18. La lotta dello jahvismo contro l’orgiasmo
È merito di Ed. Meyer l’aver attirato l’attenzione su un caratteristico contrasto di rito nel berith israelitico tra Sichem, principale luogo di culto di Israele del Nord, e Gerusalemme. Il patto di Sichem, secondo il Libro di Giosuè, aveva il carattere di un pasto cultuale, proprio cioè di una comunità di tavola — una koinonia con il Dio, come quella di cui si narra anche in un antico racconto nord-israelitico sul patto del Sinai, dove i settanta Anziani sono ospiti alla tavola di Jahvè come egli viceversa viene in qualità di ospite al pranzo sacrificale dei membri del culto. Ben diverso è il rito tramandato per Giuda, che viene descritto in modo particolarmente dettagliato a proposito del berith sotto Sedekia e viene posto dalla leggenda come quello vigente anche per il berith di Dio con Abramo. L’animale sacrificato veniva tagliato a pezzi e tutti quelli che si impegnavano — re, sacerdoti, e secondo i casi anziani delle schiatte o uomini (’am) — passavano tra i pezzi. In ogni leggenda Jahvè fa questo nottetempo. In questo caso non vi è quindi una koinonia sacramentale con il Dio. Lo smembramento di un animale sacrificato si ritrova anche in un’altra cerimonia. L’eroe o il profeta che vuol chiamare Israele alla guerra santa contro popoli stranieri o membri della confederazione rei di un delitto smembra un animale e ne manda i pezzi in tutto il paese. Ciò vale da ammonimento ricordando l’obbligo di prestare aiuto militare a Jahvè.
Si fa riferimento solo due volte a questa forma, ma proprio per delle tribù del Nord: Efraim e Beniamino. Supponendo che vi sia un rapporto con la forma giudaica del berith, il che appare ovvio, potrebbe quindi darsi che questa forma non fosse sconosciuta nemmeno nel Nord. Si può allora pensare che la koinonia in uso presso le popolazioni stabilmente insediate a Sichem fosse l’autentica forma cananea con cui queste stabilivano un rapporto con un dio pacifico, mentre presso i contadini e pastori della montagna meno sedentari esisteva in origine l’altra forma, quella propria al dio guerriero della lega, Jahvè, e che serviva a stabilire una fratellanza militare. Ciò appare tanto più probabile in quanto questo smembramento della vittima sacrificale va visto senza dubbio come un residuo rituale dell’antica usanza orgiastica di lacerare l’animale sacrificato — un montone presso i beduini africani — usanza che si ritrova in particolare presso i popoli della montagna e della steppa e che presso gli Iraniani sembra essere stata estirpata soltanto da Zaratustra, forse sotto l’influenza della cultura mesopotamica. Difficilmente ci si sbaglia supponendo che anche presso le tribù giudaiche questa usanza sia stata eliminata da una lotta pianificata contro la primitiva orgia a base di carne, che si ritrova per esempio anche nel culto di Dioniso. Forse il posteriore divieto rituale del consumo di sangue rappresenta una tappa su questa via e in tal caso la sua motivazione, che è venuta più tardi, e cioè che «non si deve mangiare l’anima dell’animale», conserverebbe ancora i residui delle antiche concezioni animistiche. Infatti, come abbiamo già visto occasionalmente, sembra che tale divieto in origine non valesse per l’esercito in battaglia. La sua evoluzione potrebbe allora essere stata la seguente: il consumo di sangue, che in origine era vietato solo in tempi normali, al di fuori dell’orgia a base di carne riservata al dio della guerra, più tardi, sotto l’influenza del processo di smilitarizzazione che ci è noto, e dell’eliminazione delle orge, è stato considerato definitivamente vietato in tutti i casi. Tuttavia questo si può considerare soltanto come un’ipotesi incerta.
Infine nella tradizione (Es., 24, 6 e 8) troviamo anche una terza forma per contrarre un berith: l’aspersione della comunità di Jahvè con il sangue della vittima sacrificale con cui nello stesso tempo viene asperso anche l’altare. Essa presuppone la collaborazione del sacerdote, l’unico che possa compiere quest’atto. Poiché è inserita nell’antichissimo racconto del pasto comune di Jahvè con gli Anziani — la commensalità è qui la conseguenza del berith concluso, non l’atto costitutivo della inainoti ia religiosa — potrebbe essere antica anch’essa e in tal caso di origine meridionale. Anche questo è incerto. A noi importa unicamente il fatto che nessuna cerimonia che stabiliva una koinonia sacramentale con il Dio era conosciuta in epoca storica presso le tribù meridionali. Arriviamo infatti in questo modo a un punto importante che ha determinato la fondamentale contrapposizione tra lo jahvismo puro del Sud e il miscuglio nord-israelitico che congloba il culto di Ba’al e altri culti agricoli affini, contrapposizione che sul piano esteriore è anche caratterizzato da quella, più formale, dei riti del berith.
I culti di Ba’al, come la maggior parte degli antichi culti agricoli, erano e rimangono fino all’ultimo di tipo orgiastico. L’accoppiamento rituale sul campo come incantesimo omeopatico della fertilità, l’orgia a base di alcool e danze con l’annessa inevitabile promiscuità sessuale, orgia più tardi mitigata in pasto sacrificale con canti e danze, e prostituzione delle ierodule, vanno sicuramente considerati come elementi costitutivi in origine anche dei culti agricoli israelitici. Del resto i residui sono evidenti. La «danza intorno al vitello d’oro» contro la quale inveisce Mosè, secondo la tradizione, la «fornicazione» contro cui si scagliano i profeti, la ridda cultuale di cui si trovano ovunque reminiscenze, l’esistenza delle ierodule (kedeshìm) di cui vi è la testimonianza esplicita nelle raccolte giuridiche, nelle leggende (Tamar) e presso i profeti mostrano chiaramente il carattere orgiastico-sessuale del gaio culto antico di Ba’al. Questo risulta anche dalle indicazioni esplicite delle fonti. Come agli dèi indiani della fertilità, al Ba’al non mancava la compagna femminile, la Ba’alat. Essa s’identificava con Astarte, e questa a sua volta con la babilonese Istar, la divinità della sfera sessuale. Dai culti di Ba’al, data la mescolanza di questo con Jahvè, l’orgiasmo sessuale penetrò anche nei culti di Jahvè. è attestata l’esistenza di ierodule anche presso il tempio di Gerusalemme.
Contro questo carattere orgiastico dei culti di Ba’al, in particolare contro l’ebbrezza e l’orgia sessuale, si scatenò la lotta veemente dei rappresentanti dello jahvismo puro. La lotta dei Recabiti contro il vino non era una mera conservazione delle antiche abitudini della steppa ma era soprattutto una lotta contro l’orgia di alcoolici delle popolazioni sedentarie. Ma soprattutto la posizione del rituale jahvista e dell’etica jahvista rispetto alla vita sessuale testimoniano di questo profondo contrasto. Servire i Ba’al significa, una volta per tutte, «prostituirsi» a loro. Tutta la regolamentazione della sfera sessuale ha acquistato nella lotta contro questa aberrazione quel carattere i cui effetti hanno continuato a farsi sentire a lungo nel giudaismo. Senza dubbio la condanna religiosa che presenta la violazione dell’altrui matrimonio con un delitto che merita la morte corrisponde in realtà semplicemente a quella che ritroviamo in tutte le religioni regolate da sacerdoti o profeti, ed è solo particolarmente severa nel tipo di punizione. E neppure la concezione del matrimonio come mezzo per generare figli garantendo la sicurezza economica alla madre non ha in sé, naturalmente, nulla di specificamente israelitico essendo universalmente diffusa. Del pari il marcato naturalismo di questo tipo di concezione dei processi sessuali non è in alcun modo particolare ad Israele. Le regole di castità, i tabù, le prescrizioni di impurità per le donne mestruate, ecc. in riferimento al culto e all’ascesi guerriera erano anch’esse molto diffuse, senza dubbio in modi molto diversi, ed erano semplicemente espressione del fatto che la sfera sessuale veniva considerata come specificamente dominata dai dèmoni; così infatti, proprio sotto l’impressione dell’orgiasmo sessuale, era apparsa ovunque ai portatori di culti e religiosità razionali.
Tuttavia il grado e il modo con cui il rituale israelitico e le leggende israelitiche, proprio in quanto specificamente influenzate dallo jahvismo, si occupano di questa sfera, mostrano che siamo comunque in presenza di un caso limite che si spiega praticamente solo con la voluta contrapposizione all’orgiasmo di Ba’al, proprio come il rifiuto di ogni speculazione sull’aldilà presumibilmente va fatto risalire a una tendenza ostile al culto dei morti egiziano. Sul piano delle cose sessuali questa tendenza opposta alla spudoratezza sessuale — attribuita ai Cananei che per questo venivano maledetti e disprezzati — si manifesta soprattutto nell’inflessibile esecrazione per ogni denudazione fisica. Questo semplice fatto, o il semplice sguardo bramoso di un parente vengono trattati (Lev., 20, 10) come incesto e delitto meritevole di morte e il capostipite dei Cananei è considerato dalla Genesi come il promotore di tutta quella spudoratezza che sarebbe stata cagione della condanna di questo popolo all’eterna schiavitù. D’altra parte (Lev., cap. 18) anche ogni incesto, ogni immissione nell’harem paterno come pure ogni altro legame sessuale illegittimo viene indicato con l’immagine di una denudazione fisica. Nell’antico rituale la presenza di gradini presso l’altare era del tutto vietata poiché altrimenti vi poteva essere una denudazione rispetto ad ogni gradino, già sede ideale di Jahvè. Il fatto di essere «nudi» rappresenta, per i primi uomini, ciò che dopo il consumo del frutto dell’albero della scienza documenta il risveglio della loro capacità di distinguere il «bene» dal «male». Lo stesso modo di vedere e la stessa tendenza permeano tutte le disposizioni e la casistica che appartengono a questa sfera. Il peccato di Onan viene esecrato. è vero che secondo la tradizione attuale è visto come violazione dell’obbligo di dare una discendenza al fratello. In origine però la sua formale riprovazione doveva essere determinata dall’opposizione degli jahvisti a certe orge di Moloch (Lev., 20, 2) in cui veniva sacrificato del seme maschile. Tutti i tipi di rapporti sessuali proibiti, perché orgiastici o incestuosi o contro natura ricadono — non da soli ma al primo posto — sotto il concetto specificamente jahvista di «follia» (Gen., 34, 7; Deut., 22, 21) e questo termine indica ancora nella più tarda tradizione e perfino nei Vangeli la cosa peggiore che possa essere detta contro un israelita.
In definitiva tutte le regole specificamente israelitiche che riguardano i processi sessuali, e di cui non ci occuperemo qui in dettaglio, non hanno carattere etico ma rituale. L’etica sessuale concreta dell’antico Israele non era più severa di altri regolamenti sacerdotali. L’adulterio di cui parla il Decalogo riguarda l’offesa portata al matrimonio altrui e non al proprio. Il divieto del rapporto sessuale extraconiugale per l’uomo è cominciato solo in tardo periodo post-esilico e inoltre — proprio come nelle sagge sentenze confuciane e in quelle egiziane per esempio di Ptahhotep72 — in un primo momento è stato limitato al punto di vista del saggio modo di vivere. Nell’antica lingua di Israele manca un termine per «castità» in senso etico. Solo sotto l’influenza persiana, come vedremo, la regolamentazione si spinse più avanti e anche qui, in un primo momento, solo in scritti non canonici (Tobia). Al contrario secondo l’antica concezione israelitica la seduzione di una fanciulla senza previo contratto con la sua schiatta poteva sì suscitare la vendetta di quest’ultima, come mostra il caso di Dina; tuttavia le raccolte giuridiche prescrivono come espiazione il semplice matrimonio, cioè l’acquisizione legale della fanciulla mediante il pagamento del prezzo d’acquisto, in maniera del tutto analoga alle leggi anglosassoni che assimilano il caso alla fattispecie del danno alle cose. L’antipatia verso ciò che viene considerato sessualmente spudorato non ha quindi nulla a che vedere con una particolare «purezza dei costumi» propria dei beduini. Proprio agli Arabi del deserto viene rimproverato da Geremia (3, 2) di praticare «la prostituzione per le strade» cioè — come mostra la condotta di Tamar — nei luoghi ove usavano trattenersi le meretrici, tra cui anche le ierodule dei templi che i profeti rigettano insieme a tutti gli altri residui dell’orgiasmo sessuale. Solo l’orgia sessuale omeopatica, propria ai culti agricoli, era estranea ai beduini.
Il carattere specificamente rituale — non primariamente etico — di tutta la casistica sessuale, da questa conservato in larga misura anche più tardi, le conferisce una nota particolare in quanto lo si trova soltanto qui, non nella specie, ma a quel livello d’intensità e di generale tendenziosità. La combinazione dell’antica semplicità naturalistica nel trattare e discutere i processi sessuali in sé con questo timore del tutto ritualistico della mera denudazione fisica, non ha nulla a che vedere con quel particolare sentimento di dignità che di solito si collega alle nostre reazioni di pudore, instaurate da convenzioni feudali o borghesi. Rispetto al moderno senso del pudore influenzato da concezioni feudali, borghesi e cristiane essa appare un po’ come la caricatura di un autentico sentimento di pudore nel senso oggi corrente. Storicamente però la fonte di questa peculiarità sta nella rigida opposizione portata avanti dal ceto sacerdotale contro l’orgiasmo dei contadini nord-israeliti. L’Islam ha conosciuto un fenomeno analogo e, grazie alla sua antipatia per la nudità, è diventato promotore dello sviluppo dell’industria tessile o almeno un mercato per la medesima in tutti i territori ove si è diffuso.
Questa ostilità contro l’orgiasmo e l’estasi orgiastica determinò anche la presa di posizione del Sud contro i virtuosi estatici emersi da queste due correnti. Gli antichi nevijìm dell’estasi di massa erano incontestabilmente un fenomeno essenzialmente nord-israelitico derivato da culti di Ba’al in parte fenici, in parte cananei. Anche Zaccaria (13, 5) assume come ovvio che i falsi profeti siano contadini e che le loro presunte autolesioni siano dovute alle unghie di meretrici. In tutto il mondo i profeti estatici carismatici al servizio dei culti orgiastici di massa si sono racchiusi in scuole o corporazioni. Le scuole navi di Eliseo e già quelle di epoche precedenti erano semplicemente conformi a questo fenomeno generale. L’orgiasmo da cui nasceva l’estasi del navi era soprattutto, come abbiamo visto, un orgiasmo omeopatico della fertilità. I nomadi e semi-nomadi non conoscevano nulla di simile. Se è vero che in passato praticavano l’orgia a base di carne, questa doveva essere una parte costitutiva dell’estasi del guerriero. è vero che il più antico Israele, anche quello del Nord, conosceva l’ascesi guerriera dei nazirei e l’estasi guerriera dei Berserf(er. Del pari gli antichi nevijìm dediti all’estasi di massa erano, come abbiamo visto, perlomeno in parte anche profeti di guerra. Tuttavia tre punti sono chiari. In primo luogo al guerriero estatico nazireo, in contrasto con l’orgiasmo cultuale dei Ba’al, era prescritta proprio Yastinenza dagli alcoolici. In secondo luogo, la profezia di guerra classica all’epoca di Debora era, contrariamente a quella dei nevijìm, profezia individuale. Infine colpisce il fatto che il Cantico di Debora parli di «altri dèi» a cui Israele si sarebbe votato. Questi non possono essere che gli dèi della terra, ovvero i Ba’al. Secoli più tardi vediamo di nuovo la profezia individuale di Elia in lotta contro «altri dèi» dello stesso tipo e contro l’estasi orgiastica di massa. Il profeta che Jehu porta con sé sul suo carro è un recabita, ossia un avversario dell’orgiasmo alcoolico.
Ogni volta questa lotta parte prevalentemente da uomini che provengono dal Sud o comunque da gruppi di allevatori di bestiame. Il tipico profeta individuale, Elia, il nemico mortale dell’estasi di Ba‘al, proviene da Galaad ed è un tipico nomade errante. Eliseo, dedito all’estasi di massa, secondo la tradizione era un contadino. Del pari il primo profeta che di nuovo molto tempo dopo si erge contro la prassi cultuale del Nord, Amos, è un pastore di Thekoa. Risulta quindi che dal Nord, sotto l’influenza dell’orgiasmo e dell’estasi cananee provengono i nevijìm dediti all’estasi di massa, nonché le forme irrazionali ed emotive di magia, mentre dal Sud, dove non era conosciuto l’orgiasmo agricolo, proviene la razionale Torah levitica e la profezia di missione, razionale ed etica, che sa come queste spudoratezze siano oggetto d’orrore per Jahvè e come il culto ed i sacrifici in particolare non significhino nulla per l’antico Dio della lega rispetto all’adempimento dei suoi comandamenti. Il dissidio percorre quindi in maniera latente tutta la storia israelitica sin dall’immigrazione. Assunse forme acute con il crescente carattere razionale del mondo concettuale proprio alle due potenze ostili alle orge: i Leviti ed i profeti di sventura. Questo era perlomeno in parte la conseguenza dello sviluppo della cultura letteraria degli intellettuali. Dovremo quindi chiarire in che modo i princìpi elementari di quelle due forme fondamentalmente diverse di religiosità, princìpi il cui contrasto è in parte latente, in parte aperto, si esplicano in seno al gruppo dei letterati dell’antico Israele.
9. Gli intellettuali israeliti e le culture vicine
La produzione letteraria di Israele in epoca pre-esilica chiaramente non era inferiore per ricchezza e varietà a nessun’altra letteratura del mondo. Accanto alle canzoni d’amore, in parte ardentemente sensuali alla maniera guerriera, in parte pesantemente auliche, in parte piene di grazia campagnola, che erano già in uso alla gaia corte di Thirza e probabilmente anche prima e che più tardi, attraverso variazioni che arrivano fino all’epoca dell’influenza persiana, sono state raccolte come «Cantico dei Cantici», e accanto ad alcune canzoni encomiastiche piene d’ardore dedicate ai sovrani e contenute nella raccolta dei Salmi, vi è anche un certo numero di inni religiosi in parte contenuti in queste raccolte e in parte no, che celebrano l’opera del grande Dio del cielo nella natura, alla maniera babilonese, con una perfezione mai superata. Devono quindi essere esistiti, perlomeno nel periodo dei Re, bardi, sia religiosi che laici, al di sopra dei portatori della poesia puramente popolare. Poiché si tratta qui di spiccata arte poetica. E il Cantico di Debora, un poema d’occasione squisitamente riuscito, metà canto di vittoria religioso, metà satira politica contro gli antichi nemici delle città e contro gli alleati che giungono in ritardo, mostra come questo genere fosse ancora molto più antico.
La scrittura alfabetica che risale comunque — stando all’importazione di papiro a Biblo attestata nella descrizione di viaggio di Wen Amon — alla fine del secondo millennio, anche se documentata per la prima volta dalla stele moabita di Mesa73 (ix secolo), era tra tutti i mezzi di informazione esistenti in tutto il mondo a quell’epoca quello di gran lunga più facilmente apprendibile. è stato certamente inventato a beneficio degli interessi commerciali dei mercanti e quindi presumibilmente in Fenicia. Tuttavia questa scrittura facilitò il sorgere in Israele di una letteratura propriamente destinata alla lettura insieme a una diffusione del tutto eccezionale dell’arte di leggere e di scrivere. In un primo momento questo tornò senza dubbio a vantaggio delle segreterie reali. Il titolo di mazkjr (tradotto perlopiù come «cancelliere» ma che senza dubbio significava anche annalista del regno e «memorialista» del re) ed i soferìm alla corte di Davide e presso i due regni mostrano che comunque a partire da Davide e forse anche, in forma rudimentale, già all’epoca di Saul, come sembrerebbe indicare una lista conservata (I Sam., 14, 49 e seg.), esisteva la scrittura nell’amministrazione. Per lo stato di Salomone fondato sul lavoro servile obbligatorio un ceto di funzionari letterati, reclutati evidentemente non di rado tra i sacerdoti, ma tuttavia anche tra le schiatte laiche colte, era indispensabile. Nelle cronache dei Re più tardi praticamente riscritte si fa continuo riferimento agli annali ufficiali dei Re; del pari deve essere certamente esistita un’annalistica del Tempio di Gerusalemme. Si deve inoltre supporre, con Kittel74, che già le prime versioni delle cronache del regno di Davide siano state redatte da un cronista che era ammesso agli archivi reali ma nello stesso tempo scriveva sulle cose in maniera indipendente, secondo le proprie vedute.
La grande libertà della tradizione nei confronti della monarchia pur sempre temporaneamente potente è connessa da un lato alla forte posizione che, come abbiamo visto, le grandi schiatte armate avevano conservato in Israele, contrariamente a quanto è avvenuto nella maggior parte delle altre formazioni statali monarchiche d’Oriente. D’altra parte è in relazione con l’importanza del gruppi di portatori dello «spirito» dell’antico Dio guerriero della lega — i veggenti ed i maestri professionali della dottrina di Jahvè — che erano intimamente indipendenti e in posizione molto critica nei confronti della monarchia ma non potevano essere da questa ignorati a causa del prestigio del Dio in questione.
Dai circoli dei nevijìm del Nord organizzati in scuole hanno origine i racconti di miracoli raccolti nel Libro dei Re. Ma una parte della storia di Elia, come pure la prima versione, certamente pre-deuteronomica, dei racconti sui veggenti del passato, primo di tutti Samuele, mostrano l’esistenza di circoli che si sottraevano totalmente non solo all’influenza della corte ma anche a quella dei profeti organizzati in scuole, e accanto a questi altri invece che intrattenevano simultaneamente rapporti con la corte e con lo jahvismo critico nei confronti della monarchia, appoggiando sistematicamente quest’ultimo. Questi circoli non potevano essere costituiti che da laici devoti, benestanti e politicamente influenti. Troviamo infatti anche all’epo-ca di Geremia delle schiatte nobili che continuavano a fornire funzionari di corte ma erano evidentemente, nello stesso tempo, da una generazione all’altra, i protettori dei grandi profeti di Jahvè, quegli stessi che criticavano senza riguardi la corte ed i sacerdoti. Tale fenomeno doveva riscontrarsi non appena il prestigio della monarchia sotto i colpi di insuccessi esterni incominciava a vacillare. Questi circoli di laici indipendenti e gli autentici adoratori di Jahvè da essi protetti sono stati evidentemente coloro che molto presto si sono incaricati della raccolta delle antiche tradizioni ancora esistenti sull’epoca premonarchica. Le antiche raccolte di canti occasionalmente citate: il «Libro delle guerre di Jahvè» e il «Libro dei valorosi» dovevano esistere già sotto forma di raccolta nel primo periodo della monarchia. Presumibilmente i laici si sono dedicati alla selezione delle poesie popolari, utilizzabili nel caso dello jahvismo, e non puramente militari.
Le antiche leggende, fiabe, parabole e sentenze senza dubbio sono state dapprima nelle mani di un ceto di poeti e cantastorie quali si trovano in tutto il mondo presso le popolazioni contadine e seminomadi. L’antica tradizione, a dire il vero, conosce solo un popolo-ospite di musicisti, i discendenti di Jubal. Tuttavia i cantastorie non sono mancati: le più antiche leggende sui Patriarchi danno senz’altro l’impressione di avere questa origine. Al contrario la lunga storia di Giuseppe, per esempio, nella sua forma attuale, ha già il carattere di una «novella» edificante, elaborata con arte da un poeta colto per colti jahvisti; è quindi arte letteraria. Esistevano dunque membri in posizione intermedia, e soprattutto rapporti diretti, tra i circoli di laici indipendenti, di formazione letteraria e forniti nello stesso tempo di interessi politici e politico-religiosi, e i portatori della poesia popolare in forma di proverbi e leggende. Ciò risulta anche dal carattere di alcuni prodotti del genere mashal (parabola) che sono stati conservati. Sul piano della fantasia immaginativa un mashal come la parabola del pruneto nella storia di Abimelech o quella della pecora del povero messa in bocca a Nathan è sullo stesso piano delle parabole più riuscite dei Vangeli. Da questo punto di vista essi si differenziano in maniera considerevole dal tipico mashal rabbinico di epoca posterioreo7 che è quasi sempre un prodotto del pensiero libresco e di conseguenza ha un’immediata efficacia plastica solo nel grottescop7. La differenza e circa la stessa di quella che corre tra le parabole di Gesù e quelle di Paolo, il quale notoriamente si sbaglia di tanto in tanto in maniera caratteristica nella scelta delle immagini (quando arrischia delle parabole a carattere rurale)q7.
All’epoca di Geremia si trovano le prime tracce (18, 18) di quel tipo di consulenza utilitaristica fornita da persone colte su problemi pratici quotidiani, quale più tardi veniva offerta dai maestri di chokhma (saggezza) e dai loro prodotti letterari. Ma questo tipo di rapporto tra il ceto letterato e gli interessi plebei in epoca pre-esilica passava palesemente in secondo piano rispetto agli interessi allora onnidominanti, e cioè quelli politici nonché quelli religiosi e socio-politici a base religiosa, inseparabilmente legati ai primi. Le due parabole citate poc’anzi costituiscono degli esempi di questa situazione. Ambedue sono chiaramente ben lontane dall’essere prodotti ingenui puramente artistici; sono invece al servizio di tendenze jahviste ostili alla monarchia. Stando alle citazioni e ai residui, tutta la poesia popolare e la letteratura pre-esilica, estremamente ricca e multiforme, è stata elaborata in base a punti di vista politico-religiosi. Se di essa ci rimane, nella sostanza e nella forma, solo quanto è stato recepito nel canone attuale, ciò è il risultato di un lavoro di ingegno estremamente acuto da parte degli strati intellettuali rappresentanti degli interessi jahvisti. Quest’opera è stata compiuta in parte solo nel periodo esilico, in parte sostanziale però già nel periodo pre-esilico e anzi in parte addirittura già in epoca anteriore alla comparsa dei profeti scrittori. Il risultato di questa elaborazione d’insieme, anche se oggi ci lascia insoddisfatti, sul piano letterario, in molti punti su cui Goethe ha già attirato l’attenzione, è stato tuttavia molto importante se si tiene conto delle difficoltà esistenti.
Tra i prodotti letterari del periodo pre-esilico, come pure tra i loro portatori, esistevano acuti contrasti di princìpi e tendenze. Innanzitutto, i prodotti della profezia di salvezza al servizio della monarchia, insieme a quelli della poesia epica e della cronistoria nazionale, erano in contrasto insanabile con le branche di quegli strati di fedeli di Jahvè perseguitati dalla monarchia. Nei resti dell’antica poesia erotica raccolti nel Cantico dei Cantici come pure nei pochi antichi salmi regi che sono stati conservati spira un’aria completamente diversa da quella che troviamo nei prodotti letterari degli intellettuali jahvisti. Naturalmente la religiosità dei re, quando si esprimeva senza abbellimenti, era fortemente in contrasto con la devozione popolare anche in tutti i territori vicini. Ramses IV75, nella preghiera a Osiride, chiede come contropartita di ciò che ha dato cibo a sazietà, bevanda fino all’ebbrezza, buona salute, longevità, gioia di cuore e pace dei sensi, dominio eterno per la sua discendenza, felicità quotidiana e acque ad alto livello per il Nilo. Il piacere della vita e un lungo regno felice sono ugualmente le richieste di tutti i re babilonesi fino a Nabucodonosor. Né in Israele le cose possono essere state diverse. Se la tradizione odierna mette in bocca a Salomone la devota preghiera prima menzionata, questa corrisponde alle iscrizioni, spesso molto pie, di Nabucodonosor: nei due casi si tratta di prodotti sacerdotali. L’inaudita presunzione dei grandi re egiziani e mesopotamici deve essere stata certamente propria anche ai re di Israele all’epoca della loro potenza e, qui come lì, era in stridente contrasto con il bisogno dei plebei di un benigno intercessore e protettore, nonché con l’ira particolarmente violenta che da sempre Yhybris76 degli uomini suscitava in Jahvè. Jahvè non era mai stato il dio di una dinastia, come Assur77, Marduk o Nebo78; era invece fin dai tempi più antichi il dio dei confederati israeliti. Tuttavia le dinastie si erano appropriate del suo culto e i re avevano bardi jahvisti e profeti di salvezza al loro servizio. E accanto alle tradizioni jahviste circolavano le più svariate leggende cultuali eziologiche su dèi ed eroi indigeni e numerosi miti e rappresentazioni importati dall’Egitto e dalla Mesopotamia, direttamente o attraverso la Fenicia, o esistenti già in comune con questi territori sin dall’antichità. Il compito di darne un’elaborazione d’insieme era arduo. Ma anche i prodotti della cultura degli intellettuali propriamente detta devono aver avuto un ruolo importante in Palestina. Si pone quindi il problema dei rapporti di questi prodotti con quelli delle zone culturali circostanti.
Il dominio nominale egiziano si è prolungato quasi fino alla fine dell’epoca dei Giudici. è vero che secondo le lettere di Amarna i faraoni non hanno leso l’autonomia religiosa del paese e dopo Ramses II solo raramente hanno spiegato un effettivo potere politico. Ma la possibilità di uno scambio intellettuale sussisteva come nei tempi antichi. All’epoca di Sesostri la fama di un mago egiziano vivente circolava tra i signori semi-beduini dei territori a est di Biblo o perlomeno il narratore della storia di Sinuhe poteva accettare questa possibilità. è vero che nel periodo di piena decadenza del dominio dei Ramessidi (intorno al iioo a. C.) il re della città di Biblo non sapeva nulla dell’Ammone egiziano e della sua potenza illustrata dal suo inviato Wen Amonr7. Sembra però che i suoi profeti di corte ne sapessero qualcosa: così si spiega presumibilmente l’oracolo di uno di loro a favore del messaggero. In ogni caso però nella Palestina meridionale c’era un orientamento favorevole all’Egitto, per via del traffico carovaniero. Non solo Salomone adottò la tecnica dei carri da guerra e in parte evidentemente anche la disposizione del tempio (il sancta sanctorum’)’s7 seguendo modelli egiziani, ma c’è soprattutto la storia di Giuseppe che mette in luce una conoscenza piuttosto precisa delle condizioni egiziane e accenna inoltre (non importa con quale fondamento) a dei rapporti con il ceto sacerdotale del tempio di Eliopoli, sede principale della saggezza egiziana. Il re di Biblo riconosce di fronte a Wen Amon che tutta la scienza e l’arte sono venuti in Fenicia dall’Egittot7. Una delle tradizioni su Mosè fa anche di lui un portatore della saggezza egiziana. La circoncisione, secondo la tradizione di Giosuè, sarebbe stata presa direttamente dall’Egitto, senza passare attraverso la Fenicia. Altre tracce analoghe si trovano in molti particolari che in parte non ci interessano, in parte verranno menzionati quando sarà il momento. Il re Merenptah parla di guerre che il suo esercito avrebbe condotto in Palestina contro Israele. Che i rapporti non fossero sempre ostili lo dimostra tuttavia il fatto che accanto agli Edomiti che erano della stessa stirpe più tardi anche gli Egiziani sono stati esplicitamente dichiarati in possesso della qualifica per essere accolti nella comunità israelitica, benché la tradizione presuppone, in maniera non del tutto corretta, che i Patriarchi nella loro qualità di allevatori di bestiame fossero considerati (impuri» in Egittou7. Gli scavi palestinesi hanno portato alla luce, come si è già detto, numerosi scarabei che, come dice Erman, per l’Egitto «sono altrettanto caratteristici quanto la croce per il cristianesimo».
Ora di fronte a tutto ciò uno dei fatti più sorprendenti è che nell’intera tradizione questo dominio egiziano viene passato completamente sotto silenzio e che specifici tratti egiziani sono praticamente del tutto assenti proprio nelle basi più antiche della religiosità israelitica mentre più tardi forse ne sono emersi alcuni. Ed. Meyer ha creduto di poter spiegare questo silenzio semplicemente con il carattere recente della tradizione israelitica. Ma questa custodisce per altre questioni certi tratti molto antichi, come per esempio gli scomparsi rapporti con la Mesopotamia. Il silenzio sul dominio politico si spiega senza dubbio anche con il fatto che già per i Khabiru ed i Sa Gaz nel periodo di Amarna il dominio del faraone non si manifestava assolutamente sul piano pratico: essi avevano a che fare esclusivamente con i suoi principi vassalli. In seguito, a prescindere da poche razzie, fu così più che mai. Ma per il resto l’indifferenza verso la cultura egiziana si spiega esclusivamente, ma anche in maniera sufficiente, con un rifiuto del tutto cosciente da parte degli esponenti dello jahvismo. Veniva rifiutato lo stato egiziano basato sul lavoro servile obbligatorio, i cui tratti determinanti erano proprio, tra quelli adottati dalla monarchia locale, quelli più invisi ai ceti smilitarizzati. Veniva rifiutato ugualmente un elemento caratteristico della devozione egiziana: il culto dei morti. Determinante in questo senso, accanto al carattere radicalmente volto alle cose terrene dell’antico dio guerriero della lega con il suo orientamento puramente intramondano, era il fatto che Jahvè, pur avendo in epoche diverse riunito in sé tratti di diversa specie, non era però mai stato un dio ctonio ma anzi si era sempre trovato in acutissimo contrasto con queste divinità e il loro specifico tipo di culto. A ciò si aggiungeva il fatto che la scrittura sacra egiziana e la cultura sacerdotale in genere erano incomprensibili e inaccessibili agli stranieri. I maestri di saggezza egiziani (Ptahhotep) raccomandano, è vero, come il Deuteronomio, l’istruzione del popolo, ma escludendo esplicitamente la scienza segreta sacerdotale propriamente detta di cui anche i maestri israeliti non sapevano nulla né presumibilmente avrebbero voluto sapere qualcosa.
Lo stesso avveniva da parte egiziana. I nemici sconfitti, come dappertutto, dovevano rendere omaggio alle divinità egiziane vittoriose. Ma non diventavano Egiziani per questo. Secondo le iscrizioni esistevano in Siria templi di dèi egiziani e all’epoca dei Ramessidi anche templi di dèi siriani in Egitto. Ma ciò non cambiava in niente le condizioni fondamentali solidamente definite dal carattere sociale della cultura egiziana in mano agli scrivani. L’inserimento nella cultura e nella scienza egiziana era possibile solo per il singolo e implicava una completa rinuncia alla propria autonomia intellettuale. Inoltre, per il popolo nel suo insieme, sarebbe stato inscindibile dall’adozione dell’odiata burocrazia degli scrivani.
Anche il culto egiziano degli animali, che i sacerdoti in Egitto avevano sistematizzato soltanto abbastanza tardi, e ai fini del dominio ierocratico sulle masse, veniva rigettato dalla religiosità jahvista — stando all’unica menzione fattane da Ezechiele (8, io) — come un’abominazione particolarmente indegna. Esso non trovava nessuna rispondenza nel rapporto dei liberi allevatori con il loro bestiame ed era anche particolarmente estraneo al carattere tradizionale di Jahvè. Questo rifiuto di tutù i tratti determinanti della cultura egiziana ci dimostra tuttavia una cosa: la necessità di ipotizzare come fatto storico l’esistenza di portatori spirituali autonomi e consapevoli della religione di Jahvè in Palestina e del pari nelle oasi di Edom e Madian, come attesta la tradizione. Infatti mentre tanto i beduini libici quanto quelli asiatici avevano nella stessa misura uno scambio continuo con l’Egitto, la Palestina invece si era trovata per lungo tempo sotto il dominio diretto dell’Egitto; tuttavia sono stati i primiv7 e non quest’ultima o comunque non gli adoratori di Jahvè che vi si trovavano ad adottare tratti della religione egiziana. La vera e propria dottrina sacerdotale e soprattutto la teologia speculativa degli Egiziani già sviluppata nel in millennio — in origine una speculazione altamente naturalistica, più tardi panteisticaw7 — rimasero quindi totalmente estranee agli jahvisti levitici. Al contrario nella devozione popolare e nell’etica religiosa troveremo anche in seguito tracce di affinità considerevoli.
Più sviluppato era il rapporto con la cultura intellettuale mesopotamica. Nel passato, all’epoca di Amarna, la scrittura cuneiforme e il linguaggio diplomatico e commerciale babilonese avevano dominato tutto il Medio Oriente ed erano conosciuti dagli egiziani colti. La rappresentazione degli spiriti delle stelle e del loro intervento negli eventi terreni esisteva anche in Israele, come mostra il Cantico di Debora. E persino il dio degli scrivani Nebo aveva, pare, un suo luogo di culto; inoltre numerosi dettagli di ogni sorta parlano di antichi tratti comuni intellettuali e di scambi reciproci. In particolare erano in comune i pesi emisure, anche il peso della moneta; più in là anche il diritto e una parte importante dei miti cosmogonici. Questi stretti legami sembrano essersi spostati, a dire il vero, con l’avvento della supremazia commerciale dei Fenici nel periodo omerico. Gli antichi popoli di mercanti marittimi, di pirati e di mercenari del Mediterraneo che appaiono nelle iscrizioni egiziane passarono a quell’epoca in secondo piano, almeno relativamente, a favore del dominio marittimo fenicio; grandi migrazioni di popoli furono implicate in questo processo. La scrittura alfabetica fenicia soppiantò allora in Palestina la scrittura cuneiforme e l’importanza della lingua babilonese declinò lentamente a favore di quella aramaica. è vero che Winckler79 ha accertato che ancora nel ix secolo e addirittura fino al vii secolo la lingua babilonese era ben conosciuta in Siria. La lingua aramaica acquistò solo all’epoca dei Persiani la sua importanza definitiva come lingua diplomatica universale. Tuttavia per molto tempo Babilonia passò in secondo piano. Artigiani reali fenici lavorarono al tempio di Salomone. Mercanti di schiavi fenici accompagnavano l’esercito israelitico per valutare i prigionieri. Furono importati i culti dei Ba‘al fenici, di Moloch e di Astarte. Le cosmogonie che circolavano in Palestina erano, secondo l’avviso degli esperti, di marca prettamente fenicia. Alcune tribù israelitiche caddero sotto il dominio fenicio, altre mandavano manodopera nei porti fenici. In Israele del Nord il re teneva a suo servizio nevijìm di rito fenicio.
I culti fenici sono stati estirpati soltanto da Elia e dalla rivoluzione di Jehu. Gli antichi nevijìm estatici furono rigettati dai puritani. I divieti del Deuteronomio e la Legge di Santità misero al bando i sacrifici umani fenici e i sacrifici onanistici, gnosticamente raffinati, a Moloch.
Con la rinascita delle grandi potenze mesopotamiche crebbe di nuovo anche la loro influenza. Per qualche tempo a Gerusalemme i re diventati tributari (in particolare Manasse) adorarono l’esercito celeste babilonese, ossia gli astri. Nei miti che circolavano sul Paradiso e sul diluvio universale la Mesopotamia era considerata sin dall’antichità, e ora di nuovo, il centro del mondo; i grandi templi a terrazze che vi si trovavano erano conosciuti come tentativi per arrivare più vicino al dio celeste. I particolari qui non ci interessano. Resta fermo infatti il fatto principale: la scienza sacerdotale non venne recepita. Già la lingua sacra babilonese (sumerica) usata in molti pezzi importanti escludeva una loro adozione diretta da parte dei sacerdoti israeliti. Non sappiamo però nulla circa l’eventuale uso in Palestina di parti della letteratura sacra babilonese a scopi cultuali. Solo molto più tardi, all’epoca della composizione dei Salmi, appaiono le reminiscenze di alcuni inni babilonesi. Ma soprattutto le basi cultuali e teologiche della religione fenicia e babilonese determinanti per la strutturazione della religione non solo non vennero adottate dalla religiosità jahvista ma furono consapevolmente rifiutate. In particolare non vennero recepiti il culto degli astri babilonese e l’astrologia, cioè i pilastri di ciò che recentemente è stata designata (A. Jeremias80) come la «Weltanschauung babilonese». La vera e propria dottrina segreta dei sacerdoti babilonesi sul macrocosmo e il microcosmo era presumibilmente tanto poco conosciuta in Palestina quanto quella dei sacerdoti egiziani anche se speculazioni e manipolazioni su cifre sacre e cicli universali possono avere un ruolo in numerosi dettagli dell’attuale versione della tradizione, come è possibile del resto che siano semplicemente frutti di rielaborazioni esiliche e post-esiliche.
Tuttavia una dottrina fondamentale, quella del determinismo astrologico, era stata palesemente molto ben capita e proprio per questo era stata rifiutata in maniera del tutto consapevole. Infatti a cosa sarebbero serviti la Torah levitica o l’oracolo dei profeti se il destino dell’individuo stava scritto nelle stelle? Questo determinismo che lasciava solo posto alla gnosi di conventicole di redenzione era del tutto inconciliabile con gli interessi dei Leviti e dei profeti per quanto riguardava la cura delle anime e anche il loro potere personale. Venivano quindi rigettate queste dottrine che si opponevano al concetto jahvista, fortemente politicizzato, di Dio. Già Isaia (24, 23) e del pari Geremia (io, 2) al quale si devono attribuire dei rapporti particolarmente stretti con il clero babilonese, assicurano a Israele che di fronte alla potenza di Jahvè il potere delle stelle deve scomparire. Nel periodo esilico, nella stessa Babilonia, il Deuteroisaia deride non solo i maghi babilonesi in genere ma anche e soprattutto (47, 13) la loro scienza astronomica e la loro astrologia. Anche in epoca post-esilica e rabbinica vigeva questo principio: in Israele non valgono pianeti.
Non che l’influenza degli astri sugli eventi della terra venisse messa in dubbio. Nemmeno i profeti la discutono. Proprio come i sacerdoti non mettevano affatto in dubbio la realtà dell’oracolo dei morti e quindi le rappresentazioni dell’aldilà ad esso legate. Appare evidente che durante l’esilio sono stati consultati occasionalmente degli astrologi babilonesi e un rabbino viene ancora designato, nella sua professione privata, come astrologo. La credenza nell’astrologia, in sé, è esistita in tutto il mondo, dalla Cina a Roma antica e all’Occidente moderno. Anche in Israele si credeva nelle stelle. Ma l’elemento decisivo era questo: come in Cina ancora negli ultimi decenni un’istanza del presidente deH’Accademia Han-lin ricordava alle imperatrici reggenti che non le costellazioni ma la virtù (confuciana) di chi governa il paese ne determina la sorte, e come in India il karma determina il destino ivi compreso l’oroscopo, così anche in Israele gli spiriti delle stelle non sono i padroni del destino umano. In epoca rabbinica questo concetto si esprime nella credenza caratteristica che troviamo nel Talmud: che cioè tutti gli altri popoli, in effetti, sono asserviti al heimarmene81 astrologico ma Israele no, in virtù della sua elezione da parte del suo Dio. In epoca pre-esilica gli spiriti delle stelle erano zàvàh e come tutti gli zevaoth erano al servizio del Dio di Israele. Lui solo reggeva le sorti di tutto e questo era ciò che importava e che escludeva l’adozione proprio di quella che era la base fondamentale della cultura babilonese.
In epoca esilica, conformemente a ciò, troviamo a Babilonia Ebrei che occupano ogni sorta di posizioni, alcune anche molto stimate, ma con la caratteristica eccezione della professione di scrivano. Questo fatto non poteva fondarsi su motivi linguistici poiché gli Israeliti avevano imparato la lingua popolare aramaica e non avrebbero avuto difficoltà ad assimilare la lingua ufficiale babilonese. Anche nella tradizione posteriore si presuppone implicitamente che gli Ebrei acquisirono influenza in ogni sorta di cariche presso la corte e come eunuchi dei re babilonesi e dei loro successori, i re persiani. Non c’è dubbio quindi che l’esclusione dalla professione di scrivano avesse altri motivi e presumibilmente di carattere cultuale: l’impossibilità di impadronirsi di questa cultura fornita dai sacerdoti senza contravvenire ai comandamenti della religiosità jahvista.
La religione israelitica restava affine a quella babilonese e anche a quella fenicia, in contrasto con quella egiziana, su di un punto importante: l’ignoranza dell’aldilà e delle speculazioni che a questo si collegavano. Ma le specifiche concezioni babilonesi della divinità, il sincretismo, il pantheon degli dèi, l’assimilazione enoteistica delle figure dei vari dèi attraverso la figura di quello visto di volta in volta come «dio principale» in qualità di «forme fenomeniche» di questi, la posizione sempre dominante del dio del sole, tutto ciò rimase altrettanto estraneo alla concezione israelitica di Dio quanto le diverse ma in conclusione spesso analoghe concezioni egiziane. Quando a Babilonia appaiono tendenze «monoteistiche» queste hanno essenzialmente carattere solare o sono determinate da fattori politico-dinastici come la riforma di Ekhnaton82 in Egitto. Jahvè però non era né il dio del sole né il dio di una dinastia ma il Dio alleato di una confederazione. Inoltre la tendenza, molto forte a Babilonia e derivata dai culti ctoni della vegetazione, di trasformare gli dèi della vita comune degli uomini, degli animali, delle piante nonché della fertilità in divinità ausiliatrici, in particolare di fare Istar83 una protettrice misericordiosa, doveva restare del tutto estraneo allo jahvismo. Jahvè stesso e lui solo è il Salvatore. Nergal84, che come Jahvè in origine era dio di certi terribili flagelli popolari, in particolare delle epidemie, era contrapposto e totalmente estraneo a Jahvè nella sua qualità di dio del regno dei morti. Né la venerazione di Adad85, che risulta anche in Canaan dai nomi propri teofori, ha esercitato apparentemente alcuna influenza sulla concezione di Jahvè, benché Adad come dio della tempesta e della guerra presentasse con lui delle affinità. In Israele esisteva uno strato colto analogo a quello dei sacerdoti babilonesi ma a Babilonia non esisteva uno strato colto analogo a quello dei maestri della Torah israeliti. Il fermo rifiuto opposto in tutti i casi, malgrado i numerosi consensi particolari, proprio al prodotto più imponente della scienza degli astri babilonese, mostra chiaramente ancora una volta l’alto grado di autonomia della cultura intellettuale in Palestina rispetto ai paesi vicini.
Dobbiamo quindi guardarci accuratamente dal rappresentarci la Palestina come un paese privo, in una qualsiasi epoca storica, di un proprio strato colto, dove avrebbe regnato solo una magia barbarica e delle rappresentazioni religiose molto primitive. Nella lettera di un cananeo a un principe, che risale circa al xv secolo, viene assicurata a quest’ultimo la grazia del signore degli dèi in quanto il principe è un «fratello» che porta «amore» nel suo cuore, vale a dire, senza dubbio, un correligionario. E il mittente prosegue, quasi con uno stile da missionario, sottolineando l’importanza della grazia di colui che è «sopra la sua testa» e anche «sopra le città» per il successo del re.
Tali concezioni erano certamente molto lontane dai pastori e dai contadini dell’antica milizia israelitica. Ma per le città più importanti tutti gli indizi stanno a indicare che esse non erano totalmente scomparse. Per poter rifiutare con tanto successo, come è avvenuto, le concezioni religiose di grandi zone culturali la cui influenza è del tutto palese in tutte le altre sfere, e creare delle concezioni proprie con divergenze caratteristiche rispetto alle prime, occorreva la presenza di uno specifico strato colto che assumesse in maniera autonoma ed elaborasse razionalmente gli antichi oracoli e le promesse presenti nel mondo circostante. Questo strato non poteva essere costituito né dai nevijìm estatici la cui scuola tradizionale ha prodotto solo racconti di miracoli sul tipo delle storie di Eliseo, né dai circoli cortigiani che li disprezzavano, né infine dai pastori e contadini con i loro profeti di guerra. è vero che non c’è motivo di rappresentarsi la popolazione rurale israelitica come particolarmente «ottusa», come si fa talvoltax7. Dappertutto il contadino diventa «ottuso» solo quanto si trova di fronte al meccanismo di un grande stato burocratico o liturgico a lui estraneo che lo sfrutta, o quando viene abbandonato in servitù alla grande proprietà fondiaria, come avveniva in Egitto, in Mesopotamia, e negli stati ellenici e tardo-romani. Al contrario il plebeo israelitico pre-esilico era, dapprima nella realtà, più tardi nel suo ricordo e nelle sue rivendicazioni, il cittadino libero e armato di una confederazione, che aveva sconfitto la cavalleria delle grandi zone culturali. Senza dubbio da sé non sarebbe mai stato in grado di elaborare i concetti razionali della Sacra Scrittura. Altri dovevano farlo per lui. Ma era ricettivo alla maggior parte di essi. Ed è proprio nell’interazione tra uno strato ispirato di intellettuali e questo pubblico composto da strati che nel corso dell’evoluzione del periodo monarchico erano stati smilitarizzati e socialmente degradati che risiede uno dei segreti dello sviluppo dello jahvismo.
Raramente delle concezioni religiose del tutto nuove sono sorte in quelli che di volta in volta erano i centri di culture razionali. Innovazioni razionali profetiche o riformiste sono state concepite per la prima volta non a Babilonia, Atene, Alessandria, Roma, Parigi, Londra, Colonia, Amburgo, Vienna, bensì nella Gerusalemme dell’epoca pre-esilica, nella Galilea del periodo tardo-giudeo, nella provincia tardo-romana d’Africa, a Assisi, a Wittenberg, Zurigo, Ginevra e nelle regioni marginali delle zone di cultura olandesi, basso-tedesche e inglesi, come la Frisia e la Nuova Inghilterra. è vero bensì che ciò non è mai avvenuto senza l’influenza e la spinta di una vicina cultura razionale. Il motivo è dappertutto lo stesso: perché siano possibili nuove concezioni di tipo religioso l’uomo non deve ancora aver disimparato a porsi di fronte agli eventi del mondo con domande sue proprie. L’occasione di tale atteggiamento è data proprio all’uomo che vive lontano dai grandi centri di cultura quando l’influenza di questi incomincia a toccare o minacciare i suoi interessi centrali. L’uomo che vive nel mezzo di zone sature di cultura, coinvolto nella loro tecnica, non pone queste domande al mondo circostante proprio come il bambino che, abituato a viaggiare ogni giorno sul tramway, non ha molte probabilità di porsi spontaneamente il problema di come fa veramente il tram a mettersi in moto.
La capacità di stupirsi sul corso del mondo è il presupposto della possibilità di interrogarsi sul suo senso. Ora le esperienze che gli Israeliti avevano in comune prima dell’esilio e che davano adito a questi interrogativi erano: le grandi guerre di liberazione e il sorgere della monarchia, la nascita dello stato fondato sul lavoro servile e della cultura urbana, la minaccia delle grandi potenze, ma soprattutto il crollo del Regno del Nord e l’incombenza — visibile agli occhi di tutti — dello stesso destino sul Regno del Sud, ultimo resto di uno splendore non dimenticato. Poi venne l’esilio. Le guerre di liberazione avevano fondato il prestigio di Jahvè come dio della guerra. Il declassamento sociale e la smilitarizzazione degli esponenti dell’antica milizia di Jahvè crearono la leggenda storica jahvista. Ma le grandi questioni della teodicea furono sollevate solo dalla minaccia del crollo del regno.
Il lavoro intellettuale che ha creato le due grandi versioni dell’Esateuco più tardi combinate, chiaramente appartiene soprattutto al secondo periodo. Queste versioni sono il prodotto di due gruppi di letterati religiosi che oggi, in base al nome di Dio rispettivamente usato, si sogliono distinguere in «jahvista» e «elohista»y7. Questi scrittori e raccoglitori stavano apparentemente in posizione indipendente accanto agli originari compilatori delle leggende e tradizioni puramente storiche nel Libro dei Giudici e nei Libri dei Re. Infatti tutti i tentativi di applicare la distinzione tra le due scuole anche a questi scritti sembrano essere falliti. Il grado di cultura dei due raccoglitori o scuole di raccoglitori va visto come notevole in quanto essi adducono numerose etimologie di nomi e storie eziologiche che sono decisamente ricche d’ingegno e non possono essere, perlopiù, di origine popolare. La scuola deuteronomica di Gerusalemme appartiene all’ultimo periodo; l’integrazione e la rielaborazione sacerdotale (in senso stretto) delle epoche precedenti appartengono al periodo dell’esilio e in parte a quello posteriore anche se i loro inizi possono risalire all’epoca anteriore all’esilio.
La raccolta jahvista e quella elohistaz7 non sottostavano ancora al grave problema della teodicea che doveva essere sollevato solo al tramonto dello stato nazionale. Il loro monoteismo è monoteismo «ingenuo». Del pari manca loro ancora la conoscenza della lotta del potere sacerdotale in ascesa contro il movimento profetico, indifferente alla celebrazione dei sacrifici. E ancora non vi è traccia della successiva esecrazione per gli antichi santuari rurali e per i paramenti del culto e le immagini. D’altra parte invece queste raccolte, di cui una risale all’epoca di Salomone e l’altra perlomeno all’vni secolo, sono influenzate dalla problematica sociale prodotta dalla monarchia. Di conseguenza, in ambedue le raccolte, le leggende dei Patriarchi — con cui la versione elohista in pratica incomincia — costituiscono una parte importante dell’esposizione e ambedue si occupano dettagliatamente dell’esodo dall’Egitto e della conquista di Canaan sotto Mosè e Giosuè con i doveri cultuali, etici e giuridici imposti allora al popolo da Jahvè.
Per quanto riguarda l’età del materiale, come nelle raccolte delle Benedizioni parti dell’una e dell’altra raccolta possono risalire a tempi molto antichi. Non è certo se il Libro del Patto e il Decalogo etico siano stati in origine parte della raccolta elohista e il Decalogo cultuale parte di quella jahvista; tuttavia ciò non ha importanza pratica ai fini della loro caratterizzazione. Infatti ambedue i raccoglitori operano attraverso la maniera del racconto che in sé costituisce un paradigma etico e mirano anche, seppure con scarso successo, a eliminare le parti spesso assai poco etiche delle antiche leggende. Per il periodo a partire da Abramo ambedue le raccolte hanno usato all’incirca lo stesso materiale. Sarebbe sviante costruire un vero e proprio contrasto di «tendenze» tra di loro. Ambedue trasfigurano l’epoca della nascita del popolo conformandosi agli umori del loro pubblico. Del pari non si può attribuire un maggiore «carattere popolare» all’una piuttosto che all’altra, o meglio questa va attribuita ora all’una, ora all’altra. Non è certo senza premeditazione che in tutte e due le raccolte non è un re né sono i suoi antenati, ma bensì gli antichi capostipiti leggendari del popolo che ricevevano quelle che erano allora le promesse popolari: fare di Israele un grande popolo, benedire i suoi amici, maledire i suoi nemici e lasciare dietro di sé un nome che anche nei tempi a venire sarà usato come benedizione da tutti gli altri popoli del mondo.
Forse questa concezione degli antichi eroi leggendari come capostipiti di tutta Israele è una delle creazioni degli autori delle raccolte. Ma le promesse da loro riportate costituiscono ancora, per loro, un impegno incondizionato, non legato ad alcuna contro-prestazione, dell’amicizia di Dio per Israele nel bene e nel male: concetto, questo, altrettanto in contrasto con il posteriore punto di vista profetico quanto le profezie di salvezza dei nevijìm del re. Inoltre la glorificazione di Mosè ha un ruolo in queste raccolte che non è paragonabile a quello che ricopre né nella letteratura politica, né in quella poetica, né in quella profetica, né tantomeno nella posteriore versione sacerdotale che cerca nella misura del possibile di sostituirlo con il sacerdote Aronne. E tuttavia il Cantico di Debora e le raccolte di Benedizioni più tardi inserite nel Deuteronomio mostrano come il prestigio popolare di Mosè fosse antico e incondizionato e non semplice frutto di una costruzione posteriore. Questi raccoglitori portano avanti quindi antiche tradizioni popolari piuttosto scomode per la monarchia. E ciascuna delle due scuole lo fa in modo un po’ diverso. Per ambedue i Patriarchi sono pastori pacifici. Ma la raccolta elohista sottolinea maggiormente la loro posizione come gerìm. rispetto alla popolazione stabilmente insediata e a loro affratellata tramite berith, mentre il racconto jahvista, in cui è evidente una maggiore influenza levitica, conosce già (nella storia della domanda di matrimonio di Isacco) l’avversione per il matrimonio misto con i Cananei.
Che il lavoro dei campi sia conseguenza di una maledizione divina è sostanzialmente l’opinione degli jahvisti. Per loro il Paradiso è un frutteto irrigato e pieno di piante alla maniera di un’oasi delle steppe. La versione elohista che ha ripreso la benedizione di Mosè sembra essere al corrente di una rivendicazione della tribù di Giuseppe alla dignità regia mentre in quella jahvista, nella benedizione di Giacobbe, Giuda è il portatore della promessa al posto di Ruben e Giuseppe. Questo e simili tratti specifici danno credito all’ipotesi sostenuta da noti studiosi secondo cui nell’insieme la versione elohista risentirebbe maggiormente di un’influenza nordica, quella jahvista di un’influenza meridionale, mentre per quanto riguarda l’età si possono considerare più antichi elementi ora dell’una ora dell’altra ma neH’insieme la più antica dovrebbe essere la raccolta jahvista. Anche il fatto che la versione elohista tenda a concepire Abramo e tutti gli eroi religiosi in genere come nevijìm, e gli eroi della tribù di Giuseppe come nazirei, testimonia della sua origine nell’insieme nordica. Come pure il fatto che nella versione elohista l’insediamento degli Anziani in Israele viene fondato eziologicamente mentre per quella jahvista gli amministratori della giustizia sono Mosè e quindi i sacerdoti leviti, come avveniva ampiamente nel Sud, almeno nelle rivendicazioni.
È facile trovare influenze puritane presso gli jahvisti. Se nel racconto jahvista del peccato originale il serpente ha un ruolo così preminente, possiamo ricordarci che nel racconto dell’Esodo vengono attribuite ai maghi egiziani delle bacchette simili al caduceo mosaico nel tempio di Gerusalemme e che questo caduceo di Mosè viene collegato, nella versione elohista della storia del deserto, a una terapia magica. Se quindi nel passato è esistito, come talvolta si suppone, un culto del serpente e dei «medici stregoni» leviti, ecco che qui il rigido rifiuto da parte della tradizione puritana jahvista, che sotto Ezechia ha portato alla distruzione dell’idolo, potrebbe manifestarsi nel fatto che adesso proprio il serpente con la sua sapienza indiscussa venga presentato come fonte di ogni male. Non sembra possibile stabilire con certezza se a ciò ha contribuito, come si ipotizza talvolta, la frequente qualifica del serpente come animale-dio del regno dei morti.
La diversa origine delle raccolte sembra manifestarsi anche nel modo di trattare la concezione di dio. è vero che per ambedue le raccolte il punto di partenza assolutamente fermo era la qualità del dio come un signore che determina personalmente con i suoi interventi il destino degli uomini nel mondo, ma è legato a Israele, dai tempi di Mosè, da un berith e un giuramento e ne garantisce le istituzioni. Da questo non si dipartiscono mai. Lo Jahvè di Mosè e degi antichi profeti di guerra non è quindi mai stato quello spirito maligno, molto primitivo, con cui talvolta lo si è voluto identificare al fine di teorizzare un’evoluzione lineare. D’altra parte non poteva nemmeno venire smaterializzato in una potenza mondiale impersonale, come in Cina e in India. Possiede alcuni tratti universalistici, per i motivi prima menzionati, in ambedue le raccolte. Ma in maniera diversa. La concezione jahvista lo rappresenta, come si è spesso osservato, in forma talvolta drasticamente antropomorfica. Qui non figurano per niente le costruzioni grandiose ma astratte dei sacerdoti dell’esilio secondo cui lo spirito di Jahvè che plana sul caos aH’improvviso con una parola magica fa risplendere la luce e poi giorno dopo giorno, al suo semplice comando, una cosa dopo l’altra sorge dal nulla (Gen., i). Jahvè (Gen., 2) ha dapprima fatto sgorgare le acque dalla terra fino allora deserta e arida, poi ha modellato l’uomo con la terra, l’ha animato con il soffio del suo respiro e solo dopo ha fatto sorgere piante e animali. Presenta poi questi all’uomo lasciandogli il compito, importantissimo secondo le concezioni di quel tempo e del mondo circostante (egiziano), di dargli un nome. Non riesce dapprima a offrire all’uomo una compagnia ad esso confacente, finché crea la donna da una costola e l’uomo la riconosce subito come della sua essenza. Nel fresco della sera questo dio, alla maniera dello sceicco di un’oasi, passeggia nel suo giardino dell’Eden, in cui installa anche l’uomo. Lo interroga personalmente quando questo, contro il suo divieto, si è avvicinato ai suoi alberi e per punizione lo caccia con una maledizione. Prima però deve cercare e chiamare l’uomo che si è nascosto. Del pari, per vedere la costruzione gigantesca a Babilonia, deve prima scendere laggiù. Se ha qualcosa da comandare o da promettere appare personalmente all’uomo. Ha anche lasciato che Mosè, in contrasto con la tradizione posteriore, contemplasse realmente il suo volto; ha desinato sul Sinai assieme agli Anziani di Israele. è quindi un dio dalle epifanie corporee, che agisce pienamente secondo motivazioni umane, ma pur sempre un dio che ha fatto tutta la terra e manifesta la sua potenza anche a Babilonia, il centro del mondo.
Ora questa corporeità antropomorfica evidentemente risultava sgradevole alla concezione elohista che nonostante il suo carattere popolare era molto più esposta alle antiche influenze culturali rimaste più forti nel Nord. Dal suo punto di vista il dio di Israele era il massimo dio del cielo che non cammina sulla terra tra gli uomini. L’attuale versione lascia del tutto in disparte questa storia primitiva e comincia con le leggende dei Patriarchi, per cui resta indeciso se anche in origine era così o se invece in questo caso la posteriore elaborazione comune non ha voluto riprendere delle concezioni elohiste che non erano più compatibili con la concezione di dio di quel tempo. Comunque nella versione elohista i comandamenti e le promesse divine vengono trasmessi di preferenza in sogno, o tramite una voce del cielo o infine attraverso un messaggero (malakji) o angelo di Dio. Ciò avviene sporadicamente anche nella versione jahvista (Gen., 15, 6). La concezione del messaggero di Dio è antica. Nel nord-israelitico Cantico di Debora figura a proposito della maledizione di Meros. Ma la versione elohista trasforma tutte le teofanie tramandate in apparizioni di tali esseri mediatori. Questo è un palese teologumeno. Ad esso si affiancano, nelle versioni posteriori delle raccolte, altre rappresentazioni forse antiche in sé. Così la «maestà» (havod) impersonale del Dio. Questo concetto viene impiegato in particolare per conciliare la rappresentazione, usuale presso le popolazioni sedentarie e in particolare quelle urbane, del dio localizzato nel luogo di culto, in particolare nel tempio, con la concezione del grande e distante dio del cielo. Non egli stesso ma la sua kavod è scesa sul luogo del culto sotto forma di una nube luminosa (Es40, 34 e seg.). Oppure viene presentata come agente un’altra forza impersonale, il «volto» (panini), la «parola» (davar), lo «spirito» (rùach) e particolarmente spesso, alla maniera egiziana, il (nome» (shem) di Dio. L’origine difficilmente accertabile di tutti questi teologumeni non ci interessa qui; solo sull’ultimo dovremo tornare più dettagliatamente.
Ora le antiche leggende dei Patriarchi venivano incontro a tali tendenze spiritualizzanti in quanto in esse come in tutti i racconti popolari di questo tipo, non elaborati teologicamente, agivano di preferenza gli uomini, e non Dio, come nella storia primitiva jahvista. è vero che dovettero essere conservate alcune epifanie, particolarmente antiche in quanto originariamente politeistiche. Ma il dio dei Patriarchi era generalmente un dio dai tratti segreti riconoscibile solo indirettamente attraverso ogni sorta di combinazioni del destino. Un tratto edificante, talvolta commovente, quale viene prodotto in particolare dalla novellistica religiosa artisticamente elaborata, emerge molto spesso, con la massima chiarezza nella storia di Giuseppe e nel racconto del sacrificio di Isacco. Questo tipo di paradigma è la fonte di quel razionalismo che ha portato alla credenza nella Provvidenza. D’altra parte questi teologumeni mostrano anche una certa inclinazione a sviluppare forze divine impersonali: rappresentazioni che qui, come dappertutto altrove, sono strettamente collegate proprio al carattere orgiastico-estatico dell’invasamento divino di tipo nord-israelitico.
Appare chiaro però che questa tendenza teologica più tardi fu consapevolmente abbandonata. Solo l’antico teologumeno del messaggero divino, che serviva alla maggiore maestà del dio e permetteva di evitare le teofanie troppo rozzamente antropomorfe, è stato conservato durevolmente; gli altri sono stati sviluppati solo in maniera rudimentale prima dell’esilio. Il motivo di ciò, com’è chiaro, era puramente pratico. La Torah sacerdotale levitica — la consulenza ai perseguitati dalla sfortuna, cioè dall’ira di Dio — aveva acquistato importanza ed era iniziata la lotta degli jahvisti puritani del Sud contro la comunione orgiastica con Dio e l’invasamento divino orgiastico in uso nel Nord. Si era sviluppato l’interesse per una dottrina razionale sui voleri e i comandamenti di Dio, sui peccati cultuali ed etici, soprattutto sul riparo dalle loro conseguenze, e questo bisogno di una teodicea doveva acquistare tanta più importanza quanto più critica si configurava la situazione politica del popolo. Ma il dio concretamente corporeo, che in passato trattava direttamente con gli uomini, il dio della versione jahvista, veniva incontro a questo bisogno plebeo molto meglio della concezione sublimata della scuola elohista. L’uomo aveva bisogno di motivazioni comprensibili dei decreti divini e insieme della possibilità di riferirsi a manifestazioni personali corporee della divinità. I profeti preesilici ricevevano gli ordini e gli oracoli di Dio non tramite messaggeri ma direttamente, anche se per il resto spesso sono palesemente influenzati molto fortemente dalla concezione elohista. Questa è la conseguenza del fatto che la prima comparsa della profezia ha avuto per teatro Israele del Nord, con effetti che hanno continuato a farsi sentire fortemente anche in seguito. Nell’elaborazione d’insieme delle antiche raccolte da cui risulta la versione oggi indicata perlopiù, seguendo l’esempio di Wellhausen, come «geovista», ricompare perciò molto spesso l’antico dio dei padri e della lega, in persona. E d’ora in poi, conformemente al bisogno razionale degli intellettuali, sarà un dio che parla (Gen., 13, 14 e seg.) e che discute con i suoi profeti. Oppure vengono addirittura riportate testualmente le sue ponderazioni interiori (Gen., 16, 17 e seg.). Il modello di questo procedimento era già dato dall’antica esposizione jahvista delle riflessioni di Jahvè che lo avevano portato al castigo del peccato originale e alla distruzione della torre a terrazze di Babilonia. Ma il tipo di motivazione era diverso. Nella rappresentazione primitiva, che si riflette ancora nella versione jahvista, gli interessi egoistici di Dio, soprattutto l’invidia contro Yhybris che lo minacciava — la crescente sapienza e potenza degli uomini — erano, come in tutti i miti, determinanti per le sue decisioni. Nelle versioni posteriori, al contrario, il motivo dominante è una cura premurosa per il bene degli uomini. Nella versione finale del racconto della traversata del deserto Dio per esempio pondera le diverse possibilità di comportamento degli Israeliti, nella cui costanza ha scarsa fiducia, a seconda della via dove egli li guiderà, e in base a ciò prende la sua decisione, esclusivamente nel loro interesse. Il fatto caratteristico rimane quello che dappertutto si chiedevano a Dio motivazioni comprensibili sul piano puramente umano e in base a ciò si costruiva l’esposizione.
Anche altrove si vede chiaramente come l’aspirazione intellettualistica alla sublimazione della concezione di dio era in conflitto con gli interessi pratici della cura delle anime. Le antiche leggende ci mostrano con disinvoltura Jahvè che «si pente» delle sue decisioni e delle sue azioni. Già abbastanza presto apparve dubbio al razionalismo dell’autore se ciò fosse conforme alla maestà di un grande dio. Di conseguenza viene messo in bocca a Balaam il detto che Dio non è «un uomo, che possa pentirsi di qualcosa», e ciò viene spesso ripetuto in seguito (Num., 13, 19; 1Sam., 15, 29). Solo l’attuazione pratica della parenesi levitica ostacolava questa sublimazione. Se le decisioni di Dio erano prese definitivamente, preghiere, esami di coscienza ed espiazione erano inutili. C’era allora da temere lo stesso fatalismo, nocivo all’interesse per la cura delle anime dei maestri della Torah, che era l’aborrita conseguenza del determinismo astrologico sul destino umano. Di conseguenza nella versione posteriore della storia di Mosè il profeta riesce ripetutamente a placare con la sua intercessione l’ira di Jahvè. Jahvè modifica la sua decisione in seguito a intercessioni o a pentimento e espiazione. Così avviene per Davide, nella tradizione di Nathan e per Elia in quella di Achab, quando fanno penitenza. Questo dio antropomorfico e di conseguenza comprensibile rispondeva quindi meglio, allora come oggi, ai bisogni pratici della cura d’anime delle masse. Il compendio deuteronomico trovò l’espediente per cui Jahvè faceva dipendere in anticipo la sua condotta dall’agire degli uomini: «Ecco, io metto oggi davanti a voi benedizioni e maledizioni», scegliete.
Sempre discordi, e per gli stessi motivi, rimasero anche le diverse posizioni nei confronti di altri problemi e soprattutto della questione ultima: la teodicea. L’antica base del rapporto di Jahvè con il suo popolo era il berith. Ma il giuramento di Jahvè di considerare questo popolo come il suo popolo sembrava messo in questione dalle continue catastrofi politiche che in parte minacciavano e in parte si abbattevano sul paese. Lo jahvista si aiutava occasionalmente, come nella leggenda del diluvio universale, recepita abbastanza tardi, con l’asserzione che tutto l’agire dell’uomo sarebbe «marcio sin dagli inizi» una volta per tutte. Di conseguenza gli uomini avrebbero semplicemente meritato tutto il male. Ma poiché Jahvè malgrado tutto non può fare a meno del gradevole odore degli olocausti decide, proprio per l’inevitabilità del cattivo agire dell’uomo, perlomeno di non annientare più in futuro il mondo intero con un diluvio universale (Gen., 8, 21): vi è in ciò del resto una reminiscenza della conclusione della leggenda babilonese del diluvio universale, su cui torneremo ancora. Questo giudizio pessimistico sugli uomini derivava senza dubbio dalla pratica della confessione in uso presso i maestri della Torah del Sud.
Non era questo il giudizio più universalmente recepito, quel lo che da sempre in Israele vedeva l’uomo debole ma non costituzionalmente corrotto (solo i profeti di sventura dell’ultimo periodo di Israele erano portati di nuovo a questo pessimismo). Una formulazione molto più adeguata era che davanti a Jahvè nessuno è senza colpa (Es., 34, 7) e questo argomento si conformava evidentemente anche alle necessità pratiche della cura delle anime nei confronti della sofferenza di innocenti. Tuttavia in questo modo non era risolto il problema delle particolari sventure di Israele che era pur sempre il popolo di Jahvè. A questo fine la soluzione stava piuttosto nel richiamo al fatto che Jahvè, ovviamente, aveva legato le sue antiche promesse alla condizione che il popolo adempisse i suoi doveri rituali ed etici, e questo non sarebbe avvenuto. In pratica poi in quel periodo tutte le antiche promesse vennero gradualmente trasformate da solenni impegni incondizionati di Jahvè in impegni legati alla condizione della buona condotta. Anche questa era senza dubbio una conseguenza della necessità pratica di una teodicea razionale ed era soprattutto, come vedremo, una tesi fondamentale della profezia. Tuttavia sorsero delle difficoltà. L’antica concezione della responsabilità in solido della comunità per l’agire di ciascun individuo, e di quella dei discendenti per gli avi, che regolava la vendetta del sangue ed i rapporti con il nemico politico, era in origine una cosa ovvia in una libera confederazione ed era anche molto utilizzabile sul piano praticoa8. D’altra parte però vi era da temere questa domanda: a cosa serviva al singolo l’adempimento dei comandamenti di Jahvè se l’azione di un altro coinvolgeva anche lui, seppure innocente, nella sventura? Per i peccati dei contemporanei vi era l’espediente di consacrare i peccatori al dio tramite il cherem. e di lapidarli. Questo era analogo al modo in cui le conseguenze di un antico delitto contro una comunità di meteci venivano stornate tramite la consegna del colpevole o dei suoi parenti, come dovette avvenire sotto Daniele con l’estradizione dei discendenti di Saul a Gabaon. La cerimonia sichemita delle benedizioni e maledizioni è servita senza dubbio, perlomeno in epoca posteriore, a sollevare la comunità dalla sua responsabilità rigettando la maledizione sulla persona del peccatore. La pena di morte contro l’assassino era esplicitamente concepita come purificazione del paese dalla responsabilità in solido per la colpa contro Jahvè e nei casi in cui l’assassino non era rintracciabile venivano compiute particolari cerimonie di espiazione.
Ma per i peccati degli avi questo mezzo non sussisteva. Vale qui l’amaro proverbio popolare citato da Ezechiele: «I padri hanno mangiato l’uva acerba e i figli hanno i denti allegati». Anche da questa parte vi era quindi la minaccia di atteggiamenti fatalistici, pregiudizievoli agli interessi per la cura delle anime. Per questo motivo evidentemente la scuola deuteronomica, sotto l’influenza dei maestri leviti della Torah, decise di rifiutare totalmente la responsabilità dei discendenti per i padri, tanto nella prassi giuridica che sul piano della responsabilità etica.
Tuttavia la difficoltà stava nel fatto che non si poteva fare a meno, ai fini della teodicea, del concetto di rappresaglia per i peccati degli avi, poiché non esisteva nessuna retribuzione nell’aldilà e l’osservazione sembrava continuamente insegnare che l’individuo non viene mai punito e ricompensato in ragione dei suoi peccati e delle sue buone azioni. Tale postulato era indispensabile soprattutto ai fini della teodicea politica e senza dubbio lo divenne particolarmente dopo l’amara esperienza del a. Sullo sviluppo di questa concezione cfr. in particolare LÒHR,Sozialismus und Indivtdualismus ini A. T., fase, suppl. n. io di «Z.f.A.T.W.», 1906. Lo scritto è buono, solo il titolo è forse in qualche misura sviante.la battaglia di Megiddo. Anche i profeti si sono sempre basati sulla responsabilità in solido della comunità e su quella dei discendenti per i padri. Di conseguenza il concetto di responsabilità in solido non è mai stato realmente abbandonato in maniera definitiva. Nella versione sacerdotale si trovano ancora, l’una accanto all’altra (Num., 14, 18) l’assicurazione della grazia e della misericordia di Dio e quella della sua vendetta fino alla terza e alla quarta generazione. Questo dualismo derivava dal contrasto tra le necessità della profezia politica pratica e gli interessi sacerdotali per la cura delle anime nonché il razionalismo dello strato colto. Un risvolto però era comune a tutti: Dio doveva essere un dio dell’equo compenso e questa qualità venne sottolineata in particolare dalla scuola deuteronomica con la massima enfasi.
I comandamenti di Dio e le espiazioni per le offese conobbero quindi una sublimazione sempre più intensa nel senso di ? un’etica dell’intenzione. Ciò che importava al signore celeste non era il modo esterno dell’agire ma bensì l’obbedienza in sé e la fiducia assoluta nelle promesse divine, per quanto queste potessero più volte apparire problematiche. Lo stesso concetto si trova già nella storia jahvista della vocazione di Abramo chiamato a trasferirsi in Canaan, e della promessa fattagli di un figlio: Abramo segue ciecamente la chiamata e il fatto di aver creduto ciecamente nella promessa gli viene «attribuito come giustizia» (Gen., 15, 6) da Dio. Non è un caso che questo concetto appaia per la prima volta in una leggenda sui Patriarchi. Infatti tra i pacifici semi-nomadi si trovava senza dubbio uno dei sostegni di quel partito che al culto sacrificale istituito dai re e dai loro sacerdoti opponeva la tesi secondo cui l’antico dio della lega non si compiace dei sacrifici ma unicamente dell’obbedienza ai suoi comandamenti, e soprattutto che la comunità stessa, essendo sacra, non ha bisogno dei sacerdoti. Questa credenza ostile ai sacerdoti trovava appoggio naturalmente nell’antica ascesi ed estasi dei guerrieri, e più generalmente nelle condizioni del passato, quando non esisteva un corpo sacerdotale della lega a carattere ufficiale e praticamente ereditario. Non vi è dubbio però che fosse condivisa anche dagli strati intellettuali. E infine è molto probabile che lordine dei Recabiti che piaceva tanto a Geremia, l’avversario dei sacerdoti di Gerusalemme, fosse uno dei suoi sostenitori.
Anche tutti quei Leviti che non erano preposti a qualche santuario ma ricavavano il loro sostentamento unicamente dalla cura delle anime e dall’insegnamento della Torah potevano far propria questa credenza. Ad essa corrispondeva l’altro concetto secondo cui determinante per rendere soddisfazione a Jahvè non era l’offerta di sacrifici espiatori da parte del peccatore ma la sua disposizione contrita in sé. Tale concetto doveva essere familiare ai circoli intellettuali e i redattori della tradizione lo mettono in bocca agli antichi veggenti (in primo luogo Nathan). Certamente un’altra parte dei Leviti, in particolare quelli appartenenti alla scuola deuteronomica, era troppo legata agli interessi del culto e del sacrificio per sposare queste conclusioni. Proprio la versione jahvista, che nell’insieme è più meridionale c influenzata dai Leviti, accoglie in sé i comandamenti puramente cultuali (il cosiddetto decalogo cultuale). Ma il concetto stesso rimase vivace, in particolare nella profezia, fintanto che i sacerdoti furono legati alla monarchia. Anche la posteriore versione sacerdotale non ha potuto eliminarne i residui. è vero che nella storia di Mosè questa versione ha legato la condanna di Jahvè per i Leviti korahiti precisamente all’affermazione eretica circa la santità della comunità e la superfluità dei sacerdoti, ma non ha potuto impedire che nella trascrizione degli oracoli delle più grandi figure di profeti tale concetto sopravvivesse nella sua forma più imponente.
Quest’assolutismo etico della fiduciosa obbedienza a Dio assunse un orientamento specificamente plebeo con l’elaborazione data all’antica rappresentazione mitologica dell’invidia e dell’odio di Dio verso Yhybris degli uomini nella parenesi dei maestri della Torah. Se i saggi egiziani esaltano l’obbedienza, il silenzio e l’assenza di presunzione come virtù gradite a Dio, la fonte di ciò stava nella subordinazione burocratica. In Israele invece la fonte era il carattere plebeo della clientela. L’orgoglio e l’arroganza, il vantarsi delle proprie forze, che erano gli atteggiamenti tipici dei re e dei loro eroi guerrieri, erano odiosi al dio di quei plebei di cui dovevano occuparsi, con la loro consulenza e la cura delle anime, i maestri della Torah e i circoli da cui provenivano i profeti; tali atteggiamenti costituìvano per il loro dio il vero delitto. L’erotismo (secondo Amos) e il gaio gozzovigliare (secondo Isaia) dei gibborìm erano sgraditi a Jahvè. Per il profeta Sofonia (3, 12) non vi è dubbio che solo il popolo povero possiede l’autentica fiducia che rimette tutto a Dio, e quindi a suo tempo Dio risparmierà solo lui dalla rovina. Lo sdegno di Jahvè verso i grandi appariva confermato dagli insuccessi di questa casta arrogante nei confronti dei nemici stranieri, contrariamente a quanto avveniva all’epoca dell’antico esercito contadino. La fiducia umile e incondizionata avrebbe forse potuto indurre l’antico dio della lega a essere di nuovo incondizionatamente vicino al suo popolo come nel passato. Ci troviamo qui ancora una volta in presenza, come si è già detto, di un tema fondamentale dell’etica politica utopistica dei profeti nonché del Deuteronomio in ciò influenzato da questi ultimi. Dovremo tornare su questo punto in particolare. Qui vogliamo chiarire ancora alcune delle circostanze su cui si fondavano in Israele le caratteristiche formali dell’intero rapporto di Dio con gli uomini. Tra queste in particolare spicca il forte accento posto su questa razionale etica dell’intenzione.
20. Magia ed etica
La magia in Israele non occupava quella posizione predominante usuale altrove. O meglio — pur non essendo in realtà mai scomparsa veramente dalla pratica delle masse, più di quanto non sia avvenuto altrove — era sistematicamente combattuta dai maestri della Torah e ciò è stato determinante ai fini del suo destino nella devozione propria all’Antico Testamento. In Israele esisteva ogni sorta di magia. Ma i circoli jahvisti di maggior peso, soprattutto i Leviti, non erano costituiti da maghi, bensì da portatori di una scienza. Lo erano anche, come abbiamo visto, i brahmani. Ma la scienza in Israele era qualcosa di radicalmente diverso da quella dei brahmani. Quando nel racconto jahvista sul Paradiso il serpente consiglia alla donna di mangiare il frutto dell’albero della scienza, fa sperare agli uomini che «gli si apriranno gli occhi e saranno uguali a Dio». E il serpente non ha mentito. Infatti dopo che Jahvè ha maledetto gli uomini e il serpente, aggiunge: «l’uomo è diventato uguale a noi», cioè come un dio — tramite la scienza —? e lo caccia dal giardino «affinché non mangi ancora il frutto dell’albero della vita e diventi immortale». Quindi il possesso di due cose: l’immortalità e la scienza, rende l’uomo dio. Ma quale scienza? In ambedue i passi citati si dice: la scienza «di ciò che è bene e male». è questa dunque la scienza che secondo la concezione di questo autore pre-profetico rende simili a Dio.
Anche in base a ciò, beninteso, non va da sé che si trattasse di una scienza etica razionale e non puramente rituale o esoterica. Anche in Egitto il plebeo privo della cultura scritta sacerdotale veniva indicato come un uomo che «non sa ciò che è bene e ciò che è male». E nel racconto del Paradiso ciò che l’uomo apprende, mangiando il frutto dell’albero della scienza è, a quanto ci risulta, il tabù puramente rituale della nudità, e non una scienza etica razionale. Ma già Michea, all’epoca di Ezechia, sottolinea (6, 8) che all’uomo, cioè ad ogni uomo (è stato detto cosa è il bene: osservare i comandamenti divini, praticare l’amore ed essere umili davanti a Dio». Non si tratta quindi di una scienza esoterica e nemmeno di una scienza meramente rituale ma di un’etica e di una carità insegnate in maniera prettamente essoterica.
A questo particolare insegnamento era votata specificamente la Torah levitica. Abbiamo visto come lo speciale rapporto con Jahvè nella sua qualità di socio personale del berith con la confederazione aveva posto per la prima volta questo forte accento sulla «osservanza dei suoi comandamenti». A ciò si doveva il ruolo privilegiato dell’obbedienza e dell’etica rispetto ai comandamenti cultuali che data la struttura della lega dovevano necessariamente essere praticamente inesistenti e a quelli puramente rituali che presumibilmente in passato si erano sviluppati soltanto in poche semplici regole. A causa della responsabilità in solido della comunità nei confronti di Jahvè per i falli di ogni singolo individuo, questa problematica etica era di interesse eminente per ogni singolo membro del popolob8 ma soprattutto per gli intellettuali interessati alle sorti del paese. Da qui partiva dunque questa concezione sull’essenza del sapere divino che cominciò a dominare i circoli dei plebei jahvisti, sempre più smilitarizzati, nonché i circoli di tutti quegli intellettuali rimasti attaccati al buon vecchio diritto. L’importanza di tale concezione si accrebbe costantemente. In passato il carisma divino era conosciuto solo sotto forma di estasi guerriera e profezia di guerra. Ambedue erano decadute. Vi era stata, come mostrano certe aggiunte alla tradizione, la tendenza a fare di Mosè un mago i cui incantesimi decidevano della vittoria, alla maniera dei brahmani di corte indiani. Ma personaggi di questo genere non esistevano più. Da allora Jahvè non aveva più destato un profeta che lo avesse visto in faccia. Perché i tempi erano cambiati. Gli oracoli di guerra di Eliseo sono l’ultima risonanza che troviamo nella tradizione di questo tipo di profezia politica a carattere magico. I Leviti, gli unici continui e perenni portatori della credenza in Jahvè si sentivano, in virtù delle loro importantissime funzioni sociali, i portatori di quella scienza che insegna con quali peccati l’uomo attira su di sé la sventura e come può porvi riparo. Se davvero il nome jide’oni, che designa (Lev., io, 27; II Re, 23, 24) gli spiriti dell’oracolo che abitavano in certi maghi, significa, come sembra, «piccola» scienza, ciò sarebbe indicativo dell’orgoglio nella propria scienza, ostile alla magia, dei rappresentanti dello jahvismo. I grandi profeti israeliti hanno senza dubbio occasionalmente impartito consigli anche ai re, come i profeti di corte e i maghi. Ma questi consigli erano sempre conformi all’orientamento della Torah levitica: obbedienza a Jahvè e fiducia incondizionata in lui. Nessuno di loro ha mai tentato di aiutare il paese con la magia.
Naturalmente le premesse per uno sviluppo della coercizione magica del dio esistevano anche in seno ai circoli jahvisti ortodossi del passato e forse anche fino abbastanza tardi in epoca pre-esilica. Accanto ad altri residui meno importanti troviamo in particolare la credenza nella forza magica del nome di Dio, una credenza molto diffusa secondo cui se l’uomo conosce il nome di Dio e lo usa nel modo giusto, Dio dovrà obbedire; tale credenza è stata palesemente compresa in questo sviluppo. Non a caso Jahvè evita di rivelare il proprio nome nel corso dell’apparizione del pruneto ardente e lo stesso vale per il nume con cui lotta Giacobbe. Quando in seguito Mosè chiede a Jahvè la grazia di poter contemplare il suo volto, Jahvè gli suggerisce di chiamarlo per nome. Con ciò Mosè ottiene un effetto coercitivo.
Questa concezione ampiamente diffusa era, come abbiamo visto, particolarmente familiare in Egitto. Il nome di Jahvè come il nome del faraone, è il simbolo del suo potere. Come il re nelle lettere di Amarna ha «posto il suo nome su Gerusalemme», così il nome di Jahvè «è stato invocato» su Israele (Deut., 28, 10; Ger., 14, 9), o su Gerusalemme (Ger., 25, 29), o su di un profeta (Ger., 15, 16); è «invocato», «dimora» a Gerusalemme, dove gli «è stata costruita una casa»; «viene da lontano» (Is., 30, 27), «è vicino» (Salmi, 75, 2) e Jahvè per suo tramite agisce (Salmi, 30, 27) a favore di tutti coloro che «amano il suo nome» (Salmi, 5, 12; 69, 37; 119, 132). In parte si tratta qui del teologumeno già menzionato per eliminare la presenza personale antropomorfica di Jahvè. Ma in parte si tratta anche di quella concezione circa l’essenza del nome, che era prevalente proprio in Egitto; non è certo un caso che quasi tutti i passi caratteristici a questo riguardo rientrino nel filone deutoronomico, risalendo quindi al periodo per il quale si rileva la massima affinità con le forme egiziane di devozione.
Il particolare carattere sacro del nome di Dio, com’era concepito in Egitto dove da un lato Iside86 strappa a Ra il suo potere attraverso la conoscenza del suo nome segreto, dall’altro Ptah vendica l’«abuso» del suo nome, acquistò importanza anche in Israele, dove in origine non vigeva il tabù, pur molto diffuso altrove, del nome di Dio. Più tardi il tentativo di esercitare un’azione coercitiva sul dio maestoso pronunciandone il nome venne considerato un grave delitto che egli avrebbe vendicato. La disinvoltura nell’uso del nome, che regnava ancora in età profetica, lasciò il posto a quello specifico timore le cui forme embrionali devono essere esistite già molto presto. Il divieto del Decalogo di usare il nome di Dio invano, che risale a un’epoca ignota, si riferisce sena dubbio al tentativo di esercitare una coercizione magica su Dio. Ancora una volta questo rifiuto potrebbe risalire a una consapevole opposizione all’Egitto e forse proprio al culto dei morti. Infatti da nessuna parte il nome di dio in Egitto ha un’importanza fondamentale come nel 125° capitolo del Libro dei Morti87, dove il suo uso corretto determina il destino dell’anima. Ad ogni porta dell’ade la rispettiva divinità esige che il morto sappia il suo nome, per farlo passare. Né le reminiscenze, né il rigido rifiuto di tali concezioni possono essere del tutto casuali.
Sul piano pratico il rigetto della magia significava in primo luogo che essa non venne sistematizzata, come altrove, dai sacerdoti, ai fini della domesticazione delle masse. A Babilonia tale sistematizzazione venne attuata sotto la pressione delle necessità della teodicea, ed era quindi di origine razionale. La constatazione che anche l’innocente soffre appariva conciliabile con la fiducia negli dèi soltanto se non loro ma i dèmoni e gli spiriti maligni erano gli autori del male: la teodicea si avviava quindi verso un latente semi-dualismoc8. Un discorso analogo non poteva valere in Israele. Che anche tutto il male proviene da Jahvè era una delle tesi fondamentali già del primo profeta (Amos). Allo sviluppo della protezione magica dai dèmoni si opponeva quindi in Israele, dove tutto il male era punizione o disposizione del Dio onnipotente, lo sviluppo dei mezzi puramente etici della Torah sacerdotale e della confessione dei peccati come veri e propri strumenti di potere dei sacerdoti leviti. Tale fenomeno permea in tutti i campi lo sviluppo religioso di Israele.
In primo luogo, laddove nelle religioni asiatiche c’è l’«incantesimo», in Israele c’è il «miracolo». Il mago, il salvatore, il dio asiatico fanno «incantesimi»; al contrario il Dio di Israele opera «miracoli» su invocazione e intercessione. Del profondo contrasto tra questi due concetti si è già parlato prima. Il miracolo, rispetto all’incantesimo, è il prodotto più razionale. Il mondo dell’indiano è rimasto un irrazionale giardino incantato. Abbozzi di uno sviluppo analogo si trovano in Israele nei prodigi attribuiti a Eliseo, la cui irrazionalità è senz’altro sullo stesso piano dei sortilegi asiatici. Questo tipo di concezione avrebbe potuto facilmente avere il sopravvento. Se nelle autentiche leggende jahviste non domina l’incantesimo ma bensì il miracolo che deriva da comprensibili e significative intenzioni e reazioni della divinità, lo si deve evidentemente alla continua lotta contro ogni tipo di estasi orgiastica. Ciò vale per le storie dei Patriarchi, ma anche per la tradizione di Mosè e di Samuele, e in genere per tutto l’Antico Testamento dove l’accento su questa lotta è posto con più forza che in alcun altro libro sacro. E perfino il miracolo, proprio nelle parti più antiche, in particolare nelle leggende dei Patriarchi, viene usato in maniera relativamente parsimoniosa. L’assenza dell’incantesimo soprattutto incanalava tutti gli interrogativi sul perché degli eventi, dei destini e della sorte in direzione della fede nella provvidenza, ossia verso la concezione di un dio che guida il mondo e in particolare le sorti del suo popolo in modo segreto e tuttavia in ultima analisi comprensibile: «pensavate di fare del male ma Dio l’ha trasformato in bene» secondo la formula pregnante che l’artistico poema elohista della leggenda di Giuseppe mette in bocca al suo eroe. La volontà di Dio trionfa sui tentativi dell’uomo di sfuggirle, proprio come nei racconti indiani il «destino» ha sempre il sopravvento nonostante tutti i trucchi con cui si cerca di raggirarlo. Ma in Israele questo destino non è determinato, come in India, dal karma, ma dalla provvidenza razionale del dio personale.
Questo dio che malgrado tutta la foga passionale della sua ira era pur sempre in ultima analisi un dio agente in maniera razionale e prestabilita, un dio degli intellettuali, aveva due caratteristiche particolari. In primo luogo era, come si è già detto, un dio dei plebei . Quest’asserzione non va fraintesa. Sotto questo aspetto Jahvè non era il dio della «devozione popolare» e non veniva assolutamente incontro ai bisogni delle «masse)>. Al contrario, la concezione di lui che in definitiva ha avuto il sopravvento era piuttosto quella che uno strato di profeti (profeti di guerra, più tardi profeti della Torah) e di maestri della Torah tentava di imporre al popolo, spesso incontrando resistenza. Infatti gli autentici bisogni delle masse si orientano dappertutto verso il soccorso della magia e dei salvatori e lo stesso avveniva anche in Israele. Inoltre né gli ideali né gli idealisti della devozione jahvista provengono dallo strato della «povera gente» in quanto tale. L’israelita economicamente agiato e nello stesso tempo devoto è l’eroe, prima dell’esilio, non solo di tutta l’autentica tradizione dei Re ma anche degli antichi frammenti della tradizione che risale all’epoca dei Giudici. E anche nelle leggende pie i Patriarchi erano gente molto ricca. Qui come ovunque la ricchezza, secondo le antiche promesse, doveva essere il compenso della devozione. Gli stessi letterati colti esponenti della scienza jahvista appartenevano perlopiù, con ogni probabilità, a schiatte nobili.
Tuttavia già agli inizi del periodo profetico (Amos) si vede come ciò era lungi dal corrispondere alla generalità dei casi. Inoltre, e soprattutto, i circoli nei quali i letterati potevano sperare di alimentare l’autentica devozione puritana avversa all’orgiasmo, all’idolatria e alla magia — e dove di fatto ottenevano successo in questo senso — erano in fortissima misura costituiti da strati plebei. O, perlomeno, plebei nel senso che non partecipavano al potere politico e non erano esponenti né dello stato monarchico fondato sul militarismo e la corvée né del potere sociale del patriziato. Ciò si manifesta chiaramente nella versione attuale della tradizione. Da nessuna parte, fuorché in residui inclusi nelle storie dei Re, vien fatta parola di eroi di stirpe nobile. Al contrario viene esaltato quasi esclusivamente il pacifico e devoto contadino e pastore; l’esposizione e la spiegazione vengono adattate alle sue opinioni. è vero che non vi è traccia di corteggiamento demagogico delle masse. Il divieto fatto al giudice di piegare la legge a favore dell’aristocratico vale nella parenesi levitica (come pure in Egitto) nella stessa misura per quanto riguarda la plebe. E la cattiva stella di Saul viene attribuita in parte anche al fatto di aver subordinato le sue decisioni al popolo stolto. Più precisamente: la conoscenza dei comandamenti di Jahvè determinava il valore e l’autorità dell’individuo. Ma «l’ideale nomade» alla maniera dei Recabiti e il ricordo della milizia contadina dominavano anche gli ideali dello strato colto.
Che solo l’adempimento dei comandamenti del cielo garantisse il destino dello stato e del popolo era senza dubbio un convincimento fondamentale tanto dei confuciani che degli jahvisti radicali. Ma mentre in Cina le virtù determinanti appartenevano a uno strato prebendario nobile di letterati, di formazione culturale estetica, in Israele si esaltavano in modo crescente le virtù di un ideale plebeo israelita, in campagna come in città. La parenesi levitica teneva sempre più conto delle concezioni di questa sua clientela. L’aspetto peculiare di questo fenomeno è che qui e qui soltanto degli strati plebei sono diventati i portatori di un’etica religiosa razionale.
La seconda caratteristica, anch’essa importantissima, di questo dio, era che Jahvè restava un dio della storia, e in particolare della storia politico-militare. Questo tratto lo distingueva da tutti gli dèi asiatici e si fondava sull’origine dei suoi rapporti con Israele. Per i suoi più fedeli adoratori Jahvè rimase sempre il dio guerriero legato dal patto alla confederazione. Se anche lo si presentava come dio della pioggia e seppure la speculazione nord-israelitica lo elevava a re del cielo, per l’autentica devozione jahvista, in particolare anche per quella profetica, rimase il dio delle sorti politiche. Non quindi un dio con il quale si potesse ricercare un’unione mistica tramite la contemplazione, ma bensì un signore personale, sovrumano e tuttavia comprensibile, al quale bisognava obbedire. Aveva dato i suoi comandamenti positivi e a questi bisognava attenersi. Era possibile indagare sui suoi progetti di salvezza, sui motivi della sua ira e sulle condizioni della sua grazia, come per un grande re. Ma oltre a questo non c’era nulla. E questo presupposto precludeva totalmente lo sviluppo di una speculazione sul «significato» del mondo alla maniera indiana. Per motivi diversi anche in Egitto e a Babilonia tale speculazione non è andata al di là di certi limiti molto ristretti. Nell’antico Israele, non vi era assolutamente spazio per essa.
21. Mitologemi ed escatologie
Se quindi da un lato la razionalizzazione dell’immagine del mondo rimase confinata entro limiti ben precisi e proprio per questo attuabile, così d’altra parte la natura particolare di Jahvèpose limiti rigorosi anche alla sua mitologizzazione. La figura di Jahvè, come quella di ogni dio, era carica di mitologemi. Le più grandiose immagini dei profeti e dei salmisti riferite alle sue azioni e alle sue epifanie derivano senza dubbio da un patrimonio mitico molto antico e molto diffuso. Le rappresentazioni diffuse a Babilonia e senza dubbio anche nel Canaan pre-israelitico, sul drago primitivo, sui mostri e sui giganti, contro i quali il dio creatore del mondo attuale dovette lottare, hanno continuato a sopravvivere, al di fuori della cosmogonia redatta dai sacerdoti, in figure come Leviathan, Behemoth, Rahab. Nella cosmogonia sacerdotale la massa caotica delle acque primitive porta lo stesso nome del drago primitivo babilonese (Tehom = Tiamat88). Il giardino irrigato dell’Eden, l’uomo primitivo visto come agricoltore, i grandi fiumi del mondo, la montagna armena: tali elementi nell’attuale versione della storia delle origini del mondo mostrano come nessuno di questi miti in origine fosse indigeno delle steppe o della montagna babilonese. Il coltivatore patriarcale del giardino di Dio si concilia male con i residui della gigantomachia del VI capitolo della Genesi. E la rappresentazione, recepita dalla versione sacerdotale meno antica, dello spirito di Dio che plana sulle acque appartiene a sua volta a un ordine di concezioni di tipo diverso.
Per la cosmogonia jahvista più antica Jahvè non crea il mondo «dal nulla». Tuttavia ciò che sorge sulla terra è prodotto soltanto da lui. Questa concezione felicemente designata da Peiskerd8 come «monoteismo ingenuo» non ha nulla a che vedere con l’unicità e l’universalismo del dio. Infatti in quasi tutte le cosmogonie un dio crea il mondo e agli altri non si pensa. Ma l’aspetto caratteristico è che alla primitiva leggenda babilonese composta sotto forma di poema in versi si contrappone qui unasemplice cronaca in prosa, proprio come le immagini mitologiche dei profeti e soprattutto dei sacerdoti vengono a configurarsi nel corso del tempo in forma sempre più astratta e sempre meno plastica, tipica conseguenza della rielaborazione di rappresentazioni mitiche da parte del razionalismo teologico. Il prodotto finale: la storia della creazione, d’ineguagliabile maestà ma totalmente priva di plasticità, che troviamo nell’attuale I capitolo della Genesi, è una tipica opera sacerdotale, nata nel periodo dell’esilio e volutamente contrapposta al circostante ambiente babilonese. La leggenda primitiva babilonese è stata epurata di tutti i suoi fantasmi, in particolare del drago che si divide e che qui viene spersonalizzato diventando la massa delle acque primitive. E la creazione avviene sulla semplice «parola» del dio che fa risplendere la luce all’improvviso e separa le acque, così com’è la sua parola che dalla bocca del maestro viene portata agli uomini. Forse soltanto allora i residui elementi teogonici e gigantomachici sono stati eliminati quasi del tutto dal racconto più antico, che era rimasto immediatamente giustapposto all’altro. Qui infatti stava il limite determinante per la mitopoiesi dello jahvismo. Jahvè tollerava senza dubbio alcuni mitologemi ma non tollerava alla lunga proprio ciò che costituisce il coronamento di tutti i grandi sistemi di miti: la teogonia. All’interno di Israele, che aveva recepito questo dio dall’esterno, il terreno già di per sé non era favorevole al sorgere di miti teogonici di Jahvè. In primo luogo perché questi rimaneva un dio non ammogliato e venerato senza immagini; in secondo luogo perché non aveva un culto atto ad eccitare la fantasia artistica e poetica, come i culti nati dall’orgiasmo e dalla mimica incantatoria dei dèmoni — che sono le fonti normali di tutti i sistemi di miti —; inoltre il sobrio culto sacrificale non costituiva nemmeno l’elemento più importante per il rapporto con Dio.
Oltre che a questi suoi tratti personali, la contrapposizione di Jahvè alle mitologie teistiche correnti in Canaan come in tutto il Medio Oriente era dovuta anche alla sua posizione di garante dell’ordine giuridico-sociale. In ciò si differenziava anche dai grandi dèi universali delle religioni delle zone di cultura circostanti. Il campo d’azione di questi ultimi, ivi compreso il dio del sole di Ekhnaton, era in primo luogo la natura. Di solito le sorti politiche erano garantite dal dio locale della capitale, e gli ordinamenti sociali da una o più divinità funzionali, e solo secondariamente dai grandi dèi del cielo. Anche Jahvè era senza dubbio, e precisamente in origine, un dio della natura. Ma era il dio di determinate catastrofi naturali che la parenesi levitica considerava espressione della sua ira contro la disobbedienza. Questo nesso tra l’atteggiamento del dio e la maggiore o minore obbedienza dei singoli si consolidò progressivamente con la crescente importanza della Torah.
In questo modo però tutti i mitologemi della natura erano subordinati a un sobrio e razionale orientamento dell’agire divino. La recezione, inevitabile per lo strato colto israelitico, di miti cosmologici universalistici nella rappresentazione di Jahvè doveva perciò avere conseguenze di ampia portata per la forma assunta da questi miti: vennero infatti impiegati in senso etico. D’altra parte però l’influenza della recezione dei miti sulla concezione di dio e sulla soteriologia si riscontra solo in misura limitata, più limitata comunque di quanto ci si potrebbe aspettare.
La rilevanza del tutto secondaria dei miti cosmogonici o antropogonici per la religiosità jahvista è messa in luce con la massima chiarezza dalla mancanza quasi totale di allusioni al mito — così fondamentale per le nostre concezioni odierne — del «peccato originale» della prima coppia umana. Questo mito, in tutta la letteratura dell’Antico Testamento, non ha mai assunto il carattere di un evento di qualche importanza soteriologica, determinante per la condotta di Jahvè nei confronti di Israele o degli uomini in genere. Si riscontrano solo allusioni del tutto isolate e a carattere meramente paradigmatico (Osea, 6, 7). Il peccato di Adamo divenne fondamentale per la dottrina di salvezza solo attraverso certe speculazioni dell’antico cristianesimo, e più precisamente sulla base di rappresentazioni che non smentiscono la loro origine dalla gnosi orientale ma sono lontane dall’autentica religiosità israelitica. Il peccato di Adamo ed èva è certo un mito eziologico per la morte, la fatica del lavoro e del parto, l’ostilità verso il serpente, e più tardi verso tutti gli animali. Ma in ciò si esaurisce il suo significato. Se i rabbini più tardi hanno considerato l’adorazione del vitello d’oro come un’offesa molto più grave della disobbedienza di Adamo — perché nel primo caso è stato infranto un berith, nel secondo invece no — ciò corrisponde perfettamente all’antico fondamento, che ci è noto, della posizione di Jahvè nei confronti di Israele, fondamento che non è stato intaccato dal mito. è vero che già Osea considera anche il peccato di Adamo come violazione di un berith. Ma tale concezione non ebbe grosse conseguenze per la religiosità israelitica. Al contrario l’influenza esercitata sul mito dalla natura particolare di Jahvè è stata tale da rovesciarlo completamente. Nel mito babilonese — conservato anche nelle tavolette di Amarna come esercizio per scrivani — il primo uomo, Adapa, si lascia sfuggire l’immortalità seguendo il falso consiglio di un altro dio; per il resto viene considerato come «impuro» sin dall’inizio e quindi non qualificato per il cielo di Anu. La concezione israelitica invece plasma con questi elementi un paradigma dei più imponenti sulle conseguenze della disobbedienza.
Questa trasformazione è indubbiamente opera della Torah levitica ed è stata recepita definitivamente solo nella versione finale della storia della creazione. Infatti in Ezechiele (28, 13 e segg.) e nel libro di Giobbe (15, 7) appaiono ancora i residui di una concezione completamente diversa, che vedeva nel primo uomo una figura piena di sapienza e bellezza, che viveva come un cherubino senza macchia nel giardino di Dio ornato di gemme (alla maniera babilonese), sulla meravigliosa montagna di Dio di cui parlano anche i salmi e che richiama la natura di Jahvè, dio della montagna. Questo uomo poi venne irretito nella colpa dalla sua hybris e buttato giù da Jahvè. Qui il primo uomo non era quindi assolutamente il «puro stolto» del mito jahvista del Paradiso. Il fatto che Ezechiele per due volte descriva Noè, Giobbe e Daniele (14, 14 e 20) come tre uomini saggi e pii del passato e indichi addirittura Daniele come onnisciente (28, 3) mostra come in questo caso si sia già sviluppata quell’esaltazione della saggezza sovrumana degli antenati, propria a tutta la tradizione sacerdotale, che più tardi venne ripresa in maniera del tutto diversa dai maestri post-esilici della chokhma. Rimase estranea agli autentici maestri della Torah.
Per quanto riguarda le leggenda del diluvio universale, che secondo gli esperti è il mito recepito per ultimo, il modello babilonese veniva incontro ai bisogni etici in quanto toccava almeno in certa misura un tema presente anche nelle leggende dei Patriarchi. Gli dèi rimproverano a Enlil89 che ha scatenato il diluvio universale, di aver voluto distruggere tutti gli uomini senza distinguere tra i peccatori e gli altri: solo il consiglio segreto di Ea90 aveva permesso alla controfigura babilonese di Noè di salvarsi. Ora, nella versione della stessa leggenda recepita in Israele, la variante più caratteristica è che Jahvè decide di non mandar più un diluvio universale perché tutte le azioni degli uomini sono corrotte sin dall’inizio; e a Jahvè l’esistenza e il destino degli uomini sta a cuore contro la loro stessa volontà. Ancora una volta, questa variazione caratteristica non è determinata dalla moralità straordinariamente «elevata» che è stata attribuita agli Israeliti. L’antica etica israelitica era rozza e semplice. Ma poiché qui la cura delle anime presso gli strati plebei, in conseguenza della natura particolare, storicamente data, di Jahvè e del suo rapporto con Israele, aveva carattere etico e non magico, ne seguiva che i miti la interessavano solo in funzione paradigmatica. La cura delle anime aveva bisogno per i suoi fini di miracoli divini razionalmente determinati, quali esempi della potenza, delle punizioni e delle ricompense divine, non storie di incantesimi e di eroi.
Una concezione ricca di conseguenze per gli ulteriori sviluppi, che è stata ripresa in relazione ai miti cosmogonici, era quella del Paradiso perduto per una colpa etica, e della stato di pace e di innocenza che vi regnava. La forma esteriore del Paradiso evidentemente è cambiata. La concezione della «montagna di Dio» (Ezechiele, 28, 11 e seg.; 31, 8-9 e 16; 36, 35), nel periodo dell’esilio, aveva evidentemente lo scopo di liberare Jahvè dalla sua localizzazione a Gerusalemme e consolidare la sua posizione come dio universale. L’antica concezione jahvista venne recepita dai maestri della Torah.
Finora non è stata dimostrata l’esistenza di un vero e pròprio mito del paradiso a Babilonia, benché si parli di un parco divino incantato con alberi coperti di gemme, e anche di un canale scavato dagli dèi. Secondo Usenere891 i miti su un primitivo stato di pace con gli animali erano abbastanza diffusi e esistevano apparentemente anche a Babilonia (epos di Gilgames92) dove sembra che la donna portasse, come nella Genesi, la colpa della perdita del paradiso. Il mito di un giardino tranquillo riempito di piante e irrigato da Dio, e dell’uomo che da questo giardino viene cacciato e condannato alla fatica del lavoro della terra e alla lotta contro i serpenti, ha tutte le caratteristiche che indicano come più probabile una sua nascita in Mesopotamia; quanto sia antico in Canaan non si può dire. L’origine in un paese di coltivazioni a giardino è suggerita anche dalla concezione, che traspare ancora oggi nel mito, secondo cui gli uomini in origine, fìntanto che sono vissuti in pace con gli animali, sarebbero vissuti di cibi vegetali: anche di questo si trovano alcuni accenni nell’epos di Gilgames.
Uno stato primitivo di innocenza ignara non sembra però figurare in nessuna delle religioni qui considerate, dal punto di vista della trasposizione del mitof8; e soprattutto nella particolare interpretazione di questa innocenza come ignoranza dell’illiceità della «nudità» risulta chiara a prima vista l’infiltrazione dei particolari aspetti rituali dello jahvismo. L’importanza fondamentale del concetto di berith suggeriva la concezione propria a Israele secondo cui il rapporto pacifico degli uomini primitivi con gli animali sarebbe stato fondato su un berith di Jahvè con gli animali, e che Jahvè nel futuro avrebbe potuto rinnovare questo berith, e lo avrebbe fatto. Questa idea appare già pressoi primi profeti (Osea, 2, 18; Isaia, 11, 1). Proprio qui sta il punto importante di tale concezione. Se l’uomo in passato aveva perso la pacifica beatitudine dell’epoca primitiva, forse avrebbe potuto riacquistarla in futuro in seguito a una condotta adeguata. Non sembra che ci siano dubbi sul fatto che questa concezione escatologica, sulla quale lavoravano i profeti, era già diffusa prima di loro. Questo stato finale sarà come l’Eden (Is., 51, 3), regnerà la pace tra gli uomini, le spade saranno forgiate in vomeri (Is., 2, 4), arco, spade e guerre saranno banditi dal paese (Os., 2, 18); per la grazia del cielo la terra produrrà frumento, mosto e olio in abbondanza (Os., 2, 22). Queste sono speranze di redenzione proprie a contadini specificamente pacifisti e non-militaristi.
Tali aspettative di pace non erano l’unica forma di speranze escatologiche risalenti al periodo pre-profetico. Accanto ad esse ve n’erano altre, corrispondenti ai diversi interessi legati alle varie posizioni sociali. Le speranze popolari dei guerrieri, per il futuro, erano di tipo diverso. Già nei primi profeti (Amos) troviamo l’aspettativa di un «giorno di Jahvè» (jom Jahvè) che secondo la concezione allora corrente doveva essere un giorno di grande grazia per Israele. Quale era il suo significato originario? Jahvè era un dio della guerra e di conseguenza doveva trattarsi di un giorno di battaglia vittoriosa, com’era stato in passato lo jom Midiam (Is., 9, 3), ossia il giorno della vittoria di Gedeone. Gli antichi oracoli divinatori spesso indicavano con esattezza all’eroe guerriero, come nel caso di Gedeone e in tanti altri, il giorno e l’ora in cui Jahvè «avrebbe dato in mano a Israele» i suoi nemici; da ciò deriva senza dubbio tale particolare rappresentazione. I mezzi dell’antico dio delle catastrofi erano noti; il «terrore di dio» suscitato con terremoti o catastrofi meteorologiche. Il giorno di Jahvè era quindi un giorno di terrore (jom mehumah, Is., 22, 5) ma naturalmente, agli occhi dei guerrieri, terrore per i nemici di Israele e non per Israele (Amos, 5, 18-20). Accanto a questa sembra sussistere un’altra rappresentazione, più pacifista, che vedeva il giorno di Jahvè come giorno di un allegro pasto sacrificale (Sof., 1, 7) al quale Jahvè avrebbe invitato i suoi eletti come ospiti.
Queste speranze per il futuro, più o meno pacifiste o bellicose secondo i casi, si collegavano a loro volta alle promesse della profezia di salvezza regia. Gressmanng893soprattutto ha notato come presso le corti vicine dei grandi re esisteva uno «stile cortigiano» abbastanza rigido per queste profezie. Ogni re viene glorificato dai bardi, cantatori della profezia di salvezza, come portatore di un’epoca di benedizioni: i malati guariranno, gli affamati saranno sazi, gli ignudi vestiti, i prigionieri amnistiati (come sotto Assurbanipal94), ai poveri sarà resa giustizia (come si legge spesso in iscrizioni regie babilonesi, e in Israele nel Salmo 72). Dio stesso (a Babilonia Marduk) scelse il re (così Jahvè sceglie Davide in 11Sam., 6, 21), ne fa il suo sacerdote (Salmo no), lo adotta (il re di Israele nel Salmo
2, 7), o ar dirittura lo genera (iblei.). Il re deve confermare tutti questi suoi attributi, ossia deve dar prova del suo carisma, portando felicità al suo popolo (come in Cina e ovunque regni un’autentica concezione carismatica). Già nel più antico periodo mesopotamico, per accreditare l’origine divina del re, si diceva di lui — del sumero Gudea95, di Sargon96, il fondatore della potenza babilonese, e nel tardo periodo assiro di Assurbanipal
? che suo padre o anche sua madre erano sconosciuti, che era stato generato in segreto, o sulla montagna, e quindi da un dio. Gli usurpatori in particolare — ma non solo loro — ricorrevano a questo mezzo di legittimazione. Sembra che anche questa concezione fosse conosciuta in Israele poiché Isaia se ne serve quando contrappone al re-miscredente Achaz il re-salvatore che dovrà presto apparire, che anzi forse è già nato, l’Immanuel, che possiede tutti questi tratti. A seconda degli strati più o meno militaristi o pacifisti il re-salvatore è quindi un monarca che arriva su carri e destrieri (Ger., 17, 25; 22, 4) o un principe che cavalca un asino alla maniera degli antichi eroi carismatici di Israele dei tempi della lega (Zac., 9, 9 e seg.) nonché un principe della pace come l’Immanuel di Isaia. Nel regno di Giuda questo «unto» del Signore (ha-mashiach, che significa semplicemente re) era atteso naturalmente dalla stirpe di Davide, quindi da Betlemme; sarebbe stato un «salvatore» (moshia’), come veniva considerato ai suoi tempi Geroboamo II.
Il carattere particolare che queste speranze assumevano in Israele era determinato da fattori politici. Mentre nelle grandi zone di cultura vicine la solida posizione della monarchia, esistente da tempi immemorabili, faceva sì che le speranze soteriologiche fossero collegate essenzialmente al re viventeh8, sicché solo del tutto eccezionalmente troviamo — come sotto Boccori97 delle vere e proprie aspettative «messianiche» di salvezza, la situazione in Israele era diversa. è vero che, con il consolidamento della posizione del ceto sacerdotale, anche in Egitto (sotto la XXI dinastia) il re era diventato semplicemente il signore riconosciuto e legittimato da Ammone e non più il dio vivente in persona com’era considerato, perlomeno ufficialmente, durante l’Antico Regno. D’altra parte in Mesopotamia, in epoca storica, era sempre stato così. Ma in Israele, in particolare nel Regno del Nord, con le sue continue usurpazioni e rivolte militari, la monarchia in qualità di portatrice di salvezza stava decisamente in secondo piano rispetto ad altre aspettative. Per Osea un re legittimo non esiste in assoluto, il che del resto corrispondeva alla situazione di quell’epoca. E anche altrove, alle forme ufficiali di predizione e di profezia di salvezza in uso a corte, si contrapponeva la speranza che o Jahvè stesso avrebbe preso un giorno in mano il governo annientando gli dèi stranie-3, 3-4) e dando al mondo un volto nuovoi8, o avrebbe a questo fine un taumaturgo sovrumano. Questo annientato tutti gli oppressori stranieri, ma non solo tsx anche tutti i malfattori nel proprio paese. Solo in sotto l’influenza del particolare rapporto vigente trail suo popolo in virtù del berith, tutte le speranze si cavano intorno a questa aspettativa di impronta specifietica. Da nessuna altra parte infatti si trovano tracce ientamento analogo, che del resto non avrebbe potuto si altrove, sotto il dominio della magia come mezzo e di salvezza. Da ciò conseguiva però che l’avvento deli Jahvè avrebbe portato sciagura anche per i peccatori stesso popolo. Solo un restoj8 — sheerith — sarebbe isuto all’ira di Jahvè. Questa idea del «resto», d’imfondamentale per tutti i profeti, viene già presentataio di loro, Amos, come un concetto assodato, e Isaia ino dei suoi figli Shear jashuv («il resto si converte»). nente si tratta di un resto moralmente qualificato, mitologie escatologiche della natura, proprie al mondo te, vengono qui impiegate ancora una volta in senso due possibili concezioni riguardo alla persona dell’eologico quella dominante, neH’insieme, nei circoli jahevidentemente quella secondo cui Jahvè in persona difeso la propria causa contro i suoi nemici. L’altra, cui un eroe escatologico avrebbe agito per suo incarico, iva nel filone della profezia di salvezza regia ?— a mme soprattutto, dove i Davidici erano esponenti di questa speranza — o portava a mitologemi esoterici. Il redentore diventava allora una figura sovrumana. Sorge come un «astro» nella benedizione di Balaam (Num., 24, 17). è un «padre perpetuo» (secondo la lezione usuale, in realtà piuttosto dubbia, del passo di Is., 9, 5). La sua origine risale a un tempo immemorabile della più remota antichità (Mich., 5, 1). A questi oscuri accenni, che ricevono il loro perfezionamento nel «servo di Dio» del Deuteroisaia nel corso dell’esilio, non corrisponde da nessuna parte un’esposizione più dettagliata. Nei documenti del mondo circostante Israele, dei quali disponiamo sinora, non si trova nessuna immediata analogia con essi. L’influenza delle concezioni iraniche è estremamente dubbia e nel caso di Yima e di altre figure dell’antica religione iranica che possiamo prendere in considerazione non siamo in presenza di salvatori escatologici. Poiché il passo più importante presenta la stirpe di Davide come portatrice della speranza di salvezza (Michea, loc. cit.) e poiché d’altra parte in Israele non mancava la concezione del rapimento dei grandi eroi di dio nel cielo di Jahvè (Enoch, Elia), si pensava perfino al ritorno di Davide in persona. L’aspetto caratteristico dell’aspettativa israelitica è quindi la crescente intensità con cui sia il paradiso, sia il re-salvatore, il primo dal passato, il secondo dal presente, venivano proiettati nel futuro. Questo non avveniva solo in Israele. Ma mai questa aspettativa è diventata il punto centrale della religiosità con un tale impeto, che andava palesemente crescendo. Ciò era reso possibile dall’antico berith di Jahvè con Israele, dalla sua promessa in relazione alla critica del misero presente. Ma solo l’impeto della profezia fece di Israele, in questo modo unico nel suo genere, il popolo della «speranza» e dell’«attesa» (Gen., 49,18).
Infine la concezione secondo cui l’attesa catastrofe del futuro avrebbe portato felicità e sciagura, e più precisamente prima felicità e poi sciagura, trova riscontro, perlomeno in alcuni elementi, nella credenza egiziana. Si era soliti considerarla, senza prove sufficientik8 (finora), come uno schema fisso dell’aspettativa del futuro; la sua assunzione da parte dei profeti avrebbe costituito il tratto caratteristico della loro annunciazione. Di fatto tale schema domina perlomeno una parte considerevole della profezia pre-esilica, ma senza peraltro caratterizzare in maniera esauriente la sua specifica natura. Se questo «schema» in quanto tale fosse realmente esistito, la sua origine apparirebbe rintracciabile in certe caratteristiche cultuali delle divinità ctonie e di certe divinità astrali: la notte e l’inverno calano compietamente, prima che le divinità del sole e della vegetazione possano nuovamente spiegare la loro forza.
Resta incerto in che misura le rappresentazioni diffuse in tutto il mondo, e quindi anche nei paesi limitrofi ad Israele, sulla sofferenza che un dio od eroe patisce prima di giungere al potere, rappresentazioni che derivano dai miti cultuali delle divinità siderali e della vegetazione, fossero penetrate anche nella concezione popolare israelitica. La storia della giovinezza di Mosè mostra come in Israele erano nati, in particolare, quei miti dell’infanzia a cui tali rappresentazioni solevano collegarsi. La profezia preesilica ha lavorato su queste concezioni popolari introducendovi varianti a modo suo. I sacerdoti e gli intellettuali teologi in genere le hanno evitate, a quanto risulta, utilizzando invece le promesse più sobrie di benessere materia-
le, di una discendenza numerosa e onorata e di un grande nome che sarebbe stato usato come benedizione. Presumibilmente evitavano l’escatologia popolare in quanto collegata a culti stranieri astrali, ctoni o mortuari. Quando appare qualche promessa di una personalità del futuro, in questi casi non si tratta di un re ma di un profeta come Mosè (Deut., 18, 15 e 19). La speranza che Jahvè stesso in futuro avrebbe ripreso in mano il dominio, come lo teneva in passato prima dell’istituzione della monarchia — secondo la concezione della leggenda di Samuele che emerge per la prima volta in epoca profetica — appartiene senza dubbio sostanzialmente solo al periodo esilico quando (nel Deuteroisaia) il titolo di salvatore viene attribuito a Javhè.
22. L’etica preesilica nei suoi rapporti con l’etica delle culture vicine
Un discorso a parte va fatto sul modo in cui la profezia ha sfruttato queste aspettative per il futuro. Prima però è opportuno esaminare il ruolo avuto dalla rivale della profezia, la dottrina preesilica della Torah, nel plasmare il giudaismo. Non è stata infatti la profezia a creare il contenuto materiale dell’etica giudaica, per quanto importanti possano essere state le sue concezioni per dargli validità. Anzi la profezia presupponeva che proprio il contenuto dei comandamenti fosse noto, sicché dai soli profeti sarebbe impossibile dedurre sia pure in maniera approssimativa tutte le esigenze etiche di Jahvè nei riguardi dei singoli individui. Queste esigenze infatti erano formulate da tutt’altra parte, ossia nella Torah levitica. Da questa provenivano quei prodotti che oggi siamo soliti considerare come creazioni particolarmente importanti dell’etica israelitica: i «Decaloghi» (propriamente il Decalogo «etico»l8, Es., 20, 2 e seg.; De ut., 5, 6 e seg.; e i due Dodecaloghi in Es., 34, 14 e seg. e Deut., 27, 18 e seg.). Si è tentato ripetutamente di presentare tali raccolte come estremamente antiche, possibilmente di origine mosaica. Soprattutto con l’argomento che ciò che è «semplice» deve trovarsi agli inizi di una «evoluzione».
Già di per sé tale asserzione non è sempre valida in questo campo.
Il nostro Decalogo «etico» in particolare (Es., 20, 2-17; Deut., 5, 6-18) è senz’altro entrato in vigore piuttosto recentemente (per modo di dire) come norma collettiva vincolante; lo dimostra il divieto delle immagini scolpite, che non corrisponde all uso comune di tutti gli Israeliti nei tempi più antichi. Inoltre lo dimostra anche il fatto che parli della» casa» del vicino e delle testimonianze in giudizio, presupponendo quindi l’esistenza di case fìsse e di procedimenti giuridici con interrogatorio dei testimoni. E ancora vi è il terrore dell’abuso del nome di Jahvè che da nessun’altra parte si manifesta con tale intensità in epoca pre-esilica. E infine vi è la formulazione astratta del decimo comandamento «non desidererai…», anche se il significato etico-intenzionale del termine dev’essere subentrato solo più tardi al posto del significato originario, più concreto («manipolare fraudolentemente»). Oltre a ciò anche il divieto generale di «uccidere» è in contrasto con il diritto della vendetta del sangue. D’altra parte invece il Decalogo etico non contiene affatto tutte quelle prescrizioni che sono precisamente quelle fondamentali e caratteristiche dell’antico Israele: manca ogni menzione della circoncisione e non si parla dei divieti alimentari rituali. A prescindere dal forte accento posto sul sabato il Decalogo etico potrebbe quindi dare addirittura l’impressione di una formula di etica interconfessionale creata da intellettuali: ed infatti è servito ripetutamente anche al cristianesimo come mezzo di orientamento etico.
Tale non è il caso invece né per le formule di maledizione della cerimonia di Sichem (Deut., 27, 14-26) che si usano designare come «Decalogo sessuale» né per quell’unico elenco di comandamenti conservato nella redazione jahvista, vale a dire le prescrizioni che nel testo sono indicate come «parola del patto» (devar ha-berith), Es., 34, 14-26 (il cosiddetto «Decalogo cultuale»). Nel primo testo le prescrizioni di protezione sociale vengono estese, accanto alle vedove e agli orfani, ai gerìm, caratteristici per Israele. Nel secondo invece, accanto al precetto della monolatria (divieto di adorare un altro «E1») e alla proibizione delle statue di metallo fuso, viene ribadito con la massima energia il divieto di partecipare ai sacrifici dei Cananei e di concludere un qualsiasi patto con loro. A questo si aggiungono poi prescrizioni che riguardano il riposo sabbatico e le festività, i pellegrinaggi da compiersi tre volte l’anno ai santuari, il tributo dei primogeniti a Jahvè, prescrizioni che sono tutte formulate in termini abbastanza generici; e infine i tre precetti rituali alimentari, di cui uno sulla pasqua, molto speciali e indubbiamente molto antichi. è chiaro che questo «Decalogo cultuale», nella sua forma attuale, non può essere molto antico. In questa composizione figurano infatti sia le celebrazioni agricole che la pasqua; casi di berith con i Cananei sono esistiti perlomeno fino all’epoca di Salomone mentre d’altro canto il connubio con i medesimi (che del resto non è vietato in assoluto in questo Decalogom8) suscitava scrupoli più che altro presso gli allevatori di bestiame jahvisti, come mostra la leggenda della domanda di matrimonio di Isacco. Lo stesso vale per il cosiddetto «Decalogo sessuale» in quanto presuppone che l’installazione di statue scolpite o fuse, abominio per Jahvè, abbia luogo ormai solo «in segreto», mentre sappiamo che non era così, nemmeno a Giuda, fino all’ultimo periodo della monarchia.
Il carattere senza dubbio relativamente recente del contenuto attuale non escluderebbe peraltro l’esistenza di più antiche raccolte di comandamenti del tipo dei Decaloghi in Israele. Ma le differenze stesse tra i Decaloghi attuali, che in comune hanno proprio quello che senza dubbio è il precetto più recente (divieto delle immagini), rendono problematica la determinazione della forma originaria. A ciò si aggiunge inoltre la considerazione che comunque questo tipo di prodotto a carattere catechistico-parenetico, come il Decalogo in Es., 20, non si trova mai — in base anche a prodotti analoghi riscontrati in India — agli inizi di uno sviluppo, ma è il frutto relativamente tardo di intenzioni pedagogiche. Inoltre nella letteratura pre-esilica, soprattutto in quella profetica, non troviamo nessun accenno che testimoni con certezza di una dignità o di un’importanza specifiche attribuite ai Decaloghi; non risulta nemmeno che esistesse il presupposto della loro conoscenza generale da parte di tutti gli individuin8. Sembra possibile che il Decalogo «etico» gia conosciuto ai tempi di Osea in Israele del Nord; ma non e assolutamente certo. Del tutto infondata comunque ela presunta posizione speciale attribuita ai tre Decaloghi, da cuidiscendono tutte queste ipotesi. Per il Decalogo «cultuale» eper quello «sessuale» tutto cio appare perfettamente evidente. Un esame rivela che la composizione dei comandamenti sessua «eti-co»li in Lev., 18, la raccolta di regole cultuali, etiche, rituali e caritative di Lev., 19, che è la raccolta più completa di tutte, comprendente anche i comandamenti del nostro «Decalogo etico», e infine anche Lev., 20 che contiene precetti rituali ed etico-sessuali sono praticamente identici al Decalogo «cultuale» e a quello «sessuale». Perlomeno Lev., 19 risale ad una raccolta che, stando al suo contenuto originario, benché rielaborato, non dev’essere comunque più recente di uno qualunque dei Decaloghi. Ma il problema dell’età è connesso ad un altro: quello della probabile origine di queste raccolte.
Eminenti studiosi hanno creduto di potervi ravvisare antichi elementi di «liturgie» cultuali. Le analogie però contrastano decisamente con questa ipotesi. Sono stati conservati cataloghi di peccati di origine egiziana e babilonese, che più volte sono già stati raffrontati con quelli israelitici. Donde provengono questi cataloghi? Non dal culto, ma bensì dalla «cura delle anime» dei maghi e dei sacerdoti. L’individuo perseguitato dalla malattia o dalla sfortuna, che cerca consiglio presso il sacerdote su come placare l’ira del dio, viene da questo interrogato sui peccati che può aver commesso. A questo fine i sacerdoti senza dubbio avevano elaborato già molto presto degli schemi fissi. Per Babilonia un catalogo di peccati che è stato conservato rappresenta direttamente uno schema di questo tipo e la medesima origine, senza dubbio, è quella del catalogo dei peccati nel Libro dei Morti egiziano che indica i peccati sui quali i 42 giudici dei morti nell’ade interrogheranno i defunti.
Abbiamo visto come la Torah dei Leviti avesse proprio questo stesso orientamento. La legge sacerdotale prescrive esplicitamente (Num., 12, 6) la confessione dei peccati e in certi casi la restituzione dei beni acquisiti ingiustamente alla persona danneggiata con un supplemento del 20%, sicuramente in base ad un’antica usanza. Le prescrizioni tramandate sul sacrificio espiatorio levitico mostrano anche in quale occasione avveniva questa «confessione» del sacrificante: nel corso di un sacrificio privato, non di un atto del culto. Con il crescere delle minacce esterne e quindi il peso maggiore del generale senso di colpa, crebbe l’importanza di questa particolare attività dei Leviti. Secondo il Deuteronomio (26, 13 e seg.) ogni terzo anno l’israelita, nel corso del sacrificio della decima ai Leviti, ai gerìm, alle vedove e agli orfani, doveva dichiarare di aver eseguito correttamente questa offerta, di non aver violato nessuno dei comandamenti di Jahvè, e in particolare di non aver mangiato parte dell’offerta in stato di impurità o durante il lutto, e di non aver offerto sacrifici a un morto. Questa dichiarazione è identica nella forma alla dichiarazione egiziana di liberazione dai peccati. Basta però rovesciare un catalogo di peccati, destinato ad un uso inquisitorio, in una serie di prescrizioni positive, e si ottiene una lista di comandamenti come quelle costituite, in particolare, dai Decaloghi. Questa dunque è la loro origine come quella di tutte le raccolte analoghe. Non derivano dal culto comune, la cui partecipazione era preclusa precisamente all’individuo colpito da disgrazie, in quanto perseguitato dall’ira di un dio; derivano invece dalla pratica della confessione dei Leviti nei confronti di coloro «che penano e sono oppressi». Era di questa «clientela» che il Levita, nella pratica, doveva occuparsi continuamente; da qui la predilezione della Torah, per questi strati oppressi e l’ira contro i «superbi» che non si mostrano inclini ad «umiliarsi» davanti a Dio, cioè davanti al Levita (e a remunerarlo per la riconciliazione con Jahvè).
Senza dubbio anche la comunità; era interessata, in maniera indiretta, alla confessione dei peccati. Per il semplice fatto che era responsabile in solido. La «comparsa davanti a Jahvè» che il Decalogo cultuale imponeva a tutti gli Israeliti aveva forse lo scopo di rendere possibile un’indagine preventiva sugli eventuali peccati di coloro che dovevano comparire affinché sia loro che la comunità fossero preservati dall’ira di Jahvè. In ogni caso però era destinata ad assicurare la posizione di potere dei sacerdoti. La cerimonia di Sichem malediva in nome della comunità coloro che portavano la macchia di un peccato (non espiato con l’intervento del Levita!) affinché la comunità non patisse sotto l’ira di Jahvè; questo fine, e la stessa maledizione dei peccati, presumibilmente sono stati introdotti solo in un secondo tempo dai maestri leviti della Torah in quello che in origine era un rito senza dubbio destinato alla semplice maledizione dei dèmoni. Lo stesso scopo — mantenere la comunitàlibera da peccati onde tener lontana l’ira del dio — era attribuito dai sacerdoti leviti anche al compito dell’insegnamento della Torah al popolo, che essi rivendicavano come loro diritto e dovere. La prescrizione deuteronomica di dare pubblica lettura della Torah ogni sette anni è altrettanto recente quanto l’istituzione dell’«anno del giubileo» a cui è collegata (Deut., 31, 10-12); lo mostra anche il fatto che l’obbligo di assistervi fosse esteso ai gerìm. L’interesse della comunitàalla confessione e alla catalogazione dei peccati cresceva con il moltiplicarsi dei segni dell’ira di Jahvè.
Nella versione attuale le divergenze tra le raccolte e anche la curiosa giustapposizione del «sacrificio per la colpa» e del «sacrificio espiatorio» (chattat e ashanì) che sostanzialmente servono allo stesso scopo si spiegano con il fatto che non esisteva un’organizzazione unitaria ma vi erano l’una accanto all’altra numerose sedi ufficiali ben note di Leviti e fino al sopravvento di Gerusalemme anche numerosi luoghi di sacrificio levitici (una di queste antiche sedi della saggezza levitica, a cui ciascuno portava i suoi quesiti, viene menzionata in II Sam., 20, 18).
In ogni caso i tre cosiddetti Decaloghi non vanno considerati diversamente dalle altre raccolte analoghe. Il fatto che da noi anche l’esame scientifico gli abbia accordato una posizione particolare è dovuto, oltre che alla leggenda recente dell’«Arca dell’Alleanza» come luogo di custodia di due tavole di pietra contenenti i comandamenti, anche alla speranza di poter afferrare quali comandamenti sostanziali potevano farsi risalire a Mosè. Ma questa speranza è del tutto vana. La ricezione di Jahvè come dio della lega e quella dell’oracolo levitico sono le due realizzazioni che si possono fondatamente far risalire a Mosè. Non è poco: dal carattere particolare del dio della lega e dei Leviti discese più tardi — sotto l’influenza parziale di determinate concatenazioni storiche — tutto il resto. Ma la posizione speciale attribuita ai Decaloghi con questa speranza va abbandonata. Se il berith mosaico, oltre agli impegni puramente rituali derivanti direttamente dalla ricezione di Jahvè avesse contenuto anche dei comandamenti sostanziali questi sicuramente sarebbero stati semplicemente tali da servire al mantenimento della pace in seno alla milizia: norme sulla vendetta del sangue versato e forse anche alcune disposizioni protettive a carattere «socio-politico» riguardanti le schiatte atte alle armi impoverite.
Per quanto riguarda invece l’etica sostanziale, le fonti mostrano che nell’antico Israele, come ovunque, in un primo tempo il «costume» costituiva il metro ultimo della «morale». Da nessuna parte si trova un riferimento a «comandamenti». Era nevelah, «malvagio», ciò che era «inaudito» in Israele. Solo la Tor ah levitica cominciò a formulare e catalogare singoli comandamenti ai fini della confessione dei peccati. è vero che sotto l’influenza di questa dottrina il Decalogo «etico» assume una posizione speciale che altre raccolte analoghe praticamente non hanno mai raggiunto da nessuna parte. Ma non perché sia «mosaico»: lo è meno di tutti. Bensì perché rappresenta probabilmente il tentativo di offrire un sommario «ammaestramento per la gioventù» destinato agli adolescenti — era prescritto che venissero istruiti sulla volontà; Dio (Es., 13, 8 e 14 et al.) — nello stesso modo in cui i Decaloghi indiani servivano all’istruzione del laico (oltre che del novizio). Il Decalogo «etico» deve la sua posizione alla forza, alla plasticità alla precisione della sua formulazione, non alla sublimazione o all’elevatezza dei suoi imperativi etici (che di fatto sono alquanto modesti). Le sue caratteristiche più importanti, in particolare la sua emancipazione dalle prescrizioni rituali da un lato, da quelle socio-politiche dall’altro, le deve però senza dubbio al pubblico al quale si rivolge: non sono le autoritàlitiche, né i membri dello strato colto che vuole istruire, bensì le nuove leve del vasto ceto medio borghese e contadino, il «popolo». Perciò contiene solo ciò che tutte le classi d’età; debbono osservare nella vita quotidiana, niente di più. Anche da noi i «dieci comandamenti» servono essenzialmente al fine dell’istruzione elementare della gioventù e soprattutto del «popolo». Ben lungi quindi dall’avere per fonti il culto comunitario e se possibile il culto del tempio, i numerosi devarìm e le raccolte della Torali, ivi compresi i Decaloghi, derivano dalla cura delle anime levitica e dall’esercizio dell’insegnamento. Connesso a quest’ultimo troviamo, durante l’esilio babilonese, la «casa di istruzione», vale a dire il precursore storico della posteriore sinagoga, che in origine non aveva assolutamente nulla a che vedere con il «culto».
Come i brahmani che in origine si dedicavano alla cura rituale e magica delle anime per i singoli individui, così anche i maestri della Torah levitici sono saliti alla loro posizione di potere e di importanza storico-culturale partendo non da funzioni del culto comunitario ma proprio dalla cura delle anime, etica e rituale, soprattutto dei singoli individui (ivi compresi i principi). La loro partecipazione al culto forse era del tutto secondaria, comunque non era la cosa principale. Proprio la mancanza di un culto centralizzato e di un organo ufficiale per il culto comune nell’antica lega di Jahvè conferiva un gran peso tanto agli antichi profeti e veggenti quanto ai Leviti. I veri e propri sacerdoti addetti al culto, anche all’epoca della monarchia, dovevano fare i conti con questo peso in quanto vasti circoli di laici che erano in possesso della tradizione giuridica mantenevano un forte appoggio ai Leviti. Varie schiatte aristocratiche i cui membri erano al servizio della monarchia tendevano ad una considerazione razionale del diritto alla maniera della parenesi levitica ed erano quindi in contrasto con le schiatte dei vecchi zekeriim. Le stesse però apparentemente condividevano l’opposizione interna contro le velleità; sultanesche dei re sia con i circoli levitici-jahvisti che con i zekeriim,. La profetessa Hulda era la moglie di uno di questi funzionari. La stessa provenienza appare abbastanza chiaramente in una raccolta deuteronomica per la quale gli shofetìm — evidentemente dei giudici laici diversi dagli zekeriim — sono insieme ai Leviti gli esponenti dell’attività; diziaria, mentre l’antica tradizione tratta gli zehenim come gli autentici rappresentanti del popolo.
In origine i Leviti ottennero la loro posizione di potere prima come esperti dell’oracolo divinatorio, poi come curatori di anime e quindi maestri razionali della Torah. Con il crescere della loro importanza e della considerazione accordata alle loro opinioni dai laici con interessi jahvisti era difficile che fosse mantenuta una rigorosa separazione tra jus e fas. L’antica importanza, mai dimenticata, dei devarìm Jahvè per tutte le decisioni importanti favorì anche la loro influenza sulle opinioni giuridiche. La teologizzazione del diritto da un lato, la razionalizzazione dell’etica religiosa dell’altro, erano la conseguenza di questa collaborazione tra pii laici jahvisti e sacerdoti dediti alla riflessione etica. Il prodotto più importante di questa collaborazione, nato sotto l’influsso dominante dei sacerdoti di Gerusalemme dopo il crollo del Regno del Nord, è stato il Deuteronomio. Lo abbiamo già; inontrato; i. come stesura dei mishpatīm’, i. come compendio delle rivendicazioni jahviste volte alla limitazione del potere monarchico, contro lo stato salomonico fondato sulla corvée e la «politica mondiale»; 3. come compendio delle rivendicazioni di monopolio cultuale dei sacerdoti di Gerusalemme. A queste rivendicazioni del monopolio cultuale si aggiunse poi 4. la rivendicazione del monopolio della Torah. L’israelita dovrà; e secondo quanto viene insegnato nel santuario designato da Jahvè, a Gerusalemme (Deut., 17, 10).
I sacerdoti addetti al culto in quanto tali non sogliono essere in genere i portatori di una dottrina etica razionale; di regola hanno un orientamento puramente ritualistico. Era così anche all’epoca del secondo tempio. A quel tempo c’era il grande «Bed Din98 nella camera di pietra» del tempio di Gerusalemme. Le brillanti ricerche di Biichler ne hanno svelato la posizione e l’importanza. Questa era l’autorità; cipale per decidere in materia di questioni rituali e nello stesso tempo erano di sua competenza i pareri su questioni di fas sollevate dai tribunali laici. Dalla tradizione non risulta l’esistenza di un’autorità; aria di questo tipo, formalmente organizzata e riconosciuta, nella Gerusalemme pre-esilica. Ma il clero urbano più colto del paese tramite questa disposizione continuava a rivendicare per sé l’interpretazione autorevole della volontà; dhvè nei confronti dei giudici, dei maestri della Torah e dei privati.
Il Deuteronomio voleva essere un compendio della dottrina levitica, l’autorevole sefer ha-Torah. Più avanti ci occuperemo del suo rapporto con la predicazione dei profeti. Qui ci interessa la sua sostanza di parenesi levitica e razionalizzazione teologica dell’etica. Solo gli esperti orientalisti potranno decidere definitivamente se il compendio adottato sotto Giosia in origine era costituito soltanto — come pensa Puukko in contrasto con Wellhausen99 — da queste parti parenetiche e dalle disposizioni concernenti la concentrazione del culto (e senza dubbio anche della Torah) e le condizioni a ciò connesse e se le altre parti, cioè non quelle immediatamente profetiche, che in parte sono sicuramente esiliche o postesiliche, ma anche i mishpatīm e il diritto monarchico, in tal caso siano state fuse con esso solo più tardi. La questione comunque può restare aperta. Poiché in ogni caso anche così tanto il diritto monarchico quanto l’elaborazione dei mishpatīm derivano dallo stesso circolo di teologi o da uno affine e seguono la stessa tendenza. Le parti parenetiche vere e proprie del Deuteronomio sono opera di un singolo, evidentemente un maestro della Torah del circolo dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme. Ma le modalità; de«scoperta» e le persone ivi menzionate autorizzano a concludere che l’insieme è stato un atto ben preparato in anticipo da un partito già; scato su una posizione conforme al suo contenuto.
«Ascolta Israele, Jahvè è il nostro dio, Jahvè solo»: la prima frase dell’odierna preghiera ebraica del mattino sta a capo della parenesi. è un dio geloso (Deut., 6, 15), ma è fedele (7, 9), ha giurato alleanza con Israele (7, 12) da lui prescelto (7, 6) e lo mantiene per migliaia di generazioni; ama il suo popolo (7, 13) e se gli ha fatto patire fatiche e tormenti lo ha fatto per mettere alla prova l’autenticità; deoi sentimenti (8, 2-3). Subordina infatti il suo amore e la sua grazia all’osservanza dei suoi comandamenti (7, 12); se questa non ha luogo punirà; ilcatore, in persona, senza dilazioni (su altre generazioni) (7, 10). Odia però soprattutto l’orgoglio e la fiducia in se stessi (8, 14), in particolare la fiducia nelle proprie forze (8, 17), che possono subentrare facilmente quando Israele sia diventato ricco (8, 12-13). E anche la fiducia nella propria giustizia (9, 4); poiché non ha scelto e favorito Israele a causa delle sue virtù. Non ne ha affatto, essendo il più piccolo dei popoli (Deut., 7, 7-8): un rifiuto estremamente energico di ogni orgoglio nazionale ed eroismo guerriero. è stato scelto per via dei vizi degli altri popoli (9, 5-6), con che si allude senza dubbio soprattutto all’orgiasmo sessuale (23, 18) e altri «costumi locali» di Canaan (12, 30). Non bisogna vivere secondo tali costumi del paese, nella convinzione che ciò sia dovuto alle divinità; loc ma solo secondo i comandamenti di Jahvè.
Ogni magia o divinazione di sorta (18, 10-11), ogni sacrifìcio umano (18, io), ma anche ogni alleanza (7, 2) e connubio (7, 3) con i Cananei sono proibiti per via del pericolo di apostasia: tutti i nemici sono votati una volta per tutte al cheretn. Chiunque istighi all’apostasia verso Jahvè, sia esso un profeta (13, 6) o il proprio figlio o fratello, lo si dovrà; lape con le proprie mani (13, 7).
Per quanto riguarda i rapporti degli uomini pii con Jahvè, essi dovranno temerlo, venerarlo, giurare solo in suo nome (6, 13) ma soprattutto amarlo (7, 9) e aver fede incondizionata nelle sue promesse: Jahvè ha il potere di mantenere i suoi impegni verso Israele anche di fronte a popoli molto più forti (7, 17-18) e il miracolo della manna nel deserto ha mostrato che l’uomo non vive solo di pane ma soprattutto di ciò che Jahvè ha creato (8, 3). La potenza di Dio assume proporzioni gigantesche, monoteistiche; lui solo è il dio del cielo e della terra, nessun altro (4, 39); il cielo, la terra e tutto gli appartiene (10, 14), lui solo è il vero Dio e non ce n’è altro all’infuori di lui (4, 35): così sta scritto in brani che forse sono stati aggiunti solo durante l’esilio. Ma egli si servirà; di ta sua potenza miracolosa per Israele solo se Israele gli ubbidisce e osserva i suoi comandamenti. Allora vi sarà; benre materiale di ogni sorta, i nemici, se vengono, saranno abbattuti da Jahvè che manderà; la gia al paese e farà; di ele il creditore degli altri popoli, cioè un popolo patrizio; in caso contrario avverrà; pro l’opposto di tutto ciò. Si possono considerare originali questi elementi nell’insieme di promesse e maledizioni (cap. 28) che più tardi, durante l’esilio, sono state abbondantemente ampliate.
Si è molto discusso, perlopiù in maniera sterile, in quanto apologetico-confessionale, se per Israele il «timore» sia stato, in contrasto con le altre religioni, il motivo determinante dell’agire eticoo8. Ora ogni osservazione realistica insegna che questa motivazione (accanto a quella qualitativamente analoga della speranza di ricompensa in questo mondo o nell’altro) ha avuto un ruolo dominante in tutto il mondo, per quanto riguarda le religioni di massa, al contrario delle religioni di virtuosi. Come i maestri leviti della Torah con il procedimento espiatorio dei peccati, così anche la Chiesa occidentale ha dato avvio alla domesticazione delle masse con i regolamenti penitenziali e non con la predicazione dell’amore. La predicazione dell’amore di Dio e del prossimo nella Chiesa cristiana ha un suo preciso equivalente, altrettanto sincero, in certi insegnamenti israelitici (soprattutto rabbinici). Solo un’asserzione è pertinente: il carattere ritualistico di una religiosità; detna naturalmente, e con maggiore intensità; quapiù è un tratto dominante, il timore di infrazioni puramente formali, irrilevanti, secondo la moderna concezione, dal punto di vista dell’etica dell’intenzione; e tale apprensione colora il rapporto religioso. è giusto dire inoltre che lo sviluppo dell’etica pre-esilica è avvenuto in buona parte sotto il peso della paura, si sarebbe quasi tentati di dire della «psicosi della guerra», di fronte alle terribili guerre di rapina dei grandi imperi conquistatorip8. Di questo parleremo più avanti. Il convincimento che solo un miracolo divino, e non la forza umana, potesse portare la salvezza rappresentava lo stato d’animo fondamentale dei circoli deuteronomici.
Le regole di guerra utopistiche del Deuteronomio ed il suo diritto monarchico si accordano nel migliore dei modi con questi princìpi fondamentali. Anche in Egitto nel poema di Pentaur100 si dice che la vittoria è solo opera di Ammone, non di un milione di soldati. Ma non si agiva conformemente a questo principio. Anche il potere sacerdotale in Egitto corrispondeva alle rivendicazioni dei sacerdoti di Gerusalemme. Ma in Israele questi tratti dovevano avere un effetto molto più penetrante. Riposavano tutti sul prestigio di Jahvè che solo, senza l’aiuto di Israele, può volgere tutto per il meglio e lo fa, purché si abbia fiducia in lui. Questo prestigio di Jahvè ricorda la fede in Ammone ma va molto più lontano. A Gerusalemme tale prestigio nasceva evidentemente dalla salvezza dall’assedio di Sennacherib sotto Ezechia, avvenuto contro ogni probabilità e comemente alla promessa di Isaia.
Le promesse di salvezza e minacce di sventura derivavano in parte dagli schemi elaborati dalla profezia di salvezza e sventura. Ma solo in parte: la promessa che riguarda il prestito di denaro è di tipo specificamente gerusalemmitico-borghese. La rigorosa monolatria era una esigenza jahvista già; antid il correlativo, rivolto all’interno, del monopolio dei sacerdoti di Gerusalemme rispetto all’esterno. La chiusura confessionale verso l’esterno, a carattere già; abbaza rigoroso, corrispondeva in parte agli interessi dei sacerdoti, in parte alla devozione di uno strato di intellettuali urbano-borghese, ma posto sotto la direzione ierocratica dei maestri della Torah. Alla chiusura verso gli «stranieri» (nokhrì) corrispondeva all’interno l’equiparazione religiosa ed etico-sociale dei gerìm devoti e ritualmente corretti agli Israeliti. è questo un prodotto della smilitarizzazione dei plebei; alla stessa epoca Geremia indicava agli Israeliti i Recabiti come esponenti esemplari della benevolenza divina.
Non è (plebea» soltanto la totale estraneità a tui reali bisogni politico-militari e ad ogni sentimento eroico, ma anche la maniera globale del rapporto con Dio impostato sull’etica dell ’intenzione: umiltà;, obbnza, abbandono fiducioso, da cui il divieto di «tentare Dio», cioè di esigere da lui miracoli come prova del suo potere (Deut., 6, 16, si richiama all’accaduto di Massa, cfr. Es., 17, 2 e 7). Soprattutto tale rapporto è caratterizzato da un «amore» di tipo pietistico che in precedenza compare solo con Osea come disposizione fondamentale (o perlomeno può essere datato con certezza solo con lui, per il periodo precedente). L’atteggiamento generale è caratterizzato da una disposizione devota e da una sublimazione dell’abbandono interiore a Dio che è conforme all’etica dell’intenzione e pur essendo talora, nella parenesi, carica di pathos, è tuttavia sprovvista di ogni passione radicale o invasamento divino. Questo compendio, come risulta già; da qo detto, risente nei suoi presupposti utopistici fondamentali dell ’influsso decisivo dei grandi profeti ma non è affatto opera loro, come vedremo facilmente più avanti, esaminando quest’ultima. Gli esperti pensano invece — ed è probabile in sé — che il redattore del Deuteronomio abbia conosciuto le raccolte j ah vista ed elohista e ne abbia fatto uso di tanto in tanto, specialmente della seconda.
La conclusione dell’opera deuteronomica deve situarsi cronologicamente vicino al momento della fusione (cosiddetta «geovista», secondo Wellhausen) tra versione jahvista e versione elohista delle antiche leggende dei Patriarchi e della tradizione levitica di Mosè. Si trovano in queste versioni — più tardi alterate da numerose integrazioni, interpolazioni e talvolta rielaborazioni sacerdotali — numerosi inserti che ricordano direttamente la religiosità; del Dronomio. Soprattutto il «geovista» ha in parte reinserito, in parte integrato, le grandi pro messe fatte agli avi. In comune con il Deuteronomio ha il disdegno per la monarchia. La salvezza non viene promessa al re ma al popolo pio; è indirizzata ai suoi leggendari capostipiti, insieme alle antiche benedizioni attribuite a Balaam in epoca anteriore al regno salomonico fondato sul lavoro servile. Luogo di provenienza di ambedue i lavori sono probabilmente circoli di laici devoti con interessi teologici e di Leviti, solo che nel Deuteronomio la partecipazione immediata dei sacerdoti è stata più forte: qui si tratta infatti di un’opera parenetica, determinata da interessi sacerdotali pur essendo fondata sulla Torah dei Leviti.
Dal punto di vista religioso la parenesi del Deuteronomio è caratterizzata dall’accento posto sul concetto di retribuzione e dalla fede nella provvidenza, dalla raffigurazione edificante, tenera, caritativa, spesso compassionevole del rapporto di Dio con gli uomini e viceversa, e dal carattere prettamente plebeo di tutta l’umile devozione che ne risulta. Sono tratti che caratterizzano in misura rilevante anche la devozione popolare egiziana del «Nuovo Regno» e si riallacciano persino a fonti dell’Antico Regno. Già; qui, ndo l’Insegnamento di Ptahhotep, Dio ama soprattutto l’obbedienza. Le lapidi commemorative degli artigiani dell’epoca dei Ramessidi aggiungono che egli è «incorruttibile», che mostra il suo potere agli umili come ai potenti, che però Ammone ascolta soprattutto il povero quando grida verso di lui, che viene anche da lontano — come Jahvè per portare aiuto, con la «dolce brezza» del vento del nord che laggiù viene vista alla stregua del «quieto dolce mormorio» del vento d’ovest in Palestina, che bisogna sperare in lui ed amarlo, che non lascerà; durar sua collera per il corso intero della giornata. L’uomo, come nella Torah israelitica, non è corrotto per sempre dal peccato originale, ma è stolto di natura, non conosce «il bene e il male». Preghiere e voti — gli stessi mezzi che in Israele — dispongono Dio favorevolmente. Più importante di tutto però è agire rettamente. Infatti il concetto di retribuzione aveva conosciuto palesemente un forte incremento nella devozione del Nuovo Regno e anche qui naturalmente la malattia rappresenta la forma usuale di punizione divina.
Si vede come questa devozione strettamente personale è uguale sostanzialmente a quella diffusa in tutto il mondo presso le classi plebee. In India ha portato alla religiosità; del Store. In Egitto è dall’intercessione e dalla mediazione del faraone che si aspetta la salvezza, ma sostanzialmente la salvezza politica oppure la pioggia, cioè quei beni di salvezza per i quali la compagine politica si dà; pensiovunque. è vero che anche le condizioni private del singolo erano considerate come dipendenti dal carisma del faraone. Ma la burocrazia stava tra lui e le masse. E la religiosità; perso dei faraoni era la tipica morale del do ut des: non aveva alcun rapporto con la devozione plebea. E immediatamente accanto ad essa c’era la rozza magia dei sacerdoti a cui si rivolgevano i bisognosi d’aiuto. A tener lontano i sacerdoti egiziani dall’istruzione etica delle masse c’era non solo il loro orgoglio per la loro teologia esoterica, ma anche i loro interessi materiali che li rimandavano all’occupazione molto più redditizia del commercio dei rotoli del Libro dei Morti e degli scarabei. è vero quindi che esisteva in Egitto una devozione plebea di stampo identico a quella di Israele preesilico e considerati i rapporti continui e diretti non sono affatto improbabili — seppure, naturalmente, non strettamente dimostrabili — delle influenze egiziane in Israele. Ma non sono mai diventate oggetto di una razionalizzazione sistematica di tipo profetico o sacerdotale.
A Babilonia le cose stavano nello stesso modo. Gli antichi salmi di penitenza del periodo urbano-borghese della Mesopotamia, noti attraverso la biblioteca di Assurbanipal ed altre fonti, sono molto vicini per contenuto e disposizione alla devozione saimistica israelitica, tanto che talvolta s’impone l’ipotesi di un’influenza diretta. La devozione di Nabucodonosor e dei primi re persiani era anch’essa vicina a quella israelitica e ciò era noto anche ai profeti loro contemporanei che non senza motivo li designano come «servi» di Dio. Ma anche qui manca la razionalizzazione sistematica in un’etica quotidiana delle masse. è vero che, a prescindere dalla dottrina razionale della Torah, una profezia generica non mancava; ma mancava il tipo specificamente israelitico di profezia. L’assenza di quest’ultimo e il fatto che sia esistito solo in Israele è dovuto a circostanze strettamente politiche.
Trovandosi così i maestri della Torah al centro dello sviluppo dell’etica religiosa non ci resta che da esaminare brevemente quali erano le loro esigenze etiche concrete e vedere quindi se hanno mutuato dall’esterno il contenuto della loro dottrina etica e qual è il suo rapporto generale con l’etica politica di altre zone di cultura.
Per apprezzare l’originalità di coto dell’antica etica israelitica, come si esprime nei Decaloghi (ma naturalmente anche, in parte persino con maggiore chiarezza, negli altri devarim etici), il paragone con la lista dei peccati del 125° capitolo del Libro dei Morti egizianoq8 appare il procedimento più fruttuoso. Nell’insieme esso ci interessa di più dei numerosi paralleli con i registri di peccati babilonesir8; questi, malgrado la loro varietà, nell019;insieme non rivelano molto sul piano puramente etico e comunque non vanno mai al di là di ci42; che è ovvio dappertutto. Il Libro dei Morti egiziano era già elabo prima della nascita della lega israelitica e rispecchiava senza dubbio le esigenze dei sacerdoti come venivano presentate anche in occasione dell’interrogazione sui peccati fatta alla clientela. Nei dettagli la differenza di esigenze rispetto al Decalogo etico è talvolta considerevole; ma si trovano d’altro canto anche delle notevoli analogie.
Al divieto del Decalogo di «usare invano» il nome di Dio corrisponde nel Libro dei Morti l’assicurazione di non aver mai (scongiurato» un dio, cioè esercitato su di lui una coercizione con mezzi magici (B 30). Rispetto al «non avere altri dèi» (in origine «non offrire sacrifici ad altri dèi») l’imperativo egiziano suona così: non disprezzare dio nel cuore (B 34), che è volto più intensamente verso un’etica dell’intenzione per via dell’orientamento più panteistico della devozione egiziana. L’esigenza deuteronomica di amare Dio non è presente esplicitamente in questa forma generica nel catalogo egiziano. Al contrario che Dio amasse l’obbedienza lo sapeva già Ptahh (Pap. Prisse); qui tra l’altro l’obbedienza e il «silenzio» hanno un preciso orientamento politico. L’esigenza egiziana di lealtà da padei sudditi (B 22, 27 e cap. 17, I 3, 48, cap. 140) manca completamente nel Decalogo etico e anche fuori di esso si riduce al comandamento di «non maledire il principe del proprio popolo» (Es., 22, 27; cfr. II Sam., 16, 9 e Is., 8, 21)s8. La pietas filiale del Decalogo come pure il dovere dell’obbedienza verso i genitori che il Deuteronomio impone sotto la minaccia della lapidazione (Deut., 22, 6-7) si riferiscono senza dubbio al rispetto per i genitori anziani, soprattutto quelli che vivono del vitalizio per anziani. Lo stesso vale per le numerose sanzioni della letteratura giuridica babilonese contro i figli privi di rispetto e di riverenza. Della pietas filiale si occupaancora il Siracide. Rispetto a questo comandamento della pietas filiale presente nel Decalogo e nel Deuteronomio e alle gravi minacce di punizioni che ricorrono frequentemente nei documenti babilonesi contro il figlio che si esprime in modo irriverente nei confronti del padre e della madre, nel Libro dei Morti vi è solo (B 27) la dichiarazione di non aver commesso cattive azioni nei confronti del padre. Per il resto è vero che l’etica dei sacerdoti e degli scrivani egiziani inculcava incessantemente la venerazione per l’età, per l019;insegnamento dei genitori e per la tradizione, proprio come in Israele veniva ordinato di «alzarsi davanti alla canizie» (Lev., 19, 32). Al divieto di omicidio nel Decalogo corrisponde nel Libro dei Morti l’assicurazione di non aver ucciso né istigato all’omicidio (I 7, A 18). Al divieto di opprimere i poveri e i gerim (Es., 23, 9) corrisponde nel catalogo egiziano il divieto di ogni atto di violenza (A 14) e l’istigazione al male (A 20). Numerose iscrizioni tombali di monarchi e funzionari egiziani elogiano questi morti per non avere oppresso i poveri. Il divieto, nel Decalogo, dell’adulterio, la proibizione rigorosa dell’incesto anche sotto forma di un mero sguardo concupiscente ad un parente e i divieti dell’onanismo trovano un’analogia nel divieto di ogni sorta di impudicizia (adulterio, prostituzione, onanismo, A 25.26, B 15.16). Il divieto di rubare e il decimo comandamento del Decalogo etico sono espressi nel Libro dei Morti nel divieto di rubare (A 17) o di appropriarsi in qualsiasi maniera dei beni altrui (A 23). Il divieto di falsa testimonianza viene superato dal divieto di ogni sorta di menzogna (I 7, A 22) e di slealtà (A30). La deviazione di un canale (I 10) trova il suo parallelo nella maledizione israelitica contro lo spostamento dei confini, il divieto di pesi falsi appartiene anche alla parenesi levitica. La confessione egiziana, che precede tutte le altre, di non aver fatto lla di male al prossimo (I 4), e l’assicurazione, che va molto più in là, di à non aver causato angustia a nessuno» (A 10) e di «non aver fatto piangere nessuno» (A 24), di non aver «spaventato» nessuno (B 18), ha il suo parallelo, in Israele, nella prescrizione generica più formale, di non fare torto al prossimo (Lev., 19, 13). Quest’ultima è inferiore ai precetti egiziani per livello di sublimazione caritativa. è noto che in Israele il comandamento generico dell’«amore per il prossimo» si identifica con il divieto di covare la vendettacontro un compatriota, che si trova anche nel Libro dei Morti (A if).
Mancano invece nel catalogo egiziano le prescrizioni positive quali la cura per il bestiame smarrito dal vicino (Deut., 22, 1-4) — in un passo si elogia solo l’indicazione della via giusta all’uomo smarrito — e soprattutto manca completamente il comandamento (Es., 23, 4-5) di riportare l’animale smarrito dal «nemico». Nel noto «trattenimento del gatto con lo sciacal lo» viene piuttosto criticato il ripagare il male con il bene. D’altra parte, com’è ovvio, nel Decalogo come nell’antica etica israelitica mancano totalmente le regole che derivano dalle concezioni di decoro degli scrivani egiziani, che in parte rientrano nel campo del buon gusto, in parte però anche in quello di un’etica molto sublimata. Tra queste vi è per esempio il divieto, proprio all’etica degli scrivani egiziani (Ptahhotep), di umiliare l’avversario nelle dispute con la propria superiorità;, nonch i divieti, presenti anche nel Libro dei Morti, delle intemperanze verbali in genere, dell’esagerazione, di eccitarsi e diventare violenti, di dare giudizi precipitosi, di vantarsi, di rimanere sordi alla verità (B.29, A 34.33, B 18.23t8 21.19). Tali regole sono apparse soltanto nel giudaismo post-esilico, quando gli esponenti della dottrina giudaica erano essi stessi diventati soferìm e più tardi dotti rabbini.
Sul piano dell’etica economica vera e propria la morale egiziana si distingueva per l’alto valore attribuito alla fedeltà; professie al proprio dovere e alla puntualità; nel lavoQuesta era la conseguenza naturale di un’economia che era per metà; un sociao di stato e riposava su un lavoro organizzato per liturgie e controllato dalla burocrazia. Tratti analoghi, anche se molto meno chiari, si trovano anche a Babilonia dove a quanto pare vigeva l’uso, in un certo periodo, di far imparare ai principi anche i lavori manuali di costruzione. Si rivela qui l’importanza fondamentale delle costruzioni regie. In Egitto un forte orgoglio professionale tra gli artisti artigiani (in particolare gli scalpellini) si manifesta già; nel peridell’Antico Regno, così come pure in Israele gli artisti artigiani dei paramenti mosaici del tempio, erano dotati dello spirito di Jahvè. La grande instabilità; della rizza egiziana, l’ascesa molto frequente (specialmente nel Nuovo Regno) di plebei nella burocrazia, fecero retrocedere molto presto il concetto di distinzione proprio alla nobiltà; d’icio fondiaria, sicché l’attività economica vantata già; da Ptahhocome l’unico mezzo per ottenere la ricchezza. Ma il carattere burocratico della compagine politica e il rigoroso tradizionalismo della religione ponevano limiti molto stretti alla portata di questa concezione.
Il sentimento di status della classe degli scribi si è espresso all’epoca dei Ramessidi in una satira che schernisce tutte le altre professioni, sia militari che economiche; questa classe nutriva disprezzo per tutte le attività; non lettee come segno di miseria e grettezza di idee. Mentre mancava una netta distinzione tra libertà; personaleervitù, la barriera tra letterati e illetterati era molto rigida. Era solo l’istruzione a determinare chi fosse nobile (sar). E l’assoluta subordinazione gerarchica della burocrazia determinava l’ideale di vita. Ma, la «lealtà;», era nello stesso tempo «decoro», «rettitudine», «fedeltà; al dovere — l’equivalente, un po’ modificato, della virtù dei burocrati cinesi, il Li — costituiva la quintessenza di tutti i pregi. L’imitazione del superiore, l’approvazione incondizionata delle sue opinioni, la rigida osservanza dell’ordine di rango anche nella posizione delle sepolture nella necropoli, erano doveri del suddito leale. «Inchinarsi per tutta la vita» era considerato il destino dell’uomo. Conformemente a ciò il concetto di professione rimase rigidamente tradizionalistico. Era proibito all’operaio essere occupato al di fuori della sua professione abituale. D’altra parte lo sciopero degli operai nella necropoli di Tebe, attestato dai documenti, non era determinato da motivazioni sociali ma mirava solo ad ottenere la consegna delle spettanze usuali, il «pane quotidiano» nel senso del Pater Noster distiano.
In Israele, prima del Siracide, un simile apprezzamento etico della fedeltà; nel lavorn esisteva. Mancava l’organizzazione burocratica e non vi era posto per il concetto di ma, perlomeno nell’etica religiosa che aborriva lo stato burocratico fondato sulla corvée come la «casa di schiavitù egiziana». Non troviamo tracce di un valore di virtù attribuito all’attività; economica contrario l’avarizia è il più grande dei vizi. Si vede qui come i nemici dell’uomo pio fossero i patrizi urbani. In Israele come in Egitto mancava completamente qualsiasi tipo di «ascesi intramondana». Se in Egitto si mette in guardia contro le donne, perché un breve momento di piacere viene pagato da grandi sventure, questa è semplicemente una regola di vita prudente alla maniera dell’etica confuciana; se ne trovano analogie nella letteratura ebraica post-esilica. Ma per il resto in Egitto come in Mesopotamia il piacere di vivere, temperato dalla prudenza, restava in ultima analisi la meta di tutti gli sforzi. L’atteggiamento israelitico si distingueva da ciò per il crescente timore del peccato e la disposizione alla penitenza. Questo atteggiamento era più forte di quanto riscontrabile altrove, anche a Babilonia, ed era fortemente condizionato dalle sorti politiche. Il grado di sublimazione nel senso di un’etica deH’intenzione era simile a quello egiziano, e nell’insieme, perlomeno nella pratica delle masse, era sviluppato sostanzialmente con maggior raffinatezza della concezione babilonese del peccatou8 che nella vita pratica era continuamente trattata in termini magici e quindi snaturata.
Malgrado le numerose analogie l’etica israelitica era in contrasto con quella egiziana e anche con quella mesopotamica per un aspetto importante: la sua sistematizzazione razionale relativamente avanzata. Un indice di ciò si può vedere nell’esistenza stessa del Decalogo etico e di prodotti analoghi, contrapposti ai registri di peccati del tutto asistematici esistenti in Egitto e a Babilonia. Inoltre da queste due zone di cultura non ci è stato tramandato nulla di equivalente o anche solo di simile ad una parenesi sistematica etico-religiosa del tipo del Deuteronomio. Per quanto ne sappiamo, in Egitto, accanto alla didascalica saggezza pratica e all’esoterico Libro dei Morti, e a Babilonia, accanto alle raccolte di inni e formule con effetti magici che contengono anche elementi etici, non esisteva nessun’etica concepita in maniera unitaria e fondata sulla religione, quale si trova già; in Israele a dell’esilio, dov’era il prodotto della Torah etica dei Leviti tramandata per generazioni, nonché della profezia; su questa dovremo ancora tornare. La profezia non ha agito tanto sul contenuto — che accettava piuttosto come dato — quanto sull’instaurazione dell’unità; sistematica izzata collegando la vita di tutto il popolo e dei singoli individui all’osservanza dei comandamenti positivi di Jahvè. Ha eliminato inoltre il predominio del rituale a favore dell’etico. La Torah levitica, dal canto suo, ha plasmato il contenuto dei comandamenti etici. Tutte due insieme hanno dato all’etica il suo carattere nello stesso tempo plebeo e razionalmente sistematico.
Dobbiamo esaminare più dettagliatamente un elemento caratteristico dell’antica etica israelitica, che essa ha in comune con altre. Le prescrizioni etiche di cui si è parlato presentano in parte un carattere caritativo molto marcato, proprio alla versione attuale della Torah. Ciò vale soprattutto per le numerose disposizioni a favore dei poveri, dei meteci, delle vedove e degli orfani, che troviamo già; nelle raccoliù antiche, ma in particolare nel Deuteronomio il cui dio è un giudice incorruttibile che «non guarda in faccia» la persona e «fa giustizia» ai deboli (Deut., io, 16). Le disposizioni sulla schiavitù per debiti del diritto formale sono state integrate, come abbiamo visto, dalla parenesi, con ampie disposizioni sul pagamento del salario, la remissione dei debiti, le restrizioni sui pegni e con misure caritative generiche. «Aprire la mano al povero» (Deut., 15, 11), aiutare il miserabile, il povero, il derubato (Ger., 22, 16), l’oppresso (Is., 1, 17): queste sono senz’altro le formulazioni più generali di questi doveri nel cui à;mbito sembranentrare anche le disposizioni sulla spigolatura e l’anno del maggese di cui si è parlato prima. Le fonti rivelano la crescente importanza di questi elementi della parenesi, insieme alla crescente influenza ierocratica sull’etica israelitica che in origine non era affatto particolarmente sentimentale. Da cosa deriva questo suo carattere?
Le due regioni classiche dello sviluppo della carità; sono da un ll’india, dall’altro l’Egitto. In India i suoi esponenti erano principalmente il jainismo e il buddhismo. La loro concezione si fondava in maniera molto generale sul sentimento di unità di tutto ci che è vivente, sostanzialmente rafforzato dalla credenza nel samsàra. Abbiaisto come la carità indiana,come espressa anche nei Decaloghi dei buddhisti, assunse molto presto un carattere formale e quasi esclusivamente rituale.
In Egitto la carità; era fortemenondizionata dalla struttura burocratica dello stato e dell’economia. Il re dell’Antico e del Nuovo Regno, ed i principi feudali del Medio Regno erano signori tributari di corvées e come tali interessati a usare riguardi nei confronti della forza lavoro di uomini e animali che cercavano di proteggere dalla brutalità; sconsiderata funzionari. Nelle fonti egiziane, appare chiaramente come ciò fosse connesso allo sviluppo della protezione dei poveriv8. I funzionari erano responsabili davanti al re per la situazione economica e demografica del paese e inoltre erano esposti alle lagnanze che i sudditi in ogni momento potevano rivolgere direttamente, sembra, al re. Già; nelle iscrizidell’Antico Regno essi si vantano di aver prestato aiuto durante la carestia, di non aver tolto a nessuno il suo campo, di non aver abusato dei dipendenti di altri funzionari, di non aver mai composto una vertenza in maniera disonesta, di non aver portato via o violentato la figlia a nessuno, di non aver danneggiato la proprietà; altrui, di noer oppresso le vedove; o ancora di aver nutrito gli affamati, rivestito gli ignudi, fatto traversare il fiume a chi non possedeva barca, riempito di bestiame le stalle dei propri dipendentiw8. Vediamo come ciò si riferisca sempre alla popolazione del distretto amministrativo affidato al funzionario del faraone. In generale quindi i funzionari si esprimevano così: essi «non hanno mai fatto del male a nessuno», anzi, hanno fatto «ciò che a tutti piaceva».
Il carattere sospetto dell’accettazione di doni da parte del giudice e la sua rigorosa proibizione sono quasi altrettanto generali presso i poeti religiosi e moralisti egiziani quanto presso i profeti israelitici. Il timore del re che in definitiva — come lo zar in Russia — era molto lontano, veniva quindi integrato dal timore delle lagnanze che potevano essere portate davanti adun’altra autorità;: gli dèn monarca del periodo della V dinastia afferma di non aver danneggiato nessuno in maniera che «si fosse lamentato presso il dio della città;». La mazione del povero era temuta, in via immediata, a causa del possibile intervento della divinità;, in via mediatrché comprometteva il buon nome nel futuro, così importante secondo le concezioni egiziane. La credenza nell’efficacia magica di una maledizione fondata su un torto reale era evidentemente diffusa in modo generale in tutto il Medio Oriente: questo «strumento di potere democratico» era quindi a disposizione anche dell’ultimo e del più povero.
I funzionari egiziani non mancavano quindi di sottolineare che il popolo li (amava» perché facevano ciò che ad esso era gradito. è vero che il concetto di una qualche responsabilità; dei potenti nei ronti del popolo è ancora più estraneo, se possibile, al modo di vedere egiziano che a quello israelitico. Ma un uomo sarà; «come Dix00BB; se i suoi operai gli danno la loro fiducia. Al contrario colui che si comporta nei loro confronti «come un coccodrillo» incappa nella maledizione. Di conseguenza l’etica aristocratica degli scribi, formulata da Ptahhotep, sottolinea come la pratica della carità; sarà; ricosata daltabilità; della propria poone (in origine, senza dubbio, dal faraone; più tardi, da Dio). D’altra parte anche le lapidi commemorative della gente umile (artigiani) del xm e xii secolo confidano nella speranza che Ammone usi ascoltare la voce del «povero afflitto» (contropposto al grande uomo «insolente», guerriero o funzionario). Infatti Dio guida e protegge tutte le sue creature, anche i pesci e gli uccelli101.
I re si comportavano in modo del tutto simile ai funzionari. E non solo i re egiziani ma tutti quelli che appartenevano all’à;mbito culturale dedio Oriente. E questo sin dai più antichi periodi di cui ci siano accessibili le fonti monumentali. Secondo Urukagina, accanto a delitti di ogni sorta contro la proprietà; divina e lȁdinamento dello stato, è stata la grave oppressione degli strati economicamente deboli che ha attirato l’ira di Dio sui suoi predecessori e ha legittimato la sua usurpazione. In questo caso, quello cioè di una monarchia cittadina, si alludeva alle asprezze della transizione ad un’economia monetaria: l’indebitamento e la riduzione in schiavitù, le stesse che in Israele. Gli usurpatori, come abbiamo visto nel caso di Abimelech, governavano dappertutto con il demos contro le grandi schiatte. In Egitto e più tardi nei grandi regni mesopotamici è la solita leggenda dello stato di benessere burocratico-patrimoniale che plasma il carattere della carità; monarchica formaata. Ramses IV si vanta di non aver danneggiato alcun orfano né povero e di non aver tolto a nessuno la sua proprietà; ereditaria. Nabucosor si esprime nello stesso modo. Ciro pensa che gli oneri eccessivi imposti al popolo babilonese da Nabu-nadin, abbiano attirato l’ira di Dio su questo re e Dario102 nell’iscrizione di Behistun103 si pone anch’egli sul piano della politica regia di benessere e protezione per i deboli. Questo era quindi patrimonio comune di tutti gli stati patrimoniali orientali come pure della maggior parte delle monarchie di questo tipo in genere. Nell’immediata vicinanza di Israele vi è un’iscrizione regia fenicia che — questa volta senza dubbio sotto l’influenza egiziana — presenta esattamente gli stessi tratti (si tratta della più antica iscrizione fenicia finora nota)y8. Da qui probabilmente queste massime, giunte dappertutto, in definitiva, ad un rigore formalistico, ma non per questo necessariamente prive d’efficacia, sono state portate agli scrivani dei re di Israele.
Quest’etica di carità;, derivata dalla pica patrimoniale del benessere e dalla sua proiezione nel governo celeste del mondo, apparentemente fu sviluppata in Egitto, all’inizio, in maniera del tutto consapevole, dai piccoli principi patrimoniali e daisignori feudali del Medio Regno, seguiti più tardi dagli scrivani, sulla base di elementi presenti da sempre. Fu sistematizzata da sacerdoti e moralisti sotto influenza sacerdotale, conformemente al tipo generale della politica sociale ierocratica. Alla testa di tutte le dichiarazioni minuziosamente specificate che, secondo il 125° capitolo del Libro dei Morti, il morto deve fare nella «sala della verità;», vi àquella di non aver costretto nessuno a lavorare oltre alla sua misura prestabilita (I 5). La sua derivazione dall’amministrazione di uno stato fondato sulla corvée è evidente. Seguono poi le dichiarazioni di: non aver arrecato paura, povertà;, sofferenza, sfort fame, lutto a nessuno, non aver causato il maltrattamento di uno schiavo da parte del suo padrone (I 6), non aver defraudato un lattante del suo latte, non aver maltrattato il bestiame (I 9) e non aver fatto nulla di male a un ammalato (B 26). Alla fine della confessione (B 38) si trova l’assicurazione di essersi reso gradito a Dio con la propria «carità» (mer di «aver dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vestiti all’ignudo, una barca a chi non ne possedeva». Insieme al già; citato divieto etii causare dolore o incutere timore a qualcuno o di far del male al prossimo in genere, e alla prescrizione che emerge nell’etica egiziana, pur rimanendo contestata, di far del bene anche al nemico, questi comandamenti, da un punto di vista puramente sostanziale, rappresentano un’anticipazione molto avanzata della carità; dei Vangeli cristi
L’antica carità; israelitica nel suiluppo è stata presumibilmente influenzata dall’Egitto, o in via diretta, o in via indiretta tramite i Fenici. Quest’influenza ha avuto il suo apice nel periodo deuteronomico. è vero che già; in epoca pre-deutemica vi è il convincimento che Jahvè protegge i deboli in quanto tali (la donna contro l’uomo, la concubina contro la moglie legittima, il figlio ripudiato: Gen., 16, 5 e 7; 21, 14; 1 Sam., 24, 13). Questa concezione si trova presso gli jahvisti come presso gli elohisti e ha lo stesso fondamento religioso di quella egiziana: il povero e l’oppresso «grida a Jahvè» (Deut., 24, 15) e questi, come re celeste, può allora assumersi la vendetta dell’oppresso. La concezione che era diventata quella dominante nell’etica isrealitica del periodo esilico, cioè che sopportare l’oppressione era la condotta giusta perché quella che più sicuramente avrebbe portato la vendetta di Jahvè, trovava allora la sua motivazione nell’impotenza sociale delle classi oppresse ma risaliva senza dubbio all’importanza attribuita nel passato al nome benedetto presso i discendenti. Poiché, in corrispondenza all’efficacia della maledizione, viceversa la benedizione del povero verso cui ci si è comportati conformemente ai precetti della carità; sarà; «ata a gizia», da Jahvè (Deut., 24, 13). La parenesi dei Leviti, le formule delle maledizioni di Sichem elaborate sotto la loro influenza e gli annessi devarìm nel Libro del Patto, poi il Deuteronomio e la legislazione sacerdotale svilupparono la carità; in senso sempre pià; sistematico.
Nelle esigenze materiali la carità; israelitica si allon da quella egiziana, malgrado numerose e sorprendenti analogie difficilmente casuali; soprattutto nella generale moderazione. Essa infatti non riposava su una burocrazia patrimoniale sotto influenza sacerdotale ma bensì su una comunità; di libere schiatte dntadini e pastori sotto influenza sacerdotale, anche se forse l’etica dello stato del benessere può essere stata espressa per la prima volta da re devoti seguendo l’esempio straniero. Naturalmente anche in Israele venivano esercitate delle angherie da parte dei funzionari del re, come in Egitto. E anche da parte del re: il che in Egitto, almeno ufficialmente, era impossibile. I sacerdoti, nella loro versione paradigmatica, fanno reagire Jahvè a questo stato di cose tramite la sventura annunciata dai profeti. Tuttavia il male da combattere in prima linea non era l’oppressione di una burocrazia ma bensì quella di un patriziato urbano e le condizioni erano molto più semplici. La sublimazione della carità; nel senso di unàtica dell’intenzione arriva quindi solo in parte, nell’etica pre-esilica, a livelli avanzati come in Egitto, mentre d’altra parte i precetti individuali corrispondono maggiormente al carattere patrimoniale dei rapporti vigenti nella comunità; domestica e nel vici rispetto alle astrazioni degli scrivani egiziani. Soltanto il periodo pacifico, e di urbanizzazione, della Torah, subito prima e durante l’esilio, portò con sé le astrazioni della Legge di Santità;. E con essa il diviet covare nel proprio cuore odio e sete di vendetta contro il «prossimo», cioè (Lev., 19, 18) contro i figli del proprio popolo (e, secondo 19, 34, anche contro il ger), invece di parlare francamente;ad esso si collega la massima di principio: «Ama il tuo prossimo come te stesso» (Lev., 19, 18).
Questa condanna della sete di vendetta poteva apparire come una reazione della parenesi levitica contro le promesse di vari profeti che alimentavano fortemente la bramosia di vendetta (politica). Il precetto dell’amore per il prossimo nei confronti dei propri compatrioti rivela tuttavia, con l’aggiunta del rinforzo: «Poiché io sono il Signore», che si tratta anche qui del precetto più volte ripetuto di rimettere la vendetta a Dio in quanto è affar suo (Deut., 32, 35) ed egli la compirà; nel modo più rad, conformemente alle speranze dell’individuo. Questo rimettere la vendetta a Dio, che non ha quindi un autentico significato etico, nasce solamente nell’à;mbito dei sentimenti diati plebei, precisamente quelli privi di potere politico. La storia di Davide e Nabal (I Sam., 25, 24 e 29) è stata senza dubbio composta come paradigma di questa vendetta raffigurata come tanto più soddisfacente. Per i maestri della Torah il riservare la vendetta a Dio era il naturale parallelo etico dell’abolizione della vendetta del sangue sul piano giuridico; e il comandamento positivo dell’«amore» per il prossimo era un trasferimento dei princìpi dell’antica fratellanza di schiatta sul piano della fratellanza tra correligionari. Soltanto l’interpretazione rabbinica ha estratto da esso il precetto positivo secondo cui bisogna amare il prossimo anche dentro di sé senza perseguitarlo con desideri di vendetta. Nella pratica però essa non ha avuto pieno successo in questo campo nemmeno per quanto riguarda i suoi stessi sentimentiz8.
Accanto alla protezione dei poveri nella carità; israelitica figura anch— come occasionalmente in quella egiziana — la protezione degli ammalati e in particolare di quelli affetti da imperfezioni fisiche. Non bisogna maledirli né «mettere inciampo innanzi al cieco» o condurlo fuori della retta via (Lev., 19, 14). Anche la carità; egiziana prescriveva dà;indicare la strada a chi si era smarrito e di non far nulla di male all’ammalato, senza per altro occuparsi più dettagliatamente di questi infermi. La profezia di salvezza dei grandi re soleva attribuire al monarca regnante l’allontanamento delle malattie, delle infermità; e simili miserie. In quesodo egli dava prova del suo carisma. Il singolare detto di Daniele (II Sam., 5, 6 e 8) alla presa di Gerusalemme si collega senza dubbio alla stessa concezione del potere taumaturgico che caratterizza il governo di un signore carismaticamente qualificato. Tuttavia nella Torah levitica il motivo della protezione degli infermi sta nel fatto che essi erano tra i penitenti prediletti dei Leviti e la loro devozione era stata sperimentata troppo spesso perché si potesse mantenere incondizionatamente l’antica concezione magica secondo cui l’ammalato sarebbe personalmente odiato da Dio per via di un qualche suo delitto. Poteva darsi che dovesse soffrire per i peccati dei suoi avi. Nel caso dei sordi e dei ciechi, la supposizione che fossero soggetti ad un misterioso decreto divino alimentava facilmente la credenza che disponessero anche di forze particolari che gli altri non possedevano; lo rivela la stima molto diffusa di cui godevano i ciechi. Un’offesa nei loro riguardi pareva comunque atta a suscitare l’ira di Dio.
Infine troviamo nel Deuteronomio un certo numero di disposizioni volte alla protezione degli animali, come la protezione della madre di una nidiata di uccelli (22, 6-7) e il celebre divieto di mettere la museruola al bue che sta trebbiando (25, 4), mentre nelle piantagioni romane gli schiavi alla macina portavano una museruola. A queste s’aggiunge la valutazione del sabato come giorno di riposo anche per il bestiame e dell’anno sabbatico come occasione per gli animali di nutrirsi liberamente. Le fonti israelitiche non permettono di discernere quanta parte di questi teologumeni si collegasse sostanzialmente alla credenza diffusa in tutto il Medio Oriente di una pace paradisiaca tra uomini e animali che era esistita in passato e della quale si sperava il ritorno, o anche a qualche antico vegetarianismo rituale forse sorto localmente dai culti agricoli; e quanta parte invece fosse sorta semplicemente come conseguenza del comandamento dell’amore. L’asino parlante di Balaam è semplicemente un animale da favola popolare, come ne troviamo anche altrove (così l’agnello profetico sotto Boccori in Egitto).In Egitto il divieto di maltrattare gli animali si fondava senza dubbio originariamente sull’interesse del re per la loro forza-lavoro. Ramses II fa ai cavalli, che lo avevano salvato dalla battaglia a Qades, la promessa caratteristica che d’ora in poi sarebbero stati foraggiati nel palazzo in sua presenza, proprio come promette ai suoi operai di fornire loro la giusta spettanza per il loro lavoro: è un’espressione del tipico rapporto del cavaliere e del signore delle scuderie con le sue bestie. Il culto popolare degli animali, sistematizzato dai sacerdoti, e la facoltà; delle anime dei morti di inarsi in forme di animali non erano probabilmente alla base di questa disposizione amichevole verso gli animali ma naturalmente erano concezioni che favorivano la carità; verso gli animali. In Israil riposo sabbatico per il bestiame e gli schiavi è solo un prodotto del tardo periodo monarchico, presumibilmente dell’epoca deuteronomica. Lo dimostra la sua assenza nella leggenda (II Re, 4, 23). La benevolenza verso gli animali in genere era, probabilmente, perlomeno nel suo orientamento generale, di derivazione egiziana.
Nell’insieme l’influenza delle grandi zone di cultura su molti particolari della carità; e dell’etica israel nel tardo periodo pre-esilico non solo non si può escludere ma appare altamente probabile in particolare nel caso dell’Egitto, come influenza diretta o mediata dai Fenici. è vero che i tratti determinanti di questo tipo di carità; si sono sviluppati anche s mutuazioni dall’esterno, ovunque gli interessi sacerdotali per la loro clientela di infermi e di infelici siano stati abbastanza forti da determinare una razionalizzazione della cura per i deboli in quanto tali. Tuttavia anche dove un’influenza esterna appare probabile la Torah israelitica ha rielaborato i comandamenti in maniera autonoma.
Ben più importante di tutte le differenze particolari è però il principio insito nel fatto, già; sottolineato, dell’nza di surrogati magici per l’adempimento dei comandamenti. La dottrina sacerdotale egiziana, per esempio, poteva enunciare dei comandamenti etici o caritativi di qualsivoglia tenore, ma quale efficacia poteva conferirgli, quando esistevano semplici mezzi magici per rendere il morto in grado di occultare i suoi peccati nel momento decisivo davanti al giudice dei morti ? La preghiera al proprio cuore nel Libro dei Morti (cap. 30, L. I) di non testimoniare contro il morto, venne più tardi resa efficace dalla dotazione di uno scarabeo consacrato che rendeva il cuore in grado di resistere alla potenza magica dei giudici dei morti e di tacere i peccati. Gli dèi erano quindi vinti con l’astuzia. A Babilonia le cose non erano così grossolane. Tuttavia anche lì, nel periodo neo-babilonese, vi era ogni sorta di magia che costituiva il mezzo specifico e popolare per agire sulle potenze invisibili. è vero che con la crescente razionalizzazione della cultura i sentimenti di colpevolezza avevano acquisito maggiore intensità; anche in Mesopotamia, in pcolare tra la pacifica popolazione borghese. Ma i salmi penitenziali sumeri e protobabilonesi, pieni di sentimento, più tardi furono impiegati come mere formule magiche spesso senza riguardo al loro contenuto, dopo che al posto dei grandi dèi erano apparsi nella credenza popolare gli spiriti maligni come promotori del male.
Al contrario nell’antico jahvismo questo tipo di magia era assente e già; per questo l’import dei comandamenti etici, una volta che fossero dichiarati vincolanti, era necessariamente ben più rilevante sul piano concreto. Ciò era dovuto, oltre che al diverso orientamento del problema della teodicea, a un’altra circostanza sulla quale ci siamo già; più volte soffermati cioè al fatto che in Israele, in quanto associazione di liberi membri di un popolo, responsabili in solido sulla base del berith per l’osservanza dei comandamenti del dio della lega, tutti i singoli individui dovevano temere la vendetta del dio se tolleravano in mezzo a loro la violazione dei suoi comandamenti. L’espulsione del peccatore non riconciliato con Dio, la scomunica e la lapidazione erano quindi i mezzi con cui in Israele si reagiva al peccato. L’esecuzione della pena di morte senza pietà; era un dovere di fronte a i peccatori gravi perché era l’unico mezzo di purificazione della comunità; in quanto tale. Questa motione mancava completamente nelle monarchie burocratiche e tanto più se esistevano maghi professionisti. Era analoga invece alla responsabilità; della comunità; eucarca protocristiana quella puritana per l’allontanamento di ogni pubblico reietto dalla tavola del Signore, in contrasto con il cattolicesimo, l’anglicanesimo e il luteranesimo.
Lo specifico orientamento etico della Torah levitica, grazie alla pressione costante di questo interesse, doveva trovarsi sempre più rafforzato. La posizione dei Leviti stessi però derivava dal loro rapporto con la loro clientela privata. L’avvio a tutto ciò era stato dato dall’instaurazione dell’antico berith da parte di Mosè e dall’assunzione delle funzioni di oracolo. In questo senso quindi Mosè è considerato di fatto a ragione come il promotore di questo importante sviluppo etico. D’altra parte però lo sviluppo della religiosità; israelitica in una strutturpace di resistere a tutte le influenze disgregatrici dell’esterno, quale è passata attraverso la storia, sarebbe stato impossibile senza l’intervento di quel fenomeno particolarissimo e gravido di conseguenze da lei prodotto: la profezia. Vi abbiamo già; fatto accenno più voldobbiamo ora occuparcene per esteso.
PARTE II
LA NASCITA DEL POPOLO-PARIA EBRAICO
1. La profezia preesilica e il suo orientamento politico
Dopo la pausa nella politica di conquista dei grandi stati, che aveva permesso il sorgere della lega israelitica, a partire dal ix secolo i grandi re mesopotamici e più tardi anche l’Egitto ripresero la loro politica d’espansione. La Siria divenne allora il teatro di eventi bellici sino allora inauditi. Campagne militari terribili come quelle in particolare dei re assiri non erano ancora mai state vissute in quelle dimensioni. Le iscrizioni cuneiformi esalano sangue. Il re, con secco tono protocollare, dà; notizia delle mura delle ci00E0x00E0; conquistate che egli ha tapato con le pelli degli uomini scorticati. La folle paura di questi spietati conquistatori traspare nella letteratura israelitica di quell’epoca che è stata conservata, e in particolare negli oracoli della profezia classica che andò assumendo il suo carattere tipico man mano che si offuscava l’orizzonte politico.
I profeti preesilicia9 da Amos fino a Geremia ed Ezechiele,visti con gli occhi dei contemporanei che stanno al di fuori, erano soprattutto dei demogoghi politici e, occasionalmente, dei libellistib9. Questa qualifica può certamente essere male interpretata. Ma rettamente intesa costituisce una cognizione indispensabile. Significa in primo luogo che questi profeti parlavano; solo con l’esilio compaiono profeti scrittori. Parlavano apertamente al pubblico. Significa inoltre che non sarebbero potuti sorgere senza la politica mondiale delle grandi potenze che minacciavano la patria; è di queste infatti che parla la maggior parte dei loro oracoli più impressionanti. Né d’altra parte sarebbero potuti nascere sul terreno delle stesse grandi potenze. E questo perché sul terreno di quest’ultime una «demagogia» era impossibile. Certamente anche i grandi re assiri, babilonesi e persiani, come ogni signore antico ivi compresi quelli israelitici, si facevano consigliare dagli oracoli nelle loro decisioni politiche o nella determinazione del momento e dei particolari delle loro disposizioni. Il re babilonese, per esempio, prima di procedere alla nomina di un alto funzionario interrogava ogni volta l’oracolo circa la qualificazione del candidato. Questa tuttavia era una pratica di corte. Il profeta non parlava per le strade, al popolo: non esistevano a questo fine le necessarie premesse politiche, né sarebbe stato autorizzato a farlo. Alcuni segni indicano che, conformemente alle condizioni degli stati burocratici, la profezia pubblica vi era esplicitamente proibita. Ciò vale in particolare per il periodo dell’esilio ebraico: accenni nelle fonti lasciano intendere che vi sono state aspre repressioni. Una profezia politica, nel senso proprio al periodo classico, non risulta essere esistita, perlomeno finora, nel Medio Oriente e in Egitto. Diversamente stavano le cose in Israele e in particolare nella città;-stato di Gerusalemme.
L’antica profezia politica dei tempi della lega era rivolta all’insieme dei confederati. Era però un fenomeno occasionale. La confederazione non ha mai avuto una sede fissa comune per l’oracolo, come Dodona104 o Delfo105. L’oracolo divinatorio dei sacerdoti, l’unica forma di interrogazione del dio considerata classica, era tecnicamente primitivo. Con la monarchia la libera profezia di guerra cadde in disuso e l’oracolo della lega perse importanza rispetto ai profeti di corte. Solo con la crescita del pericolo esterno che minacciava il paese e il potere monarchico si ebbe lo sviluppo della libera profezia. Secondo la tradizione Elia aveva apertamente preso posizione contro il re e i suoi profeti; ma era diventato un esule. Lo stesso vale per Amos sotto Geroboamo II. Sotto governi forti o resi sicuri dall’appoggio di una grande potenza, per esempio in Giuda sotto Manasse, la profezia tacque anche dopo la comparsa di Isaia, o meglio fu ridotta al silenzio. Con il declino del prestigio dei re ed il crescere delle minacce incombenti sul paese la sua importanza di nuovo si accrebbe.
Nello stesso tempo il suo teatro d’azione si spostava sempre più verso Gerusalemme. Tra i primi profeti Amos fece la sua comparsa presso il santuario di Bethel, Osea nel Regno del Nord. Già; per Isaia, però, pascoloeserto sono la stessa cosa (5, 17; 17, 2): egli è in tutto e per tutto un gerusalemmita. Il luogo delle sue apparizioni sembra essere stato di preferenza il cortile pubblico del tempio. Infine Jahvè comanda a Geremia: «Va’ per le strade di Gerusalemme e parla pubblicamente». In tempo di crisi avviene che un re, come Sedekia, mandi segretamente a chiamare il profeta per ricevere la parola di Dio. Ma di regola il profeta affronta apertamente anche il re e la sua famiglia, o di persona in mezzo alla strada, o tramite la parola pronunciata in pubblico o — eccezionalmente — dettata a un discepoloc9 e poi diffusa.
Avviene che singoli o anche delegazioni di Anziani chiedano e ottengano un oracolo dal profeta (anche da Ger., 21,2 e seg.; 37, 3; 38, 14; 42, 1 e seg.). Molto più spesso però, come appare evidente, è il profeta stesso che sotto un’ispirazione spontanea parla al pubblico sulla piazza del mercato o anche agli Anziani davanti alle porte. Infatti il profeta, pur annunciando anche il destino delle singole persone, si limita di regola ai personaggi più importanti sul piano politico. E si occupa prevalentemente del destino dello stato e del popolo. Sempre, inoltre, sotto forma di invettive emotive contro i detentori del potere. Appare qui, per la prima volta, accreditato dalle fonti storiche, il «demagogo», all’incirca nello stesso periodo in cui i canti omerici plasmavano la figura di Tersite106.
Nell’antica polis ellenica tuttavia l’assemblea dei notabili, dove il popolo di regola tutt’al più ascoltava e partecipava tramite acclamazione, com’è stato illustrato per Itaca, si svolgeva per discorsi e repliche ordinate e la parola veniva concessa tramite consegna della verga. D’altra parte il demagogo dell’epoca di Pericle è un politicante mondano, che guida il demos con la sua influenza personale e parla nell’ecclesia sovrana organizzata in stato. Nel periodo omerico esiste l’interrogazione del veggente in mezzo all’assemblea dei cavalieri. Più tardi è caduta in disuso. È vero che figure come Tirteo107 e la poesia demogogica di guerra sotto Solone per la conquista di Salamina sono quelle che più ricordano l’antica libera profezia politica della confederazione israelitica. Ma la figura di Tirteo è sorta con lo sviluppo del disciplinato esercito spartano degli opliti; e Solone, per quanto pio, era un politicante prettamente mondano, dotato di uno spirito chiaro e lucido, intimamente «razionalistico», che univa la conoscenza dell’incertezza delle sorti umane alla sicura fede nel valore del proprio popolo: il suo temperamento era quello del predicatore di un costume aristocratico e insieme devoto.
Molto più affini a quella israelitica sono la religiosità; e la profezia orfica. Era a qu teologi plebei che la tirannia filoplebea, in particolare quella dei Pisistratidi108 ’, cercava di collegarsi. Lo stesso vale, in alcuni casi, per la politica dei Persiani all’epoca dei tentativi di conquista. «Gresmologi», oracoli erranti e mistagoghi vaticinanti di ogni sorta attraversavano la Grecia nel vi secolo e all’inizio del v secolo, consultati mediante compenso sia da privati che da uomini politici, e in particolare da esuli.
Non risulta invece che una demogogia religiosa del tipo di quella dei profeti israeliti abbia inciso sulla politica degli stati ellenici. Pitagora e la sua setta, la cui influenza politica era considerevole, operavano come direttori d’anime della nobiltà; urbana dell’Italia meriale, non come profeti delle strade. I nobili saggi del tipo di Talete non annunciavano solo eclissi solari e non dispensavano soltanto regole di saggezza ma intervenivano tutti nella politica delle loro città;, talvolta in posizioni di primano. Tuttavia mancava loro la qualità; di estatici. Lo stesso vale peatone e l’Accademia la cui etica di stato — in ultima analisi utopistica — ha avuto una grande influenza sullo sviluppo delle sorti (e del crollo) del regno di Siracusa. La profezia politica estatica invece rimase organizzata in maniera ierocratica nei luoghi di culto ufficiali dove veniva data risposta, in versi ambigui, alle domande ufficiali della cittadinanza. La rigida organizzazione militare delle città; respingeva la libera profezia emotiva.
Al contrario a Gerusalemme aveva voce una demagogia prettamente religiosa; i suoi oracoli gettavano luce sull’oscuro destino del futuro come un lampo nella fosca afa, con fare autoritario ed evitando ogni dibattito ordinato. Il profeta formalmente era un semplice privato. Ma non per questo, ovviamente, era una figura insignificante agli occhi delle autorità; politiche ufficiali.
Le raccolte degli oracoli di Geremia venivano portate davanti al consiglio di stato da cittadini distinti, al servizio del re; infatti ognuno di tali oracoli era un evento importante per lo stato. Non solo perché influenzava l’umore delle masse, ma anche perché, in qualità; di buono o cattivo augurio, potenfluenzare direttamente, come una parola magica, il corso degli eventi. I detentori del potere ufficiale affrontavano di volta in volta con paura, ira, o indifferenza a seconda della situazione questi potenti demagoghi. Ora cercavano di attirarli al loro servizio, ora si comportavano come re Joiakim, il quale, seduto nella sua veranda d’inverno, con ostentata calma buttava nel focolare foglio per foglio la raccolta di oracoli di sventura che i funzionari gli leggevano; altre volte ancora intervenivano contro di loro. Sotto i governi forti la profezia era proibita, come mostra la lagnanza di Amos in merito, sotto Geroboamo II. Quando questo profeta annuncia l’ira di Dio su Israele perché si tenta di reprimere l’attività; dei profeti, la sua situazione à8; più o meno analoga a quella di un demagogo moderno che richiede la libertà; di stampa. Di fatto anche la paroei profeti non era limitata alla trasmissione orale. In Geremia assume la forma di una lettera aperta. Oppure amici e discepoli del profeta ne annotano i discorsi che diventano libello politico. Più tardi, o anche talvolta già; simultaneamente (è sempre aso di Geremia), questi fogli vengono raccolti e rivisti: è la più antica letteratura politica libellistica di immediata attualità; che conosciamo.
Anche la forma e il tono dei profeti pre-esilici sono conformi a questo carattere e all’intera situazione. Tutto è calcolato per conferire al messaggio, di regola trasmesso da bocca a bocca, un’immediata efficacia demagogica. Michea introduce gli avversari dei profeti come interlocutori. Vengono attaccati personalmente e messi alla gogna e risulta che spesso vi erano violenti conflitti. Tutta la smisuratezza e la più furiosa passione caratteristiche delle lotte di partito di Atene o di Firenze venivano abbondantemente raggiunte e superate dalle maledizioni, minacce, invettive personali, disperazione, ira e sete di vendetta che troviamo nelle sfuriate e nei volantini oracolari, soprattutto di Geremia. In una lettera ai deportati di Babilonia Geremia attribuisce agli anti-profeti una presunta condotta immorale nella vita privata (29, 23). La predizione imprecatoria di Geremia porta la morte all’anti-profeta Anania.
Quando Jahvè lascia inadempiute le minacce contro il proprio popolo malgrado tutti i suoi delitti, pur avendo egli stesso messo in bocca al profeta tali minacce, Geremia s’infuria e di fronte alla derisione dei suoi nemici chiede a Dio di far venire il preannunciato giorno della sventura (17, 18), di vendicarlo dei suoi persecutori (15, 15), di non cancellare la colpa degli avversari dalla sua presenza (18, 23), affinché la sua vendetta possa essere ancora più terribile in futuro. Spesso sembra letteralmente crogiuolarsi nella rappresentazione dell’atrocità; della sicura sventura, da lui annuta, che colpirà; il proprio popolo. Tuttavia, dopo isastro di Megiddo e più tardi, quando la catastrofe annunciata per decenni si fu abbattuta su Gerusalemme, non vi è in lui nessuna traccia di trionfo perché la sua predizione si è rivelata esatta. In ciò sta la sua differenza rispetto ai demagoghi di partito di Atene e Firenze. Né vi è più, come prima, una cupa disperazione. Vi è invece, accanto a una profonda afflizione, l’apertura alla speranza nella grazia di Dio e in tempi migliori. E malgrado la sua ira furiosa per la caparbietà; dei suoi ascoltatori, si lascia ammo dalla voce di Jahvè a non perdere con parole ignobili il diritto di essere la bocca di Jahvè: dovrà; pronunciare nobili parole e allora J00E0#x00E8; rivolgerà; a lui i cuori degli uomini (15, 19).
La passione rovente dei profeti si scarica, ribelle a tutte le convenzioni sacerdotali o di ceto e senza essere moderata da qualsivoglia auto-disciplina, sia essa ascetica o contemplativa, e in loro si aprono tutti gli abissi del cuore umano. E tuttavia, malgrado tutte queste debolezze umane, da cui questi titani della maledizione divina evidentemente non erano esenti, non è la loro persona ma la causa di Jahvè, il dio appassionato, che domina sovrana su tutta questa furia selvaggia.
Alla passione dell’attacco corrispondeva la reazione degli attaccati. Numerosi versi, in particolare, ancora una volta, quelli di Geremia, che talvolta sembrano il parto di una mania di persecuzione, illustrano il modo in cui i nemici ora bisbigliano, ora ridono, ora minacciano e scherniscono. E ciò corrispondeva ai fatti. Gli avversari affrontano i profeti per la strada, li oltraggiano, li colpiscono al viso. Re Joiakim si fa consegnare il profeta di sventura Uria dall’Egitto e lo fa giustiziare e se Geremia, più volte arrestato e minacciato di morte, riesce a sfuggire a questa sorte, lo deve essenzialmente al timore per i suoi poteri magici. La vita e l’onore dei profeti però erano sempre in pericolo, e il partito avversario era continuamente in agguato per distruggerli con la forza, l’astuzia, lo scherno, la contro-magia e la contro-profezia. Quest’ultima soprattutto era la loro arma. Dopo che Geremia aveva girato per otto giorni con un giogo sulle spalle per rendere tangibile l’ineluttabilità; dell’assoggettamento da parteNabucodonosor, Anania lo affronta, afferra il giogo e lo spezza per distruggere il cattivo augurio davanti a tutto il popolo. Al che Geremia dapprima se ne va confuso, poi compare però nuovamente con un giogo di ferro, chiedendo con scherno che l’avversario dia pure anche su questo prova della sua forza, e annunciando la sua prossima morte.
Questi profeti sono lacerati in mezzo ad un vortice di contrasti di partito e di conflitti di interesse. E soprattutto per quanto riguarda la politica estera. Né poteva essere altrimenti. Si trattava dell’essere o non essere dello stato nazionale di fronte al contrasto tra la grande potenza assira da un lato, e quella egiziana dall’altro. Bisognava prendere posizione e nessuno che avesse influenza pubblica poteva sfuggire alla domanda; per chi?, non più di quanto a Gesù fosse risparmiata la domanda se fosse giusto pagare il tributo a Roma. Che i profeti lo volessero o meno, di fatto operavano sempre nel senso dell’una o dell’altra delle consorterie politiche interne che si combattevano violentemente e che erano nello stesso tempo esponenti di una determinata politica estera; erano quindi considerati come membri di un dato partito. Nabucodonosor, dopo la seconda caduta di Gerusalemme, ha tenuto conto, nel suo comportamento verso Geremia, del fatto che il profeta si era fatto promotore del fedele vassallaggio al suo re. Vedendo la schiatta di Safan sostenere nel corso di più generazioni i profetid9 ed il movimento deuteronomico, se ne può dedurre che interessi partitici di politica estera possono avere avuto benissimo la loro parte in ciò.
Sarebbe però un grave errore credere che un atteggiamento politico direttamente legato ad un partito fosse per i profeti stessi un elemento determinante ai fini del contenuto del loro oracolo — quello di Isaia per l’Assiria o quello di Geremia per Babilonia — che sconsigliava alleanze contro queste grandi potenze. Sotto Sennacherib109 lo stesso Isaiae9, che in precedenza aveva visto in Assur lo strumento di Jahvè, si era opposto senza riguardi al grande re e alla capitolazione, in posizione nettamente contrastante con quella del monarca e dei dignitari. Se all’inizio aveva quasi dato il benvenuto agli Assiri come esecutori di una punizione pienamente meritata, più tardi maledisse questa stirpe reale e questo popolo senza dio, arrogante, di una crudeltà; inumana, il cui solo scopo era la pot e la distruzione. Predisse la sua rovina che al suo avverarsi venne salutata con giubilo dai profeti. Anche Geremia aveva predicato incessantemente la sottomissione alla potenza di Nabucodonosor, giungendo ad un comportamento che oggi chiameremmo tradimento: cos’altro è, infatti, se non un traditore, chi all’avvicinarsi del nemico promette la grazia e la vita a coloro che disertano e si arrendono, e la rovina a tutti gli altri ? Eppure lo stesso Geremia che ancora nel suo ultimo oracolo (dall’Egitto) chiama occasionalmente Nabucodonosor il «servo di Dio» (43, 10), e che il rappresentante del re dopo la presa di Gerusalemme copre di doni e invita a Babilonia, aveva dato al maresciallo viaggiante di re Sedekia un foglio con una maledizione profetica su Babilonia da portarsi dietro, con l’istruzione di leggerlo ivi ad alta voce, e poi buttarlo nell’Eufrate (Ger., 51, 59 e segg.) per votare con questo incantesimo l’odiata città; alla rovina.
T ciò dimostra come i profeti, pur svolgendo un’azione oggettivamente politica, e anzi di politica mondana soprattutto, non erano però soggettivamente dei partigiani politici. Non erano primariamente orientati verso interessi politici. La profezia non ha mai detto nulla circa uno «stato migliore» (a prescindere dalla costruzione ierocratica di Ezechiele durante l’esilio); né ha mai veramente cercato, alla maniera degli esimnèti110 filosofi e soprattutto dell’Accademia, di aiutare a trasportare nella realtà; degli ideali politici d’orientao etico-sociale mediante consigli ai potenti. Lo stato e il suo agire non la interessavano in se stessi. Il loro modo di porre il problema non era quello degli Elleni: come si diventa un buon cittadino ? Era invece, come vedremo, prettamente religioso, orientato verso l’adempimento dei comandamenti di Jahvè. Il che ovviamente non esclude che perlomeno Geremia sapesse valutare, forse inconsciamente, anche i reali rapporti di forza del suo tempo più correttamente dei profeti di salvezza. Soltanto che ciò non era determinante per il suo atteggiamento. Infatti questi rapporti di forza reali si configuravano in questa maniera unicamente per la volontà; di Jahvè. Egli poteva mutarli. 2019;ammonizione di Isaia a resistere all’assedio di Sennacherib andava contro ogni atteggiamento politico realistico basato sulla probabilità;. E quando si sostiene seriamente che eavrebbe avuto notizia — prima del re! — delle circostanze che inducevano Sennacherib alla ritirata, questo razionalismo di fatto equivale al tentativo di spiegare il miracolo delle nozze di Cana con liquori che Gesù avrebbe portato di nascosto con sé.
Del tutto inverosimili restano i presunti rapporti, che molti panbabilonisti hanno creduto di rintracciare, tra i profeti di Jahvè e i partiti politici interni — un «partito di sacerdoti e cittadini» — delle grandi potenze, in particolare di quella mesopotamica. Naturalmente non c’è dubbio che i rapporti di politica estera di allora, anche le posizioni di partito, avessero quasi sempre delle ripercussioni religiose all’interno. I partigiani dell’Egitto praticavano il culto egiziano, quelli dell’Assiria il culto di Babilonia e quelli della Fenicia i culti di quel paese. Nel corso di un’alleanza politica l’adorazione dei rispettivi dèi costituiva una conferma praticamente indispensabile che un grande re, per quanto potesse mostrarsi tollerante in altri cam pi, probabilmente esigeva addirittura in segno di ossequio politico. Vi sono inoltre dati sufficienti che indicano come Nabucodonosor non fosse alieno, tanto dopo la prima che dopo la seconda presa di Gerusalemme e la deportazione del partito favorevole all’Egitto, dal servirsi dell’influenza degli adoratori di Jahvè per puntellare il suo dominio, come fecero più tardi Ciro e Dario. Sembra che anche Neco dopo la battaglia di Megiddo abbia voluto seguire la stessa politicaf9 senza per questo conquistare i profeti alla causa dell’Egitto. Si può considerare come prima applicazione di questa importante massima — che si scosta dalle antiche usanze assire —, cioè di governare con l’aiuto dei sacerdoti locali, il modo in cui gli Assiri sono venuti incontro ai bisogni religiosi della Samaria dopo la distruzione (II Re, 17, 27 e seg.)….
Con questa svolta della politica religiosa dei grandi stati il dominio straniero perse per i profeti buona parte del terrore che ispirava loro per motivi religiosi e appare probabile che ciò abbia contribuito a influenzare in particolare la posizione di Geremia. Ma il significato causale di tali fattori palesemente non è paragonabile alla portata che tali considerazioni di politica ecclesiastica hanno avuto sull’atteggiamento degli oracoli ellenici, in particolare quello dell’Apollo di Delfo, nei confronti dei Persiani. Anche qui il convincimento che il destino fosse dalla parte dei Persiani costituiva, dopo la straordinaria ascesa di Ciro e di Dario, la premessa fondamentale dell’atteggiamento degli oracoli. Ma in questo caso la devozione lusinghiera del re e di Mardonio111 e gli abbondanti doni che offrivano, insieme alla corretta previsione che in caso di vittoria i Persiani anche qui avrebbero intrapreso la domesticazione delle cittadinanze disarmate con l’aiuto dei sacerdoti, erano altrettanti incentivi molto concreti ad una tale presa di posizione. Presso i profeti tali considerazioni materiali mancavano del tutto. Geremia declinò l’invito a Babilonia; e tra la sua corretta valutazione dei rappor ti di forza e l’esistenza di un partito internazionale dei sacerdoti e cittadini da un lato, dell’aristocrazia militare dall’altro, in cui credono molti panbabilonisti, corre una bella distanza. Quest’ultima circostanza è del tutto inverosimile, e vedremo che la posizione nei confronti delle alleanze straniere in generale e in particolare la persistente avversione dei profeti per l’alleanza egiziana erano determinate da motivazioni puramente religiose.
Nella politica interna la posizione dei profeti non aveva motivazioni primarie di tipo politico o socio-politico, più di quante non ne avesse nella politica estera. I profeti sono di origine sociale eterogenea. Non vi è dubbio che provengano prevalentemente da strati proletari o anche solo negativamente privilegiatig9 o incolti. La loro posizione etico-sociale non era certo determinata dalle loro origini personali: essa era infatti perfettamente unitaria malgrado le origini sociali molto diverse.
I profeti sostenevano con ardore i comandamenti etico-sociali di carità; della parenesi levitica a favore degli i e scagliavano di preferenza le loro invettive contro i grandi e i ricchi. Ma Isaia, che tra i profeti più anziani era il più veemente in questo senso, era il rampollo di una schiatta nobile, legato da stretti vincoli d’amicizia a sacerdoti aristocratici, in rapporto con il re come consigliere e medico, ed era senza dubbio ai suoi tempi una delle persone più autorevoli della città;. Sofonia era un discendente di Davide enipote di Ezechia, Ezechiele era un distinto sacerdote di Gerusalemme. Questi profeti erano quindi dei gerusalemmiti abbienti. Michea e Geremia provenivano l’uno da una piccola città;, l’altro da un villaggio; Geremi una schiatta di sacerdoti di campagna provvisti di proprietà; fondiaria, forse dell’antica casa degli Elidih9. Acquistava terra da parenti impoveriti. Solo Amos era un piccolo allevatore di bestiame; si presenta come un pastore che è vissuto dei frutti del sicomoro (il cibo dei poveri) e proviene da una picco la città; di Giuda; nello stesso tempo peròva chiaramente una cultura molto approfondita: proprio lui, ad esempio, conosce il mito babilonese di Tiamat. Ma come Isaia, che malgrado tutte le pesanti maledizioni contro i grandi annuncia tuttavia il dominio del demos incolto e indisciplinato come la peggiore di tutte le maledizioni, così anche Geremia malgrado le sue origini comunque più democratiche e un tono ancora più aspro contro i peccati della corte e dei grandi è altrettanto aspro contro i ministri plebei di Sedekia. Anch’egli dà; per scontato che la piccola gente non cce niente di doveri religiosi. Dai grandi invece si può esigere tale conoscenza e proprio per questo essi meritano la maledizione. Un fattore personale potrebbe forse riscontrarsi nell’ostilità; particolarmente marcata di questo profeontro i sacerdoti di Gerusalemme, se fosse vero che discendeva dal sacerdote Abiatar esiliato da Salomone ad Anatot a favore di Sadoq. Ma anche questo aveva tutt’al più il ruolo di un’aggravante rispetto alle motivazioni oggettive.
In ogni caso però nessun profeta era portatore di un ideale «democratico». Ai loro occhi il popolo aveva bisogno di essere guidato e le qualità; delle sue guide erano quindi ciò importava (Is., i, 26; Ger., 5, 5). Né tantomeno i profeti annunciavano un qualche «diritto naturale» o meno che mai un diritto di rivolta o di autodifesa delle masse vessate dai grandi. In idee del genere essi avrebbero scorto senza dubbio l’apice dell’empietà;. Sconfessavano i loro predecessori pià violenti: Osea condannava con le più aspre maledizioni la rivoluzione di Jehu, opera della scuola di Eliseo e dei Recabiti, e annunciava per essa la vendetta di Jahvè. Nessun profeta si faceva promotore di un programma politico-sociale; unica eccezione caratteristica è la costruzione ideale teologica di uno stato futuro che si trova in Ezechiele nel periodo dell’esilio. Le esigenze etico-sociali positive che i profeti tendevano più a presupporre che a instaurare per conto loro corrispondevano alla parenesi levitica la cui esistenza e conoscenza viene data per scontata da tutti. I profeti non sono quindi, in quanto tali, portatori di ideali democratici sociali; ma la situazione politica ?—? l’esistenza di una forte opposizione politico-sociale contro la monarchia fondata sulla corvée e i gìbborìm — ha fatto da cassa di risonanza ai loro annunci, la cui determinazione prima ria era religiosa, ed ha influito anche sul contenuto del loro mondo concettuale. Ciò avvenne però con la mediazione di quegli strati intellettuali che coltivavano il ricordo delle antiche tradizioni dell’epoca pre-salomonica ed erano loro vicini socialmente.
2. Caratteristiche psicologiche e sociologiche dei profeti scrittori
Un importante principio univa i profeti come gruppo di status: il carattere gratuito dei loro oracoli. Ciò li distingueva dai profeti del re, che essi maledivano come la rovina del paese, e da quanti esercitavano un’attività; burocratica, alla maniera degli antichi vnti o interpreti di sogni, che essi disprezzavano e condannavano. La piena indipendenza interna dei profeti non era quindi tanto la conseguenza quanto piuttosto una delle cause principali di questa loro prassi. Annunciavano prevalentemente sventure e nessuno poteva sapere se una sua interrogazione non avrebbe avuto per risposta, come nel caso di re Sedekia, una predizione di sventura e quindi un cattivo augurio. Non si pagava per avere una tale profezia; non ci si esponeva nemmeno ad essa. Di conseguenza quando i profeti scagliavano i loro oracoli lo facevano perlopiù non pregati, e di propria iniziativa. Ma come principio di status la prassi della gratuità; corrisponde precisamente a quella in uso rio presso gli strati intellettuali distinti; importanti eccezioni a questa regola, sul piano sociologico-religioso, sono l’assunzione di questo principio da parte degli strati intellettuali plebei dei rabbini e di lì dagli apostoli cristiani.
Né i profeti trovavano la loro «comunità;», nella misura in cui si può00E0re questo termine (vi torneremo più avanti), solo o prevalentemente nel demos. Al contrario, se godevano di protezioni personali, queste provenivano da alcune case distinte e devote di Gerusalemme, che talvolta adempivano a questo ruo lo nel corso di più generazioni. Geremia era protetto dalla stessa schiatta che ha preso parte anche alla «scoperta» del Deuteronomio. I profeti godevano di appoggio soprattutto tra gli zekeriim, come custodi delle pie tradizioni e soprattutto del tradizionale rispetto per la profezia. Era il caso di Geremia, nel suo processo capitale, nonché di Ezechiele, che gli Anziani consultavano durante l’esilio.
Presso i contadini invece i profeti non hanno mai trovato appoggio. è vero che tutti i profeti inveiscono contro la riduzione in schiavitù per debiti, il pignoramento dei vestiti e in genere contro tutte le infrazioni di quei comandamenti di carità;, che favoriscono la piccola gente. Geremia, la sua speranza ultima per il futuro, vede i contadini e i pastori come i portatori della devozione. Ma tale visione, così espressa, si trova solo in lui. E tra i suoi stessi seguaci i contadini sono altrettanto scarsi quanto l’aristocrazia terriera. Al contrario il ’am ha-arez era sempre più ostile ai profeti col passare del tempo, e in particolare a Geremia che veniva combattuto dalla propria schiatta. I profeti infatti, essendo rigorosi jahvisti, polemizzavano contro l’orgiasmo rurale dei culti agricoli, e contro i luoghi che da tali culti erano più fortemente contaminati, vale a dire i santuari rurali e in particolare i santuari dei Baáal a cui la popolazione rurale era attaccata per motivi non solo ideali ma anche economici.
Né i profeti hanno mai trovato appoggio presso i re. Essi infatti erano i portatori della tradizione jahvista che si ergeva contro la monarchia compromessa dalle concessioni ai culti stranieri imposte dal realismo politico, dall’uso del bere e dall’intemperanza, dalle innovazioni salomoniche dello stato fondato sulla corvée. Salomone non ha il minimo ruolo presso nessun profeta. Sempre, quando per caso viene menzionato un re, il pio signore è Davide. I re del Regno del Nord per Osea erano illegittimi, essendo degli usurpatori giunti al trono non per volontà; di Jahvè. Amos cita i nazirei e i nm tra le istituzioni di Jahvè, ma non i re. è vero che nessun profeta ha contestato la legittimità; dei Davidici. Ma anche il rispetto per questaastia, così com’era, era solo condizionato. La profezia di Isaia sull’Immanuel era pur sempre l’annuncio di un usurpatore inviato da Dio. E tuttavia per lui soprattutto l’epoca di Davide costituisce l’apice della storia nazionale. Inoltre gli attacchi spregiudicati contro la condotta dei singoli re contemporanei aumentavano. Non si trovano spesso esplosioni furiose d’ira e di disprezzo come nel caso di Geremia contro Joiakim destinato ad essere sotterrato come un asino (22, 19), e contro la regina madre, che partecipava evidentemente al culto di Astarte, alla quale sarà; rovesciata la veste sulla testa affinchéti possano vedere la sua vergogna (13, 18 e segg.). Ma già; Isaia grida il suo dolore sul paese il cui re 00E00AB; è un fanciullo e guidato da donne», e affronta aspramente di persona il re adulto. Di Elia la tradizione profetica ha conservato intenzionalmente proprio i suoi conflitti con Achab.
I re contraccambiavano questa avversione. Solo in tempi incerti lasciavano ai profeti libertà; d’azione, ma appena si sentivano sicuriorrevano, come Manasse, a sanguinose persecuzioni. L’ira dei profeti contro i re era suscitata, oltre che dalla pratica di culti stranieri o non ortodossi, dettata da motivi politici, soprattutto dalla loro politica mondiale che era empia nei suoi mezzi e nei suoi presupposti. Ciò valeva in particolare per l’alleanza con l’Egitto. Benché profeti di Jahvè fuggitivi, come Uria, trovassero rifugio in Egitto, benché inoltre il dominio egiziano fosse certamente di gran lunga quello più blando e non esercitasse nessuna propaganda sul piano religioso, pure i profeti si scagliavano proprio contro questa alleanza con la massima furia. Il motivo appare chiaro in Isaia (28, 18): è una «alleanza con lo sheol», cioè con le divinità; ctonie del regno dei morti che essi aborrivanoi9. Si vede da ciò come i profeti si situassero pienamente sul piano della tradizione sacerdotale e come il loro atteggiamento politico, anche in queste singole sue caratteristiche, fosse pienamente condizionato da motivazioni religiose e non di realismo politico.
Oltre che contro i re, i profeti inveivano anche contro i grandi: soprattutto i sarìm e i gibborim. Maledivano, oltre all’ingiustizia dei loro tribunali, soprattutto il loro empio modo di vivere e la loro intemperanza. Ma si può percepire chiaramente come l’ostilità; dei profeti non dipendesse da tali singoli vizi.plicemente, ai re e ai circoli politico-militari gli ammonimenti e i consigli dei profeti, d’orientamento puramente utopistico, non servivano assolutamente a nulla. Già; gli stati ellenici del iv e v secolo, pur consulo regolarmente gli oracoli — che in questo caso, per giunta, avevano un orientamento prettamen te politico — in definitiva, al momento delle grandi decisioni (come per esempio sulla guerra contro i Persiani), finivano per non seguire i loro consigli; per i re di Giuda farlo era di regola politicamente impossibile in ogni caso. Inoltre il sentimento di dignità; del ceto cavalleresco che qui come ovunque era bontano dalla fede profetica doveva portarlo a rifiutare senz’altro l’indegnità; dei consigli di Geremia rispetto a Babilonia. Pecavalieri questi estatici che gridavano per le strade erano di per sé spregevoli. è palese d’altro canto come l’opposizione popolare, alimentata dagli strati dell’intellighenzia, contro i ceti aristocratici della cavalleria e del patriziato all’epoca dei re contribuisse a determinare l’atteggiamento dei profeti. L’avarizia, che si concreta nello strozzinaggio dei poveri, è il più grande dei vizi.
Per quanto poi riguarda l’esercito regio questi profeti non se ne interessavano. Il loro regno futuro era un regno pacifico. Nello stesso tempo però i profeti non avevano assolutamente nulla a che vedere con elementi quali i pacifisti «piccolo-giudaici». Amos promette a Giuda (9, 12) il dominio su Edom e su quei popoli «su cui è stato invocato il nome di Jahvè». E rispuntano continuamente anche le antiche speranze popolari di un dominio mondiale. Ma si fa sempre più strada l’opinione secondo cui le rivendicazioni politiche di Israele si realizzeranno esclusivamente tramite un miracolo divino, come in passato sul Mar Rosso, e non grazie alla potenza militare del paese. E meno che mai tramite alleanze politiche. Contro quest’ultime viene continuamente a dirigersi l’ira dei profeti. Il motivo di tale avversione, ancora una volta, è religioso. Non si tratta solo del pericolo di culti stranieri, ma bensì del fatto che Israele è legato a Jahvè da un berith e nessuno si può mettere in concorrenza con lui; certamente la fiducia non va riposta in un aiuto umano: questa è incredulità; empia che suscita lo sdegno di Jahvè. Se J00E0#x00E8; aveva deciso l’assoggettamento del popolo a Nabucodonosor, come asseriva Geremia, bisognava rassegnarsi. Le alleanze difensive contro i grandi re erano peccato in quanto questi ultimi erano esecutori della sua volontà;. Se poi non lo erano ed egli di conseguenza volevutare Israele l’aiutava da solo: così insegnava Isaia che per questo motivo per primo instancabilmente ha inveito senza eccezioni contro tutte le al leanze che si trovavano in via di consolidamento. Vediamo quindi come tutto quanto, nell’atteggiamento riguardo sia alla politica estera che a quella interna, era fondato su motivazioni puramente religiose e non di realismo politico.
Infine, era fondato su motivazioni religiose anche il rapporto con i sacerdoti. Nessun profeta prima di Ezechiele parla dei sacerdoti in termini positivi. Amos, come si è detto, riconosce solo i nazirei e i nevijìm come strumenti di Jahvè, non i sacerdoti. Del resto la mera esistenza di questo tipo di libera profezia costituisce già;, nel periodo del suo sviluppo, un chiaro sintomo a debolezza del potere sacerdotale. Se la posizione dei sacerdoti fosse stata allora la stessa che in Egitto o anche solo a Babilonia o a Gerusalemme dopo l’esilio, essi avrebbero certamente soffocato la libera profezia come la loro più pericolosa concorrente. Ma ciò era impossibile, in conseguenza dell’originaria assenza di un luogo di culto centralizzato e di un rito sacrificale ufficiale all’epoca della lega, e del prestigio incrollabile degli antichi veggenti e profeti del re, e poi di Elia e della scuola di Eliseo. Potenti schiatte di laici devoti stavano dietro ai profeti e i sacerdoti di conseguenza erano costretti a tollerarli per quanto i reciproci contrasti portassero spesso ad aspri scontri. Senza dubbio vi erano delle eccezioni. Isaia era strettamente legato ai sacerdoti di Gerusalemme, Ezechiele era prettamente orientato in senso favorevole ai sacerdoti. D’altra parte però troviamo asprissimi conflitti personali con i sacerdoti addetti al culto a cominciare da Amos a Bethel per finire con Geremia a Gerusalemme. Il processo di quest’ultimo (Ger., 26) sembra quasi un prologo di quello svoltosi 600 anni dopo nello stesso luogo e questo precedente così tramandato ha forse in qualche modo influito di fatto su quest’ultimo.
Geremia venne accusato di un delitto passibile della pena di morte perché aveva predetto al tempio il destino del santuario di Silo distrutto in passato dai Filistei. Venne trascinato dinanzi al tribunale dei funzionari e degli Anziani dove i sacerdoti e i profeti di salvezza fungevano da accusatori. Ma la differenza delle epoche si manifesta nei risultati: Geremia, su parere degli Anziani, venne assolto malgrado le accuse dei sacerdoti con la motivazione che esisteva un precedente nel caso di Mi chea che sotto Ezechia avrebbe fatto una predizione analogaj9. Dall’evento tuttavia risulta che le predizioni contro il tempio stesso erano rare. E soprattutto anche gli oracoli di questo tipo in definitiva non mettevano in dubbio la sua legittimità. è vero che pi ù tardi Geremia consolข facilmente sé ed altri per la perdita dell’Arca Santa sotto Nabucodonosor. Tuttavia tale profezia presentava comunque la caduta del tempio come una sventura che veniva prospettava solo in termini condizionali, come punizione dei peccati in caso di mancata conversione (26, 13).
Di fatto nessun profeta ha combattuto apertamente il tempio. Amos, che definisce addirittura i sacrifici a Bethel e Gilgal dei «peccati» (4, 4; 5, 5) allude presumibilmente soltanto alle forme di culto degli agricoltori, profondamente invise a tutti gli esponenti della devozione pastorale. Il popolo non deve andare lì ma deve «cercare Jahvè» (ibid), e come sede di Jahvè Amos riconosce Sion, come Osea vedeva in Giuda l’unica sede incontaminata di Jahvè. La fiducia di Isaia nell’imprendibilità; di Gerusalemme, come appare nei suoi ultimi oracolia fondata senza dubbio sul tempio. Era proprio in una visione del tempio, durante la sua gioventù, che aveva visto la corte celeste. Per Michea, malgrado il suo oracolo di sventura, Sion restava nel futuro il luogo della Torah ortodossa e della profezia di Jahvè. I profeti inveivano soltanto contro l’impurità; dei culti che vi venivano praticati, soprattutto co la presenza ignominiosa delle ierodule. Solo in Osea quasi tutta la forza del profeta si esaurisce nella lotta contro i culti di Ba’al, che poi permea tutta la profezia pre-esilica.
Da nessuna parte però i profeti fanno propaganda a favore del culto sacerdotale ortodosso. Geremia dapprima ha accolto evidentemente con favore (11, 3) il Deuteronomio, ossia la centralizzazione del culto nel tempio di Gerusalemme, ma per poi designarlo, più tardi (8, 8), come un prodotto dello «stilo menzognero degli scribi», perché i suoi autori si attengono ad un culto falso (8, 5) e rigettano la parola dei profeti (8, 9). Cosa egli intenda con ciò risulta chiaro da un altro passo (7, 4, 11 e segg.): il tempio in se e inutile e subira la sorte di Silo se non avviene l’essenziale, vale a dire un mutamento nella condotta di vita. Accanto a singole ingiustizie sociali viene dato qui particolare rilievo (7, 8) alia fiducia nelle «inutili menzogne» (dei sacerdoti di Sion). Questa era Tunica colpa decisiva: la disobbedienza, proprio da parte dei sacerdoti, a quei comandamenti divini che il profeta predicava sotto l’ispirazione diretta di Jahve. A cio si aggiungeva la loro iniquita personale. È tipico il modo in cui il portatore del carisma personale non riconosce nel carisma d’ufficio una qualifica che da diritto all’insegnamento se il sacerdote che insegna e personalmente indegno. Per i profeti, che non partecipano al culto, l’insegnamento della parola di Dio (davar) cosὶ come essi la ricevevano, era Tunica cosa davvero importante sui piano religioso; di conseguenza anche nell’attivita dei sacerdoti cio che importava era la dottrina {torah), non il culto (Ger., 8, 6; 18, 18): anche a Gerusalemme (Michea, 4, 2). Del pari cio che essi consideravano importante, da parte del popolo, era solo l’obbedienza ai devarim e alia torah, e non i sacrifici. E nemmeno quei comandamenti rituali che piu tardi, durante l’esilio, assunsero un’importanza cosὶ decisiva: lo shabbath e la circoncisione. Gia in Amos — un pastore! — Jahve appare stanco del sabato osservato da un popolo disobbedientek9 e Geremia contrappone (9, 24 e seg.) alia circoncisione esterna la «circoncisione del prepuzio del cuore» come Tunica veramente essenziale.