne, così com’era prescritta per l’indù ortodosso e praticata proprio dagli strati aristocratici, è ignota al rabbino e al laico devoto nel giudaismo: l’antico orgiasmo di Ba’al combattuto dai sacerdoti e dai profetici, era evidentemente soprattutto sessuale; un’orgiasmo della fertilità, quindi, non dell’ebbrezza alcoolica.

Come le donne e il vino rallegrano il cuore dell’uomo, lo stesso vale anche per la ricchezza e tutti i piaceri ritualmente leciti di questo mondo. La disposizione basilare dei vecchi rabbini nei confronti del mondo nell’insieme è bene espressa dalla parola talmudica, che il paradiso appartiene a colui «che fa ridere il suo compagno». In ogni caso non possiamo assolutamente cercare, sul terreno del giudaismo farisaico, un metodo di vita determinato in linea di principio dall’ascetismo. Il giudaismo farisaico esigeva un rigido ritualismo, come la religiosità ufficiale indiana. Per il resto era una religione di fede vivente nella fiducia in Dio e nelle sue promesse e nel timore del peccato e delle sue conseguenze come disobbedienza verso Dio. Ma certamente non implicava una condotta di vita ascetica.

È vero che in un punto il suo modo di vita si avvicinava ai princìpi ascetici: nel comando di un vigile autocontrollo e di un incondizionato dominio di se stessi. La necessità del primo era la conseguenza inevitabile della continua misurazione della correttezza del proprio modo di vivere rispetto alla legge con la sua straordinaria pluralità di comandamenti rituali e in particolare di divieti ai quali occorreva fare attenzione: si contavano 613 prescrizioni date da Mosè e la casistica rabbinica le aveva ancora moltiplicate. Il secondo punto era collegato in parte al primo, in parte all’antica opposizione contro l’orgiasmo. Mentre l’antico Geova israelitico era un dio dell’ira appassionata, più di qualunque altro, per i rabbini, come in Cina, ogni eccitazione era di origine demoniaca e pericolosa per la salvezza: era quindi un peccato. Predomina nel Talmud, almeno esteriormente, un atteggiamento molto diverso e fortemente in contrasto con la religiosità del salmi — abbondantemente permeata, come abbiamo visto, di ira e odio appassionato o acuto risentimento contro gli empi che se la passano bene — o con il compiacimento nelle fantasie di vendetta del Libro di Ester, e anche con l’odio ebionitico per la ricchezza del Vangelo di Luca, come si manifesta, per esempio, nella preghiera di Maria. Era ben nota, al Talmud, questa razionalizzazione religiosa del bisogni di vendetta sui nemici o sui fortunati, che pospone la propria vendetta contro l’ingiustizia, perché Dio la compirà molto più radicalmente, in questo mondo oppure nell’aldilà; o quella sublimazione ancora più spinta che perdona senza riserva il nemico, onde svergognarlo davanti agli altri oppure, e soprattutto, davanti a se stesso, e poterlo disprezzare. E i rabbini non solo riconoscevano acutamente l’essenza di questi fenomeni ma li rigettavano aspramente. Infatti nulla è sottolineato con tanta enfasi come il comandamento di non voler «svergognare» gli altri.

Ciò vale innanzitutto per le relazioni di pietà familiare: evitare di svergognare i genitori che si mettono nel torto nei confronti del figlio viene lodato come la più bella azione di pietà filiale. Ma lo stesso vale anche nei confronti di colui che causa un torto, soprattutto nel corso di contese e discussioni. La caduta senza speranza del giudaismo, sopravvenuta con la caduta del tempio, dava occasione evidentemente all’etica rabbinica di occuparsi, in un senso conforme all’etica dell’intenzione, di questi problemi del risentimento alimentato dalla vendetta repressa e sublimata. Il cristianesimo primitivo, non uso alla meditazione, ha riflettuto molto di meno su questi fatti e presenta quindi, com’è noto, un’etica del risentimento abbastanza scoperta, che nel giudaismo talmudico veniva combattuta.

Tuttavia la lotta dei rabbini contro l’interiorizzazione religiosa della vendetta, per quanti eticamente imponente e prova di una fortissima sublimazione del sentimento etico, dimostra essenzialmente che non restava nascosto nemmeno a loro quale forte fattore rappresentasse di fatto, nel tardo giudaismo, il bisogno di vendetta condannato all’impotenza.

4. L’essenismo e il suo rapporto con la dottrina di Gesù

Come mostra l’esempio precedente, il vigile autocontrollo dell’ebreo era già sviluppato molto fortemente nell’antichità. Ma non, in ogni caso, in base ad una metodica di vita ascetica.

Senza dubbio troviamo in seno al giudaismo delle istituzioni ascetiche. A prescindere dalle prescrizioni rituali di purezza e di astinenza per i sacerdoti, c’era soprattutto il digiuno rituale prescritto per determinati periodi. Ma questo era un precetto prettamente cultuale, motivato soprattutto come mezzo per placare l’ira di Dio. Lo stesso valeva per il digiuno individuale. Questo scopo era così generale che chiunque digiunava era considerato senz’altro un peccatore. Questi senza dubbio erano punti a cui avrebbe potuto collegarsi una condotta di vita ascetica: l’idea e la predicazione della necessità della penitenza è proprio specifica all’antico giudaismo e rappresenta un’importante derivazione della sua concezione di Dio. Proprio mentre si svalutava sempre di più il sacrificio sacerdotale, una vita di penitenza diventava un ovvio mezzo di salvezza per l’individuo. Vanno considerati senza dubbio come grandi penitenti quei pochi grandi digiunatori che la storia religiosa ebraica ci presenta (veramente accreditato è solo il R. Zaina). Continuarono a sussistere nella prassi voti come quello dell’antico nazireato, come mezzi per guadagnare la benevolenza di Dio o stornare la sua ira. Anche Paolo, notoriamente, ha prestato un voto (temporaneo) — presumibilmente per combattere i suoi attacchi epilettici — e lo ha sciolto quand’era già cristiano.

Solo molto più tardi però si giunse, sulla stessa base, alla costituzione di una setta ascetica, tra i «dolenti di Sion», i seguaci di Core, che qui non ci interessano. Al contrario ciò che nel campo del giudaismo farisaico sembra «ascesi» deriva in realtà esclusivamente dall’aspirazione alla purezza levitica, determinante per il farisaismo. Questa aspirazione poteva essere coltivata con diversa intensità. In seno al normale farisaismo portava ad un incremento dell’esclusivismo verso l’esterno e alla pratica sistematica della correttezza rituale, di cui abbiamo parlato, e che non esigeva un ritiro dalla sfera economica e sociale della vita quotidiana. Ma il principio naturalmente poteva essere spinto fino a un superamento radicale della morale intr amondana.

Su questa base si fonda il fenomeno più caratteristico dell’essenismo che in questo senso rappresenta esclusivamente una setta radicale farisaica. Questa risale senza dubbio al 11 secolo a. C. ma la sua età è incerta come pure la sua possibile relazione con i Recabiti; del pari vari problemi importanti della sua dottrina sono solubili solo in termini ipotetici. Tuttavia si può individuare chiaramente, come uno dei suoi elementi fondamentali, l’aspirazione all’assoluta purezza levitica sia esteriore che spirituale. Anche gli Esseni, come la più ampia fratellanza farisaica, costituivano un ordine. Ma con delle condizioni di ammissione molto più severe, in particolare i voti solenni, il noviziato, e un periodo di prova pluriennale. Anche l’organizzazione dell’ordine era molto più rigida e di tipo monacale: il superiore (mishmar) della singola comunità locale è un’autorità incondizionata; la scomunica è nelle mani di un consiglio di cento membri in senso pieno. L’apostolato presso gli Esseni serviva presumibilmente, come nella comunità ufficiale giudaica, soprattutto alle collette per le casse dell’ordine. Il fatto che gli apostoli giravano sempre a due a due — come i primi cristiani «serviva senza dubbio allo scopo di un controllo reciproco della correttezza rituale.

Gli Esseni si segregavano dai meno puri tramite l’esclusione non solo del connubio e della commensalità ma anche di qualsiasi contatto in genere. Anch’essi rifiutavano i sacerdoti che non vivevano correttamente e sembra che tra loro ne sia derivata non solo una svalutazione ma una forte sfiducia contro i sacerdoti in genere, il che certamente era anche dovuto alla loro posizione particolare verso il sacrificio, su cui torneremo tra poco.

Sul piano rituale l’aspirazione radicale alla purezza si esprimeva soprattutto, oltre che nel forte accento posto sul battesimo dei novizi e sui continui bagni purificatori ripetuti in tutte le occasioni immaginabili, nella maggiore severità dei comandamenti specificamente farisaici. Il timore della contaminazione rituale come pure tutte le prescrizioni di purezza erano spinti all’estremo. Ogni studio al di fuori della legge e della cosmologia biblica era considerato pericoloso, perché pagano; ogni piacere puramente mondano era riprovevole e da evitare. Per gli Esseni lo shabbàth non era un giorno di gioia, come per i normali Farisei, ma di riposo assoluto. L’accoppiamento per loro era limitato al mercoledì affinché, si supponeva, il bambino non venisse al mondo lo shabbàth. Le prescrizioni vestimentarie (zizit) erano considerate assolute. La preghiera del mattino era preceduta da un periodo prescritto di contemplazione. Non so lo l’uccisione, ma ogni offesa al prossimo, anche per disattenzione, era considerata una grave auto-contaminazione.

Al comandamento di non rubare venne data un’interpretazione più rigorosa: non gravare la propria coscienza nemmeno con un qualsiasi guadagno, la cui legittimità sembrava sempre problematica. Gli Esseni evitavano quindi il commercio come la guerra, rigettavano il possesso di denaro e di schiavi e limitavano la proprietà ammessa all’indispensabile per il fabbisogno personale e al guadagno realizzabile con la coltivazione della terra e il lavoro artigianale. Conformemente a ciò intensificavano gli antichi comandamenti sociali di fratellanza fino a un completo acosmismo d’amore sul piano economico. Non viene menzionata solo l’agape, il banchetto d’amore, i cui mezzi erano forniti dalle persone abbienti, ma Filone riferisce anche di case e di magazzini comuni e di un «tesoro» comune: probabilmente vi veniva deposto l’eccedente del proprio fabbisogno per servire al soccorso dei poveri che era molto sviluppato. Resta invece incerto se esistesse realmente un comuniSmo in senso pieno, o anche solo se queste istituzioni hanno raggiunto dappertutto, presso gli Esseni, il pieno perfezionamento. Infatti gli Esseni pur vivendo prevalentemente in Palestina, evidentemente non costituivano sempre una stabile comunità cenobitica. Al contrario, oltre al soccorso dei poveri, il dovere di accoglienza e di aiuto verso i fratelli in viaggio (quindi, certamente, apprendisti artigiani) era una delle loro istituzioni fondamentali e la cassa comune senza dubbio serviva prevalentemente a questo scopo.

L’ira e tutte le passioni, come stati di instillazione demoniaca, erano considerati più pericolosi ancora dagli Esseni che dai normali Farisei. Per questo probabilmente veniva ingiunta esplicitamente ai devoti, come mezzo radicale per combatterli, la preghiera per coloro da cui si era subito un torto: l’«amore per i nemici». La santificazione del nome di Dio li portò non solo a rigettare il giuramento ma anche a sviluppare un’autentica dottrina segreta e una disciplina arcana. Questa esigeva la castità rituale per coloro che volevano aver parte ai carismi promessi. Donde l’esigenza di una rigida continenza sessuale, ed una forte avversione al matrimonio la quale, del resto, nella misura in cui arrivava fino al totale rifiuto, non era incontestata nemmeno nei loro stessi circoli. Abbiamo visto d’altronde come secondo varie concezioni il matrimonio era considerato indesiderabile anche per il rabbino farisaico.

Sembra che il vero motivo del particolare modo di vita essenico vada cercato nei doni di grazia della dottrina segreta e nell’aspirazione ad essi. Troviamo qui infatti degli elementi chiaramente riconoscibili come estranei al farisaismo e al giudaismo in genere. La dottrina segreta, secondo Giuseppe Flavio, era contenuta in particolari scritti sacri tenuti accuratamente nascosti e al momento dell’ammissione come membro in senso pieno l’individuo doveva impegnarsi sotto giuramento a tacere nei confronti di terzi ma ad essere aperto verso i fratelli dell’ordine. Sembra che il contenuto della dottrina segreta consistesse in una reinterpretazione allegorica dei racconti sacri, in una spiccata fede nella provvidenza, in un’angelologia più rilevante che altrove, in alcuni atti di culto del sole — l’elemento estraneo più sorprendente — e nella promessa di immortalità, con il cielo e l’inferno, al posto della credenza farisaica nella resurrezione. Sul piano rituale il rifiuto del sacrificio di animali è una loro particolarità: essi si auto-escludevano in questo modo dal culto del tempio, ma mantenevano il rapporto con il tempio tramite l’invio di doni. Il carisma che la disciplina arcana doveva procurare era, secondo ogni apparenza, il dono della profezia, che Giuseppe Flavio attribuisce loro e che certamente si collega alla loro fede nella provvidenza. Accanto a ciò era celebre la loro terapeutica, in particolare la loro conoscenza delle virtù dei minerali e delle radici. La loro religiosità era essenzialmente una religiosità di preghiera cui si affiancava evidentemente un’intensa devozione meditativa.

Salta subito agli occhi che questi elementi della dottrina e della prassi essenica, che non erano più un’intensificazione ed un superamento del ritualismo di purezza farisaico, non derivavano nemmeno dal giudaismo. L’angelologia, anche quella farisaica, era di origine persiana. La stessa origine si manifesta nel dualismo dottrinale piuttosto rigido tra corpo e anima, benché qui si possa anche pensare a delle influenze elleniche. D’influenza prettamente persiana (o persiano-babilonese) è invece l’adorazione del sole che — contrariamente alla precedente dottrina — appare del tutto estranea al giudaismo e la cui stessa tolleranza da parte del giudaismo corretto in un primo momento sembra sorprendente. L’inclinazione al celibato, i gradi dell’ordine e il rifiuto del sacrificio degli animali potevano derivare da influenze indiane — tramite qualsivoglia mediazione — ma anche, come le abluzioni e i sacramenti, da sètte misteriche ellenistico-orientali: la stessa elaborazione della dottrina segreta potrebbe derivare proprio da questa fonte. Di fatto l’ordine essenico rappresentava un’unione tra la religiosità misterica sacramentale e il ritualismo di purezza levitico. Lo distingueva dagli altri misteri del Salvatore diffusi nel Medio Oriente la mancanza di un salvatore personale come oggetto di culto; la speranza messianica, fortemente coltivata, era anche per gli Esseni, come nel giudaismo farisaico, una speranza prettamente futura.

Secondo un giudizio corrente la setta, in base a tutto questo, avrebbe dovuto essere considerata eterodossa. Tuttavia il giudaismo, in virtù del suo carattere ritualistico, aggirava questo problema, come l’induismo in casi analoghi. Poiché la comunità manteneva i rapporti con il tempio e osservava la fede alla legge mosaica, che il farisaismo valutava sopra ogni altra cosa — anzi tale osservanza era speciale e meticolosa in senso farisaico — la collettività giudaica passava sopra le infiltrazioni palesemente eterodosse e tollerava la setta come un’associazione ebraica contraddistinta da voti e dottrine particolari indifferenti sul piano dell’ortodossia. è la stessa via che è stata seguita, finché fu possibile, nei confronti della comunità dei Nazareni giudaico-cristiani che presentava gli stessi presupposti, tenendo fede al tempio di Gerusalemme e alla legge.

Il confine tra il farisaismo e l’essenismo, tuttavia, era fluido, perlomeno per quanto riguarda il modo di vivere. è vero che questo tipo di organizzazione chiusa con divieto di attività tendenti a un profitto non risulta essere esistito nella sfera del normale farisaismo di quell’epoca, al contrario, per i Vangeli i Farisei erano i rappresentanti dell’«avarizia». Ma c’erano numerosi fenomeni singoli che indicavano un modo di sentire analogo. In primo luogo, l’acosmismo d’amore. Erano designati come hasheina (i «personaggi segreti») quelle persone benestanti che per principio e su grande scala distribuivano doni segreti ai poveri che li accettavano anch’essi in segreto e senza che si sapessero i loro nomi. Questo non avveniva solo occasionalmente e in maniera disorganizzata ma nell’ambito di una cassa comune creata a questo fine. Stando al Talmud, sembra che tali casse esistessero in quasi tutte le città. In ciò si manifesta il tratto caratteristico della carità talmudica, che corrisponde al comandamento rabbinico di non svergognare «nessuno» e al principio più tardi inculcato da Gesù: «che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra», perché solo in questo caso il dono merita la ricompensa celeste che altrimenti viene presa in anticipo. Questo tratto caratterizza anche la moderna beneficenza comune giudaica in contrasto, per esempio, con quella puritana ma anche con quella normale cristiana.

Dall’aspirazione alla assoluta purezza nasceva la fuga da tutti i «piaceri» mondani così com’era praticata dal kadash («santo») alla maniera dell’Esseno; si trovano occasionalmente anche degli eremiti barnaim («contadini», cioè da èremi). Tuttavia questi fenomeni di autentico rifiuto del mondo sono altrettanto estranei al normale farisaismo quanto le corrispondenti regole e vanno senza dubbio spiegati anch’essi con influenze non-giudaiche. Sul piano rituale si trovano certe reminiscenze dell’antica prassi chassidica e di quella essenica presso i WatiìQm la cui preghiera del mattino era regolata col massimo rigore formale e in modo tale che la sua fine coincidesse con il sorgere del sole, e vi sono molti altri fenomeni analoghi. Il giudaismo farisaico, malgrado tutta la sua correttezza rituale e la sua rigorosa segregazione dai pagani, era esposto alle più diverse invasioni di rituali eterogenei (per esempio il rituale del culto del sole). E anche se lo sviluppo di una vera e propria dottrina segreta era pienamente estraneo al farisaismo, tuttavia gli era impossibile ostacolare la diffusione di profezie e di aspettative apocalittiche escatologiche di un Messia. Ora queste, di fatto, agivano in modo analogo e l’aria ne era piena, come mostra con la massima chiarezza l’ambiente in cui si svolgono le storie e i miti evangelici.

L’organizzazione, la condotta di vita religiosa e l’etica degli Esseni sono spesso state messe in relazione, in particolare da parte giudaica, con la prassi proto-cristiana. Gli Esseni, come i cristiani, conoscevano il battesimo, il banchetto d’amore (agape), il comuniSmo d’amore acosmico, il soccorso dei poveri, l’apostolato (però nel senso giudaico del termine), l’avversione per il matrimonio (per i membri miranti alla perfezione), i carismi e soprattutto la profezia come stato di santità cui si aspiravag11. La loro etica, come quella proto-cristiana, era rigorosamente pacifista, raccomandava l’amore per i nemici, stimava altamente le speranze di salvezza dei poveri, giudicava sfavorevolmente quelle dei ricchi, proprio come gli elementi ebionitici dei Vangeli. A ciò si aggiungevano gli elementi dell’etica comune farisaica affini a quella proto-cristiana. Rispetto all’etica farisaica quella essenica come quella proto-cristiana spesso rappresentava un’intensificazione della stessa. Ma il carattere di questa intensificazione è molto diverso qua e là. Infatti, proprio riguardo alla purezza rituale (levitica), Gesù nella sua predicazione va già in tutt’altra direzione. La parola del Signore, di poderosa efficacia, che non è ciò che entra nella bocca a rendere l’uomo impuro, ma ciò che ne esce e viene da un cuore impuro, significa che per lui l’elemento decisivo era la sublimazione nel senso di un’etica dell’intenzione, non l’intensificazione ritualistica della legge di purità giudaica. All’ansiosa segregazione degli Esseni nei riguardi dei ritualmente impuri si oppone la sua noncuranza nei rapporti e nella commensalità con gli stessi, testimoniata da fonti sicure.

Tuttavia le concezioni etiche che si trovavano da ambedue le parti erano diffuse nelle forme più svariate nel territorio d’origine di ambedue le comunità e istituzioni analoghe erano comuni in parte già alla chavurah farisaica, in parte, bisogna presumere, a diverse comunità cultuali. Ciò che conta è che tanto l’epifania di un salvatore personale attuale ed il suo culto, quanto il potente significato dello «spirito» (πνεῦμα), specifico del cristianesimo primitivo, rimasero, per quanto ne sappiamo, del tutto estranei agli Esseni.

È vero che il pneuma, come carisma e segno di uno stato di grazia esemplare, non era un concetto estraneo al giudaismo e nemmeno alla dottrina del farisaismo. Lo «spirito di Jahvè» che scende sull’eroe (Sansone) come carisma del Berserker, e sul re (nell’ira selvaggia di Saul), ma soprattutto sui veggenti, profeti, taumaturghi come carisma della visione e dell’annunciazione profetica ed eventualmente del miracolo: che è necessario al gran sacerdote affinché possa purificare validamente il popolo; che si ritira da lui (Pinehas) e abbandona il re o l’eroe se pecca: questo «spirito» è potente anche nel maestro. Come il profeta vede e ode attraverso lo spirito, così anche il maestro insegna tramite esso. Nel Talmud si chiama ruach ha-kodesh, nella traduzione della Septuaginta del Salmo 51, 11 e di Isaia 63, 10-11 è πνεῦμα τὸ ἅγιον; la sua controparte demoniaca è l’insegnamento dello «spirito impuro»; nei Vangeli gli scribi lo chiamano lo spirito di Belzebù, del «principe dei demoni». I rabbini, per timore del nome di Dio, al posto del termine «spirito santo», usano spesso il nome shekhina. Nacque la dottrina secondo cui lo «spirito divino», che all’inizio della creazione planava sulle «acque», sarebbe stato creato il primo giorno. La colomba, simbolo di Israele perseguitato, talvolta viene trattata anche nel Talmud come latrice dello spirito.

Anche nella letteratura talmudica incontriamo la concezione secondo cui lo spirito santo svolge per gli uomini il ruolo di synegor, cioè «paracleto»h11: intercessore, soccorritore degli uomini presso Dio. Ma la dottrina secondo cui il periodo profe tico era chiuso generò l’assunto per cui lo spirito santo sarebbe scomparso dal mondo con Malachia. Non lo si può più ottenere; rimane solo il bath kol, lo spirito, di cui il rabbino ha bisogno per la corretta interpretazione della legge divina. D’altra parte Gioelei11 così aveva concepito la purezza e la santità degli eletti dopo la venuta del Messia: lo spirito santo sarebbe stato impartito a tutti, i figli e le figlie avrebbero profetizzato, gli anziani avrebbero avuto sogni e i giovani visioni, e lo spirito sarebbe stato infuso anche sui servi e le serve. Su questa base, il risveglio dello spirito santo in tutti gli uomini era considerato il segno che indicava l’avvento del Messia e l’inizio imminente del regno di Dio. Questa idea è stata determinante per la concezione proto-cristiana del miracolo della Pentecoste. Lo «spirito», in questo senso specifico di un dono divino irrazionale di profezia, non poteva essere rivendicato dai rabbini né per se stessi né tantomeno come segno dello stato di grazia dei membri della comunità.

Per quanto fosse forte l’autorità del maestro rabbinico, egli non poteva mai pensare a rivendicare l’autorità di un «superuomo» spirituale. La sua autorità si fondava sempre sulla parola scritta fissata nella Torah e dai profeti. Ogni sviluppo orientato verso un’adorazione del pastore di anime, alla maniera dell’adorazione del guru in India, in Asia e nel cristianesimo, era del tutto escluso. Era escluso dalla stessa concezione giudaica di Dio, che costringeva a rigettare ogni divinizzazione di creatura come un’abominazione pagana. Ma il rabbino non veniva nemmeno considerato come possibile oggetto di una venerazione come quella tributata ai santi o ai mistagoghi nei fenomeni cristiani o asiatici di questo tipo. Egli attende ad una professione religiosa ma non dispensa la grazia: questo era in origine, entro certi limiti, il carisma del sacerdote. Esso venne conservato — più che altro formalmente, a dire il vero — dai kohariim qualificati attraverso la discendenza keramitica, in quanto soltanto essi erano qualificati per pronunciare la «benedizione sacerdotale». Solo il movimento chassidico nell’Europa orientale creò, con lo zaken, il virtuoso della mistica chassidica, una figura che corrispondeva al tipo del santo ausiliatore e del mistagogo, ma le cui rivendicazioni proprio per questo erano in acutissimo contrasto con l’autorità del rabbino e venivano da questi rigettate come eresia. Il rabbino giudaico non dispensava la grazia sacramentale, né era un santo ausiliatore carismatico. Il suo particolare bene religioso era il «sapere». A questo tuttavia veniva attribuito un altissimo valore; egli precede in onore le persone anziane e gli stessi genitori: «il sapere è al di sopra di tutto». Il senso della sua autorità personale stava soprattutto nell’esempio che dava: nella sua condotta di vita esemplare. La sua caratteristica però era esclusivamente il rigido orientamento sulla parola divina.

Anche nei suoi doveri professionali il rabbino era un servitore della «parola». Non un «predicatore», bensì un «maestro». Insegnava la legge al circolo chiuso dei suoi discepoli: non indottrinava pubblicamente la comunità tramite la predica. è vero che insegnava anche nella sinagoga. Ma nell’antico giudaismo, per quanto ne sappiamo, ciò avveniva pubblicamente solo il sabato, alla vigilia delle grandi feste, e i giorni Kallaben. Anche in questi casi lo scopo era l’istruzione della comunità devota intorno ai suoi doveri rituali in tali occasioni; come del resto il rabbino stava accanto al singolo individuo, nei casi di dubbio, in veste di consigliere circa i suoi doveri rituali. Infatti, accanto alla formazione sistematica dei discepoli nella legge, il dare responsi alla maniera dei giuristi romani, l’attività arbitrale e, per il rabbino chiamato nel Bed Din, anche una vera e propria attività giudiziaria costituivano gli aspetti fondamentali del suo lavoro professionale. Al contrario la predica pubblica etico-religiosa il pomeriggio del sabato non aveva nessuna organizzazione nel giudaismo antico. Tuttavia, nella misura in cui aveva luogo — e la cosa poteva essere molto frequente — era già allora, come più tardi, in mano a tutt’altre personalità che i veri rabbini locali: il maghid, il maestro errante di formazione rabbinica del periodo posteriore è certamente un fenomeno molto antico. Come sofista errante, ospite dei membri agiati delle comunità, viaggiava dall’una all’altra, senza dubbio proprio come Paolo che predicava per le sinagoghe. Certo, non apparivano solo oratori erranti. Ma la libertà molto ampia di insegnamento e di predica permetteva di predicare a chiunque riteneva se stesso qualificato ed era considerato tale dalla comunità. Lo facevano anche gli «scribi» per i quali il vangelo era un vero e proprio presupposto rituale; ma non lo facevano, evidentemente, come normale dovere professionale. D’altra parte al rabbino spettavano solo dei compiti che non erano di natura sacerdotale ma consistevano nell’ordinamento puramente tecnico-rituale di determinate attività: nel giudaismo antico soprattutto l’esecuzione del bagno rituale (jnikweK) e la shechitah, la macellazione rituale (schàchten145), che egli doveva sorvegliare e talvolta eseguire di persona. La cosa essenziale in tutto questo era e rimase la competenza per l’interpretazione della legge.

Ora, il carattere tecnico di questa interpretazione della legge corrispondeva al carattere socialmente determinato dello strato che ne era il più importante portatore: la piccola borghesia, a cui gli stessi rabbini dell’antichità appartenevano in grandissima parte. Si è già rilevato come il «buon senso» e quel razionalismo etico-pratico che è sempre vicino agli strati borghesi come atteggiamento interiore avevano una forte influenza sul tipo di manipolazione della legge compiuto dai rabbini. Vennero fatti valere, così, da un lato la ratio delle norme invece della lettera, dall’altro i bisogni pressanti della vita quotidiana, soprattutto dell’economia. Mancava del tutto invece la possibilità di un pensiero razionale veramente «costruttivo» ossia, il vero pensiero «giuridico», come esercitato dai giureconsulti romani e solo da loro — il che significa, in pratica, la capacità di elaborare concetti razionali. I rabbini non erano un ceto puramente mondano né tantomeno aristocratico di giuristi come i giureconsulti romani bensì dei maestri plebei di rituale religioso. Non solo il vincolo interiore con la legge positiva divina era di per sé più forte di quanto non possa mai esserlo il vincolo del giurista col diritto positivo, ma a questo si aggiungevano le forme e i limiti tipici di ogni razionalismo piccolo-borghese. Interpretazione di parole e analogie espressive sostituivano l’analisi concettuale, la casistica concreta teneva il posto dell’astrazione e della sintesi.

La giurisprudenza rabbinica più antica, sempre ampiamente orientata verso i bisogni pratici razionali, ma più prettamente verso i singoli casi concreti, conobbe, è vero, una sorta di «ampliamento» teorico dopo la caduta del tempio, quando le grandi scuole rabbiniche in Mesopotamia e in Palestina diventarono centri organizzati della giurisprudenza e lo rimasero per tutto il mondo culturale fino all’epoca carolingia. Nello stesso tempo la dignità rabbinica venne legata all’ordinazione (imposizione delle mani) da parte del patriarca o del suo legittimo rappresentante, e venne prescritto un regolare corso accademico con frequenze ai corsi, domande e discussioni con l’insegnante, prebende di studio e convitti.

L’organizzazione speciale della fratellanza farisaica evidentemente era scomparsa; più tardi chaver indica un uomo che ha studiato con particolare zelo la legge, cioè il tipico notabile tardo-giudaico, e perushìm si trova per designare gli studenti. Lo «spirito» del farisaismo era onnidominante nel giudaismo. Ma non più come spirito di una fratellanza attiva, bensì come puro spirito dello studio della scrittura. Dio stesso, secondo concezioni talvolta emergenti, «studia» la legge eternamente valida onde orientarsi in base ad essa, così come il creatore del mondo indiano pratica l’ascesi per poter creare il mondo. Poteva svilupparsi d’ora in poi un pensiero sistematico staccato dal singolo caso concreto. Tuttavia la sua particolarità era in parte legata alla tradizione degli antichi rabbini, in parte invece alla struttura sociologica del contesto.

Il ritualismo farisaico in fatto di purezza portò in primo luogo ad una crescita delle barriere rituali tanto verso l’esterno che all’interno. Anche, e specialmente, all’interno: la comunità essenica si asteneva, per timore di contaminazione, dal connubio, dalla commensalità e da ogni vicino contatto con il resto dei Giudei e ci si chiede se era l’unica conventicola di questo genere. Del pari la fratellanza farisaica si segregava dal ’am haarezj11; il giudaismo gerusalemmita e quello influenzato dai sacerdoti di Gerusalemme si segregava dai Samaritani e da tutti gli altri residui di fede jahvista, legati agli antichi culti locali ed esterni alla sfera d’influenza dei profeti e del clero gerosolimitano, dopo che i Samaritani erano stati formalmente esclusi dal sacrificio a Gerusalemme, pur non essendo alieni al parteciparvi. Nacque così una rigida struttura dei credenti in Jahvè la quale, in quanto ritualmente determinata, era analoga alla struttura di casta. Accanto a ciò, all’interno, i previlegi ereditari delle stirpi di sacerdoti e di Leviti continuarono a sussistere; queste non erano soggette alla completa esclusione dal connubio con altre schiatte giudaiche, ma bensì al comandamento dell’ipergamia. A ciò si aggiunse ora il rifiuto rituale, in parte esecrazione e in parte disapprovazione, di certi mestieri, come elemento costitutivo dello status religioso.

Disprezzati e disprezzabili erano considerati, oltre ai conduttori di asini e di cammelli e ai mercanti di vasellame anche i trasportatori per terra e per mare e i magazzinieri: tutti questi, senza dubbio, perché sembrava impossibile per loro condurre una vita ritualmente pura; le prime categorie, naturalmente, anche perché in origine erano costituite da lavoratori-ospiti di origine straniera. A queste si aggiungevano le professioni di maghi e di indovini di ogni sorta su cui pesava la maledizione deuteronomica. Ma per i ritualmente puri erano riprovevoli anche altri mestieri come quelli di venditori ambulanti, barbieri, flebotomi, veterinari, certi lavoratori della pietra e inoltre conciatori, mungitori, cardatori, tessitori e orefici. Per molti di questi mestieri veniva addotto il motivo che portavano chi l’esercita a un contatto sempre sospetto con le donne; per il resto però era determinante anche qui la generica sfiducia nella possibilità di conciliare la professione con la correttezza rituale, e anche, senza dubbio, l’origine di immigrati di molti di loro (come gli orefici). Un gran sacerdote non può essere scelto in una famiglia che si è dedicata a questi mestieri. Sembra però che non tutti questi mestieri fossero esclusi dall’ordine farisaico o comunque non durante l’intero periodo talmudico: perlome no, troviamo un conciatore tra i rabbini più noti (R. Jose) e, come si è già osservato prima, addirittura un astrologo. Sono menzionate nella letteratura talmudica delle speciali sinagoghe per alcuni degli antichi regi mestieri artigiani: ramai e cassieri; erano frequenti i posti separati per professione nella sinagoga comune. Proprio le professioni dei regi artigiani (accanto ad altre) erano di fatto in ampia misura delle professioni ereditarie di famiglia e gli stessi artigiani erano membri di tribù straniere, importati dal re, il che spiega senza dubbio la loro posizione speciale. Tra i mestieri disapprovati si trovano anche quelli che più tardi, nel Medioevo, sono stati esercitati in larga misura dai Giudei; e anche nell’antico giudaismo il rifiuto di queste professioni non indica un’autentica segregazione di tipo castuale. Tuttavia la struttura interna del giudaismo tardo-antico presenta dei tratti importanti in questo senso.

5. Crescente segregazione rituale dei Giudei

È soprattutto però verso l’esterno che il giudaismo assunse sempre più il tipo del popolo-ospite ritualmente segregato (popolo-paria). E lo fece di sua spontanea volontà, non sotto la pressione di una reiezione esterna. La diffusione generale dell’«antisemitismo» nell’antichità è un fatto. è anche vero però che questo rifiuto dei Giudei, che dapprima si è solo lentamente intensificato, andava di pari passo con il rifiuto sempre più rigido dei rapporti comunitari con non-giudei da parte degli stessi Giudei.

L’antica avversione per i Giudei era ben lontana dall’essere un’antipatia di tipo «razziale»: ne è prova sufficiente la vasta portata del proselitismo di cui parleremo tra poco. L’elemento decisivo per i rapporti reciproci è stato piuttosto l’atteggiamento di rifiuto degli stessi Giudei. Riti devianti e dall’apparenza assurda erano noti in abbondanza nell’antichità: certamente il motivo non va cercato in questi. La pronunciata asebia dei Giudei verso gli dèi della polis di cui godevano il diritto di ospitalità doveva indubbiamente essere sentita come empia ed offensiva. Ma anche questo non era decisivo. Se si guarda al nocciolo della questione, la «misantropia» dei Giudei tornava continuamente ad essere l’accusa ultima e definitiva: cioè il loro rifiuto di principio del connubio, della commensalità e di ogni sorta di fratellanza o di comunanza più stretta, perfino nel campo degli affari. Né bisogna sottovalutare come questo atteggiamento fosse legato al fortissimo sostegno della fratellanza offerta ad ogni giudeo farisaico tramite la chavurah: l’influenza economica di questo fattore non può essere sfuggita all’attenzione della concorrenza pagana.

L’isolamento sociale dei Giudei, questo «ghetto» nel senso più profondo del termine era prima di tutto fondamentalmente scelto e voluto da loro stessi e anzi in maniera sempre più intensa. In primo luogo sotto l’influenza dei soferìm, poi sotto quella dei Farisei. I primi, come si è visto, si adoperavano principalmente a preservare la purezza della fede dei Giudei. Ben diverso era il caso dei Farisei. Essi rappresentavano innanzitutto e soprattutto una dottrina (ritualistica): una confessione e non ߞ perlomeno in prima linea — una nazionalità. E ad una segregazione senza riguardi verso i ritualmente impuri si accompagnava un lavoro dei più appassionati per la propaganda della loro comunità verso l’esterno: il reclutamento di proseliti. «Ipocriti, che percorrete terre e mari per conquistare anche un solo proselite!» grida loro Gesù (Matt., 23, 15).

6. Il proselitismo nella diaspora

Di fatto, proprio i Farisei più zelanti consideravano gradita a Dio la conquista, se possibile, di un proselita ogni anno: la propaganda giudaica, come quella tardo-cristiana del periodo post-apostolico, avveniva perlopiù tramite le autorità ufficiali. La posizione di quest’ultime, come pure quella della letteratura ufficiale, era mutevole.

L’antica tradizione della legge (Es., 12, 48) portava ancora le tracce del tempo in cui la religione jahvista della confederazione si diffondeva con l’ammissione alla cittadinanza in senso pieno di tribù vicine e di schiatte di geritn, ossia meteci e clienti residenti in Israele dove godevano solo di un diritto di protezione. La posizione giuridica dei meteci era regolata ed erano anche definite (Es., ibid.) le facoltà rituali che essi potèvano acquisire solo con la circoncisione. La profezia (Is., 14, 1) prediceva l’avvento di stranieri che verranno ad Israele rientrato nel possesso delle sue terre e «saranno incorporati nella casa di Giacobbe». Questo passo, insieme alla promessa ad Abramo e ai numerosi accenni che facevano pensare alla venuta di tutti i popoli della terra ad Israele e all’adorazione universale del suo Dio sembravano dimostrare che la propaganda era gradita a Dio, forse anzi costituiva addirittura un mezzo per preparare il tempo per la venuta del Messia.

Tuttavia le opinioni si dividevano, anche nella letteratura sacra. Le leggende di Ruth e di Giona erano decisamente favorevoli al proselitismo. Ma un’importante autorità come Esdra era contraria; l’organizzazione gentilizia del clero e della ricostituita polis di Gerusalemme, di cui era l’autore, ostacolavano, perlomeno, l’ingresso del singolo nell’associazione. Inoltre, per l’auspicata segregazione del popolo santo, Esdra dava un’importanza decisiva alla purezza del sangue.

Tutto ciò era completamente diverso per la piccola borghesia farisaica e faceva pendere ancora una volta il piatto della bilancia presso i suoi esponenti, in particolare quelli della diaspora, a favore della propaganda. Portare un pagano nella shekhina (la «casa di Dio») era, per la maggior parte dei maestri, incondizionatamente meritevole. Tanto che presto, facendo uso dell’antico concetto di meteco, si giunse a considerare valida anche quella propaganda che si asteneva dall’esigere dal proselite l’immediata assunzione di tutti i doveri rituali, in particolare la circoncisione, e promuoveva un’aggregazione provvisoria come semplici «amici», semi-giudei. Infatti l’esigenza della circoncisione rappresentava ovviamente un serio ostacolo per la propaganda tra uomini adulti: anche per questo il numero delle donne tra i proseliti in senso pieno era di gran lunga superiore a quello degli uomini.

Si distinguevano trek11 livelli di aggregazione: 1) il ger hatoshav, l’«amico», il semi-convertito, che accettava la fede monoteistica e l’etica giudaica (del Decalogo) ma non il rituale giudaico: la sua condotta rituale restava del tutto incontrollata ed egli non aveva rapporti formali con la comunità; 2) il ger ha-shaar («proselita della porta») che secondo la teoria corrisponde all’antico meteco sotto giurisdizione giudaica: egli dichiara, davanti a tre membri della fratellanza, di non adorare idoli; è legato ai sette comandamenti noa-hidi146 allo shabbàth, al tabù sui suini, ma non alla circoncisione; è membro passivo della comunità con limitati diritti di partecipazione alle feste e alle solennità della sinagoga; 3) infine il ger ha-zadek o ger ha-berith («proselita della giustizia») che dopo la circoncisione e l’assunzione dei doveri rituali è ricevuto nella comunità in senso pieno: in seguito a ciò i suoi discendenti diventano giudei a pieno titolo solo alla terza generazione.

Questa prassi si fondava sull’aspettativa che il ger ha-toshav e tanto più il ger ha-sha’ar, pur temendo per se stesso la circoncisione, poteva tuttavia decidersi a far circoncidere i suoi figli e farli diventare giudei in senso pieno; e in moltissimi casi certamente tale aspettativa non è stata delusa. Infatti questa prassi veniva bene incontro agli interessi dell’ambiente circostante, soprattutto a quelli degli Elleni.

Ciò che attirava quest’ultimi verso il giudaismo non era ovviamente il suo rituale. Questo sarebbe avvenuto solo se, conformemente a tutto il carattere della religiosità ellenistica, il rituale giudaico avesse offerto mezzi di redenzione magici o sacramentali e promesse sul tipo dei misteri; ossia, vie e stati di salvezza irrazionali. Ora proprio tutto ciò era estraneo al giudaismo. La sua forza d’attrazione proveniva invece dalla grandiosa concezione di Dio con il suo carattere maestoso, dall’eliminazione radicale dei culti di divinità e idoli percepiti come menzogneri, e soprattutto dall’etica giudaica che appariva pura e vigorosa, e anche dalle semplici e chiare promesse per il futuro: in definitiva da elementi razionali. Il giudaismo attirava a sé quegli elementi che trovavano il loro appagamento religioso nella purezza dell’etica e nella potenza della concezione di Dio. Lo stesso rigido ordinamento della vita offerto dal rituale costituiva in sé una potente forza d’attrazione e doveva agire con particolare efficacia in tempi che, dopo il crollo degli stati nazionali ellenici, vedevano il decadimento del rigido ordinamento, di tipo tradizionale militare, della vita del cittadino nella polis e tramite essa.

Il periodo del razionalismo intellettuale, con la sua crescente razionalizzazione «borghese» della religiosità ellenica, soprattutto negli ultimi secoli della repubblica romana, fu anche la grande epoca del proselitismo giudaico. Chi per indole o destino era disposto ad una ricerca di salvezza mistica, irrazionale, ne sarà rimasto lontano, così come l’epoca di ricerca sempre più intensa di stati di salvezza irrazionali non tornò a favore del giudaismo ma delle religioni misteriche e del cristianesimo.

Il pieno rituale giudaico veniva presumibilmente adottato con la massima frequenza, per sé o i propri figli, da persone di quegli strati che avevano interesse ad aderire aH’organizzazione della fratellanza farisaica: per quanto ne sappiamo tale era il caso, infatti, tra i piccoli borghesi, in particolare gli artigiani e i commercianti al minuto. Benché la fede giudaica fosse religio licita, il convertito in senso pieno perdeva, secondo il diritto amministrativo romano, il jus bonorum e la legge giudaica lo rendeva non idoneo a ricoprire un ufficio in quanto gli proibiva la partecipazione al culto di stato. La diaspora giudaica, dal canto suo, aveva però un forte interesse non solo all’incremento dei suoi membri ma anche a guadagnarsi degli «amici» al di fuori, soprattutto nei circoli influenti e idonei alle cariche ufficiali; il tipo di soluzione del problema era quindi, anche dal suo punto di vista, perfettamente conforme allo scopo. In pratica si trattava di un compromesso tra l’elemento confessionale e l’elemento gentilizio.

I Giudei di nascita e gli osservanti ortodossi da tre generazioni avevano nella comunità uno status privilegiato rispetto ai convertiti e ai loro figli e nipoti. Al di fuori della comunità, in un rapporto analogo a quello dei «laici» rispetto ai bhikku147 in India, stavano i proseliti non circoncisi ma impegnati dai voti, ed i semplici «amici». Il rituale era incondizionatamente vincolante per i giudei di nascita e i convertiti circoncisi, lo era in parte per i proseliti impegnati dai voti e non lo era affatto per gli «amici». Talvolta però si trovano delle vedute sostanzialmente ancora più liberali. Veniva talvolta perfino messo in dubbio se la circoncisione prescritta per il popolo giudaico era davvero indispensabile per la conversione dei non-giudei di nascita e se non bastasse un bagno di purificazione rituale (cioè un battesimo). Sembra che talvolta i responsi dei rabbini abbiano legittimato dei matrimoni misti con proseliti (non circoncisi). Queste opinioni tuttavia erano isolate.

7. La propaganda degli apostoli cristiani

Le condizioni effettivamente prevalenti si manifestano chiaramente nella lotta scatenata dalla missione paolina nella comunità proto-cristiana come pure nel giudaismo. I racconti del Nuovo Testamento, che sotto questo aspetto portano il marchio della piena credibilità nei punti decisivi, mostrano che — contrariamente a quanto ancora spesso si crede — non è stato l’inizio della missione tra i pagani (e i proseliti incirconcisi) a suscitare conflitti e tempeste. I capi delle comunità gerusalemmite, rigidamente ortodossi nell’osservanza del rituale e del culto del tempio, in questo caso si erano messi su un piano prettamente realistico da un lato, in linea con il modo tradizionale di trattare i proseliti incirconcisi dall’altro. Avevano enunciato per questi ultimi un’etica minimale inviata alla comunità missionaria di Antiochia per mezzo di due messaggeril11: dovevano astenersi dall’idolatria, dal sangue, dalle carni soffocate e dalla fornicazione; per il resto però non dovevano essere legati al rituale. Se facevano questo erano, come li chiama il passo citato, «fratelli d’origine pagana». Anche dal punto di vista farisaico ciò era del tutto ineccepibile.

In seguito però giunse a Gerusalemme la notizia che Paolo svolgeva la sua attività missionaria anche tra i Giudei in senso pieno inducendo anche loro ad abbandonare l’osservanza del rituale. In riferimento a quella lettera Giacomo e gli Anziani gli chiedono conto di ciò in nome della comunità di Gerusalemmem11. Per liberarsi da questo sospetto gli viene chiesto di sottoporsi alla solita prova di purificazione nel tempio insieme a quattro penitenti legati da voto. Paolo accetta, ma i numerosi Giudei presenti, reduci dalla diaspora, che lo scorgono nel tempio, cercano di linciarlo perché, secondo loro, egli 1) sobilla contro la legge e il culto del tempio, cioè predica l’apostasia dalla legge (tra i Giudei !) e 2) avrebbe introdotto un incirconciso (Trofìmo) nel tempio (cosa che Luca contesta)n11. Il tumulto che ne segue dà adito al suo arresto.

La missione tra i pagani o i proseliti incirconcisi non gli viene rimproverata: anzi, Giacomo e gli Anziani la lodano esplicitamenteo11. Paolo predicava, quasi senza eccezione, nelle sinagoghe, ed è chiaro, e spesso rilevato, che era la massa dei proseliti incirconcisi a costituire le truppe scelte delle sue comunità missionarie. In loro il giudaismo ha preparato la via alla missione cristiana. è vero che le difficoltà, anche puramente esterne, della missione cristiana, non erano tutte risolte con il compromesso sui proseliti dei Gerusalemmiti. Ambedue le parti, gli Anziani di Gerusalemme come Paolo, si destreggiavano e compivano passi incerti. La questione della commensalità con i proseliti incirconcisi era stata apparentemente risolta tra Pietro e Paolo, ad Antiochia, in senso affermativo; in seguito però, sotto l’influenza di Giacomo, Pietro si era tirato indietrop11. Dal canto suo però Paolo, contrariamente alla sua condotta nel caso di Titoq11, circoncise Timoteor11 per fargli ottenere la commensalità con i Giudei dell’Asia Minore. I Gerusalemmiti sono passati sulle posizioni di Paolo solo gradualmente e parzialmente; Pietro, evidentemente, solo dopo la morte di Giacomo. D’al tro canto 1’antica comunita ebionitica della Palestina rimasta fedele alia legge trattava Paolo come un apostata. Il motivo decisivo che costrinse i capi dei Gerusalemmiti a dei cedimenti fu, come risulta dalle fontis11 la constatazione che i convertiti dal paganesimo erano investiti dallo spirito e dai sintomi che lo accompagnavano nello stesso modo dei cristiani giudei. Per questo secondo Pietro, durante la cui predicazione in Cesarea si verificarono questi fatti, non poteva essere loro negato il battesimo e l’equiparazione. Indipendentemente dal valore storico dei particolari il fatto fondamentale sicuramente e esatto e getta luce sul grande mutamento avvenuto. Nel giudaismo, infatti, lo spirito profetico sarebbe stato controllato rapportando la sua predicazione alia legge e, su questa base, accettato o rifiutato. Per il cristianesimo antico, invece, lo spirito ed i suoi segni e doni erano il metro che determinava il grado di vincolo richiesto con il rituale giudaico. Nello stesso tempo pero e ben chiaro che questo «spirito», il pneuma, aveva sostanzialmente una dinamica diversa dal ruach ha-kodesh del giudaismo ortodosso.

La concorrenza tra il giudaismo e il cristianesimo nella loro missione di proselitismo ebbe termine con la prima e, definitivamente, con la seconda distruzione del tempio sotto Adriano dopo che in particolare nell’ultima guerra numerosi proseliti avevano commesso tradimenti contro i Giudei. In seno alle comunità giudaiche i dubbi circa il reclutamento dei proseliti non erano mai stati completamente ridotti al silenzio. Ora presero sempre più il sopravvento.

Le condizioni di ammissione per i proseliti vennero regolate e l’accettazione fu legata all’approvazione di un consiglio di rabbini al completo. Emerse l’opinione che i proseliti erano «molesti come la lebbra per Israele». Il numero delle conversioni calò sotto la pressione di stati d’animo ostili ai Giudei. Intervennero gli imperatori: poiché le conversioni rendevano non-idonei agli uffici, non potevano essere tollerate. Dione Cassio148 riferisce di leggi severe già sotto Domiziano. La circoncisione di non-giudei venne proibita ed equiparata alla castrazione. Non diminuivano solo le piene conversioni ma anche, e forse di più, le semi-conversioni: sembra che già nel 111 secolo il ger-toshav fosse diventato raro e più tardi emerse l’assunto secondo cui la sua esistenza era conforme alle Scritture solo fintanto che Israele era esistito come stato. Ovviamente sotto gli imperatori cristiani la propaganda (398 d. C.), come pure il tenere degli schiavi cristiani, espondendoli alla tentazione del reclutamento di proseliti, furono assolutamente proibiti. Le leggi di proibizione di Domiziano devono certamente essere tornate a beneficio della propaganda cristiana che dappertutto subentrava all’eredità del giudaismo.

Il forte inasprimento dei rapporti tra giudaismo e cristianesimo che appare già nelle diverse posizioni dei Vangeli in correlazione con il loro periodo d’originet11 ma soprattutto nella letteratura posteriore, in un primo tempo è stato provocato essenzialmente da parte giudaica. I Giudei, nella loro qualità di religio licita, si servivano della situazione precaria dei cristiani, che non erano protetti da privilegi analoghi ai loro verso il dovere del culto dell’imperatore, per mettere in moto attraverso denunce il potere dello stato contro di loro. Erano quindi considerati dai cristiani come i promotori della persecuzione. Le barriere elevate da ambedue le parti divennero ora insormontabili: il numero di Giudei convertiti al cristianesimo è calato rapidamente e praticamente già a partire dal iv secolo era pressoché pari a zero, soprattutto nei vasti strati della piccola e media borghesia, prima ancora che gli interessi finanziari dei principi nel Medioevo facessero apparire desiderabile ai loro occhi la sopravvivenza dei Giudei.

L’obiettivo della conversione dei Giudei è stato proclamato molto spesso dal cristianesimo, di regola però solo a parole. In ogni caso, i tentativi delle missioni come pure le conversioni forzate rimasero ovunque e in tutti i tempi ugualmente infruttuosi. Le promesse dei profeti, l’orrore e il disprezzo per il politeismo cristiano, soprattutto però la fortissima tradizione creata da un’educazione dei giovani, di intensità senza pari, ad una condotta di vita rigidamente ordinata sul piano rituale; e ancora la potenza delle comunità sociali rigorosamente ordinate, della famiglia e della collettività dei fedeli, che l’apostata perdeva senza avere in vista un inserimento equivalente e certo nelle comunità cristiane; tutto ciò faceva e fa perseverare la comunità giudaica nella sua posizione, scelta da lei stessa, di popolo-paria, fintante e nella misura in cui lo spirito della legge giudaica, e cioè lo spirito dei Farisei e dei rabbini della tarda antichità, ha continuato e continua a sussistere intatto.

* La religione di Israele e il giudaismo sono oggetto di una letteratura la cui autentica padronanza richiede un lavoro che supera i limiti di una vita umana. In particolare ciò è anche dovuto al suo alto valore qualitativo. Inoltre per quanto riguarda l’antica religione israelitica, la moderna ricerca protestante, in particolare quella tedesca, ha avuto ed ha tuttora notoriamente un ruolo di primo piano. In materia di giudaismo talmudico non vi sono dubbi circa la netta superiorità della ricerca ebraica. Tentando qui di esporre gli aspetti più rilevanti di questo sviluppo per il problema che ci interessa dobbiamo ridurre a priori ad un livello assai modesto le speranze di poter portare anche un qualsiasi contributo essenziale al progresso del dibattito sull’argomento. Ma a prescindere dal fatto che ancora oggi sulla scorta del materiale ricavato dalle fonti è forse possibile dare a vari fatti un inquadramento diverso da quello usuale, in particolare per quanto riguarda il rilievo dato ai vari fenomeni, anche il modo di porre il problema differisce naturalmente in alcuni punti dall’impostazione degli studiosi dell’Antico Testamento, e ciò a ragion veduta.

Finora la riflessione storica pura ha subito un reale pregiudizio qui come ovunque in casi analoghi solo attraverso l’introduzione di giudizi di valore nella pura analisi obiettiva. A domande di un certo tipo, ad esempio se la concezione mosaica di Dio o l’etica mosaica (ammesso che fossimo in grado di stabilirne i contenuti in maniera univoca) siano «superiori» a quelle dell’ambiente circostante, una disciplina puramente empirica, storica o sociologica, non è comunque in grado di rispondere. Tali questioni si possono sollevare generalmente solo partendo da determinate premesse religiose. Tuttavia una parte non trascurabile di tutto il lavoro anche puramente empirico sui problemi della storia religiosa israelitica ne è fortemente influenzata nel metodo. Naturalmente la questione può essere posta in questi termini: determinate concezioni israelitiche appaiono: i) più o meno arcaiche («primitive») rispetto alla successione graduale che si trova altrimenti nello sviluppo delle religioni, oppure 2) più o meno intellettualizzate e razionalizzate (nel senso che si sono disfatte delle rappresentazioni magiche); oppure 3) più o meno sistematizzate in senso unitario o, 4) più o meno orientate verso un’etica dell’intenzione (sublimate) di quanto non lo siano le concezioni corrispondenti dell’ambiente circostante? Si possono confrontare gli imperativi posti per esempio dall’etica del Decalogo, con quelli di altre creazioni corrispondenti e, nella misura in cui ambedue hanno sviluppi perfettamente paralleli, si può accertare quali imperativi assenti nell’etica dell’uno sono stati posti invece altrove, e viceversa. Del pari si può indagare sulla concezione di Dio e il tipo di rapporto religioso con la divinità accertando per il primo aspetto il grado di universalismo, di rigetto dei tratti antropomorfici, ecc., per il secondo il grado di unificazione e di orientamento in senso conforme all’etica dell’intenzione. Da ciò risulta facilmente per esempio che la concezione israelitica di Dio è meno universalistica e più antropomorfica della concezione indiana più antica, e che l’etica del Decalogo, per certi aspetti importanti, ha esigenze più modeste non solo di quella indiana (in particolare di quella jainista) e di quella zoroastriana ma anche di quella egiziana; risulta inoltre che determinati problemi fondamentali (per esempio quello della teodicea) appaiono nella religiosità israelitica e precisamente in quella dei profeti solo in forme relativamente «primitive». Tuttavia un ebreo (o un cristiano) credente protesterà fermamente e con ragioni incontestabili che in questo modo non si è tirato fuori il seppur minimo elemento circa il «valore» religioso di quelle concezioni. Naturalmente ogni lavoro puramente empirico tratta i fatti e i documenti che riguardano lo sviluppo della religione israelitico-giudaico-cristiana alla stessa stregua di tutti gli altri, cerca di interpretare i documenti e di spiegare i fatti secondo gli stessi identici princìpi che applica agli altri e ignora quindi, qui come altrove, i «miracoli» e le «rivelazioni». Ma in un caso come nell’altro è parimenti escluso che la ricerca empirica voglia o semplicemente possa impedire a chiunque di dare il valore di «rivelazioni» a quei fatti che essa tenta di spiegare empiricamente nella misura consentita dalle fonti disponibili.

Tutto il lavoro oggi svolto sull’Antico Testamento si basa, sia pure con tutte le possibili divergenze, sulle grandiose opere d J. WELLHAUSEN (i Prolegomena zur Geschichte Israels, la Israelitischen und jiidischen Geschichte, e tra le altre opere in particolare la Komposition des Hexateuch) il quale dal canto suo ha applicato sapientemente e portato alla massima perfezione sistematica quei metodi che non sono più stati abbandonati dai tempi di de Wette, Vatke, Graf e sono stati portati avanti da Dillmann, Reuss ed altri. La sua concezione fondamentale sul tipo di sviluppo proprio alla religione ebraica può essere contrassegnata innanzitutto dall’espressione «evoluzionistico-immanente»: le tendenze particolari, intrinseche, della religione di Jahvè, determinano, sia pure naturalmente sotto l’influenza del destino generale del popolo, il suo corso di sviluppo. Il sorprendente ardore con cui si scaglia contro la brillante opera di Ed. Meyer (Die Entstehung des Judentums, Halle, 1896), benché questo scrittore gli abbia reso la più ampia giustizia, si spiega con queste sue premesse che in ultima analisi tuttavia rivelano un indubbio condizionamento religioso. Infatti il lavoro di Ed. Meyer, come c’è da aspettarsi in una storia universale dell’antichità, pone le sorti e gli eventi concreti (in questo caso un determinato provvedimento a carattere politico nell’ambito della politica persiana) in prima linea nell’imputazione causale e preferisce quindi una spiegazione «epigenetica ?> in questo senso. Nella controversia tra i due autori, oggi Ed. Meyer si ritrova dalla parte della ragione secondo l’opinione pressoché generale. In particolare, una trattazione «evoluzionistica» della storia della religione israelitica può facilmente scivolare nel campo di quei presupposti che offuscano le cognizioni imparziali quando — cosa che del resto proprio nel Wellhausen non avviene — dogmatizza i risultati della moderna etnografia e della scienza comparata delle religioni applicandoli allo sviluppo religioso concreto di Israele e stabilisce quindi che quelle rappresentazioni magiche ed «animistiche» che sono state osservate quasi in tutto il mondo presso i popoli «primitivi» dovevano esistere anche agli inizi dello sviluppo della religione di Israele lasciando il posto alle concezioni religiose «superiori» solo nel suo ulteriore svolgimento.

Gli scritti di RobertsonSmith (in tedesco: Die Religion der Semiten) e i lavori, alcuni eminenti, sia di studiosi specializzati nell’Antico Testamento che di altri studiosi, hanno senza dubbio dimostrato a ogni pié sospinto, come del resto c’era da aspettarsi, le analogie esistenti in particolare nell’ambito dei comandamenti rituali e dei miti e leggende di Israele con numerose rappresentazioni magiche e animistiche già osservate al-trove (Ed. Meyer si è poi preso gioco a ragione di coloro che avrebbero voluto addirittura trovare delle prove di «totemismo» in Israele). Solo che a questo proposito si dimentica talvolta che Israele ha senza dubbio incominciato la sua esistenza storica sotto forma di una confederazione contadina, che però (in maniera un po’ analoga alla Svizzera) si è trovata in mezzo ad un mondo circostante che aveva sviluppato da molto tempo una cultura scritta, un’organizzazione urbana, un commercio marittimo e carovaniero, degli stati burocratici, una scienza sacerdotale, delle osservazioni astronomiche e delle speculazioni cosmologiche. All’evoluzionismo etnografico si oppone quindi l’universalismo storico-culturale, soprattutto degli studiosi assirologi, che ha la sua forma più radicale nei cosiddetti «panbabilonisti».

I rappresentanti di questa concezione storica vanno molto lontano su questa via; si tratta di studiosi del rango di Schrader (opera principale: Die Keilinschrijten and das Alte Testament, nuova edizione a cura di H. Winckler) e di H. Winckler (opera principale: Geschichte Israels in Einzeldarstellung, 2 voli.), dell’ancor più radicale Jensen, e in maniera più prudente e occasionale anche A. Jeremias, di gran lunga più moderato ma pur sempre fedele al «principio» di tale visione (oltre al suo Handbuch der altoriental. Geistesku, ltur, 1913, va ricordato soprattutto Das Alte Testament im Lichte des alten Orients, 2舠 ed. 1916). Non sono mancati tentativi di ravvisare per esempio un’origine teologico-astrale nella maggior parte dei racconti del Pentateuco o di fare dei profeti i membri di un partito sacerdotale internazionale del Medio Oriente.

Le conferenze e gli articoli di Fr. Delitzsch portano la cosiddetta Babel-Bibel-Streit149, in circoli assai noti. Difficilmente oggi si verifica da parte di seri ricercatori il tentativo, avutosi in certi periodi, di far derivare la religione israelitica dai culti astrali babilonesi e dalla scienza segreta sacerdotale babilonese. (Dal lato degli egittologi andrebbe citato, come estremo parallelo di simili eccessi, lo scritto a mio avviso radicalmente sbagliato di D. Vòlter, Aegypten und die Bibel, Leiden, 1903, da confrontare con i lavori, alquanto prudenti, di W. Max Mùller, soprattutto Asien and Europa, e la letteratura specialistica che in parte verrà citata più avanti). Se nella seguente esposizione si parla poco anche di quei risultati degli studi «panbabilonistici» che meritano un indiscutibile riconoscimento, ciò non avviene per disprezzo ma esclusivamente perché l’etica pratica di Israele viene per noi in prima linea ed i rapporti importanti sul piano storicoculturale che interessano i panbabilonisti non sono quelli decisivi ai fini della comprensione di quest’etica. Tuttavia l’influenza delle loro tesi èstata di grande importanza per la ricerca. Tramite queste tesi la religione israelitica è stata ridotta ad una variazione delle religioni culturali confinanti. Questo a sua volta ha necessariamente influito di rimando sull’impostazione problematica degli studiosi del Vecchio Testamento. Poiché era impossibile negare l’esistenza di forti influenze, della cultura babilonese innanzitutto, ma anche di quella egiziana sulla Palestina, la ricerca sul Vecchio Testamento aveva nel frattempo già intrapreso dal canto suo, sotto la direzione in particolare di Gunkel, di apportare delle notevoli correzioni allo schema di sviluppo di Wellhausen. Risaltavano ora con maggiore chiarezza i fatti riguardanti da un lato la commistione della religiosità israelitica con elementi propri alle rappresentazioni magiche c animistiche, dall’altro i nessi con le grandi zone culturali confinanti; il lavoro si concentrò su un problema, in verità determinante, ossia: in cosa consiste allora la particolarità, pur sempre innegabile in ultima analisi, dello sviluppo della religione israelitica rispetto a quegli elementi comuni in parte universalmente diffusi, in parte condizionati da concreti nessi culturali? e inoltre, da cosa è determinata questa particolarità storica?

Subito però ricominciò la confusione con i valori condizionati dalle posizioni religiose personali. L’«unicità» venne subito trasformata da una parte dei ricercatori in un valore unico nel suo genere, e lo dimostra per esempio una tesi come quella secondo cui l’opera di Mosè sarebbe già stata una creazione «supcriore» per contenuto religioso ed etico a tutti i prodotti del mondo circostante (esempi di questo tipo sono stati offerti specialmente da vari lavori di un autore per il resto benemerito, il Baentsch, al quale si è opposto in particolare Budde). Se così la ricerca in casi particolari è stata talvolta sviata, attraverso i valori, dalla pura definizione storico-empirica dei fatti, tuttavia i frutti dell’egregio lavoro degli studiosi del Vecchio Testamento sono stati tali per la critica della tradizione che anche lo studioso più conservatore non avrebbe più potuto sottrarsi ad essi.

La difficoltà di giungere a conclusioni positive e ineccepibili sta in particolare nelle controversie, che il non-filologo di regola non è in grado di verificare, intorno al testo delle fonti che spesso è stato corrotto proprio nelle sue parti più importanti o ha subito interpolazioni ed emendamenti in epoche ignote. Spesso l’esito dipende anche dai dubbi più o meno radicali circa l’autenticità di quelle notizie che i loro redattori, i sacerdoti, potevano avere un qualche interesse a falsificare. Nell’insieme sarà bene che per tutte quelle notizie che non danno adito a sospetti di falsificazione, né per motivi linguistici in base alle vedute concordi dei più autorevoli specialisti filologi, né per motivi oggettivi inconfutabili basati sul loro stesso contenuto, il non specialista adotti in un primo momento unatteggiamento ipotetico e veda se tali notizie non sono utilizzabili malgrado tutto come mezzo di comprensione storica. Questo modo «conservatore» (in questo senso) di trattare le fonti si riscontra in misura assai diversa presso i singoli studiosi del Vecchio Testamento; tuttavia recentemente, per reazione contro l’estrema scepsi, è giunto già ad uno stadio che sotto molti aspetti va forse troppo in là. Su una posizione estremamente conservatrice si trova per esempio la dettagliatissima opera, per il resto eccellente, di KITTEL,Geschichte des Volkes Israels (2 voli, in 2* ed., rispettivamente 1909 e 1912).

Tra le altre trattazioni moderne si cita a titolo introduttivo la concisa Geschichte des Volkes Israels di H. GUTHE (2舠 ed. 1904), il buon sunto di Valeton in Chantepie de la Saussaye, «Lehrbuch der vergi. Rei. Gesch.» (1897) l’ŶP di C. F. Lehmann-Haupt,Israel - Seine Entwicklung im Rahmen der Weltgeschichte (Tiibingen, 1911), che traccia molto chiaramente le fasi dello sviluppo della politica estera di Israele. Accanto all’opera di Kayser-Marti ci si potrà valere con soddisfazione della Religionsgeschichte di Smend. Per la ricerca scientifica nel campo dell’antica storia israelitica rimane tuttavia particolarmente indispensabile, malgrado tutte le critiche, lo scritto di Ed. Meyer (con aggiunte di Luther): Die Israeliten und ihre Nachbarstàmme (Halle, 1906). Sulla situazione interna e su quella culturale, oltre al compendio di archeologia ebraica di Benzinger (1893) e Nowack (1894) ’ PŶ consultare anche lo scritto di Frants Buhl (Die sozialen Verhàltnisse der Israeliten). Per la storia religiosa, oltre all’opera di B. Stade,Biblischer Theologie des A. Test, (I, 1905; II, Bertholet, 1911), spesso contestabile nei dettagli, ma oltremodo sostanziosa e concisa, è degna di considerazione, proprio per le sue formulazioni sempre molto precise, l’opera postuma di E. Kautzsch (Die bibl. Theologie des A. T., 1911). Per lo studio comparato delle religioni va segnalata la raccolta pubblicata da Gressmann in collaborazione con Ungnad e Ranke:Altorientalische Texte und Bilder zum Alten Testament, 1909 (che purtroppo non mi è stata accessibile nel corso della revisione del manoscritto). Tra i numerosi commenti al Vecchio Testamento quello pubblicato da K. Marti in collaborazione con Benzinger, Bertholet, Budde, Duhm, Holzinger, Wildeboer costituisce una lettura particolarmente gradevole per il non specialista. Molto meritoria e per alcuni aspetti eccellente è la traduzione con commento moderno degli Schriften des. A. T. di Gressmann, Gunkel, Haller, H. Schmidt, Stark, Volz (1911-14, ancora in via di prosecuzione), indirizzata ad un pubblico più vasto (e quindi in parte troppo libera, e soprattutto non perfettamente ordinata per fonti scritte, argomenti e ordine cronologico).

Singole citazioni di altre opere si trovano più avanti ai passi che leriguardano. La letteratura, e anche la letteratura qualitativamente di primo rango, è così vasta che le citazioni in genere sono state fatte solo laddove se ne presentava un particolare motivo concreto. In questo caso mi è parso poco probabile che un’omissione potesse far credere a una pretesa da parte mia di esporre «nuovi» fatti e concezioni. L’idea non mi sfiora nemmeno. Sono nuove in certa misura alcune delle formulazioni di problemi sociologici che sono state applicate ai dati.

a. Sulle condizioni naturali della Palestina, accanto ai lavori di informazione generale sulla Palestina, cfr. i numerosi articoli in Zeitschrift e in Mìtteilungen und Nachrichten des Deutschen Palàstinavereins, Sul clima antico (epoca talmudica), cfr. H. KLEIN «Z.D.P.V.», 37, 1914, pp. 127 e segg.

b. Nel Libro di Giosuè (15, 19) Caleb, cui è stato assegnato Hebron, dà come dote a sua figlia della «terra del mezzogiorno» (erez ha-negev) e alla sua preghiera vi aggiunge «le sorgenti superiore e inferiore». La terra coltivabile, contrariamente alla steppa, si chiama sadeh.

c. Cfr. in particolare le osservazioni di Schumacher nella sua relazione di viaggio nella Transgiordania, in «Mitt.u.N.d.D.P.V.», p. 1094 e segg.

d. C’è ora sull’argomento l’eccellente lavoro di R. Leonhard,Dìe Transhumanz im Mittelmeergebiet (in «Festschr. fiir L. Brentano» Mùnchen, 1916).

e. Migliori osservazioni metereologiche si trovano ora in F. Exner, «Z.D.P.V.», 33, 1910, pp. 107 e segg.

f. FellachensprichwɃrter und Gebete raccolti dal Dr. Cana’an, in «Z.D.P.V.», 36, 1913, pp. 285, 291.

g. La questione, se la terra di Canaan può aver meritato questa denominazione e cosa significhi, è controversa. Cfr. per gli ultimi tempi ad esempio Kraus, «Z.D.P.V.», 32, p. 151 che, in base alla sua interpretazione letterale delle fonti talmudiche, voleva vedere nello «scorrere» il fatto di far coagulare latte di capra con miele di frutta fatto di datteri, fichi ed uva. Al contrario Simonson, Ibid., 33, p. 44 la considera a ragione un’espressione che va intesa in senso figurato. Del pari Dalman, «M.u.N.D.P.V.», 1905, p. 27: «Focaccia dolce come il miele», rifacendosi all’odierna interpretazione degli Ebrei palestinesi. Dalman ritiene che la Palestina sia stata da sempre povera di bestiame. Di opinione contraria è L. Bauer (Ibid., p. 65), la cui trattazione a mio avviso è la migliore, che richiama l’attenzione sull’abbondanza di latte ancora oggi nel paese (burro e latte sono gli alimenti principali) e interpreta il miele come miele d’uva; quest’ultima ipotesi è però contestata da Dalman (Ibid., 1906, p. 81) come erronea per l’antichità, quando il miele di datteri sarebbe stato la varietà di miele più diffusa. Hansler («Z.D.P.V.», 35, 1912, p. 186) mette in dubbio che l’abbondanza di miele sia sempre esistita. Tuttavia anche nelle-lettere di Amarna (n. 55 dell’edizione di Knudtzon) si trova il miele come compenso in natura di una guarnigione egi-ziana. Il miele che l’egiziano fuggitivo Sinuhe all’epoca di Sesostri I menziona, accanto alla cultura dei fichi, degli ulivi e della vite come abbondantemente presente nel Retenu era forse anch’esso miele di datteri. La manna sapeva di pane col miele (Es3, 13). E Isaia annuncia (7, 22-23) che quando la Palestina, dopo la devastazione degli Assiri, sarà di nuovo come la steppa, dove invece della vite crescono sterpi e rovi, i pochi devoti rimasti mangeranno panna e miele come nel passato. Per questo anche il salvatore bambino Immanuel mangerà panna e miele (7, 15). Ciò ricorda la nutrizione di Zeus fanciullo a Creta: panna e miele. Per questo motivo GRESSMANN preferisce l’interpretazione puramente escatologica dell’espressione come cibo divino (Die hraelit. Eschatologie, p. 207 e segg., cfr. anche la letteratura indicata più avanti). Tuttavia il cibo divino costituisce anche il cibo umano ideale dei ricchi in una regione di steppa.

h. Ein Gemcinwesen ohne Obrigkeit, «GɃttinger Kaiser-Geburtstagrede», 1900.

i. Così uno sceicco del Retenu, nel paese a est di Biblo (è lì che secondo gli ultimi dati va cercato il teatro di questi fatti), che domina territori con culture di viti, ulivi e fichi fa dell’egiziano fuggitivo Sinuhe un suo funzionario e gli dà della terra in feudo.

j. J HELL,Beitràge zur Kunde des Orients, pp. 161 e segg. (anche per quanto precede).

k. Dei mercanti «ismaeliti», cioè beduini, comperano Giuseppe ai suoi fratelli (Gen., 37, 25).

l. Nelle sue iscrizioni Sennacherib parla di numerose rocche del re Ezechia che egli avrebbe espugnato. Anche le cronache narrano delle rocche di Ezechia come pure delle numerose rocche di frontiera di Roboamo. Le guarnigioni avrebbero avuto in feudo delle rocche. Le città di cui si parla nelle lettere di Amarna in parte evidentemente erano semplicemente delle rocche di questo tipo. Anche i capi carismatici possedevano delle città, vedi Davide e in tempi più antichi Abimelech.

m. Cfr. W. Max Muller, «Jew. Quart. R.N.S.», 4, 1913-14, p. 65.

n. Il bitu di Tiro era (Knudtzon, n. 89) distinto dal bitu del reggente insediato dal faraone. Una lettera attira l’attenzione del faraone sul fatto che non è il reggente a cui egli si rivolge sempre che determina la politica di Tiro bensì quella cerchia di persone che ha il dominio sul municipio. Il reggente più tardi venne ucciso.

o. Quando (Knudtzon, n. 129) vengono menzionati i «grandi» di una città resta incerto se con ciò s’intendano i funzionari o gli anziani delle schiatte patrizie; comunque la popolazione urbana influenza la politica. La gente di Dunip ottiene dal re (n. 50) una persona determinata come governatore. La popolazione urbana di Biblo sbarra le porte della città al suo governatore, un cananeo, di comune accordo con il fratello ribelle di quest’ultimo. Altrove fa causa comune con i nemici inoltratisi nel paese: il reggente è minacciato di morte. La città viene persa quando la guarnigione egiziana in seguito alla mancanza delle quote di vettovagliamento e al rifiuto delle corvées si sottrae al servizio del governatore e ritira i soldati o magari si ribella per conto proprio. Penso di dover interpretare così le circostanze che affiorano nei nn. 117, 37; 138; 77, 36; 81, 33; 74; 125 e altre volte, in parziale divergenza con l’eccellente interpretazione di O. Weber nel vol. II dell’edizione curata da Knudtzon. Mi sembra del tutto improbabile che la gente che si ritira per penuria di alimenti siano «contadini». è vero che l’espressione usata è la stessa che in Mesopotamia designa i «coloni» (contrapposti ai liberi patrizi). Ma i (ià/taot del faraone erano proprio per la maggior parte gente investita di piccolissimi feudi («feudi di fanteria») e i huubshtshi dei documenti sono precisamente dei prebendari militari che ne hanno la commissione liturgica, quali si trovano tipicamente nel Medio Oriente e in Egitto. Il campo, cioè il feudo del governatore, è rimasto incolto (n. 74) per via del rifiuto della corvée e quindi egli si trova in stato di bisogno. Lo stesso vale per la guarnigione che per questo defeziona. Le guarnigioni sono evidentemente poco numerose: i governatori richiedono di tanto in tanto una nuova guarnigione di 50 uomini o anche meno. I mezzi in genere sono scarsi: un tributo in bovini del principe di Megiddo ammonta a 30 pezzi. è poco probabile che tra la gente che consegna la città al nemico (n. 118, 36) vadano intesi i contadini: come avrebbero potuto farlo ? è la gente della città che a Biblo come altrove ha messo in atto la ribellione. Non posso nemmeno trovarmi d’accordo con O. WEBER quando asserisce {op. cit., p. 1178) che a Tiro e in altre città l’aristocrazia era egiziana mentre il demos sarebbe stato ostile al dominio egiziano. Un demos potente a malapena esisteva a quell’epoca perfino nelle maggiori città. Erano invece proprio i patrizi, cioè le ricche schiatte cittadine interessate al commercio, quelle a cui riuscivano moleste le liturgie e i tributi imposti dal dominio egiziano. Nei documenti figurano dei notevoli pagamenti in denaro.

p. Knudtzon n. 290: una città di provincia nel territorio di Gerusalemme si è ribellata. Nel n. 288 si menziona che il viceré di Gerusalemme in precedenza ha tenuto delle navi sul mare. Ma quale mare? A mio avviso sul Mar Rosso del sud (si fa menzione della ribellione di Seir in Edom). I principi regnanti di Gerusalemme hanno sempre tentato di impossessarsi delle vie carovaniere che portano al Mar Rosso. Il dominio della città si stendeva quindi ampiamente sul deserto.

q. All’infuori di Gios., 15, 45-47, vengono citati come dipendenze delle città solo villaggi, non altre città. Tuttavia dove si parla di «figlie» si intende sicuramente una dipendenza-città, non un villaggio. Cfr. su tutta la situazione SULZBERGERPolity of the ancient Hebrews, «Jew. Quart. R.N.S.», 1912-13, p. 17. Caratteristico delle tribù allevatrici di bestiame della Transgiordania (Ruben) è il fatto che si parla sempre di «stirpi, città e figlie». Qui all’epoca della redazione questa organizzazione non era ancora stata completata.

r. Mi sembra che l’unica lacuna nelle eccellenti esposizioni di Ed. Meyer (sia in Die hraeliten und ihre Nachbarstàmme che in Entstehung des ]udentum) stia nel fatto che non vi risulta sottolineata questa distinzione che si estende lungo tutta la prima antichità fino alla «democrazia». Non tutti i liberi proprietari terrieri nelle città antiche, in particolare nelle città-stato, erano dei cittadini attivi o anche beneficiari di uguali diritti politici; lo erano solo quelli economicamente atti a prestare il servizio militare. In Israele questi erano i gibbore chail. Nelle città-stato israelitiche pienamente sviluppate esistevano sicuramente anche dei liberi proprietari fondiari israeliti che non appartenevano a questa categoria e di conseguenza, come i perieci elleni ed i plebei romani, erano esclusi dalla piena cittadinanza.

s. I termini 舖am e gibborìm giustapposti si trovano nei passi piuttosto corrotti del Cantico di Debora (Giud., 5, 13). Se adottiamo la lezione di Kittei e in conclusione leggiamo kaggiborim, come propone Gressmann, ne risulta un senso più chiaro che presuppone però che 舖am e gibborìm siano due categorie diverse, questi ultimi essendo i «cavalieri», i primi i contadini israeliti (cfr. vers. 11 e 14) che hanno combattuto «come cavalieri» pur non essendolo. Al contrario sembra che la città di Meros (vers. 23) avesse l’obbligo di venire in aiuto alla lega con i suoi cavalieri {gibborìm), ed è caratteristico che il canto di vittoria maledica sì la città ma non le tribù contadine che pure anch’esse avevano infranto l’alleanza e quindi ritiene giusta la sua messa al bando ed il suo annientamento nella guerra santa. Di regola gibbor indica l’eroe cavalleresco, come in Gen., 6 o nella lista dei paladini di Davide. Privo di connotazioni è il termine 舖am ha-milchamah, «popolo guerriero» che ricorre abitualmente soprattutto nel Libro di Giosuè ma si trova anche nei Libri dei Re. In Gios., 10, 7 viene impiegato accanto a gibbore chail. Gibbor e 舖am ha-milchamah possono apparire l’uno accanto all’altro come due termini distinti in Is., 3, 3. Ma i gibborìm appaiono come anshe chail in Is., 6, 22, e il fatto che non tutti i guerrieri come tali fossero gibborìm si vede in Ger., 5, 15 dove si parla del popolo straniero guerriero che arriva come punizione di Giuda: questo sarebbe tutto di gibborim, cioè in questo caso guerrieri addestrati.

Quanto fosse costoso poi l’equipaggiamento di un gibbor all’epoca delle origini del Libro di Samuele è messo in luce dalla storia di Golia. Questi aveva bisogno di un portatore per il suo scudo, che del resto viene menzionato anche per Saul.

t. Sembra escluso che i «40.000» di Israele (Giud., 5, 8) fossero considerati gibbore chail come suppone Ed. Meyer. Nel Cantico di Debora i gibborim vengono citati precisamente non lì ma nella città di Meros.

u. La divergenza non è assoluta. Nel mito babilonese del diluvio universale si presuppone l’esistenza del popolo e degli «Anziani» di una città (traduzione di Gunkel,SchɃpfung und Chaos, p. 424, riga 33) e d’altra parte Chamor si chiama il «padre» di Sichem certamente solo nella sua qualità di eponimo della casata. Un singolo anziano si trova già negli antichi testi di Ur: N. de Genouillac,Textes jurìd. d. l’ep. d’Ur, in «Rev. d’Assyr.», 8, 1911, p. 2.

v. Cfr. su questo argomento e sugli Anziani in generale la buona tesi fatta a Leipzig da SEESEMANN,Die Aeltesten in A. T., 1891. Sul contrasto in seno al Deuteronomio Puukko per primo ha richiamato l’attenzione, nello scritto che si citerà più avanti, su questo Libro della Legge, p. 971.

w. «Fùnfzìgern»1 significa «arruolare», Esodo, 13, 18; Giud., 7, 11; Gios., 1, 14; 4, 12 (cfr. ED Meyer, op. cit.).

x. Le «migliaia» sono equiparate alle località: Giud., 6 (per Ofra).

y. Sui shevatim, mtshpachoth e ala firn, cfr. Sulzberger,op. cit., pp. 1 e segg., pur con varie enunciazioni contestabili.

z. Le «migliaia» sembrano essere comuni anche presso gli Edomiti e nella Transgiordania. Gedeone parla del suo «migliaio» mentre Abimelech e Saul parlano del loro mìshpacha (Ed. Meyer). Solo che la tradizione di Gedeone è notoriamente rielaborata e la costituzione militare del regno militare degli Edomiti non dimostrerebbe nulla di certo riguardo alla caratteristica organizzazione originaria dei nomadi e dei semi-nomadi. Lo stesso Ed. Meyer ricollega il migliaio al ^leros (chelelO che è proprio dell’insediamento urbano.

a1. Così per le tribù transgiordane scomparse da molto tempo a quell’epoca (I Cron., 5, 18).

b1. Così per Beniamino, I Cron., 8, 40.

c1. Davide non è abituato alla corazza mentre Golia è un erriero che porta l’armatura.

d1. Contrariamente alla supposizione di Klamroth (Die judischen Exulanten in Babylonien, «Beitr. z. W.v.A.T.», io, 1912, excurs., pp. 99 e segg.) non posso credere che 舖am ha-arez in origine possa aver indicato solamente o gli «abitanti del luogo» o i «sudditi» e per giunta in parte «in senso spregiativo», in parte comunque in contrapposizione al re, alla gerarchia ecclesiastica e all’aristocrazia, ossia la «plebe». è vero che oltre ai sacerdoti il re (ed i principi) e i funzionari e ufficiali erano distinti da questa categoria. Questi sono gli «uomini», più precisamente le popolazioni rurali, in origine armate. Ma tra questi è chiaro che vanno annoverate anche le schiatte rurali godenti di pieni diritti, la «nobiltà rurale» se si vuole impiegare questa espressione. Queste infatti — e non dei qualsiasi «contadini» senza capo — sono le genti che (Esdra, 4, 4) ostacolavano le costruzioni a Gerusalemme e che da Esdra vengono chiamate 舖ammè ha-arazoth, uomini di diverse regioni. Il significato dell’espressione prima e dopo l’esilio è senza dubbio difficile da stabilire con certezza dato il modo impreciso di esprimersi delle fonti. In bocca al faraone, nella parte presumibilmente aggiunta più tardi all’esposizione jahvista dell’esodo dall’Egitto (Es., 5, 5), l’espressione significa semplicemente «il popolo» (d’Israele). Altrove, nella letteratura più antica, questa espressione si trova da un lato nel secondo Libro dei Re, dall’altro nei Libri di Geremia e di Ezechiele. In ambedue questi profeti l’atteggiamento nei riguardi dello ’am ha-arez è marcatamente ostile. Geremia (i, 18) sarà un muro di bronzo contro re, funzionari, sacerdoti e 舖am ha-arez se questi si rivoltano contro di lui: tale è la promessa di Jahvè quando chiama il profeta. In Ezechiele (22, 29) lo 舖am ha-arez opprime il «povero» (evjon) ed il ger; egli è dunque rappresentato come un uomo socialmente potente. Nel II Re, 25, 19 viene menzionato un ufficiale di Sedekia che doveva addestrare lo ’am ha-arezk sessanta di questi vengono trovati dai Babilonesi nella città e deportati a Babilonia. Subito prima, durante l’assedio di Gerusalemme, viene riferito (II Re, 25, 3) che lo ’am ha-arez era rimasto senza viveri ?— come dalla guarnigione delle lettere di Amarna — e che in seguito a ciò (25, 20) lo 舖am ha-milchamach, i guerrieri, fuggirono dalla città. Si è tentati di vedere nello ’am ha-arez i liberi guerrieri reclutati e addestrati nelle campagne, contrapposti ai guerrieri (soprattutto mercenari) che si trovavano alla corte del re. è vero che tali ipotesi rimane incerta. Ma al berith per la liberazione degli schiavi per debiti, sotto Sedekia, partecipava accanto ai principi, ai funzionari ed ai sacerdoti anche «tutto lo 舖am ha-arez», secondo quanto narrato in Ger., 34, 19; sembra quindi che tra di loro ci fossero anche dei proprietari di schiavi per debiti, come lascia intendere anche il passo di Ezechiele. «Tutto lo ’am ha-arez» esulta con il re Joas (II Re, 11, 14), spezza l’altare di Ba’al, lo ’am ha-arez uccide gli assassini di Amon (id., 21, 24) e dopo la morte di Giosia insedia Joachaz come re (22, 30). Le prescrizioni per i sacrifici espiatori allineano, uno dopo l’altro, l’olocausto per l’intera comunità, per un principe, infine per un 舖am ha-arez (Lev., 4, 27). L’uso linguistico è quindi senza dubbio molto impreciso. Di fatto il termine spesso indicherà semplicemente il popolo. Ma è escluso comunque che in origine 舖am ha-arez designasse il «suddito» o la plebe contrapposta ai nobili, né tantomeno lo «stolto contadino». I contadini ignoranti sono chiamati nel Libro di Geremia (5, 4) dallim e nel Libro di Isaia (2, 9) il contadino è chiamato adam contrapposto a ish che è l’«uomo» nel senso di ish ha-milchamah, il «guerriero». Gli 舖am ha-arez invece sono israeliti con pieni diritti; si tratta evidentemente degli antichi Israeliti prevalentemente rurali soggetti all’obbligo del servizio nella milizia (dai quali non venivano distinti i proprietari terrieri delle città). La teoria li considerava prima come dopo membri della milizia e quindi titolari dei diritti politici. Nella reazione alla rivolta presumibilmente jahvista contro Amon essi appaiono evidentemente come interessati ai luoghi di culto locali.

e1. È questa la traduzione usuale dei due termini. Ed. Meyer ha proposto per toshav la traduzione «cliente». Ma il termine «cliente» presuppone il rapporto con un unico signore e questa condizione non è dimostrabile con certezza in base alle fonti. Nei libri della legge sembra che proprio il cliente di una singola casa venga chiamato ger (Esod., 23, 12). Abramo viene considerato il cliente di un singolo individuo. Il toshav di un sacerdote, come il suo salariato, non deve mangiare il cibo sacro (Lev., 22, 10): in questa prescrizione rituale pare ovvio vedere l’accenno ad un cliente. Solo che sembra trattarsi per l’appunto di qualcuno che non appartiene alla casa, in posizione analoga al sakhir, il libero giornaliere (contrapposto allo ’eved, il servo), che viene nominato assieme al toshav, qui senza dubbio nel senso di inquilino. Nel Lev., 25, 47 il toshav, nominato qui assieme al ger, è il libero meteco arricchito. Non sembra più possibile invece accertare quale fosse il senso giuridico originario dei due termini che nelle fonti vengono spesso impiegati in maniera cumulativa.

f1. Si è creduto, è vero, di ravvisare nello *am ha-arez giudaico una sorta di antico parlamento ebraico. In questo senso viene addotta (da Sulzberger e in particolare da S laush, Representative government among the Hebrews and Phenicians, in «Jew. Quart. R.N.S.», 4, 1913, pp. 302 e segg.) Fanalogia dello (am Zor, (am Zidon e (am Karthachdeshath sulle monete di Tiro, Sidone e Cartagine e le ere che si contano dall’inizio del domincio dello *am. In questi casi *am indica i capifamiglia, senza dubbio pero rappresentanti solo delle schiatte patrizie residenti nelle citta. Come a Gerusalemme i sottoscrittori del patto religioso (Neemia, 10), essi costituivano apparentemente un numero chiuso il che sembra indicare che si trattava di una milizia oligarchica quale si trova anche nelle citta elleniche prima del periodo della emocrazia.

g1. Èvero che da un punto di vista rituale gli eroi asmonei si comportarono sin dall’inizio in maniera piuttosto scorretta. Contrariamente al popolo devoto che fugge nel deserto (7 Macc. y 2, 29) e che il sabato si fa massacrare (vers. 38), Mattatia con il suo seguito decide di combattere anche il sabato (vers. 41). Molto presto dopo la liberazione gli autentici devoti presero a considerare gli Asmonei come dei riprovevoli ellenisti.

h1. Questa poteva benissimo essere stata una questione interna di ogni singolo villaggio, fintanto che si trattava di terra contadina e non di lotti spartiti tra i guerrieri, come forse esistevano. Si ricordera che anche la famiglia di Esiodo arrivo come forestiera dalla Beozia; pure il poeta divenne ivi un proprietario fondiario: in termini tecnici un «perieco».

i1. La posizione della tribu sacerdotale di Levi — che non abbiamo ancora trattato — nelle «citta dei Leviti» della tradizione mostra chiaramente come la tradizione concepiva la situazione normale di un meteco.

j1. Data la motivazione del precetto del sabato all’epoca di Neemia, dove lo scopo essenziale e l’impedimento del trafiico del mercato settimanale, e chiaro che a quell’epoca tale disposizione era emanata nell’interesse degli Israeliti (contro la concorrenza sleale dei non-giudei) e non degli stranieri stessi. Lo stesso nei Libri di Amos e di Geremia. In tempi piit antichi, quando il riposo dal lavoro dei campi era l’unico determinante ai fini del precetto, il significato di cio poteva indubbiamente essere stato diverso.

k1. I Cron., 4, 21: «Casa della lavorazione del bisso». Questi artigiani sono organizzati in schiatte e considerati, tra altri, come discendenti di un figlio di Giuda ma privi, in maniera caratteristica, di un proprio eponimo. La discendenza da Giuda puo essere una finzione introdotta in epoca posteriore all’esilio.

l1. 1 Cron 4, 22-23: Joas e Saraf, che erano capifamiglia (baalim) a Moab e «seondo antichi racconti vivevano a Lachem. Erano vasai e vivevano in giardini recintati presso il re per il loro lavoro». Avevano quindi dei feudi in cambio dei loro servizi.

m1. Joab, figlio di Seruja, viene chiamato nel I Cron., 4, 14, «padre della valle dei carpentieri», un quartiere di Gerusalemme. I carpentieri sembrano dunque risiedere come coloni sulla sua proprieta fondiaria. Oppure (ed e piu probabile) Joab e considerato il loro protettore e detiene tale patronato sotto forma di prebenda dal re. Mancano le indicazioni circa un’organizzazione gentilizia dei carpentieri.

n1. La tradizione e alquanto dubbia. La notizia al vers. 22, secondo cui Salomone avrebbe impiegato tutti gli Israeliti, contrariamente ai Cananei, solo come guerrieri (anshe ha-milchamah) e ufficiali o funzionari, e tendenziosa nelPinteresse dei plebei israeliti. L ’obbligo della corvee anche per i sudditi liberi comuni risulta chiaramente da I Re, 5, 12, dove si dice che gli Israeliti debbono fornire 30.000 lavoratori. Tale notizia mostra tuttavia come a quelFepoca l’uomo che non era atto alle armi e non partecipava alia libera proprieta fondiaria era una volta per tutte un ger e non unisraelita.

o1. Secondo I Cron., 22, 2 Davide avrebbe reclutato tra i gerim di tutto il paese gli scalpellini per la costruzione del tempio. Probabilmente invece gli scalpellini erano artigiani del re e proprio come tali erano gerim.

p1. Knudtzon, n. 196.

q1. Knudtzon, n. 185.

r1. Knudtzon, n. 74.

s1. Dopo i rinvenimenti degli scavi di Bogazkoy non rimangono piu dubbi sull’appartenenza dei Khabiru ai Sa Gaz.

t1. Sull’importanza dei «nomadi allevatori di pecore» per il culto di Jahve cfr. Luther in Ed. M eyer, Die lsraeliten u. ihre Nachbarst., pp. 120 e segg.

u1. L ’argomento e stato trattato recentemente per la prima volta da R. L eonhard, Die Transhumanz im Mittelmeergebiet in «Festschrift fur Brentano», in maniera meritoria ed esauriente.

v1. Anche in Ger., 6, 3 i nemici di cui si profetizza l’avvento vengono paragonati ai pastori che piantano le loro tende tutt’intorno e si scelgono delle zone di pascolo.

w1. L ’eroe transgiordano Yerubbaal-Gedeone batte il frumento (Giud., 6, 11).

x1. Su questa loro identita che viene a torto contestata cfr. Num., 24, 21-22.

y1. Giud., 4, 17. La seconda meta del versetto puo, è vero, essere un’aggiunta, come si è spesso assunto, ma indica in tal caso la situazione vigente all’epoca del suo inserimento.

z1. Secondo la tradizione Dan per molto tempo non ha avuto una residenza stabile nei paese (Giud., 18, 1). Nei Cantico di Debora i Daniti si mettono al servizio dei Fenici, come marinai. Piu volte la tradizione designa questa tribu semplicemente come «schiatta». Nella benedizione di Giacobbe essa figura come una tribu di predoni «che giace come una serpe lungo le vie carovaniere e morde il cavallo al calcagno» mentre in quella di Mose e «un leone che balza da Basan», cioe Hauran. Probabilmente gia all’epoca della prima invasione dei Filistei, gia ben prima della battaglia di Debora, i Daniti non erano stati in grado di conservare con le loro forze militari (600 uomini secondo la tradizione) quelli che erano allora i loro luoghi di accampamento, il «campo di Dan» nella montagna di Giuda — si presume che gli avversari fossero i Filistei, contro i quali combatte Peroe danita Sansone, ma le localita in questione entrarono piu tardi in possesso di Giuda —; i Daniti migrarono quindi verso nord e si installarono nella citta montana di Lais in terra sidonica dopo averla presa ed spugnata. Piu tardi la tribu di Dan fu ridotta a questa comunita urbana a cui aveva dato il suo nome e rimase soltanto una tribu fittizia. Il fatto che la citta di Dan fosse considerata particolarmente corretta sul piano religioso fa pensare che quanto la tradizione riferisce sulla sua vita nomade corrisponde a verita. Infatti essa presuppone la correttezza religiosa in tutte le antiche tribu di pastori. Da un altro versetto nella benedizione di Giacobbe si è dedotto senza dubbio a ragioschiatne che Dan sarebbe stato privato per qualche tempo della sua autonomia politica. Lo stesso viene detto esplicitamente nella benedizione di Giacobbe per la tribu di Issachar — che Mose nella sua benedizione menziona solo brevemente come una tribu che vive sotto le tende — in seguito al suo passaggio alio stato sedentario: «Avendo visto quant’e bello il riposo e dolce la terra, egli chino la sua schiena alia soma e divento tributario di lavoro servile» che significa chiaramente: divento un contadino sedentario; Issachar infatti risiede almeno temporaneamente nella fertile pianura di Jesreel. La tribu di Neftali viene chiamata nella benedizione di Giacobbe «una cerva veloce»; era quindi senza dubbio una tribu semi-beduina (a meno che non si debba pensare ad un mero gioco di parole con il nome). Secondo il Cantico di Debora aveva sede sulle montagne, mentre la benedizione di Mose la cita come benedetta da Jahve, in residenza stabile sulla costa del mare e in possesso di una citta (Merom). La tribu di Asser che risiede ugualmente sulle coste marittime e la cui ricchezza dovuta alia cultura olearia era diventata proverbiale, sembra, nella benedizione di Giacobbe, essere tributaria al re di una citta fenicia per il fabbisogno della sua tavola. Al contrario nella benedizione di Mose vengono celebrate le sue fortificazioni (catenacci di ferro e rame) ed il suo potente esercito. La tribu di Sebulon deve aver cambiato la sua dimora nel periodo che intercorre tra il sorgere del versetto corrispondente nella benedizione di Giacobbe e quello del Cantico di Debora (nella benedizione di Mose, vers. 18, la lettura sembra falsata). Nella benedizione di Giacobbe la tribu risiede sui mare e «si appoggia a Sidone», cioe dipende dai Sidoniti, mentre nel Cantico di Debora si tratta di una tribu guerriera. La tribu di Beniamino nella benedizione di Giacobbe e una tribu di predoni: «un lupo vorace che la mattina divora la preda e la sera spartisce le spoglie». Nella benedizione di Mose ha raggiunto la tranquillita e la pace. La tribu di Gad sembra essere diventata piu tardi una tribu moabita (ai tempi di Mesa e Achab). Il suo nome era quello di un antico dio della fortuna.

a2. Parzialmente distorto nella lettura odierna.

b2. Sulla questione cfr. V. G all, Die Entstehung der humanitaren Forderungen des Gesetzes, in «Z.f. Altt. Wiss.», 30, 1910, p. 91 e seg., che sottolinea esclusivamente l’origine superstiziosa (in se fuori di dubbio). Ma il problema e: perche questa prescrizione che in altre civilta e scomparsa e stata qui mantenuta?

c2. I rabbini di Gerusalemme si erano pronunciati positivamente sulla validita del precetto. Autorita tedesche, se ben ricordo, avevano fatto lo stesso. Al contrario i rabbini giudaici orientali avrebbero spiegato che la colonizzazione della terra era cosa tanto gradita a Dio da dispensare dall’antica prescrizione.

d2. Sulle leggende dei Patriarchi cfr. (in parte contro Ed. Meyer) G ressmann, Sage und Geschichte in den Patriarchensagen, in «Z.f. Altt. Wiss.» 30, 1910, pp. 91 e segg., il quale colloca la maggior parte di queste nella categoria delle «fiabe» il che, visti gli antichi luoghi di culto cui sono collegate e dove sono localizzate, sembra andare un po’ troppo lontano. Ma si oppone con ragione all’opinione secondo cui i nomi debbono essere necessariamente quelli di eroi o di tribu.

e2. Tre volte: Gen., 12, 13; 20, 2; 26, 7.

f2. Infatti e cosὶ che va tradotto ish sadeh («uomo dei campi», Gen., 25, 27) e non, come spesso avviene oggi: «l’uomo che si aggira per la steppa» (che e il significato di sadeh).

g2. Come Abele viene contrapposto al contadino Caino cosὶ il mite Giacobbe viene contrapposto al rozzo Esau come un «pastore devoto che dimora sotto le tende». E come d’altra parte Caino diventa un beduino, cosὶ Esau dal canto suo e un avido cacciatore.

h2. Non si fraintenda quanto segue. La nascita dei singoli racconti odierni sui Patriarchi viene fatta risalire, a ragione, a un’epoca molto remota. Molte cose sembrano indicare che tali leggende sono sorte in parte sotto il dominio dei Cheta nelle steppe tra la Siria e la Mesopotamia, in parte sotto il dominio egiziano nelle steppe giudaiche meridionali. A quell’epoca vi erano naturalmente degli allevatori di bestiame, privi di potere e pacifici come li vede la leggenda. Ma il fatto decisivo, cioe il loro rapporto con la lega israelitica di Jahve, e senz’altro posteriore in quanto assolutamente inconciliabile con certi fatti che andrebbero premessi come appartenenti alia storia antica. E sono inconciliabili proprio se si crede nella «conquista» di Canaan da parte di Israele. Vari racconti sui Patriarchi introducono dei presupposti storicamente errati come il dono di cammelli del faraone ad Abramo, poiche a quell’epoca il cammello non era ancora conosciuto in Egitto. Solo dopo l’unificazione del regno, cioe dopo Davide, i Patriarchi potevano diventare capostipiti di tutto Israele. Soprattutto sembra accertato il carattere originariamente locale delle leggende sui Patriarchi, essendo queste collegate ciascuna con determinati luoghi di culto.

i2. È vero che la tradizione tardo-giudaica crede di riconoscere in un villaggio presso Samaria dove si trova il «pozzo di Giacobbe» (Vangelo Giov., 4, 5), il pezzo di terreno di cui si parla nella Genesi, 48, 22. In ogni caso Pattuale versione della tradizione non sa dirci praticamente nulla circa eventuali conquiste di terre da parte di Giacobbe. Questo tratto e stato quindi cancellato.

j2. Questo capitolo, la cui versione attuale e di epoca assai tarda, unisce antiche reminiscenze e leggenda storica. Mi sembra tuttavia troppo improbabile che si tratti di un romanzo di stato fabbricato a Babilonia con scopi di alta politica e di legittimazione (cosi Asmussen, «Z.f.A.W.», 34, 1914). Gli Israeliti del periodo dell’esilio non erano certo in grado di fare degli studi d’archivio per accertare le forme dei nomi dei re elamiti. E la forma nominale Kudur (Kedor) Laomer e autentica.

k2. Sui Patriarchi e la questione dell’immigrazione cfr. anche Weinheimer in «Z.D.M.G.», 1912 (non tutte le sue asserzioni sembrano accettabili; e tuttavia degno di nota quanto dice sulla successione per stadi dei tre patriarchi dal «nomade» Abramo al «contadino» Giacobbe).

l2. Luther (in E d. M eyer, Die lsraeliten und ihre Nachbarstamme) assume che e stato lo jahvismo a trasformare intenzionalmente in seminomadi i Patriarchi, originariamente descritti come agricoltori sedentari; e questo per amore deir«ideale nomade» (l’espressione e di Budde) dell’epoca dei Profeti. In effetti un tale mutamento di per se non si pud escludere. È tuttavia improbabile in quanto numerosi tratti caratteristici dei racconti, in particolare la loro etica, sono sorti palesemente in mezzo a pastori ancora molto poco sofisticati. L ’agricoltura di Isacco a Gerar e presentata come cultura «nomadizzante». La tanto discussa presenza dei nomi dei patriarchi Abramo e Giuseppe nelle iscrizioni egiziane sembra abbastanza dubbia: cfr. W. M. Muller, «M.D.V.A.G.», 1907, vol. I, pagine 11 e 23.

m2. Cfr. il noto scritto di Baentsch sul Libro del Patto e l’esposizione accessibile a tutti, di A dalbert Merx in Religionsgeschichtl. Volksbuchern.

n2. I residui di una concezione analoga si trovano nella actio de paupere di Roma antica.

o2. È diverso nelle raccolte giuridiche posteriori con le loro caratteristiche divergenze.

p2. La formulazione della legge del taglione (Codice di Hammurabi, § 196); la messa in pericolo di una donna incinta (§ 210), ma soprattutto il trattamento riservato ai bovini che hanno incornato qualcuno (§ 251) sono cosὶ simili al Codice di Hammurabi che e escluso che si tratti di un fatto casuale. (Anche il trattamento riservato alia concubina che la moglie sterile da al marito [§ 145] concorda rigorosamente con l’episodio di Agar).

q2. Occorre precisare nei confronti di Baentsch che nei Libro del Patto non si paria di moneta da conio. Il denaro naturalmente veniva pesato. Ma cio non era indice di uno stadio «primitivo» (come crede Procksch): per convincersene basta ricordarsi — a prescindere dall’antica Roma, citta commerciale che stipulava trattati di commercio con paesi d’oltremare molto prima di possedere una propria zecca — che per esempio una citta commerciale come Cartagine adotto la moneta solo con il passaggio ad un esercito di mercenari reclutati all’estero. Tutto il processo di espansione commerciale dei Fenici si realizzo senza moneta.

r2. Cio s’intende infatti nei passo 21, 1 e seg., altrimenti la disposizione avrebbe potuto essere elusa con la rivendita.

s2. Formula giuridicamente assai corretta poiche per il diritto elemento decisivo e la madre.

t2. Le prescrizioni che riguardano l’anno sabbatico, nella loro formulazione odierna e contrariamente a quelle sul giorno del sabato, parlano in maniera sostanzialmente piu astratta di membri poveri della tribu (evjone ‘am: (am nelle fonti piu antiche e il termine che indica gli uomini atti alle armi) a beneficio dei quali sono destinati i frutti. Questo e la prescrizione dottrinaria secondo cui i frutti eventualmente vanno divorati dalla selvaggina fanno pensare a probabili costruzioni teologiche posteriori.

u2. Il termine ribbith per indicare l’interesse, piu tardi diventato molto frequente, e stato evidentemente ripreso da Babilonia. Ivi era entrato dalla sfera concettuale di «imposta» o «tributo dei sudditi» nella sfera del diritto privato, presumibilmente perche Toriginario interesse del diritto privato anche qui non era di regola un interesse fisso, bensi una porzione del raccolto o del guadagno. In Lev., 25, 36-37 troviamo mar bit per «usura».

v2. Cfr. in proposito, tra la letteratura piu recente, in particolare A. F. Puukko, Das Deuteronomium, «Beitr. z.W.v.A.T.», che ne vorrebbe escludere proprio queste parti. Considero questa ipotesi, riferita ad una parte delle norme giuridiche, in particolare al diritto monarchico, cosὶ improbabile, per motivi politici (cfr. piu avanti), che anche per quanto riguarda altre parti di questa sezione l’appartenenza al Sefer ha-Torah di Giosia mi sembra invece estremamente probabile. W ellhausen (Komposition des Hexateuch, pp. 189 e segg.) ha visto proprio nei cap. 12-26 il nucleo primitivo del Deuteronomio.

w2. Secondo la promessa di Isaia (1, 26) Israele doveva diventare una citta di giustizia.

x2. Questa denominazione per la raccolta del Lev., 17-26 deriva com’e noto da Klostermann. Risale al periodo anteriore all’esilio perche il suo nucleo fondamentale apparentemente non distingue tra sacerdoti e Leviti, ma e stata senz’altro rielaborata dopo l’esilio poiche esiste (Lev., 21) il gran sacerdote (con speciali doveri cultuali di purezza) e piu volte c’e l’implicito presupposto di una piccola comunita del culto (cfr. anche per il periodo piu recente: P uukko, Das Deut., cit., p. 49).

y2. Lo scritto dei sacerdoti presenta degli innegabili rapporti con Ezechiele. Tuttavia essendo gli Aronniti, non i Sadoqiti (cfr. piu avanti), quelli che esalta, e sicuramente posteriore alia profezia di Ezechiele, e piu vicina a quella di Esdra.

z2. Secondo Ruth, 4, 3 all’epoca in cui fu redatta questa leggenda anche le madri ereditavano dai propri figli rimasti senza progenie.Èvero pero che l’intero racconto e piuttosto impreciso dal punto di vista giuridico.

a3. SULZBERGER, op. cit. e, per quanto mi risulta, l’unico a supporre l’esistenza di simili connessioni. Tuttavia egli ha, a mio giudizio, una concezione del tutto improbabile del potere della lega israelitica al suo interno; questa infatti reagiva solo in maniera intermittente e non possedeva nessun organo proprio.

b3. Proprio i derivati del verbo nachal, che significa «ereditare», «ricevere in proprieta», e del suo hifcil, «fare erede», «spartire l’eredita», «dare in possesso», vengono usati nei paese cananeo; nachalah significa sia «eredita» che «proprieta».

c3. Stranamente anche un ricercatore meritevole come Procksch haancora fatto il tentativo di difendere proprio la tesi opposta, perlomeno per quanto riguarda il Deuteronomio rispetto al Libro del Patto (Die Elohimquelle, pp. 263 e segg.).

d3. Cfr. il lavoro, divergente sotto molti aspetti da quanto segue, di K raetzschmar, Die Bundesvorstellung im A. T., Marburg, 1896 (che non mi e stato accessibile mentre portavo a termine questo volume). Stade, che sostiene che l’idea del Patto e subentrata solo piu tardi, in definitiva dice soltanto che il berith di Mose non avrebbe avuto la forma di una legislazione, il che e sicuramente vero. Ma il significato predominante del concetto di berith verra messa in luce ripetutamente.

e3. Knudtzon, n. 67.

f3. L ’iscrizione circolare sulla moneta dei principi-sacerdoti maccabei dice: kkohen ha-gadol vechever ha-jehudim» cioe «Gran sacerdote e consociazione dei Giudei».

g3. La guerra contro Beniamino per il delitto di Gabaa. Per il resto il termine si trova in particolare in Isaia (47, 9 e 12) per designare le associazioni degli stregoni e dei briganti, in Osea (6, 9) per il gruppo dei sacerdoti, nei Prov. (21, 9 e 25, 4) per la comunita domestica, nei Salmi (119) per i correligionari. Il termine a quelPepoca era impiegato in senso analogo all’espressione usata nell’antica tradizione per dire amico, prossimo, cioe rea9 caratteristica in quanto formata da ra’ah, «pascolare», piel: re ah, «prendere per compagno»: espressione che quindi deriva certamente dalla comunita delle schiatte di beduini e allevatori di bestiame viventi sotto la tenda.

h3. Cfr. le argomentazioni di B ohl (Kanaanaer und Hebraer, in «Beitr. z.W.v.A.T.», Leipzig, 1911), p. 85. Da queste sembra che l’identificazione con‘Ivrim sia tuttavia possibile e verosimile. In ogni caso pero il concetto del «correligionario» non manca in epoca pre-israelitica, come mostra la lettera di un cananeo del xv secolo, di cui si parlera piu avanti. Nell’apostrofare il correligionario israelita non veniva pero usato il termine chaver ma sempre, a quanto pare, il termine ach (fratello).

i3. Abramo per berith e ger a Beerseba (Gen., 21, 31 e 34); Isacco giura un patto con Abimelech di Gerar {Gen., 26, 28); Abimelech appare, malgrado la reciprocita dell’impegno sottolineato al vers. 31, come l’unico che (fa» il patto (26, 8), proprio come piu tardi Jahve nei confronti di Israele, perche in ambedue i casi l’altra parte e la piu debole, quella con meno diritti (Israele ger di Jahve!). Lo stesso vale per Israele nei confronti di Gabaon (Gios., 9, 6 e segg.). In virtu di un accordo il marito di Iael, nella tradizione di Debora, pianta le sue tende, come ger, sui territorio del re cananeo. Re Asa manda un tributo a Benhadad in virtu di un berith (1 Re, 15, 19); Achab e il suo prigioniero Benhadad concludono un berith (7 Re, 20, 34) come pure Gionata con Davide (7 Sam., 18, 3; 20, 8); Davide con Abner (77 Sam., 3, 12); Jabes lo impetra da Nahas (7 Sam., 11, 1). In tutti questi casi si tratta, come tra Jahve e Israele, di un foedus iniquum tra parti in posizioni disuguali; al contrario il berith tra Giacobbe e Labano e un foedus aequum {Gen., 31, 44). Il diritto delle genti che ha sorretto Tiro si chiama {Amos, 1, 4) «patto di fratellanza» (berith achim). Gia da questi esempi pero in tutti i casi ne consegue che berith giustamente viene tradotto con «patto» e Kautzsch (Bibl. Theologie des A.T., p. 60) ha torto in pieno quando ricusa questo significato fondamentale per tutta l’antica religione israelitica. In 77 Sam. (5, 3) Davide diventa re di Israele tramite un berith con gli Anziani che ha lo stesso identico senso di quello per cui Jahve in precedenza e diventato il Dio di Israele. Il fatto che la Septuaginta traduca berith con διαϑήχη e non con συνϑήχη corrisponde alia concezione del suo tempo, non a quella storica antica. La concezione di Dio della versione sacerdotale («P») come appare per esempio nell’esposizione della promessa di Dio a Noe, Abramo, Pinehas (Num., 25, 12) corrisponde in realta alia concezione del berith come un impegno di Dio di tipo privilegiato, garantito solo da una particolare solennita e da segni esteriori (Gen., 9, 10). (Cfr. in proposito, tra gli altri, il commento alia Genesi di Holzinger, pp. 129 e segg., e soprattutto gli studi molto approfonditi di Valeton sull’uso linguistico in «Z.f.A.T.W.» XII, X, 1892, pp. 1-224). Per Tescatologia esisteva anche un berith con gli animali (Osea, 2, 18). In Num. (18, 19) berith ha il significato di «privilegio» mentre ha quello di «precetto» («berith del sale») in Lev. (2, 13). La legge del Sinai non viene mai chiamata berith nella P mentre nella versione jahvista (J) il patto di Horeb e il berith sui campi di Moab sono dei tipici foedera bilaterali. Il «patto eterno» (berith {olam) e stato infranto da Israele (secondo Isaia, 24, 5). L ’espressione karah berith corrisponde pienamente, come e stato spesso notato, al foedus icere, δρϰια τἑμνειν dei Romani e dei Greci. In Neemia quest’uso linguistico si è affievolito e viene usato amanah (Neemia, 10, 1) invece di berith.

j3. In realta rimane incerto, sia per il Libro del Patto che per le «parole del Patto», a quale parte delle raccolte si riferiscano queste espressioni della tradizione piu antica. La raccolta giuridica di cui si è parlato prima, ora chiamata Libro del Patto, non viene mai designata in questo modo nei proprio testo dove il termine «patto» non figura affatto, mentre al contrario le prescrizioni rituali in Es. (34) sono introdotte esplicitamente come un berith e, anche per la reciprocita delle promesse, corrispondono meglio al carattere di un patto che non quelle delle altre raccolte che contengono essenzialmente delle prescrizioni unilaterali (mishpattm). Le «parole del patto» (Es., 34, 28) vengono identificate, neirespressione «le dieci parole», presumibilmente aggiunta piu tardi, con il Decalogo. Ma in origine Tespressione si riferiva evidentemente alle prescrizioni rituali di cui si è detto e che le sono immediatamente precedenti (su tutta la questione cfr. Baentsch, op. cit.).

k3. È vero che il capitolo in questione (27) del Deuteronomio viene considerato come una compilazione ed inserzione recente. Ma e impossibile che il suo materiale originario sia di origine recente. Le grosse contraddizioni della relazione e la rappresentanza delle 12 tribu formate da un uomo per ciascuna vanno messe senza dubbio in conto al redattore, come pure Toscuro mutamento del luogo dove si svolgono i fatti (sul monte Ebal o sotto nella valle presso Sichem). Il frammento viene considerato, senza dubbio a ragione, di origine elohista.

l3. La difficolta rappresentata dal fatto che il Ra‘al del patto aveva un tempio ma che la cerimonia sembra prendere le mosse dal boschetto sacro (o dall’albero di Dio) di Mose, non appare insuperabile. Il suo legame con i culti celebrati nei boschi sacri o sui monti sta ad indicare l’antichita e l’importanza della cerimonia che, seppure all’epoca del Deuteronomio non poteva essere altro che una mera reminiscenza, tuttavia non e stata ulteriormente ritoccata dai suoi narratori che erano ostili a tutti i culti di questa specie.Èpossibile che il suo significato nel frattempo sia mutato adattandosi alio spirito del Deuteronomio: originariamente concepita senza dubbio come una solenne esorcizzazione dei demoni collegata all’invocazione della benedizione divina, puo darsi che secondo la concezione di quel tempo abbia avuto lo scopo di scaricare con procedura solenne la responsabilita generale del popolo per i peccati sui soli demoni, attraverso la loro solenne maledizione.

m3. È vero che qui si tratta di un berith «davanti» a Jahve, e non con Jahve. Questo si spiega senza difficolta con la finzione che voleva che si trattasse di un rinnovato impegno dell’antico patto con Dio di una delle parti contraenti — il popolo — che non l’aveva mantenuto.

n3. Il giuramento di fede unilaterale del popolo sotto Neemia non viene chiamato berith ma amanah (Neemia, 10, i).

o3. Resta incerto a quando risalga la devozione a Jahve presso i Keniti. Konig («Z.D.M.G.», 69, 1915) fa notare che il primo nome kenita jahvista documentato in modo certo e quello di Gionadav ben Recab. È quindi possibile che questo profeta abbia giocato presso di loro il ruolo di Mose.

p3. Das Kainszeichen, in «Z.f.A.T.W.», 14, 1894, pp. 250 e segg.

q3. Nella mitologia Giacobbe riceve il nome «Israele» dopo il suo berith con Dio (Gen., 35, 10).

r3. SPIELBERG in «Ber. der Berl. Ak. d. Wiss.», 1896. Steinhof in «Z.f.A.T.W.».

s3. STADE, Bibl. Theologie des A.T. (1905), pp. 285 e seg.

t3. KLOSTERMANN, Der Pentateuch (1907). Criticato a fondo da Puukko, Das Deuteronomium, pp. 176-202. Con la sua ipotesi Klostermann tenta di spiegare il peculiare carattere letterario del Deuteronomio. Questo infatti sarebbe stato una pubblica lettura parenetica della legge. Il raffronto tra la storia del «ritrovamento» e le «leggi» di Numa non puo dirsi molto fruttuoso.

u3. Anche Michea (7, 3) polemizza contro il giudice che conforma le sue sentenze all’arbitrio del principe.

v3. Chok (e chokah), oltre a diritto tradizionale e consuetudine tradizionale, significa anche legge naturale (nel Libro di Giobbe e in Geremia). Il linguaggio sacerdotale, in particolare nel Levitico e nei Numeri, lo usa per gli ordinamenti divini, spesso accompagnato da aggettivi col senso di «eterno, immutevole». Chok e torah vengono impiegati simultaneamente nei Libri di Amos (2, 4) e di Isaia (24, 5).

w3. Il chokek rende sentenze (chok) ingiuste: Ger., 10, 1.

x3. Nel linguaggio profetico preesilico questo significato si è mantenuto abbastanza puro (Amos, 6, 11 e passim).

y3. Occasionalmente si trova accanto a mishpat e chok anche mishmereth (Gen., 26, 5). Il termine in origine significa «incombenza», nel senso di lavoro assegnato, e «ordine», e deriva quindi da rappresentazioni burocratiche.

z3. L ’antica giustizia civile babilonese si era sviluppata sulla base della giustizia del tempio. In proposito, e sul concorso dei sacerdoti nell’epoca neobabilonese cfr. E. C uq, Essai sur Vorganis. judic. de la Chaldee, in «Revue d’Assyr.», 7, 1910.

a4. I singoli fenomeni collegati a questa circostanza sono stati trattati magistralmente da S chwally, Semit. Kriegsalterturner, I (Der heilige Krieg im alien Israel, Leipzig, 1901).

b4. Tuttavia recentemente Gunkel e entrato in polemica con argomenti molto solidi contro Reitzenstein a favore dell’universalita della circoncisione («Archiv. fur Pap. Forschung» II, 1, pp. 13 e segg.). Non appaiono utilizzabili le tarde notizie di Origene secondo cui i sacerdoti avrebbero potuto insegnare i geroglifici solo ai circoncisi. Dalla notizia in Gios., 5, 8 risulta invece chiaramente che la circoncisione era affare delFesercito; Giosue la fa eseguire per sfuggire alia derisione degli Egiziani.

c4. Dai monumenti risulta che la circoncisione in Egitto non veniva eseguita sugli infanti ma sugli adolescenti.

d4. La circoncisione degli schiavi era sicuramente un’innovazione come risulta chiaramente anche dal tardo racconto del patto con Abramo (Gen 17, 12).

e4. La circoncisione viene introdotta dalla leggenda pacifista dei Patriarchi come semplice comando di Dio ad Abramo, cioe senza motivazione, come segno del patto e da eseguire sugli infanti.

f4. La possibilita che la pasqua fosse in origine un’orgia a base di carne di guerrieri beduini e troppo incerta per essere presa in considerazione. Naturalmente sarebbe perfettamente concepibile in se che la trasformazione in solennita domestica sia stata semplicemente la conseguenza della frantumazione delle tribu di allevatori di bestiame, di cui si è parlato prima, sopravvenuta con la crescente sedentarizzazione (cfr. Ed. Meyer, Die Israeli ten, pp. 38 e segg.). Ma Pusanza di spalmare gli stipiti delle porte con sangue e il divieto di consumare sangue sembrano mostrare che Porgiasmo a base di carne era gia stato eliminato in tempi piu antichi, ammesso che fosse esistito.

g4. Questo naturalmente non costituisce una contraddizione con le disposizioni umanitarie del diritto degli stranieri nelle antiche raccolte giuridiche, poiche tali disposizioni riguardano il ger e non il completo straniero. Ma e probabile che in questo periodo i meteci ritualmente segregati non esistessero gia piu.

h4. A Costantinopoli in epoca abbastanza tarda venivano ancora mantenuti alcuni di questi selvaggi nordici, nello stesso modo in cui in epoca anteriore si tenevano elefanti da guerra. Alla questione, se l’estasi guerriera dei Berserker venisse indotta metodicamente tramite intossicazione si da oggi perlopiu una risposta negativa.

i4. Il Talmud mostra che Naziroth e Perishat (da cui «Farisei») esprimevano a quell’epoca un concetto identico.

j4. Non appare sicuro che l’omissione della tosatura e l’astinenza dagli alcoolici abbiano rappresentato due diverse forme di ascesi guerriera, come si è in parte supposto (Kautzsch).

k4. Per l’etimologia ci si richiama di solito al termine arabo nabaa, proclamare, e al babilonese Nabu, lo scrivano e proclamatore delle deliberazioni del consiglio degli dei. Vedi rimportanza del monte «Nebo» il cui nome deve essere connesso a Nabu. Tanto Mose quanto Elia sono stati rapiti da Jahve su questo monte o nelle sue vicinanze. Sulle profezie dell’epoca dei profeti scrittori cfr. S ellin, Der alttestamentliche Prophetismus, Leipzig, 1912, pp. 197 e segg. e G. H olscher, Die Propheten, 1914. Cfr. parte II.

l4 . Visione e udito, naturalmente, non sono rigorosamente scissi, ma si collegano in diversi modi. Di Osea per primo si dice sempre che la «parola di Jahve» (devar Jahve) gli e stata indirizzata. Amos narra di ogni sorta di immagini che gli vengono spiegate da Jahve (1, 1; 7, 1-4-7; 9> *) Lo stesso vale per Geremia e, in modo un po’ diverso, per Ezechiele. Isaia invece non vede immagini da interpretare, ma vede e sente cio che deve annunciare; oppure vede la magnificenza di Dio e riceve i suoi comandamenti. In ogni caso pero l’importanza delFudito era prevalente. Come «veggente» il profeta era chiamato choze (i derivati di chazah piu tardi significano «visione notturna»). Vedi anche Parte II.

m4. Michea (3, 5) tempesta contro quei profeti che predicono la fortuna quando vengono pagati e le sventure quando il compenso e insufficiente (da che si puo dedurre come i vaticini fossero considerati auguri con effetti magici). Lo stesso vale (3, 11) per l’accettazione di denaro in genere da parte dei profeti.

n4. Il concetto, molto discusso, viene interpretato da Wellhausen e dopo di lui da H ehn (Die biblische und die babylon. Gottesidee) in termini relativamente universalistici; Jahve e il signore di tutti gli spiriti che sononel mondo. Tuttavia il rapporto con gli «eserciti» guerrieri e incontestable.

o4. Amos 7, 10 e 13: il sacerdote di Bethel si lagna del profeta presso il re Geroboamo accusandolo di fomentare tumulti nei luogo di culto e lo caccia poi dal «santuario (mikdash) e casa (beth) del re».

p4. «Nella sua ira» (Osea, 13, 11) Jahve ha dato un re a Israele (e vero che si tratta qui degli usurpatori illegittimi d’Israele del Nord).

q4. Cfr. K. B udde, Die Schatzung des Konigstums im A.T. («Marb. Ak. Reden», n. 8, Marburg, 1903).

r4. È molto discutibile invece la derivazione che Schwally attribuisce al termine nadiv, «principe», «nobile», dall’autoconsacrazione alia guerra. Il principe, qui come dappertutto, si chiama nadiv nel senso di «donatore», «elargitore di doni»; solo lo hithpael potrebbe avere, come nel Cantico di Debora (Giud., 5, 1), il significato di «sacrificarsi» (come pure, secondo una lezione dubbia, in un altro passo — Giud., 5, 9 — del Cantico di Debora).

s4. HEHN osserva a ragione (Die biblische und die babylon. Gottesidee, p. 272) che gia questo stesso concetto come tale non ricorre in nessun’altra religione del Medio Oriente. Si puo spiegare quindi in maniera generale solo partendo dall’antico rapporto fondato sui berith.

t4. Cfr. KüCHLER, «Z.f.A.T.W.», 28, 1908, p. 42 e seg. il quale mostra anche come dopo la distruzione di Gerusalemme questa «irritazione», in Ezechiele, non si rivolge piu contro gli altri dei, e quindi contro Israele che li serve, ma e diretta d’ora in poi contro i nemici di Israele.

u4. Cio e stato sottolineato in particolare da B udde (Das nomadische Ideal im alten Testament, «Preuss. Jahrb.», vol. 85, 1896 e Die altisraelitische Religion).

v4. L ’etimologia del tetragramma Jhwh e rimasta altrettanto controversa quanto la questione della sua derivazione da Jah (che figura in nomi propri) e Jahu (o Jao, nome usato dalla comunita giudaica di Elefantina nel vi secolo e che appare anche nei nomi propri teofori) poi completati in Jahve o viceversa la derivazione di Jahu e Jah dal nome Jahve come forme abbreviate di quest’ultimo. Cfr. su questi problemi e sulla vocalizzazione masoretica, oltre alia letteratura corrente, anche J. H. LEVY in «Jewish Quart. Rev.», XV, p. 97. La derivazione dal dio babilonese Ea (A. H. KRONE, Id., p. 559) sembra essere frutto di fantasia.Èdel tutto improbabile che i nomi in «ja» che figurano sulle tavolette di Amarna o i nomi babilonesi composti con lo stesso elemento abbiano qualcosa a che vedere con Jahve (cfr. tuttavia M a r t i in «Theol. St. u. Kr.», 82, 1908, p. 321 e W. MAXMULLER, Asien und Europa, pp. 312-313). Non sembra possibile sostenere, con H e h n (Bibl. und babyl. Gottesidee) che il nome fosse un teologumeno di Mose («egli e presente») poiche Jahve non veniva adorato soltanto in Israele.

w4. Ietro offre i sacrifici a Jahve in qualita di suo sacerdote e gli Anziani di Israele praticano con lui la commensalita.

x4. Dopo i rinvenimenti di Bogazkoy di Winkler («M.d.D.O.G.», 35, 25) la maggior parte dei ricercatori oggi considera dimostrata l’identita tra Sa Gaz e Khabiru (vedi B o h l, Kanaander und Hebraer). Tuttavia non e per caso che i Khabiru, com’e evidente, attaccano da sud-est, i Sa Gaz da nord e nord-est, e solo questi ultimi vengono menzionati in Mesopotamia.

y4. Dove lo schiavo per debiti viene designato come «servo ebreo» (Es., 21, 2, come pure nella seisachtheia deliberata da Sedekia in Ger., 34, 9-14 e in Deut., 15, 12). L ’espressione qui sta forse a ricordare l’uso linguistico di antichi accordi di seisachtheia della nobilta urbana con i contadini, in contrapposizione ai patrizi non «ebrei», che significa in questo caso residenti in citta. Sulle stesse basi potrebbe fondarsi il fatto, in se sorprendente, dei compagni di tribu asserviti dai Filistei e tenuti distinti, in qualita di «Ebrei», da «Israele» (I Sam., 14, 21).

z4.‘Eber e anche capostipite delle tribu che si trovano in Arabia fino alio Yemen, vedi Gen., 10, 21 e 24 e seg. (versione jahvista). I casi di impiego del termine‘ivri che risalgono a periodi anteriori alia redazione sacerdotale, nella Genesi (cap. 38 e seg.) come pure nelFEsodo (cap. 1, 15 e seg.; 2, 6 e seg.) e nei Libro di Samuele (4, 6 e seg.; 13, 3 e 19; 14, 11; 29, 3) riguardano sempre i rapporti con Egiziani o Filistei (vedi BOHL, op. cit., p. 67).Èsorprendente che in Num., 24, 22 (profezia di Balaam) vengono predette sventure a «Eber» insieme ad «Assur».

a5. Su Mose cfr. V o l z, Mose, Tubingen, 1907 e G r e s sm a n n, Mose und seine Zeit, Gottingen, 1913. Contro l’interpretazione che ne fa un «medico stregone», cfr. K o n ig, «Z.D.M.G.», 67, 1913, pp. 660 e seg.

b5. A parte il carattere di per se improbabile di un’invenzione di questa figura, che nella tradizione e proprio tra quelle piu schiettamente umane, la sua storicita non e resa che piu probabile da mold tratti estremamente sorprendenti della tradizione che fanno pensare a residui incompresi di antichi contrasti. Il nome (Mushi) si ritrova nelle stirpi levitiche (Es., 6, 19; Num., 26, 58, et al.). Un’antica tradizione parla di figli di Mose (Es., 2, 22; 4, 20) e il corpo sacerdotale danita vien fatto discendere genealogicamente da lui. Ma in tutta la genealogia posteriore, redatta dai sacerdoti, non figurano discendenti di Mose. Secondo Es., 18, 2 e seg. Mose mando i suoi figli con sua moglie da Ietro che piu tardi glieli porta nel deserto. Ma in I Cron., 6, 1 e 16-17, quelli che secondo Es., 2, 22 sono i figli di Mose, Gershom ed Eleazaro, figurano come figli di Levi o di Aronne (6, 3; Eleazaro figura gia in Num., 26, 1 et al.). Per fare di Mose un levita puro si attribuisce come moglie a suo padre Amram (Es., 6, 20 e seg.) sua nipote Jochebed (la confusione negli alberi genealogici dei Leviti appare particolarmente chiara in Num., 26, 57 confrontato con 58). A Mose viene rinfacciata la sua moglie kushita. I Sadoqiti e gli Aronniti erano interessati alia non esistenza di una stirpe di puro sangue levitico che risalisse a Mose. Nomi egiziani, come lo e quello stesso di Mose, si trovano presso i loro principali concorrenti, la stirpe degli Elidi (Pinehas). In tutta la tradizione storica e nei profeti come nella cronaca stilizzata dai profeti Mose indubbiamente ha un ruolo sorprendentemente limitato. Questo si potrebbe spiegare con il primitivo rapporto delle sole tribu nord-israelitiche (Efraim) con l’epifania del roveto.

c5. Le parti piu diverse del corpo di Jahve: occhi, orecchie, naso, bocca, mano, braccio, cuore, fiato vengono in parte menzionate, in parte considerate implicitamente esistenti.

d5. Sembra che anche Kamos sia stato un dio comune a pivi tribu.

e5. WEN AMON (Breasted, «Records», IV, p. 80) fa presente al re di Biblo (il quale lamentava la mancanza degli invii d’argento da parte dei faraoni) che i faraoni non avrebbero potuto fare cio che invece il dio Ammone (che proprio per questo non mandava doni materiali) era in grado di fare, e cioe conferire vita e salute (il che a dire il vero non e in armonia con lo stile di corte dell’Antico Regno). Anche il re di Biblo «appartiene» ad Ammone e obbedirgli portava del bene a tutti.

f5. Sulle differenze tra le figure degli dei del mondo circostante, in particolare della Mesopotamia, e Jahve, cfr. l’eccellente lavoro di H e h n, Die biblische und die babylonische Gottesidee, Leipzig, 1913.

g5. Al contrario in Egitto gli dei avevano bisogno del nutrimento fornitogli dal sacrificio degli uomini (v. Bissing, «Sitzb. der Miinchener Ak. d. W.», Phil.-Hist. Kl., 1911, n. 6) proprio come le anime dei morti.

h5. Su tutte queste questioni cfr. in particolare il ciclo di conferenze di Budde sull’antica religione israelitica, dove l’A. ha colto e sottolineato con la massima acutezza come il carattere etico della religione di Israele sia stato condizionato dal carattere del dio come divinita elettiva.

i5. Contro 1’opinione molto marcata di Eerdman (negli studi sull’Antico Testamento) secondo la quale varie parti dell’Antico Testamento non conoscono affatto Jahve e sono specificamente politeiste, cfr. S te u e rn a g e l in «Theol. Rundschau», 1908, pp. 232 e seg.

j5. Nel cuore ha sede l’intelletto, nei reni le passioni.

k5. In Egitto kai e la «forza vitale», cioe l’anima e nello stesso tempo il nutrimento di cui Tanima ha bisogno per esistere. Corrisponde alia nefesh nel senso che si tratta delPelemento che va nel regno dei morti (v. Bissing, in «Sitzb. der Munch. Ak. d. W.», Phil.-Hist. Kl., 1911, n. 6).

l5. Tuttavia Jahve giura sulla sua nefesh.

m5. La posteriore tricotomia sarebbe quindi nata da una fusione delle due concezioni dicotomiche. Anche Kautzsch, che contesta fermamente tale tricotomia, deve pero in sostanza ammettere la sua esistenza in epoca posteriore.

n5. G iesebrecht, Die Alttestam. Schatzung des Gottesnamens und ihre religionsgesch. Grundlagen, Konigsberg, 1901.

o5. Quando Giobbe ripone la sua fiducia nei fatto che «il vendicatore del suo sangue vive», intende dire che Jahve ristabilira il suo buon nome leso dalle insinuazioni degli amici. Isaia (56, 4-5), pronunciandosi a favore dell’ammissione dell’eunuco nella comunita — contro il precedente divieto, fondato sui dissidio con gli eunuchi del re — gli promette «un nome migliore» di quello che gli darebbero figli e figlie, se ubbidisce ai comandi divini.

p5. Anche in Egitto e il nome che deve sopravvivere, non la discendenza del morto in quanto tale. Presso le famiglie benestanti non sono i discendenti che accudiscono al culto, ma i sacerdoti dei morti titolari di prebende. Ma la sopravvivenza del nome significa la sopravvivenza dell’anima nell’aldila. Proprio questa stretta parentela tra la concezione dell’importanza del nome che troviamo in Israele e quella esistente in Egitto mette in luce con maggior chiarezza il carattere tendenzioso del rifiuto di tutte le aspettative dell’aldila e del culto dei morti.

All’abuso del nome di Jahve fa riscontro la stessa punizione (accecamento) inflitta da Ptah, secondo un’iscrizione (che si trova nel British Museum) a motivo di un abuso del suo nome (Erman, in «Sitzb. der Berl. A. d. M.», P.-H. K., 1911, p. 1098 e seg.).

q5. L ’opinione spesso espressa da Ed. Meyer, secondo cui i sacrifici ai morti non venivano compiuti per via del potere dei morti ma al contrario si fondavano sui presupposto dell’impotenza dei morti che non avrebbero potuto sussistere altrimenti, e del tutto unilaterale.Èvero per esempio, in generale, che tanto gli dei quanto le anime dei morti avevano bisogno dei sacrifici (come le ombre omeriche nell’ade avevano bisogno di sangue). Ma per quanto riguardava l’Egitto, il potere dei morti risultava gia dalle iscrizioni dell’Antico Regno. Colui che compromette la salvezza del morto deve aspettarsi la sua vendetta, colui che gli offre preghiere e sacrifici si attende la sua intercessione presso gli dei o altre benedizioni. E tutto il culto cinese degli antenati, in particolare gli usi del lutto di cui si è del tutto dimenticato il significato, si fondano sui presupposto del potere dell’anima dei morti. 11 rapporto di potere e dunque reciproco: il morto ha bisogno dei sacrifici ma, come gli dei, ha anche il potere di ricompensare il loro adempimento o punirne l’omissione. L ’unica cosa perfettamente adeguata che si possa dire, e che il «culto degli antenati» in quanto tale non e uno stadio transitorio universale della religione. Anche perche — come mostra il caso dell’Egitto — il culto dei morti e il culto degli antenati non coincidono affatto necessariamente.

r5. Già i morti dell’Antico Regno, nelle iscrizioni tombali, non si rivolgono ai discendenti ma a chiunque si avvicini alia loro tomba per chiedere preghiere e sacrifici e promettono intercessione a colui che si dimostri compiacente. Tuttavia il servizio dei morti viene assicurato da sacerdoti titolari di prebende, non dal dovere religioso dei discendenti.

s5. Il rifiuto del culto dei morti egiziano non era affatto di per se la conseguenza della sua origine straniera e delle difierenti condizioni di vita. I beduini libici, pure d’origine straniera, hanno ripreso tutto il cerimoniale mortuario degli Egiziani (cfr. Breasted, «Records», IV, 669, pp. 726 e segg.). Tuttavia in Egitto, e anche a corte, si trovano molto spesso anche sceicchi beduini di origine semita accanto a quelli libici. Vi figurano pure Siri con nomi teofori egiziani.

t5. Il divieto esplicito deirautolesionismo per coloro che celebravano un lutto (Lev., 19, 18) e certamente rivolto contro le pratiche estatiche e la magia estatica (vedi piu avanti). Tuttavia la tecnica deirimbalsamazione era conosciuta in Israele: Gen., 50, 2-3.

u5. Cosὶ nella visione di Ezechiele delle ossa dei morti, alia cui rianimazione con una parola magica viene attribuito semplicemente il valore di una dimostrazione del potere di Jahve. Anche alio (eved Jahve del Deuteroisaia viene promessa una gloriosa vita futura nella quale pero questa figura che oscilla tra personalita e personificazione escatologica viene chiaramente considerata sotto questo secondo aspetto.

v5. Su tutta la questione, vedi il bel saggio di B eer sull’ade biblico (Theol. Abh. fur H. Holtzmann, 1902).

w5. Sullo shabbath cfr. in particolare il saggio estremamente preciso di G. B eer, Einleitung in die Verbersatzung des Mischna-Traktats a Schabbath» (in Ausgew. Mischnatraktaten, ed. da P. Fiebig, n. 5, Tubingen, 1909), pp. 10 e seg. Cfr. inoltre H e h n, Siebenzahl und sabbat bei den Babyl. u. im. A. T. «(Leipzig semit. Stud.», II, 5, 1907).

x5. Novilunio e shabbath erano considerati dai profeti piu antichi come giorni festivi dedicati a Jahve.

y5. La tesi di Meinhold (espressa per ultimo in «Z.f.A.T.W.», 29, 1909) secondo cui lo shabbath sarebbe diventato un giorno della settimana solo durante l’esilio non sembra quindi accettabile. Appare evidente che proprio quelli che erano rimasti in Palestina conoscevano chiaramente il shabbath settimanale fisso, come giorno della settimana. Per questo stesso motivo non posso condividere l’opinione di Beer secondo cui lo shabbath proprio e solo durante l’esilio sarebbe diventato un giorno della settimana ricorrente a intervalli regolari e continui.

z5. Budde tuttavia richiama Fattenzione su Amos, 5, 26 (dove appare il nome assiro di Saturno). Contro la credenza circa la grande importanza del culto della luna (nome del Sinai, nomi delle mogli di Abramo) per la religione jahvista, vedi K onig, «Z.D.M.G.», 69, 1915, pp. 280 e seg.

a6. BAüMGARTEL, Elohim ausserhalb des Pentateuch («Beitr. z. Wiss. v. A. T.», 19, 1914) mostra che Elohim, come nome di Dio, e sempre meno frequente dal Libro dei Giudici ai Libri di Samuele e piu avanti dei Re, scompare del tutto nella seconda e terza raccolta dei Salmi, non e quasi mai usato dai profeti e dimostra che le espressioni, evidentemente proverbiali, in cui appare il termine «Elohim», appartengono air antico patrimonio linguistico cananeo. L ’uso negli scritti posteriori ha origine, naturalmente, nella soggezione che incuteva il tetragramma.

b6. HEHN, op. cit. (con qualche divergenza e formulato, a mio avviso, in maniera non del tutto ineccepibile).

c6. In fonti posteriori, come nei Siracide e in certi passi dei Salmi e del Libro di Daniele figura di nuovo il Dio «supremo», con evidente riguardo al mondo circostante di proseliti (H ehn, op. cit.).

d6. Nel Libro di Giobbe (5, 17; 8, 5) e tradotta con TravToxpocTcop. La revisione sacerdotale della Genesi la impiega per identificare Tantico culto efraimita di El con il culto posteriore di Jahve.

e6. Quanto scritto sulle tavolette di Amarna, cioe che il re (Ekhnaton) «ha messo il suo nome sul paese (Gerusalemme) per l’eternita» non significa, come si è creduto, che li ci fosse un monoteismo solare, ma si riferisce invece al dominio politico.

f6. GRESSMANN («Z.A.T.W.», 30, 1910, pp. 1 e seg.) sostiene la teoria secondo cui gli «Elim» sarebbero stati gli dei delle tribu semi-nomadi, in contrapposizione ai Baalim, cioe gli dei dei contadini sedentari. Di fatto mold elementi appoggiano questa ipotesi. In primo luogo, il fatto che il nome «Ba‘a l» non compare mai in tutta la storia dei Patriarchi e in particolare nella Genesi. Poi la natura delle due figure: Ba‘al appare come «signore» della terra coltivata, e sono indiscutibili i suoi rapporti con i Ba‘al delle citta costiere, soprattutto quelle della Fenicia, mentre El e diretto a oriente dove le tribu nomadi si muovevano tra la Siria e la Mesopotamia. D’altra parte la denominazione degli dei dei Khabiru come ildni si puo addurre piuttosto per sostenere il contrario: se ne deduce infatti che il nome doveva essere conosciuto anche dai residenti stabili del paese. Inoltre «El ’Eljon» dev’essere il dio di un popolo civile. In ogni caso pero la tesi sembra degna di ponderazione a livello di specialisti, poiche darebbe ragione alia costruzione del codice sacerdotale sull’adorazione di dio in epoca pre-mosaica presso i patriarchi (El Shaddaj).

g6. Luther, in Ed. M eyer (Die Israeliten, ecc.), suppone che all’epoca di Davide i culti Ba‘al fossero culti contadini cananei (quindi presumibilmente di carattere orgiastico), i culti di El collegati agli alberi e ai boschetti sacri, il culto di Jahve a Gabaon e a Silo un culto del dio della guerra.

h6. Cosὶ H ehn, op. cit, in accordo con D homme, La relig. babil. et assyr.

i6. Questo avveniva, secondo i papiri, a Syene, nella comunità che li si trovava e che, stando ai numerosi nomi efraimitici, proveniva dal Nord di Israele (BACHER, «J.Q.R.», XIX, 1907, p. 441). Cfr. per dettagli maggiori, Margolis, «J.Q.R.N.S.», 2, 1911-12, p. 435: i sacrifici venivano divisi tra Jasu, un dio e una dea.

j6. Per gli stranieri Ba’al sembra aver avuto il ruolo principale nella divinità mista, con il carattere nazionale di Jahvè definito dal berith. In Egitto, come fa osservare W. Max Miiller, lo si trova adottato come dio straniero e guerriero che vive sulla montagna, vale a dire con dei tratti che sicuramente non derivano dalla sua immagine ma da quella di Jahvè.

k6. Tra le più recenti teorie cfr. SELLIN nel Nòldeke-Festschrift.

l6. FOOTE, «Journ. of Bibl. Lit.», 21, 1902.

m6. Die Lade Jahwes («Forsch. z. Rei. n. Sit. des A. T. J.», Gòtt., 1906). Sul culto senza immagini a Creta cfr. «A.f.Rel.W.», VII, pp. 117 e seg.

n6. Anche i più alti dèi babilonesi, apparentemente, non venivano posti sul loro trono sotto forma di idoli ma sostituiti invece con simboli (così Anu, Enlil).

o6. Anche il dio fenicio della medicina Eshmun aveva per simbolo un serpente.

p6. La presunta ira del profeta Ahia (7Re, 14) in proposito è una leggenda posteriore. L’autentico motivo dell’ostilità dei Leviti risulta chiaramente da 1 Re, 12, 31: l’insediamento di plebei come sacerdoti.

q6. Fondamentale in proposito è: graf BAUDISSIN,Gesch. des alttest. Priestertum, Leipzig, 1889. Molte ipotesi, in particolare quella della priorità cronologica del codice sacerdotale sul Deuteronomio, sono oggi abbandonate.

r6. Il sacrificio di Uzzia è trattato anche dal cronista postesilico (II Crort., 26, 1 e segg.) come un grave peccato.

s6. I Sam., 8, 18. II Sam., 20, 25 viene menzionato uno iairita come gran sacerdote accanto ai sacerdoti Sadoq e Abiatar. La cronaca postesilica ha poi cancellato i figli di Davide.

t6. Cfr. Struck, Das alttest. Oberprìestertum, «Theol. St. u. Kr.», 81, 1908, pp. 1 e seg.

u6. Cfr. il breve (ma anche discutibile) compendio di Stade.

v6. E tuttavia molto incerto se, oltre alla circoncisione ed alle prescrizioni per i guerrieri (in particolare i nazirei), esistevano riti, di qualunque tipo, a validità generale.

w6. Chattat e asham, che nella versione attuale sono connessi in maniera inestricabile pur essendo trattati come due cose distinte, vengono menzionati per la prima volta in Ezechiele come istituzioni fisse comuni a tutti gli Israeliti. Prima non se ne parla, né in I Sam., 3, 14 (dove si parla dei sacrifici zevach e mincha come mezzi di espiazione), né in Deut., 12 dove i sacrifici vengono trattati in maniera dettagliata. Quest’ultimo passo mostra chiaramente che ambedue i tipi di sacrificio non derivano dal culto del tempio di Gerusalemme. Tuttavia sarebbe certamente un errore dedurre che essi si sono sviluppati, in generale, solo nel periodo dell’esilio o poco prima, come fa qualcuno (ad es. Benzinger). Ezechiele può essere stato il primo a considerarli sacrifici comuni a tutti gli Israeliti. Ma il concetto di asham si trova già nella tradizione di Samuele (espiazione dei Filistei). Ambedue i tipi di sacrificio appartenevano anche alla «prassi privata» (per così dire) levitica di cui il Deuteronomio non si interessava oltre. Secondo le prescrizioni del Codice sacerdotale il chattat sarebbe il più ampio dei due tipi di sacrificio.

x6. Deut., 18, io-n e 14; Lev., 19, 21.26.28; Num., 23, 23.

y6. L’osservazione in Lev., 20, 6 mostra che anche qui giocava l’opposizione contro la magia estatica (vedi più avanti).

z6. Schneider, Die Entwicklung der ahwereligion und der Mosessegen («Leipzig Semit. Stud.», V, I, 1909) pensa di poter fare derivare «Levi» dal «serpente», richiamandosi anche al tratto di Adonia e del serpentino e al nome di un antenato di Davide.

a7. Così Ed. MEYER Cfr. l’iscrizione in D. H. Mùller, «Denkschr. d. Kais. Ak. d. Wiss. Wien», Phil.-Hist. Kl., 37, 1888.

b7. Nella benedizione di Giacobbe non figurano sacerdoti leviti. Solo nella benedizione dì Mosè figurano i Leviti, come maestri della Torah e sacerdoti (cfr. Ed. Meyer, Die Israeliten ecc., pp. 82 e segg.).

c7. Ish chasideì(ha, «uomo del tuo fedele», cioè di Mosè, viene chiamato il Levita nella benedizione di Mosè (Deut., 33, 8).

d7. E forse anche nell’iscrizione dell’epoca dei Ramessidi che sembra rivelare l’esistenza di un nome tribale Lui-el.

e7. Ed. Meyer (Die Isr., cit.) ritiene certo che la «tribù» di Levi risiedeva a Meriba («le acque della contesa»), costituendo quindi una specie di stirpe di Pandit di tipo indiano.

f7. Proprio come del resto ogni israelita nel territorio di un’altra tribù israelitica.

g7. Di queste facevano parte anche le città-asilo.

h7. Il loro bestiame viene designato come «bestiame di Jahvè» (Num., 3. 41e 45).

i7. Vivevano, come tutti i gerìm, nei sobborghi (migrashtm). Non ricevevano una porzione dei campi: a Hebron per esempio, Caleb li tiene per sé.

j7. Il nome torah sembra derivare da «tirare a sorte». Così Meyer (Die Isr., cit., pp. 95 e segg.).

k7. Cfr. Ungnad,Die Deutung der Zukunft bei Babylonien und Assyren (Leipzig, 1909).

l7. Cosὶ i «cantori» e «nethinim» del periodo post-esilico, derivanti presumibilmente dai culti orgiastici.

m7. Su Aronne cfr. WESTPHAL,Aaron and die Aaroniden, in «Z.f.A. T.W.», 26, 1906.

n7. SCHNEIDERop. cit., vuol fare derivare gli Aronniti dall’Arca dell’Alleanza, il che in sé sarebbe possibile. Ma da nessuna parte sono messi in relazione, come egli suppone, con Silo.

o7. Alcuni esempi di questo sono stati raccolti, per esempio, da Fiebig (Altjiìd. Gleichnisse und Gleichnisse ]esu, Tiibingen, 1904).

p7. Fanno eccezione perlopiù proprio un certo numero di quelli più antichi, che appartengono all’epoca palestinese dei tannaiti, in particolare alcuni nel trattato Pirke ’Avoth. Più generalmente, il giudizio naturalmente va inteso solo in senso relativo.

q7. Cfr. in Rom., 11, 17 la parabola completamente sbagliata degli innesti.

r7. La relazione di viaggio di Wen Amon è ora comodamente accessibile in Breasted, «Records», IV, pp. 563 e segg.

s7. Anche il sancta sanctorum egiziano è oscuro e solo il re vi ha accesso, come più tardi in Israele solo il Gran Sacerdote che ha ricevuto l’unzione.

t7. Relazione di viaggio, Breasted, op. cit., p. 579.

u7. La distanza rituale mantenuta dagli Egiziani nei confronti degli Elleni si fondava, secondo Erodoto, sul fatto che questi ultimi mangiavano carne di vacca e quindi gli Egiziani non potevano baciarli né servirsi delle loro stoviglie. Questo fatto, e non la qualità di allevatori di bestiame in quanto tale, potrebbe stare alla base dell’idea presente nel resoconto in Gen., 43, 32.

v7. Ciò vale anche, come abbiamo visto, per il culto dei morti.

w7. Erman, «Sitzungsber. der Beri. Ak. d. Wiss.», Phil.-Hist. Kl., 1911, p. 1109.

x7. Cfr. per esempio Klamroth, op. cìt.

y7. Da de Wette in poi generazioni di studiosi hanno lavorato alla suddivisione del materiale dell’Esateuco tra le due raccolte e inserzioni posteriori (deuteronomiche, sacerdotali, altre). I risultati fondamentali non sono contestati dalla grande maggioranza dei ricercatori anche se alcuni punti rimangono dubbi. Solo i tentativi di scomporre sempre di più in strati le grandi raccolte hanno prodotto di rimando il tentativo apparentemente vano di rimettere in questione i risultati acquisiti.

z7. Sui rapporti tra le due raccolte vi è adesso lo scritto molto bello di Procksch, Die Elohimquelle, Ubersetzung und Erlàuterung, Leipzig, 1906. Procksch suppone che Elia abbia avuto una certa influenza sulla redazione e cerca (p. 197) ingegnosamente di spiegare su questa base in particolare l’uso del nome di Elohim (con l’intento di sottolineare l’unicità del valore). Sull’importante questione circa un originario carattere ritmico del racconto, su cui il non-specialista non può pronunciarsi, cfr. Sievers, «Abh. der Kgl. Sachs G. d. Wiss.», XXI-XXIII (1901, 1904, 1906), e la discussione di Procksch, pp. 210 e seg.

a8. Sullo sviluppo di questa concezione cfr. in particolare Lohr, Sozialismus und Individualismus im A. T., fasc. suppl. n. 10 di «Z.f.A.T.W.»,1906. Lo scritto e buono, solo il titolo e forse in qualche misura sviante.

b8. Ho trovato in particolare in Hehn, op. cit., p. 348, accenni all’importanza di quello che egli chiama il carattere «democratico» di Israele riguardo alla particolare natura dell’etica israelitica.

c8. Alcuni accenni alia credenza nei demoni come prodotto del bisogno di una teodicea si trovano in J. M o r g e n s t e r n, «M.d.V.A.Ges.», 1905, 3.

d8. Die Beziehungen der Nichtìsraelìten zu Jahwe nach der Anschauung der altisraelitischen Quellenschrijten, suppl. a «Z.f.A.T.W.», XV, 1907.

e8. Relig. gesch. Unters., Bonn, 1899, pp. 210 e seg.

f8. Per il mito babilonese sull’uomo primitivo Adapa non e assolutamente in stato di innocenza; e un uomo impuro il cui ingresso nel paradisodi Anu appare dubbio (vers. 57 della traduzione in G unkel, op. cit.) Altrove, come si è gia osservato, gli uomini primitivi sono perlopiu portatori di grande saggezza conferita dagli dei.

g8. Nell’eccellente saggio: Der Ursprung der israelitisch-judischen Eschatologie, «Forsch. z. Rei. und Lit. des A. und N. T.», 6, Gòttingen, 1905. Per una critica cfr. Sellin, Der Alttest. Prophetismus, Leipzig, 1912, pp. 105 e segg.

h8. Vedi il faraone (Ramses II) come intercessore per il conseguimento della pioggiQuesta: Breasted, «Records», II, 426 (perfino per il paese dei Cheta!).

i8. Questa — che Jahvè un giorno diventerà il signore del mondo, non 1 (secondo l’interpretazione di Schon, op. cit.) — è l’antica speroviamo anche nel cantico del Mar Rosso, Es., 15. Non è nepsuppone Sellin, un «giudizio» di Jahvè che ci si aspetta ma ldersi della sua ira. L’idea di un vero e proprio «giudizio unin è mai espressa, perlomeno apertamente, e quando vi si fa hvè che — in qualità di socio del berith — ha un processo con lei paese; egli è parte in causa, non giudice (così in Osea, e nel o).

j8. Su questa concezione cfr. DITTMAN «Theol. St. u. Kr.», 87, 1914, pp. 603 e seg.

k8. Le profezie di sventura e di salvezza egiziane sono state discusse da J. Kroll nei Festgabe jàr Biidinger (un agnello parlante profetizza, davanti a un certo Psenchor sotto re Boccori, annunciando prima una sventura che dal nord-est si abbatterà sull’Egitto, poi un periodo di felicità; poi l’agnello muore). Si può vedere inoltre Wessely (Neue griechische Zauberpapyri, in «Denkschr. d. Kòn. Ak. d. Wiss.», Phil.-Hist. Kl., 42), e Wilcken, che ne tratta in maniera integrativa e definitiva (Hermes, 40, la cosiddetta «profezia del vasaio»: sventura da oriente e la distruzione — apparentemente — di Alessandria, forse basandosi su un modello più antico). Ed. Meyer («Sitz. Ber. der Ak. d. Wiss.», 31, 1905) assume, tra l’altro basandosi su un papiro commentato da Lange, che l’esistenza della profezia di un re-salvatore sia stata accertata anche per l’Egitto. Tuttavia la nuova lettura di Gardiner mostra che in questo caso, come in quello del papiro Golenischeft, interpretato in modo analogo, tale ipotesi non regge. In un caso si parla di un dio, nell’altro di un re vivente. La profezia a Micerino menzionata da Erodoto e la profezia di Amenofi di cui parla Manetone (Meyer, op. cit., p. 651) non costituiscono tradizioni sufficientemente autentiche. Tutto ciò dimostra soltanto che profezie di sventura e di salvezza esistevano anche in Egitto ma non dà elementi sufficientemente precisi a sostegno dell’ipotesi dell’adozione di uno «schema» fisso, mutuato dall’Egitto, da parte della profezia israelitica. Cfr. Parte II.

l8. Sul Decalogo cfr. Matthes, «Z.f.A.T.W.», 24, p. 17.

m8. Veniva solo presentato come pericoloso per la fedeltà a Jahvè. è vero altresì che la formulazione sembra indicare che il connubio tra pari esisteva solo laddove era stato instaurato un berith. Ciò corrisponde ad altre situazioni, per esempio quella di Roma antica e sarebbe anche in accordo con le premesse della storia di Dina.

n8. Se si paragona l’etica, in particolare quella del Decalogo etico, con l’etica dei profeti pre-esilici, sorprende il fatto che questi non fanno mai accenno alla particolare dignità di questa composizione, come sarebbe da aspettarsi se questa già allora si fosse distinta rispetto alle altre norme per il prestigio derivatole dall’origine mosaica. In primo luogo non viene in mente in nessun modo ai profeti di epoca pre-esilica di usare con parsimonia del nome di Jahvè. Tuttavia ciò potrebbe considerarsi come un privilegio della loro qualità di profeti. Ma altrove vediamo che le enumerazioni di virtù e peccati dei profeti nell’insieme non hanno molto in comune con quelle dei Decaloghi. A prescindere dalle prescrizioni della specifica parenesi socio-politica, che presso i profeti hanno un ruolo particolarmente importante, e, come vedremo più avanti, non trovano posto invece nei Decaloghi, la lotta contro gli altri dèi e contro le immagini costituisce indubbiamente il campo più specifico della profezia. Echi della formulazione del «primo comandamento» del Decalogo si trovano tutt’al più in Osea (12, 9; 13, 4). Ma per il resto Amos sferza l’avarizia (9, 1) come vizio cardinale, e accanto a ciò il mercanteggiare sul frumento (8, 5: lo shabbàth), l’uso di bilance false (8, 5) e la frode a danno dei poveri (8, 6) e inoltre l’impudicizia (2, 7: padre e figlio che dormono con la stessa meretrice). I primi vizi menzionati sono connessi evidentemente all’etica sociale profetica, l’ultimo all’opposizione contro l’istituzione della ierodule. Nessuno di questi vizi a cui è dato un particolare rilievo dai profeti ha un nesso caratteristico con l’etica del Decalogo. Osea (4, 2) enumera la bestemmia, la menzogna, l’assassinio, il furto e l’adulterio come peccati molto diffusi. Questi sono i peccati del Decalogo. Manca, oltre al sabato e alla pietas filiale il decimo comandamento, e la «menzogna» nel Decalogo, com’è noto, è proibita solo in giudizio. Tuttavia, fino a Geremia, questo è il catalogo profetico dei peccati che più si avvicina a quello del Decalogo. Se Osea ha realmente conosciuto il Decalogo — fatto che rimane incerto — ciò costituirebbe forse un indizio della sua origine nordisraelitica: Osea chiama la conoscenza dei comandamenti divini conoscenza (da’ath) di «Elohim». Ma tutto ciò resta incerto.

Michea (6, 10-12) menziona i falsi pesi e misure e i beni acquisiti ingiustamente, tutte cose che non sono in un rapporto caratteristico con il Decalogo. Negli autentici oracoli di Isaia e in Sofonia non è riportata alcuna serie di peccati che può essere messa in rapporto con il Decalogo. Tra i vizi propriamente privati Isaia menziona il bere (5, 11) che manca totalmente nel Decalogo; tutti gli altri passi esprimono essenzialmente lagnanze per l’agire ingiusto dei potenti. Si potrebbe forse trovare in Michea (2, 2) un accenno a! decimo comandamento ma l’accumulazione di terra tramite l’usura è una lagnanza generale a carattere etico-sociale dei profeti contro i ricchi.

Solo in Geremia ritroviamo la maggior parte dei peccati del Decalogo: furto e rapina, assassinio, spergiuro (7, 9), adulterio (5, 8), inganno verso gli amici (9, 4), violazione del sabato (17, 22): in pratica, per la prima volta, tutti i peccati del Decalogo all’infuori dell’abuso del nome di Dio e del decimo comandamento. Ma un riferimento al particolare carattere sacro del Decalogo o alle sue formulazioni così caratteristiche o anche semplicemente all’esistenza di una tale raccolta non si trova né in lui né negli altri profeti, a meno di volergli collegare, ancora una volta in Michea (6, 8), un’enfasi molto generica sull’importanza di osservare i mishpatīm; ciò però appare inammissibile anche formalmente in quanto i Decaloghi sono devarim, non mishpatīm. Troviamo invece in particolare in Geremia una sublimazione e una sistematizzazione del comportamento etico globale, ispirate all’etica dell’intenzione, che rispetto ai Decaloghi vanno molto più lontano e su cui torneremo più avanti. E già in Michea appaiono esigenze che si richiamano all’etica dell’intenzione quali l’«umiltà» davanti a Dio e la pratica dell’«amore» (6, 8) che il Decalogo non conosce affatto.

Per concludere: la profezia non sa nulla di un Decalogo «mosaico» e forse di nessuno in genere. Tutto ciò sembra confermare la tesi qui esposta sul carattere relativamente recente e lo scopo puramente pedagogico del Decalogo etico. D’altra parte lo spostamento in epoca post-esilica va troppo lontano non solo (com’è ovvio) per il Decalogo sessuale e per quello cultuale, ma anche per quello etico.

o8. Per il periodo preesilico cfr. su questo problema il saggio, buono a modo suo, di SCHULTZ, in «Theol. Stud. u. Krit.», 63, 1896.

p8. Tuttavia un terrore del peccato simile a quello, per esempio, di Alfonso de’ Liguori o di alcuni pietisti, non si trova da nessuna parte in Israele o nel giudaismo.

q8. Lo citiamo qui seguendo la traduzione di PIERRET (Le Livre des Morts, Paris, 1882). Si indica con «I» l’introduzione, con «C» la conclusione, con «A» e «B» le due metà; del colo 125 comprendenti 21 confessioni cias cuna.

r8. La lista di peccati babilonese edita da Zimmern (Beìtr., 1) e citata anche da Sellin, op. cit., è quella più strettamente collegata all’etica del Decalogo. Tra i peccati più vicini a quelli del Decalogo vi è il disprezzo dei genitori, e l’offesa a una sorella maggiore, l’adulterio, l’omicidio, la violazione della casa del vicino e l’asportazione delle sue vesti. La violazione dei confini, il trattenere i prigionieri o il rifiuto di liberarli (si tratta senza dubbio dei detenuti per debiti), il linguaggio libero e sconcio, la menzogna e la falsità; pur nssendo tra i vizi proibiti dal Decalogo appartengono a quelli della parenesi levitica, mentre il cagionare litigi tra genitori e figli o tra fratelli, e il torto di «dare nelle piccole cose e rifiutare nelle grandi» non trovano diretti paralleli. Il fatto che poi vi siano errori puramene ritualistici messi sullo stesso piano di questi precetti corrisponde al Decalogo «cultuale» e a quello «sessuale» di Israele. Per il resto, a quanto ci risulta finora, non si trovano notevoli paralleli tra le due etiche. Sembra in particolare che alla parenesi babilonese sia mancato (in contrasto con quella egiziana e levitica) l’accento sull’«amore del prossimo»: probabilmente si tratta di una conseguenza dello sviluppo molto maggiore della vita commerciale nella metropoli di Babilonia. Manca del pari (di nuovo in contrasto con l’Egitto), la sublimazione nel senso di un’etica dell’intenzione: la lotta contro il «desiderio», come nel ioŶ comandamento. In Egitto il maggiore accento posto sull’«intenzione» è stato probabilmente suscitato, all’inizio, dalla particolare importanza che nel giudizio dei morti viene attribuita al cuore, come sede della coscienza dei propri peccati.

s8. Al contrario, perlomeno per la tradizione deuteronomica (I Sam. 24, 10; 26, 9; 31, 4; II Sam., 1, 14) il regicidio, anche di un monarca già; riget da Jahvè, era considerato un grave delitto per via del significato magico dell’unzione. Si trattava evidentemente di un’opposizione consapevole alle usurpazioni e alle stragi del Regno del Nord che anche Osea riprovava aspramente benché proprio Jehu avesse perpetrato il primo di questi massacri e proprio con l’aiuto e su istigazione del partito jahvista.

t8. Sulla concezione dei peccati e il suo sviluppo nella religiosità; babilonese cSchollmeyer,Sumerìsch-babylonische Hymnen und Gebete an Samas, «Stud. z. G. u. Kr. d. Alt.», fase, suppl., Paderborn, 1912, e J. Morgenstern,The doctrine of sin in the Bab. Rei., «M.d.V.A. Ges.», Berlin, 1905, 3.

u8. Cfr. ad esempio in BREASTED, «Records», III, 51: ad un povero, che deve prestare la corvée per il re, è vietato togliere nel frattempo la sua fonte di sostentamento (XIX dinastia).

v8. BREASTED «Ree.», cit., I, pp. 239, 240, 281, 328 e seg., 459, 523 (tutte queste iscrizioni provengono dall’Antico Regno, a partire dalla I dinastia).

w8. Per i documenti sulla devozione popolare egiziana all’epoca dei Ramessidi, cfr. Erman, «Sitz.-Ber. d. Beri. Ak. d. W.», Phil.-Hist. Kl., n, 1086 e seg. Sulla credenza sempre più intensa nella retribuzione durante il Nuovo Regno cfr. Poertner,Die à;gyptischen Totensn als Zeugen des sozialen und religiòsen Lebens ihren Zeit, «Stud. z. G.u.Kr.d. Alt.», 4, 3, Paderborn, 1911.

x8. Sull’iscrizione di Kalumus cfr. LITTMANN, «Sitz.-Ber. d. Beri. Ak.», Phil.-Hist. Kl., 16-XI-n, pp. 976 e seg.

y8. Anche R. Chanina, che BUCHLER (Der galilaische Amhaarez, p. 14, nota) in polemica con gli studiosi protestanti presenta come un modello di moralità; giudaica, è mortoolto in un rotolo della Torah perché riteneva in questo modo di essere meglio assicurato della vendetta di Dio contro i suoi tormentatori.

z8. Per la letteratura più recente va citata in particolare l’opera meritoria, seppur contestabile in alcuni dettagli, di G. Hòlscher,Die Propheten, 1914, che ci presenta l’insieme degli antefatti storici servendosi delle moderne nozioni psicologiche. Per i singoli profeti cfr. i commenti moderni.

Sulle facoltà; estatiche dei profeti cfr. aggio, brillante come al solito, di H. GUNKEL,Die geheìmen Erfahrungen der Propheten (conferenza, «Suchen der Zeit», I, 1903). Un estratto figura in Schrijten des A. T., II, 2 che riporta traduzioni e singoli commenti in parte eccellenti di H. Schmidt (Amos e Osea, in II, 1), oltre ad un’utile analisi introduttiva delle caratteristiche letterarie. Per altra letteratura cfr. Giesebrecht,Die Berujsbegabung der alttest. Propheten, Gottingen, 1897; Cornii.l,Der israelii. Prophetismus, 6 ed., Strassburg, 1906; Sellin,Der alttest. Prophetismus, Leipzig, 1912. Ulteriore letteratura verrà; citata ai rispettivi passi. Trsch fa molte osservazioni pertinenti sullV^of dei profeti dell’Antico Testamento in Logos, vol. VI, p. 17, dove il carattere utopistico della loro «politica» viene rilevato, a ragione, con più enfasi che altrove. Rinunciamo qui a tutte le analisi di dettaglio.

a9. Cosὶ il libello d’Isaia contro Shebna (22, 15 e seg.) con il poscritto contro Eljakim che nella prima versione viene citato in tono elogiativo. Lo stesso vale per la maledizione scritta di Geremia contro Semaia.

b9. Che ciò avvenisse, lo dimostra un oracolo di Isaia suggellato dai suoi discepoli (8, 16) e l’oracolo scritto di maledizione di Geremia contro Babele (51, 59 e seg.).

c9. Per Geremia cfr. 26, 24; 29, 3; 36, 11; 40, 6.

d9. Sulla posizione politica di Isaia cfr. in particolare K#x00Ec; ìchler,Die Slellung des Propheten Jesaja zur Politi^ seiner Zeit, Tiibingen, 1906. Osservazioni in merito si trovano anche in Procksch,Geschichtsbetrachtung und Geschichtsùberlieferung bei den vorexil. Propheten, Leipzig, 1902.

e9. Lo indica il fatto che al re da lui insediato venisse dato un nome teoforo (di Jahvè).

f9. Ciò è stato sostenuto in particolare per quanto riguarda Amos (per es. da Winckler). Contro, a ragione: Kuchler,op. cit.

g9. Questa ipotesi, naturalmente indimostrabile, è suggerita dal modo in cui egli menziona ripetutamente Silo come il primo luogo del culto ortodosso di Jahvè, e paragona la distruzione di Gerusalemme a quella di Silo, senza dubbio semi-dimenticata, che risale indietro di vari secoli.

h9. Secondo una congettura di Duhm, in un altro passo tra gli dèi che Jahvè annienterà; verrebbe citato precisamente Osiride.

i9. Ciò non corrisponde perfettamente all’attuale versione in Michea,I,55.

j9. è stato generalmente assunto, a ragione, che il passo Ger., 17, 19 e seg. non proviene da Geremia.

k9. Tuttavia in Ezechiele (8, i) Testasi compare una volta in presenza degli Anziani che lo consultano.

l9. Del resto S e l l in, op. cit., p. 220, rileva a ragione che il modo in cui la parola divina giunge al profeta di regola non viene indicato con precisione. Cio che era decisivo era l’interpretazione delle sue intenzioni che per il profeta era evidente e quindi sufficiente.

m9. Ciò vale per il «dono delle lingue» soprattutto ma anche per la (profezia» (che allora era profezia del presente). Ritroviamo lo stesso fenomeno presso gli Anabattisti e i Quaccheri del xvi e xvii secolo e oggi, in maniera estremamente marcata, nelle chiese americane negre (anche quelle della borghesia negra, per esempio a Washington, secondo la mia diretta esperienza).

n9. Naturalmente vale sempre la riserva per cui tutti i contrasti sono legati da forme transitorie e anche presso i cristiani si trovano fenomeni analoghi. In particolare anche tra loro i singoli individui costituiscono i (focolai d’infezione» psichici.

o9. Infatti i comandamenti di carit฀ella Torah ovviamente non erano più una sublimazione dell’ca contadina del vicinato, che come ogni etica contadina era ben lontana da tale sentimentalismo. Appartenevano all’ideologia della monarchia mediorientale-egiziana e dei suoi letterati: sacerdoti e scrivani.

p9. Cfr. SELLIN, op. cit., p. 125.

q9. Tutt’ai più il «grande» giorno di Jahvè in Sofonia (1, 14) potrebbe ricordare i grandi giorni del mondo. Ma appare subito come tale ipotesi sia da escludere. Prima dell’esilio solo notizie molto generiche di tutto ciò sono penetrate in Israele.

r9. In Amos (ad eccezione di un passo), e perfino in un passo di Osea (5, 4), la sventura appare inevitabile, evidentemente perché il contenuto della visione portava a ciò. Lo stesso avviene più volte in Isaia e di nuovo, in maniera del tutto preponderante, in Geremia.

s9. è degno di nota il fatto che anche HɃlscher (op. cit., p. 229, nota 1) pensa che non si possa trattare di una figura escatologica ma piuttosto di una figura reale e nota (eventualmente la moglie e il figlio di Isaia stesso !) perché altrimenti con il segno miracoloso «non si sarebbe provato nulla». Senonché non si tratta di «provare» niente: semplicemente l’incredulità; di Achaz ha per conseguenza l’evento visto in visione ma atteso come aspettativa attuale: il suo ripudio a fa del fanciullo salvatore.

t9. Cfr. in merito il buon lavoro di Peisker. Sull’importanza degli accordi palestinesi di diritto internazionale bellico si è già; parlato prima, né è possibile definirli più dettagliatamente.

u9. Il fatto è giustamente sottolineato da KLAMROTH,Die jùdischen Exulanten in Babylonien, «Beitr. z.Wiss.v.A.T.», io, Leipzig, 1912. Più avanti questo prezioso scritto viene ripetutamente usato. Il suo unico lato debole è forse che talvolta cerca di trovare nei testi profetici più dati sulle effettive condizioni della comunità esilica di quanti se ne possano trarre e che prende troppo alla lettera le descrizioni della miseria degli esuli

v9. Cfr. DAICHESThe Jews in Babylonia in the time of Ezra and Nehemia acc. to Bab. inscr., «Pubi. Jew. Con.», No. 2, London, 1910.

w9. Artaserse, si tratta del re persiano che inviò Esdra a Gerusalemme perché instaurasse il regime della Legge mosaica, cioè Artaserse I (465-424 a. C.), successore di Serse I e padre di Dario II; per suo incarico anche Neemia esercitò la sua attività politica in Giudea.

x9. Da Giud., 13, 4 sembrerebbe che il divieto di mangiare cibi «impuri» in origine fosse vincolante per i laici solo in virtù di un voto.

y9. Gli ebrei corretti, in seguito alla legge alimentare, non nutrivano scrupoli nel dare ospitalità presso di sé ai non-ebrei, ma rifiutavano quella dei gentili e dei cristiani. Contro ciò inveiscono i sinodi franchi considerandola un’umiliazione dei cristiani; e ingiungono dal canto loro al cristiano di rifiutare l’ospitalità ebraica.

z9. Juden und Samaritaner, «Beitr. z.W.v.A.T.», 3, Leipzig, 1908. All’epoca di Geremia (41, 5) la gente veniva da Sichem e da Samaria per prendere parte al sacrificio del tempio.

a10. L’evento tuttavia ha forse avuto luogo già all’epoca di Neemia.

b10. Su Ezechiele cfr. Herrmann,Ezechielstudien, Berlin, 1908.

c10. Infatti, poiché il giudizio universale non corrisponde ai posteriori progetti politico-ecclesiastici dei sacerdoti dell’esilio e alla loro attuazione per opera di Esdra e Neemia, non vi è nessun motivo per supporre, come si fa spesso, che queste parti siano delle aggiunte posteriori. La trasformazione dell’apocalittismo semi-patologico ed escatologico dell’estatico nelle elucubrazioni intellettualistiche di un progetto di stato futuro non rappresenta proprio nulla di singolare.

d10. Mentre è pienamente accertata la nascita di questi capitoli dell’attuale Libro di Isaia durante il periodo dell’esilio, e anche la non-identità del loro autore con quello dei capitoli seguenti (Tritoisaia) è sempre più riconosciuta, resta controverso se i capitoli inclusi nel Deuteroisaia vadano ascritti a un unico autore o se i cosiddetti carmi dello W jahvè vadano attribuiti a un altro. I carmi del «Servo di Dio» restano ora come prima una crux interpretum. Tra la letteratura sull’argomento si rimanda, oltre che al commento di Duhm su Isaia, allo scritto di SELLIN,Die Ràtsel des deuterojesajanischen Buchs (1908), alla discussione di Gressmann nella sua Eschatologie (1905) precedentemente citata, all’articolo di Laue in Theologischen Stadien und Kritiken (1904) e al lavoro di Giesebrecht,Der Knecht Jahwes des Deuterojesaja (1902). In particolare però si rimanda alla critica penetrante di Rothstein delle meno recenti esposizioni di Sellin (nel primo volume dei suoi Studien zur Entstehungsgeschichte der jiidischen Gemeinde nach dem babylonischen Exil, 1901) in Theologischen Studien und Kritiken, 1902, I, p. 282. Tra la letteratura più recente cfr. in particolare Stark in «Beitr. z.W.v.A.T.», 14, 1912, il quale fa una distinzione tra i quattro canti: Is., 42, 1 e seg.; 49, 1 e seg.; 50, 4 e seg.; 52, 13 e seg. e gli altri canti del Servo di Dio in cui lo ’eved senza dubbio rappresenta il popolo di Israele. Nei primi quattro carmi il Servo di Dio sarebbe una figura individuale; e precisamente, nei primi tre, quella in parte di un eroe in parte di un martire, rappresentato come un salvatore universale preesistente, in realtà un trasferimento della speranza nei Davidici alla profezia. La critica a Sellin è spesso convincente. Tuttavia le sue enunciazioni rimangono valide per alcuni punti importanti. Sellin è il principale esponente dell’ipotesi-Joiakin e insieme dell’unità del libro del Deuteroisaia. Il contenuto del testo rivela ad una lettura spassionata e non prevenuta numerose testimonianze di questa unicità di redazione di un libro nato presumibilmente pezzo per pezzo sotto l’impressione entusiasmante delle speranze in Ciro e poi raccolto insieme. Al contrario l’interpretazione che mette in relazione il Servo di Dio con Joiakin appare scarsamente accettabile, in particolare perché si tratta di un uomo con il dono dell’insegnamento della Torah, quindi un profeta, non un re. Il libro dà l’impressione di un poema artistico-religioso di un pensatore entusiasta di altissimo livello intellettuale che scriveva per una piccola cerchia di persone di uguale disposizione. è quindi ammissibile che l’oscillare tra una possibile interpretazione individuale e collettiva sia una forma artistica intenzionale di questa teodicea profetica. Il punto decisivo, per noi, nell’ipotesi di Sellin, sta però nel fatto che i carmi riferiti in origine a un individuo (Joiakin) dopo la sua morte sarebbero stati trasferiti dall’autore stesso al popolo di Israele e quindi elaborati in connessione con i carmi sorti solo allora, sotto l’impressione dell’avanzata di Ciro. Con questo Sellin accetta, in conclusione, l’assunto che il Deuteroisaia, perlomeno nella versione finale, non si riferisce più a Joiakin ma al popolo di Israele o al suo nucleo devoto come portatore delle qualità originariamente riferite al re. Solo esperti filologi possono dire l’ultima parola su questa costruzione spirituale. In ogni caso anche nell’intenzione dell’autore la versione finale si presta, come si presuppone qui, a più interpretazioni.

e10. è degno di nota che oltre Duhm recentemente anche Hòlscher si è pronunciato (per via di Is., 52, 11, e 43, 14) per un’origine non-babilonese, suggerendo l’Egitto (in particolare Syene per via di 49, 12). Questa ipotesi però non sembra accettabile per via dell’interesse già attuale per Ciro, a prescindere anche dal forte interesse per le cose esclusivamente babilonesi.

f10. La «chiamata dal seno materno» (49, 1) corrisponde da un lato alla terminologia regia babilonese, dall’altro alla chiamata provvidenziale di Geremia dal grembo materno (Ger1, 5). Nella terminologia dello scrittore SELLIN (op. cit., p. 101 e segg.) ha indicato in modo convincente forti reminiscenze di inni e canti di lamentazione babilonesi (cfr. del resto anche Kittel, «Z.f.A.T.W.», 1898: Cyrus und Deuierojesajd).

g10. La pericope del Servo di Dio è particolarmente usata dai Sinottici e negli Atti degli Apostoli, poi nelle Lettere ai Romani e nella I Lettera ai Corinti, ma anche da Giovanni. Da I Cor., 15, 3 risulta che la tradizione stessa forniva già a Paolo la rappresentazione del salvatore che muore come vittima espiatoria. Un esplicito riferimento alla proclamazione profetica da parte di Gesù sta in Matt., 26, 24 (= Is., 53, 7-8). Spesso viene enunciato in termini testualmente paralleli al Deuteroisaia che Gesù è l’eletto {Lue., 9, 35 = Is., 53, 12), gradito a Dio (Matt., 3, 17 = Is., 42, 1), senza peccato (Giov., 8, 46 = Is., 53, 5), l’agnello di Dio (Giov., 1, 29, 36 = Is., 53, 4 e seg.), la luce dei popoli (Giov., 1, 5 = Is., 42, 6 e seg.), chiamato a dare ristoro a chi fatica (Matt., 11, 28 = Is., 55, 1 e seg.), è vissuto nell’oscurità (Fil., 2, 7 = Is., 53, 2-3), ha sopportato in silenzio come un agnello il disconoscimento (Atti, 8, 32 e seg. = Is., 53, 7-8), le accuse (Matt., 26, 63), i maltrattamenti (Matt., 27, 26), ha interceduto per i peccatori (Luca., 23, 34 = Is., 53, 5 e seg.), è morto in riscatto per i peccati degli altri (Matt., 20, 28 = Is., 53, 10 e seg.), ha ottenuto in questo modo la remissione dei peccati (Lue., 24, 47 = Is., 53, 5 e seg.) ed è stato glorificato da Dio (Giov., 13, 31; 14, 13; Atti, 3, 13 = Is., 49, 5; 55, 5). Particolarmente caratteristico è il passo Rom., 4, 25 (= Is., 53, 12) in cui Paolo si basa sulla traduzione estremamente equivoca della Septuaginta. Del resto anche il ruolo degli apostoli viene descritto talvolta con immagini ispirate al Deuteroisaia (Atti, 13, 47 = Is., 49, 6). Tutti i passi sono raccolti in modo opportuno in E. Huhn,Die messianisehen Weissagungen des israelitisch-jùdischen Volks, II, 1900.

h10. Molto spesso al posto del «Servo di Dio» si parla semplicemente del «Figlio dell’uomo» il che è indice della mutuazione (dai misteri).

i10. La lezione del versetto 17, in cui si parla di «mani» e «piedi» è corrotta. Può quindi essere dubbio se si parla di legare o trafiggere le caviglie come per un prigioniero. Ma già la traduzione dei Settanta sembra indicare che questo era il caso. E lo stesso indicano i versetti seguenti dove si parla della spartizione delle vesti che vengono tirate a sorte. Tuttavia la comunità cristiana, forse in seguito alla Septuaginta, deve aver riferito quel versetto incondizionatamente ad una crocefissione, poiché tutta la descrizione dei Vangeli è palesemente influenzata dal Salmo 22. Di conseguenza è dunque probabile che l’autore del salmo avesse in mente il «trafitto» del Deuteroisaia, e comunque che il Salmo 22 in genere venisse così inteso. Anche altrove la comunità cristiana ha usato promiscuamente il carme del Servo di Dio e questo salmo come predizioni riferentisi a Cristo e su di essi ha modellato la rappresentazione della passione.

j10. DALMAN,Der leìdende und sterbende Messias der Synagoge im ersten nachchristlichen ]ahrhundert, «Schriften des Inst. Jud.», IV, Berlin, 1888. La sofferenza vicaria in sé era al contrario, in epoca rabbinica, un’idea corrente {IV Macc., 6, 29; 17, 22).

k10. In Osea il profeta è l’«uomo dello spirito».

l10. Al grave pericolo dell’ellenizzazione allude senza dubbio il Salmo

m10. Cfr. Macc., 7, 12.

n10. Non importa se il suo contributo militare diretto fosse limitato, come suppone Wellhausen.

o10. Si calcola di solito che finisce con Giosuè Katnuta.

p10. Su questo cfr. Elbogen,Die Relig. Ansch. der Pharisaer, Berlin, 1904.

q10. Il nome ‘am ha-arez, a partire dalla redazione dei Libri di Esdra (9, 1) e di Neemia (10, 31) è tecnico. Come «massa» religiosamente inferiore comparvero però a partire dall’epoca dei Maccabei, in contrasto prima con i Chasidìm, poi con i Farisei.

r10. Scritto alia fine del n secolo a. C. Cfr. Charles, The Book of Jubilees, London, 1902.

s10. È vero che la predestinazione ortodossa pagana, almeno, ha sempre lasciata intatta la behirah, il libero arbitrio etico, cioe la liberta di sceltatra salvezza e perdizione. Piuttosto che intaccarlo si è preferito talvolta rappresentare l’onniscienza di Dio come soltanto condizionata.

t10. Il termine è usato anche nella preghiera quotidiana, la shema.

u10. Per la prima volta per Gamaliele il Vecchio.

v10. Da parte giudaica Matt., 23, 7-8 viene quindi definito un «anacronismo».

w10. In genere però questo accadeva soltanto se la persona in questione non era solo un maestro ma un «profeta» qualificato dal potere taumaturgico.

x10. Anche i guru indiani non di rado erano e sono tuttora, nella loro professione principale, mercanti o proprietari fondiari e redditieri, ma per i rabbini giudei dell’antichità era necessario procurarsi il sostentamento da altre fonti che non la professione «spirituale», mentre il guru indiano di regola viveva anche, e perlopiù prevalentemente, delle sportule e donazioni che la sua funzione spirituale gli rendeva. AI guru corrispondeva, nel giudaismo orientale, non il rabbino ma il mistagogo carismatico neo-chassidico, di cui parleremo più avanti.

y10. Nel Talmud questo significa il rabbino ordinato.

z10. B.B. 22a.

a11. Quando non è specificato altrimenti, si intendono qui sempre i rabbini dell’epoca che ha fornito il materiale per la composizione del Talmud.

b11. Deut., 13, 2-3; 17, 20 e seg.

c11. Deut., 18, n.

d11. Anche quando questa non era in realtà così ovvia, come per esempio nel problema di Giobbe e in qualche altro passo, tuttavia almeno lo sembrava.

e11. O l’insegnamento cinese della gioventù, ma questo per tutt’altri motivi.

f11. Lev., 18, 21.

g11. Anche il termine ἐϰϰλησία veniva impiegato per le loro assemblee comuni.

h11. Filone usa il termine per il «logos» che sostiene il gran sacerdote.

i11. Gioele, 3, 1-2.

j11. Nel Vangelo di Luca, Gesù, sorprendentemente, mangia a più riprese (7, 36 e 39; 11, 37 e segg.; 14, 1) presso un fariseo (l’ultima volta, addirittura, presso un capo dei Farisei — per cui s’intende, come mostra il passo parallelo, un «capo della scuola» —) mentre i due Vangeli più antichi non sanno nulla in proposito. Poiché Luca anche negli Atti degli Apostoli dà rilievo alla conversione di «Farisei» e poiché la comunità di tavola di Pietro con il greco di Antiochia era cosὶ importante per Paolo, si può pensare che questi passi siano tendenziosi. Dei Farisei realmente rigorosi avrebbero rifiutato la commensalità ad un ’am ha-arez o ad un uomo dalla vita scorretta (secondo Giov., 8, 48 i Giudei chiamavano Gesù un «samaritano»).

k11. Non solo due.

l11. Atti, 15, 23 e segg.

m11. Atti, 21, 21 e segg.

n11. Atti, 21, 28-29. Solo il passo Atti, 22, 21 prende apparentemente una posizione un po* diversa (indignazione della folia perche Paolo si presenta come salvatore mandato ai pagani).Èevidente tuttavia che se c’e una versione autentica, e proprio l’esposizione della presa di posizione di Giacomo e la motivazione del tentativo di linciaggio. Del resto e ovvio che i Giudei non potevano certamente essere contenti del fatto che gli portassero via i loro proseliti incirconcisi. Tuttavia in cio non si trovava nessun attacco alia legge in se.

o11. Atti, 21, 20.

p11. Gal., 2, 11 e seg.

q11. Gal., 2, 3.

r11. Atti, 16, 3. Timoteo aveva effettivamente una madre giudaica, mentre suo padre era greco (cfr. v. 1).

s11.Atti, io, 45-47.

t11. In particolare nel Vangelo di Giovanni. Qui non solo gli «scribi» e i «Farisei», come avversari di Gesù, sono molto spesso sostituiti dai «Giudei» in genere, ma soprattutto la misura delle persecuzioni dei Giudei nei suoi confronti è spinta al massimo rispetto agli altri Vangeli. Stando a Giovanni, essi insidiavano ininterrottamente la vita di Gesù, il che non avviene, nella stessa misura, nei Sinottici. (Già in Luca, in varie occasioni [ex. 8, 7; 11, 15] i «Farisei» come avversari di Giovanni e Gesù sono sostituiti dal «popolo» o «parecchi»).

1. Ted., «Controversia sulla Bibbia di Babele».

2. Esseni, tempi di Gionata (160-142 a. C.), i cui membri vivevano in comunita con un ordinamento molto rigoroso e un severo rituale di purezza. La loro dottrina era prettamente escatologica.

3. Terapeuti, secondo Filone, comunita religiosa giudaica con sede presso Alessandria d’egitto (Lago Mareotide), i cui membri erano mistici votati alia vita contemplativa, al digiuno e alia castita.

4. Amorriti, nell’Antico Testamento, popolazione preisraelita della Palestina.

5. Hyksos, termine usato dagli storiografi per designare i sovrani di razza straniera che regnarono in Egitto dal 1730 al 1580 a. C. circa.

6. Ittiti, nome dato a una delle grandi nazioni dell’Asia Minore antica, cospicua per la sua civilta e per l’azione svolta durante quasi tutto il 11 millennio a. C., dal 1800 al 1200 circa e, dope, in Siria e in Mesopotamia fino all’vin secolo a. C.

7. Ramses II, 1298-1232 a. C., monarca della XIX dinastia, governo sessantasette anni e fu uno dei sovrani piu famosi d’Egitto, celebre in particolare per la sua attivita edilizia e per le lotte contro gli Ittiti.

8. Amenofi IV o Ekhnaton, 1370-1352 a. C., sovrano della XVIII dinastia dell’antico Egitto, del periodo noto come «Nuovo Regno». Fu autore di una riforma religiosa che aboli il culto di Amone e stabili la sua nuova capitale da Tebe a Tell el-Amarna.

9. Fellah, nome arabo di origine aramaica che significa «lavoratore della terra» Designa attualmente il contadino proletario dell’Egitto e della Palestina.

10. Amalek, nipote di Esau, eponimo della tribu nomade degli Amaleciti, piu volte citata nella Bibbia.

11. Keniti, tribu nomade o seminomade di fabbri che secondo la Bibbia abitava in Canaan al tempo di Abramo.

12. Tutmosi III, 1483-1450 a. C., sovrano d’Egitto della XVIII dinastia, autore di numerose spedizioni in Asia e dell’assedio vittorioso di Megiddo contro i capi delle citta-stato coalizzate.

13. Tell el-Amarna, capitale del regno del faraone Amenofi IV, tra Menfi e Tebe, sulla riva destra del Nilo. Tra le sue rovine sono state ritrovate numerose tavolette di terracotta in scrittura cuneiforme e lingua accadica, perlopiu lettere della corrispondenza diplomatica di Amenofi III e Ekhnaton.

14. Christiaan Snouck Hurgronje, 1857-1936, islamista olandese, fornì la prima descrizione esatta e compiuta della Mecca contemporanea, dove era stato per un anno travestito da musulmano.

15. Sufeti (lat. sujetes, ebr. shofefim), magistrati fenici con poteri esecutivi in politica estera e interna e, in origine, esercitanti anche il potere giudiziario. Sono noti in particolare per Cartagine e le zone sotto l’influenza punica.

16. Pisistrato, 600 circa - 528-27 a. C., tiranno di Atene.

17. In tedesco, letteralmente «cinquantinare».

18. Diakrioi (gr.), la «Montagna», i Diacri (partito politico di Atene). Contadini poveri che abitavano sulla montagna.

19. Eduard Meyer, 1855-1930, storico dell’antichità tedesco, autore di una vastissima Geschichte des Altertums, ha dato un contributo importantissimo alla comprensione del mondo antico per la sua vasta preparazione e l’estensione dei problemi affrontati.

20. Agroikoi (gr.), che abita in campagna.

21. Perioikoi, i perieci, popolazione dotata di diritti civili, ma non politici.

22. Esiodo, il poeta piu antico della Grecia continentale (forse degli inizi del vii secolo a. C.) e il primo la cui persona abbia carattere storico.

23. Adolf Michaelis, 1835-1910, archeologo, profondo conoscitore dei vari rami dell’antichita classica, autore tra l ’altro di una storia delle scoperte archeologiche del secolo xix.

24. Asmonei, nome che gli scrittori giudei danno alia dinastia dei accabei.

25. Sa Gaz, sumerogramma che indica una categoria di persone, usato come sinonimo del termine Khabiru (vera pronuncia‘apiru). L ’equivalenza fu scoperta grazie alle tavolette di Tell el-Amarna.

26. Madianiti, popolazione della regione di Madian, a sud-ovest della Palestina, di cui da notizie 1’Antico Testamento.

27. Sinuhe, protagonista di un romanzo egiziano del Medio Regno. Funzionario di Amenenmhet I, fugge per imprecisati motivi in Siria dove viene accolto con benevolenza da un principe locale. Infine sotto Sesostri I viene richiamato in patria e accolto con onore.

28. Sesostri I, 1971-1930 a. C., faraone egiziano della XII dinastia, condusse l’espansione militare nella Nubia.

29. Ammoniti, secondo la Bibbia, genti discendenti da Lot, ripetutamente in guerracon gli Israeliti.

30. Vedi nota a p. 731.

31. In tedesco Gefolgsc haftskrieg, ossia «guerra di seguito».

32. Uri, uno dei tre cantoni che formarono nel 1291 il nucleo costitutivo della confederazione svizzera. I suoi abitanti erano sudditi dell’abbazia di Zurigo prima di passare alle dirette dipendenze dell’Impero absburgico.

33. Sanniti, antico popolo italico abitante il Sannio (nell’Italia meridionale) e le regioni adiacenti; la sua unificazione fu ostacolata principalmente dalla differenziazione avvenuta tra i conquistatori della pianura e i Sanniti della montagna, conseguente ai contatti con le civilta superiori della Campania. Fu sottomesso dai Romani nel hi secolo a. C.

34. Etoli, abitanti dell’Etolia, una delle regioni storiche della Grecia centrale. Come lega etolica combatterono contro la lega delle citta greche guidate da Sparta (280) e contro i Macedoni a fianco dei Romani.

35. Khabiru, nome, nei testi orientali antichi, di una particolare classe sociale, esperta nell’arte della guerra, ora asservita, ora fonte di perturbazione, che si è voluta identificare con gli Ebrei ma che di fatto ha carattere extranazionale. Non e escluso pero che gli Ebrei abbiano fatto parte di gmppi khabiru.

36. Lex salica, monumento della legislazione franca (legge dei Franchi Salii) che e soprattutto un codice civile e penale (imposizione del guidrigildo). Una disposizione di questa legge, che esclude le donne dalla successione della terra, e stata poi estesa escludendole dalla successione al trono.

37. Codice di Hammurabi, celebre stele cuneiforme che prende il nome dal re della prima dinastia di Babilonia che regno tra il 1792-1750 o il 1728-1686 a. C. Vi e raccolto un corpo di leggi estremamente progredite e giuridicamente complesse.

38. Hillel, dottore ebreo detto Hillel il Vecchio, secolo i a. C. - id. C. Chiamato alia presidenza deiraccademia farisaica, ebbe per compagno Shammay, capo di un’altra scuola. La scuola di Hillel tende a mitigare l ’interpretazione e l’applicazione della legge, insistendo sull’amore del prossimo. Ha lasciato una profonda traccia nell’insegnamento giuridico.

39. Seisachtheia, provvedimento preso da Solone, quando fu arconte nei 594 a. C. a favore dei debitori ateniesi.

40. Beniamino ben Yonah di Tudela, viaggiatore ebreo di Navarra; comp! un viaggio (1160-1173) fino a Baghdad attraverso l’ ltalia, la Grecia, l’Egeo e la Palestina, e ne stese una minuta relazione.

41. Bernhard Stade, 1848-1906, studioso della Bibbia, fondatore della Zeitschrift fur alttestamentliche Wissenschaft; fu tra i critici radicali dell’Antico Testamento secondo la scuola di J. Wellhausen.

42. Hermann Guthe, 1849-1936, archeologo tedesco, direttore della Deutsche Palastma-Verem e della sua Zeitschrift, ha compiuto vari scavi in Palestina.

43. Edomiti, abitanti di Edoma, chiamati anche Idumei nell’epoca greco-romana; nella Bibbia il loro eponimo e identificato con Esau e il popolo e un nemico tradizionale di Israele.

44. Merenptah, faraone egizio della XIX dinastia (1232-1224 a. C. circa), figlio e successore di Ramses II. Guerreggio in Siria, in Libia, contro i Popoli del Mare, contro Israele e in Nubia.

45. Tydeus, Tideo, eroe del ciclo tebano, figlio di Eneo, re di Calidone. Dopo vari combattimenti fu ferito mortalmente: il suo ultimo gesto fu di conficcare i denti ferocemente nella testa deU’avversario ucciso.

46. Cuchulain, eroe principale del ciclo epico di Ulster. Passo la vita tra le battaglie trasformandosi talvolta in gigante o in mostro e mori a vent’anni ucciso in battaglia da un altro eroe. Queste leggende raccolte tra il vi i e il x n secolo si riferiscono al 1 secolo d. C.

47. In preda ad una follia sanguinaria.

48. Wolf Wilhelm von Baudissin, 1847-1926, storico delle religioni, professore a Strasburgo, Marburgo e Berlino, si occupo specialmente delle religioni semitiche in relazione con quella di Israele.

49. Tolomei, dinastia regnante in Egitto in eta ellenistica da Tolomeo I (morto nel 283 a. C.). a Cleopatra VII (30 a. C.).

50. Aramei, gruppo di tribu semitiche occidentali che verso la fine del secondo millennio e nella prima meta del primo raggiunsero il loro massimo sviluppo.

51. Moabiti, antichi abitanti della regione di Moab, a oriente del Mar Morto. Il personaggio biblico Moab e indicato come loro capostipite. Etnicamente affini agli Israeliti, si trovavano con questi in stato di continua ostilita.

52. Ammone, dio dell’antico Egitto venerato a Tebe.

53. Emil Friedrich Kautzsch, 1841-1910, biblista tedesco, noto nel campo dell’esegesi per la sua traduzione annotata e commentata dei libri dell’Antico Testamento.

54. Karl Budde, 1850-1935, esegeta biblico protestante, professore a Bonn, Strasburgo, Marburgo, seguace delle teorie del Wellhausen.

55. Wohljahrtskonigtum, letteralmente «monarchia di benessere», in senso analogo al welfare state inglese.

56. Kamos, principale divinita nazionale dei Moabiti, considerato nel passo della Bibbia relativo a Iefte dio degli Ammoniti; era un dio solare e guerriero.

57. Amenofi III, 1408-1372 a. C., sovrano della XVIII dinastia dell’antico Egitto; il il suo regno fu molto pacifico.

58. Kedor (o Kudur) Laomer, re dell’Elam che figura nella Bibbia al tempo di Abramo come conquistatore della Transgiordania, dalle cui mani Abramo libero Lot. È vissuto probabilmente all’inizio del 11 millennio. op. cit., p. 67).Èsorprendente che in Num., 24, 22 (profezia di Balaam) vengono predette sventure a «Eber» insieme ad «Assur».

59. Indra, divinita indiana dell’antica mitologia vedica, residente nel cielo e nell’atmosfera, regola il tempo e somministra la pioggia. La sua voce e il tuono e la sua arma il fulmine.Èil dio piu invocato nel Rgveda.

60. Varuna, uno dei piu grandi dei della religione vedica, domina tutta la vita cosmica nel campo fisico e in quello morale; e il giudice supremo che punisce ogni colpa, palese o nascosta.

61. Marduk, nome sumerico e babilonese del dio locale della citta di Babilonia e nazionale di tutta la regione circostante dall’epoca della I dinastia babilonese (xix secolo a. C.) fino alia caduta del regno caldeo (525 a. C.).Èconsiderato figlio di Ea e padre di Nabu, creatore dell’universo e ordinatore del pantheon.

62. Ahura Mazda («il Signore Sapiente»): nome con il quale Zarathustra designo Essere Supremo che ricevette il culto dei re persiani achemenidi ed e oggi adorato dai Parsi in India.

63. Osiride, dio egizio, sposo di Iside, signore del regno dei morti. Titolare di un culto popolare diflfuso in tutto 1’Egitto.

64. Moloch, antica divinita cananea il cui culto, penetrato tra la popolazione israelitica, fu fortemente combattuto dai profeti. Gli si ofTrivano sacrifici umani.

65. Astarte, dea fenicia di origine sumerico-accadica; venerata presso gli Accadi sotto il nome di Ishtar, presso i Sumeri come «Signora di Anu o del cielo».

66. Tammuz, dio mesopotamico della vegetazione, considerato figlio di Shamash, dio del sole. 11 suo culto, simboleggiante la morte e resurrezione della vegetazione, dififuso in tutto il mondo orientale antico, e legato a quello di Ishtar, dea deH’amore, di cui era considerato l’amante.

67. Sin, antica divinita lunare, presente nei testi mesopotamici fin dal 111 millennio a. C., ritenuto padre di Shamash e Ishtar (triade astrale). (in Ausgew. Mischnatraktaten, ed. da P. Fiebig, n. 5, Tubingen, 1909), pp. 10 e seg. Cfr. inoltre H e h n, Siebenzahl und sabbat bei den Babyl. u. im. A. T. «(Leipzig semit. Stud.», II, 5, 1907).

68. Friedrich Delitzsch, 1850-1922, semitista ed assirologo tedesco, promosse studi e scavi in Mesopotamia e a Babilonia. Ebbe molta risonanza il suo Babel und Bibel (1905) in cui sostenne che 1’Antico Testamento deriva in massima parte da miti babilonesi e che il monoteismo ebraico si sviluppo gradualmente dal politeismo.

69. Anu, dio del cielo e divinita suprema presso i Sumeri e gli Accadi.

70. Martin Dibelius, 1883-1947, teologo, storico ed esegeta protestante tedesco, filologo esperto e rappresentante della «formgeschichtliche Schule».

71. Wadd, divinita araba preislamica facente parte del pantheon mineo; e il dio dell’amore, noto anche ai beduini dell’Arabia centrale e settentrionale.

72. Ulrich Stutz, 1868-1938, insigne giurista e storico del diritto dell’eta contemporanea, noto in particolare per i suoi studi di storia del diritto canonico.

73. Grihyasutra, una categoria dei manuali connessi alia letteratura vedica (sutra) e concernente i sacrifici domestici.

74. Ptahhotep, alto funzionario menfita della V dinastia, dato come autore di una Istruzione al figlio che ebbe grande diffusione nell’Egitto antico.

75. Stele di Mesa, lunga iscrizione su stele in cui si narra la guerra contro gli Israeliti e la vittoria ottenuta dal re moabita Mesa probabilmente verso 1’840 a. C.

76. Rudolph Kittel, 1853-1929, teologo e biblista protestante, autore di un’edizione critica della Bibbia ebraica e di una fondamentale opera storica sul popolo d’ Israele.

77. Ramses IV, faraone egizio della XX dinastia.

78. Hybris (gr.), insolenza, tracotanza, presunzione.

79. Assur, dio nazionale dell’Assiria. Nome anche di citta, indica durante l’egemonia assira il regno assiro e la sua capitale.

80. Nebo o Nabu, dio babilonese e assiro, considerato figlio di Marduk. Era il dio deH’irrigazione, della scrittura e della sapienza, patrono dei sacerdoti e degli artefici, scriba degli dei.

81. Hugo Winckler, 1863-1913, assirologo e orientalista, sostenitore di un’interpretazione panbabilonistica della civilta dell’Oriente antico. Scopri l’archivio-biblioteca dei re itdd a Bogazkoy.

82. Alfred Jeremias, 1864-1936, orientalista tedesco, fui insieme a H. Winckler il principale sostenitore del panbabilonismo, teoria che asseriva la dipendenza dell’intera cultura antica da quella babilonese (cfr. anche alPinizio di questo volume la nota bibliografica di Max Weber).

83. Heimarmene (gr.), fato, sorte.

84. Ekhnaton, nome sotto cui e conosciuto Amenofi IV.

85. Ishtar, divinita femminile principale del pantheon babilonese e assiro. Dea dell’amore sacro e profano, della guerra e del pianeta Venere (culto astrale). Come dea della terra-madre feconda divenne protagonista di numerosi poemi epici-mitologici tra cui quello della sua discesa agli Inferi.

86. Nergal, antica divinita mesopotamica del sole e del fuoco; e il dio delle manifestazioni violente della natura, delle epidemie e delle pestilenze.

87. Adad, dio babilonese e assiro della pioggia, delle tempeste e del fulmine, considerato figlio di Anu.Èanche una divinity della mantica.

88. Iside, la rnqgiore divinità femminile dell’antico Egitto al cui culto sono legati importanti riti misterici. È sposa di Osiride e legata all’importante mito del dio che muore e risorge.

89. Libro dei Morti, testo religioso dell’antico Egitto.Èuna raccolta di preghiere, inni e formulari magici, accompagnati da vignette illustrative, che si deponeva nei sarcofagi perche accompagnasse i defunti e li istruisse suil modo di comportarsi nell’aldila. Particolarmente importante e la parte relativa alia «confessione negativa dei peccati» (enumerazione delle azioni riprovevoli non commesse) da tenersi davanti al dio Osiride.

90. Tiamat, divinita femminile babilonese e assira personificante l’oceano primordiale che circonda la terra; nel poema delle origini dell’uni verso e vinta e uccisa da Marduk. Si ritiene che avesse figura di Drago (Drago di Babele) e il suo nome e stato messo in rapporto con la parola biblica tehom che indica le acque primordiali.

91. Enlil, secondo dio della triade sumerica (Anu, Enlil ed Ea). Figlio di Anu, dio della terra, della tempesta, della pioggia, del fulmine, dell’uragano e della piena dei fiumi, diventò la divinità principale di Sumer.

92. Ea, divinità mesopotamica delle acque, della creazione e del sacerdozio, protettore e maestro dell’umanità e consigliere degli dèi, padre di Marduk. Ha un molo predominante nei miti mesopotamici.

93. Hermann Usener, 1834-1905, filologo classico e uno dei grandi storici delle religioni del secolo scorso.

94. Gilgames, poema conservato in accadico su tavolette d’argilla, la cui origine sembra risalire agli inizi del 11 millennio, centrato sulla figura di Gilgames, re sumero di Uruk.

95. Hugo Gressmann, 1877-1927, biblista tedesco, professore all’universita di Berlino, studio 1’Antico Testamento nel quadro delle diverse civilta dell’Oriente antico.

96. Assurbanipal, quarto sovrano della dinastia fondata da Sargon II, appartiene ai re del Nuovo Impero assiro (932-608 a. C.). Salito al trono nel 669 a. C. circa e morto tra il 639 e il 630 a. C., porto il Nuovo Impero all’apice della potenza politica e della civilta.

97. Gudea, principe-sacerdote della citta sumera di Lagash, nella bassa Mesopotamia, vissuto intorno al 2000 a. C. Opere d’arte e iscrizioni testimoniano della civilta e dello splendore del suo regno.

98. Sargon il Grande, semplice funzionario che dopo varie guerre vittoriose riuni sotto di se tutta la Mesopotamia meridionale e fondo la dinastia di Akkadu (2350 a. C.).

99. Boccori, re dell’antico Egitto della XXIV dinastia che regno nel 718-712 a. C. Le leggi a lui attribuite crearono la leggenda della sua giustizia e bonta.

100. Bed Din, lett. «casa del giudizio», indica, nelle fonti rabbiniche, un tribunale ebraico.

101. Julius Wellhausen, 1844-1918, storico e filologo tedesco, abbraccio insieme gli studi biblici e arabistici. In particolare nel campo antico-testamentario affermo l’origine tarda, esilica e postesilica, della legislazione sacra ebraica, il carattere composito del Pentateuco e dei libri storici della Bibbia e l’eta recente della loro redazione.

102. Pentaur, scriba egiziano della XIX dinastia; copista (ma ritenuto autore), tra1’altro, del poema che celebra l’eroismo del giovane Ramses II nella battaglia di Qadesh contro la coalizione ittita; per questo il testo e noto come Poema di Pentaur.

103. Dario I il Grande, 522-485 a. C., re dei Persiani. Dopo aver sconfitto l’usurpatore Gaumata (il falso Smerdi) e domato varie rivolte rafforzo l’impero persiano con grandi riforme interne. Fu sconfitto dai Greci a Maratona.

104. Behistun, localita sulla strada carovaniera da Baghdad a Teheran, sede di una iscrizione rupestre trilingue incisa da Dario il Grande.

105. Dodona, antichissimo centro religioso dei popoli preellenici in una valle nei centro dell’Epiro.

106. Delfo, localita della Focide, sul fianco meridionale del Parnaso, sede del famoso oracolo e santuario che costituiva il maggior centro religioso della Grecia antica.

107. Tersite, eroe etolico figlio di Agrio che con i fratelli caccio dal trono di Calidone lo zio Eneo. Noto attraverso Ylliade come il piu brutto e vile dei greci a Troia, che sobilla la plebaglia dell’esercito contro i capi, e rimasto anche nella letteratura romana come il tipo del demagogo insolente e vigliacco.

108. Tirteo, poeta elegiaco greco vissuto a Sparta nel vii secolo a. C. Scrisse le sue elegie per animare gli Spartani nella guerra contro i Messeni.

109. Pisistratidi, nome patronimico che designa i discendenti di Pisistrato, tiranno d’ Atene, in particolare i figli Ippia e Ipparco.

110. Sennacherib, 704-681 a. C., re assiro, figlio di Salmanassar V, il cui regno fu caratterizzato da numerose rivolte delle popolaziom sottomesse: quella delle citta siro-palestinesi appoggiate dall’Egitto e poi sconfitte, quelle di Babilonia e degli Elamiti.

111. Esimneti, nelle antiche citta greche, magistrati supremi con pieni poteri, nominati a tempo o a vita. Nel vn-vi secolo, spesso si confondono o s’identificano con i tiranni.

112. Mardonio, generale persiano, nipote di Dario I, capeggio nei 492 a. C. la prima spedizione contro i Greci e partecipo in seguito alia spedizione di Serse. Mori sul campo di Platea (479 a. C.).

113. Creso, 560-546 a. C., re di Lidia, sovrano fastoso in stretti rapporti col mondo greco, da cui mutuo apporti culturali d’ogni genere. Mando ricchissimi doni votivi all*oracolo di Delfi che gli predisse, ma in forma velata, la sua sconfitta a opera di Ciro.

114. Urukagina, re sumerico di Lagash, nella Mesopotamia meridionale (circa 2350 a. C.). Dalle sue iscrizioni si apprende che emano leggi di riforma, cercando di ridurre la potenza della ricca e influente casta sacerdotale del suo regno.

115. Ciro il Vecchio, re di Persia, figlio di Cambise, della stirpe degli Achemenidi; e il fondatore del primo grande impero persiano. Regno tra il 558 e il 528 a. C.

116. Ciropedìa, operetta minore di Senofonte compiuta verso il 360 a. C., tratta dell ’educazione e del regno di Ciro il Vecchio.

117. Arhat (sanscrito «rispettabile, venerabile»). Nel buddhismo designa chi ha raggiunto il quarto grado della perfezione ed e ormai il «santo», colui che solo la morte separa dal Nirvana.

118. Deisidaimonia (gr.), timore ansioso degli dei, sentimento religioso, ma soprattutto a carattere superstizioso.

119. Sciti, popolazione localizzata nell’antichita nella Russia meridionale, originariamente nomade.

120. Simone Bar Kocheba, capo militare dell’ultima insurrezione giudaica contro i Romani sotto Adriano, sconfitto e ucciso con i suoi ultimi seguaci nella fortezza di Bittu nel 135, da Giulio Severo.

121. Mose Maimonide, 1135-1204, filosofo ebreo.

122. Clemente d’Alessandria, circa 146-216 d. C., padre e dottore della Chiesa orientale.

123. Parsi, membri della comunita zoroastriana dell’India, discendenti dagli Zoroastriani della Persia; immigrati sin dal secolo vm d. C. in seguito all’invasione araba e all’islamizzazione del paese.

124. Evilmerodach, re di Babilonia, figlio di Nabucodonosor, succede al padre nei 562 a. C. ma fu ucciso due anni dopo in una sommossa.

125. Murasu, nome di una famiglia di deportati giudei che a Nippur raggiunsero una notevole potenza economica come banchieri internazionali. Il nome compare su numerose tavolette e documenta la prosperita di cui godettero alcuni dei deportati da Nabucodonosor, pienamente integrati a Babilonia.

126. Artaserse, si tratta del re persiano che inviò Esdra a Gerusnlemme pcrché instaurasse il regime della Legge mosaica, cioò Arraserse I (465-424 a. C.), succcssore di Serse I e padre di Dario II; per suo incarico anche Neemia esercitò la sua attività politica in Giudea.

127. In tedesco Schachter, macellaio ebreo.

128. Seleucidi, nome, derivato da Seleuco I, della dinastia che regno sui territori orientali dello smembrato regno di Alessandro Magno (312-64 a. C.).

129. Giuseppe Flavio, nato dopo il 35 d. C., morto verso il 102-3, famoso storiografo giudaico, ha lasciato opere in greco in cui si esprimono le sue tendenze romanofile, laiche e razionaliste.

130. Mishnàh, la dottrina tradizionale giudaica postbiblica e in particolare la raccolta delle norme giuridiche.

131. Adad-Rimmon, in realtà il versetto di Zaccaria in questione è molto controverso. L’interpretazione a cui si rifà Weber è quella che vede nel nome un’allusione mitologica in cui sono combinati due dèi: Adad, dio siro della tempesta e della pioggia, Tammuz, dio assiro-babilonese. Si tratterebbe di Adone (Tammuz) venerato dalle donne fenicie con manifestazione di grandi pianti. Va notato tuttavia che questa interpretazione da altre parti è fortemente contestata.

132. Yoma, trattato rabbinico contenuto nella Mishnāh e nei Talmūd.

133. Archelao, circa 23 a. C.-18 d. C., figlio di Erode il Grande e etnarca della Giudea.

134. Libro dei Giubilei, libro non canonico dell’Antico Testamento; viene messo in relazione con l’essenismo.

135. Sadducei, partito politico giudaico sorto al tempo dei Maccabei (11 secolo a. C.) costituito originariamente dalla classe sacerdotale dei «figli di Sadoq», antagonista dei farisei che si erano impadroniti del potere religioso. Rappresentano la corrente filo-ellenistica contro quella nazionalistica dei Farisei. Scomparvero dopo la rivolta giudaica del 70 d. C.

136. Ketubah, documento che attesta gli obblighi finanziari assunti dal marito nei confronti della moglie al momento del matrimonio; tali obblighi sono imposti per legge.

137. Giovanni Ircano, sommo sacerdote, etnarca dei Giudei (dal 135 al 104 a. C.). Favori i Sadducei alienandosi le simpatie dei Farisei.

138. Alessandra Salome, 140–67 a. C., regina asmonea, della dinastia dei Maccabei, sposa di Aristobulo I e poi di Alessandro Janneo.

139. Aristobulo II, 67,–63 a. C., ultimo re della dinastia asmonea, figlio di Alessandra Salome e di Alessandro Ianneo.

140. Shammay, dottore ebreo, secolo 1 a. C.-i d. C., detto anche Shammay il Vecchio. Fu collega di Hillel nell’accademia farisaica di Gerusalemme ma si distinse da lui per indirizzo di pensiero, dando inizio a una scuola diversa.

141. Resh Galuta, capo laico della comunita ebraica a Babilonia.

142. Bhagavadgita (sanscrito «II canto del Beato»), celebre poema filosofico-religioso indiano, intercalato nel Mahabharata.

143. Enoch, personaggio biblico, discendente di Set, settimo da Adamo. Non mori ma fu assunto in cielo. Gli vengono attribuite varie apocalissi apocrife.

144. Matathron, angelo che gode di una speciale posizione nella dottrina esoterica, menzionato nell’angelologia della letteratura apocalittica.

145. Filone di Alessandria, 30 a. C.-50 d. C. circa, filosofo giudeo della diaspora, fariseo ortodosso ma profondamente imbevuto della cultura e della filosofia greca.

146. In tedesco: «macellare secondo il rito ebraico».

147. Leggi noa-hidi, le sette leggi considerate dalla tradizione rabbinica come il minimo dei doveri morali imposti dalla Bibbia a tutti gli uomini.

148. Bhikku (sanscr. «religioso mendicante»): termine che nelPinduismo designa il brahmano al quarto e ultimo periodo della sua vita religiosa, come pellegrino e mendicante errante. Nel buddhismo e chiamato cosὶ ogni monaco.

149. Dione Cassia Cocceiano, storico grrco di Roma, vissuto all’incirca ua il 163 il 229 d. C.